Una laguna da salvare. L`ambiente umido del Campidano di Oristano

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Una laguna da salvare. L`ambiente umido del Campidano di Oristano
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LUOGHI
Una laguna da salvare.
L’ambiente umido del Campidano di Oristano
di Maria Carmela Soru
La trasformazione dell’habitat
Fino agli anni Venti del Novecento la zona umida del Campidano di Oristano era presenziata da «stagni nobili» circondati da larghe fasce di vegetazione paludose, che distinguevano
ambienti acquatici inondati dall’acqua dei fiumi e ambienti di
salinità elevata alimentati dalle acque fresche ricambiate dal mare. L’uso del territorio aveva definito assetti produttivi legati alla caccia, alla pesca e al pascolo, fortemente connessi con l’universo del complesso panorama geologico esistente.
A occidente, lungo una costa sabbiosa, si distinguevano gli
stagni di Corru S’Ittiri, Corru Mannu, Paùli Pirastu, Paùli Luri, Sa Ussa, Paùli Scovera, S’Ena Arrubia e altri specchi d’acqua
vasti centinaia e migliaia di ettari, che definivano una suggestiva realtà lagunare comunicante col mare, di fronte al quale si
aprivano anche gli stagni di Marceddì e di San Giovanni, antichi approdi del vicino insediamento fenicio-punico di Neapolis. A oriente, tra saltus di cespugliate macchie mediterranee, si
stagliava lo Stagno di Sassu, un antico golfo esteso circa 2.500
ettari, collegato con le acque del mare tramite lo Stagno di S’Ena Arrubia, ampio 230 ettari. Non lontano si estendeva lo Stagno di Santa Giusta, in un paesaggio che rappresentava la colmata finale della depressione dell’alto Campidano.
Era un habitat costellato di insenature profonde tra stagni
interdunari, provvisti di estesi canneti e giuncheti che assicuravano il rifugio ideale a un’avifauna ricca e diversificata: folaghe,
anitre, aironi, garzette, fistioni, limicoli, germani e fenicotteri,
nonché rapaci, come il falco di palude, costituivano spettacolari concentrazioni di uccelli acquatici che vi confluivano sia per
nidificare che per sostare durante le migrazioni. Queste zone
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umide, componenti essenziali dell’equilibrio idrico per la loro
funzione di «casse di espansione» esercitata durante le piene,
nell’Ottocento erano considerate «sorgenti miasmatiche», per
la presenza di insidiosi focolai di malaria, l’intemperie, che dava connotati drammatici e perversi a quell’intrico di disponibilità idriche di stagni e paludi, dove attingevano uomini e animali.
Contro l’insidia del paludismo, alimentato da un generale
degrado geo-pedologico del territorio attraversato da corsi fluviali a carattere torrentizio, intervenne, in età liberale, l’azione
risolutiva della bonifica integrale, all’interno di un eccezionale
piano regolatore delle acque, collegato, da monte a piano, all’area del bacino imbrifero del fiume Tirso. Decollato nel 1919, in
coincidenza con i decreti legislativi sulla diga del Tirso, l’intervento di bonifica s’inquadrava nella svolta qualificante dell’azione politica-economica dello Stato, coordinata dallo staff socialriformista aperto a un processo di mobilitazione socio-politica e all’inserimento del Mezzogiorno in alcuni settori del capitalismo industriale. All’avanguardia delle competenze tecniche dell’industria idroelettrica e delle nuove leve della tecnocrazia riformista, lo connotavano innovativi aspetti tecnici e sociali per il complesso sistema elettroirriguo e per i contenuti democratici propri della cultura meridionalistica, che rispondevano alle esigenze storiche, economiche e sociali delle popolazioni esistenti.
Con la svolta politica ed economica determinata dal regime
fascista l’opera di bonifica assunse la veste ruralista, abbandonando radicalmente gli obiettivi originari (prefigurate logiche
insediative e finalità sociali di integrazione delle popolazioni
locali) a favore degli interessi industrialisti della società concessionaria, la Società Bonifiche sarde, la cui espansione capitalistica in Sardegna concentrava le sinergie operative della Società
Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso, della Società Elettrica Sarda e della Banca Commerciale Italiana. Gli esiti del nuovo assetto fondiario definirono una mutata geografia territoriale, caratterizzata da una spettacolare trasformazione agraria e
idrografica della Piana di Terralba, e la non prevista giurisdizione nel 1928 del Comune di Mussolinia di Sardegna, vasto
circa 11.000 ettari, forzatamente costituitosi a spese di quello di
Terralba con l’esautoramento di più di 9000 ettari del suo territorio, ridotto a un terzo di quello originario1.
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M. C. Soru, Terralba, una bonifica senza redenzione. Origini, percorsi, esiti,
Carocci, Roma 2000.
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La modernizzazione delle campagne segnò uno spartiacque
di mutamenti sociali, culturali e ambientali tanto che niente rimase come prima. In un nuovo paesaggio agrario, caratterizzato da una uniforme modellazione del suo habitat, si dispiegava
una maglia di presidi aziendali connotata da un’originale organizzazione di spazi e di economie strettamente legate ai criteri
economici di sfruttamento agricolo di tipo capitalistico.
Il clamore dei fasti della scienza e della tecnologia che improntarono l’opera di bonifica occultò la logica dissolutrice che
la distinse nei confronti della natura, trasformata in una realtà
economica al servizio esclusivo del profitto. Privato di ogni
connotazione originaria, con la scomparsa di 250 specchi d’acqua, lo spianamento delle dune e la deviazione di fiumi che lo
innervavano, l’assetto idrogeologico rimase profondamente influenzato per l’esiziale limitazione del ricambio idrico. Il suo
equilibrio non era più garantito dalla preesistente rete idrografica delle zone interne e dalle riserve acquifere della zona umida costiera, completamente stravolta con la cancellazione di laghi e stagni importanti, come lo Stagno di Sassu, un lago di
2500 ettari diviso dal mare da un cordone di sabbia, la cui centralità operativa improntò lo stesso titolo del progetto di bonifica integrale. Gli stagni sopravvissuti furono trasformati in
«vasche con un ingresso e un’uscita d’acqua»2, dove vennero
deviati nuovi fiumi, come collettori dei servizi fognari di decine di comuni, e i canali raccoglitori delle acque reflue delle terre bonificate. Alla fine degli anni Trenta, una modernità trionfante spazzò via ogni residuo di un’economia naturale, imponendo un altro modo di vita, profondamente opposto ai valori
connaturati a quell’ambiente, senza raggiungere, però, lo scopo
che la ispirò: la scomparsa della malaria3.
L’eutrofizzazione delle acque della laguna
È forse la domanda di spazi e di natura incontaminata a determinare, oggi, sconcerto e ripensamento negli stessi ambienti
tecnici locali, dove ingegneri idraulici, considerata quantomeno
ardita e «pesante» la sistemazione idrografica attestatasi con la
bonifica, si apprestano a correggere le sue coordinate essenzia2
N. Sechi, La situazione ambientale dell’Oristanese con particolare riferimento all’eutrofizzazione, in Zone umide dell’Oristanese, Convegno scientifico, 1990.
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ACS, MAF, ADGBC, busta Terralba (Cagliari): Società Bonifiche Sarde, Bonifica della pianura di Terralba, stagno di Sassu e adiacenze. Lotta antimalarica. La
malaria era più forte che mai nel 1934, responsabile di 980 vittime sui 3000 abitanti di Mussolinia di Sardegna (odierna Arborea), con 109 casi primitivi e 871 recidivi.
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li. Le deviazioni dei fiumi, tra questi il Rio Mogoro che sfociava nel Sassu, hanno sottratto alla laguna inscindibili legami di
apporti di acque dolci, essenziali alla sopravvivenza del bacino
imbrifero, oggi più che mai insidiato dagli effetti della forte antropizzazione provocata dall’intensificazione del processo
agricolo. È in questa direzione che si colloca lo spirito di un
progetto avanzato da tempo da parte dei dirigenti dello stesso
Consorzio di bonifica dell’Oristanese del quale si riportano alcuni passi:
Ricostruire l’ambiente così com’era prima degli anni Trenta, evidentemente è improponibile. Ciò, infatti, comporterebbe il ripristino
dell’assetto idrologico della zona con la deviazione del Rio Mogoro
verso Sassu, la ricostruzione del relativo Stagno e la conseguente ricancellazione delle realtà agricole gravanti sul relativo territorio. Vi è
dunque la necessità intanto di prendere atto che la situazione è stata
pesantemente manomessa dall’uomo e, in quest’ottica, vi è la necessità
di intervenire per cercare un nuovo equilibrio ambientale senza trascurare le esigenze dello Stagno (S’Ena Arrubia), né quelle a monte
dello stesso.[…] Vi è dunque da sollevare una pesante critica sullo spirito che ha guidato la individuazione di quelle soluzioni tecniche in un
periodo in cui vi era minore sensibilità per la difesa dell’ambiente. Lo
schema impostato e parzialmente realizzato, infatti, pecca pesantemente della carenza di una visione ambientale di più ampia concezione nella quale la realtà dello Stagno, per l’importanza che esso riveste
sotto tutti i punti di vista, è da tenere in conto4.
A rendere urgente l’opera di un restauro idraulico è il peso
dell’inquinamento delle acque degli stagni, maturato in questi
ultimi decenni con la progressiva immissione di grandi quantità
di fosforo e azoto alla quale non corrisponde più una capacità
recettrice del corpo idrico5. I danni sono incalcolabili sia a livello ecologico che economico, perché la laguna costiera, seppure in connessione con il mare, oggi vive in un sistema sostanzialmente chiuso, in cui il diminuito apporto di acque dolci e una forte evaporazione hanno creato un ecosistema molto
particolare, che subisce, con sofferenza, il notevole carico organico difficilmente solvibile in mare, per la precaria configurazione idrogeologica degli stagni e la loro condizione di litoraneità.
Sulle acque della laguna costiera pesa l’abbondanza di sostanze particellate (batteri, funghi, detriti), di composti chimici
inorganici (tipo ammoniaca, nitriti) che stressano la fauna ittiG. Dall’Argine, Il sistema idraulico della Laguna di S’Ena Arrubia e gli interventi di regimazione idraulica in corso e previsti, in Life 97 NAT/IT/4177. Progetto di Gestione Integrata della Laguna di S’Ena Arrubia, Oristano 1997.
5
Centro Ricerche Economiche Nord Sud delle Università di Cagliari e di Sassari, Rapporto sullo stato dell’ambiente della Provincia di Oristano, 2005.
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ca, il cui malessere è denunciato dalla diminuzione e dalla moria di pesci per la crescita delle alghe tossiche che aumentano la
deossigenazione delle acque. Sono dati noti fin dal 1978 con le
prime indagini avviate dal CNR (Promozione della qualità dell’ambiente) sulle pressioni provocate dalle attività economiche
svolte sui suoli sabbiosi-argillosi caratterizzati da modeste capacità di drenaggio.
Responsabile dello stato d’inquinamento, noto da decenni,
è l’eccezionale sistema di produzione agricola e zootecnica attuato nel comune di Arborea sulle terre bonificate, per 9.767 ettari, con l’associazionismo cooperativo («sistema Arborea») di
260 allevamenti bovini da latte6, di 95 aziende che producono
ortaggi, di 5 aziende ovi-caprine e di 4 aziende agrumicole.
Se il problema del sovraccarico del bestiame è stato, opportunamente, superato nel passaggio dalla stabulazione libera con
lettiera permanente a quella con cuccette, che prevedono uno
scarso uso di paglia e una migliore condizione igienica ai fini
produttivi, le strutture di stoccaggio non sono state attrezzate
con contenitori adeguati per far fronte all’incremento di produzione dei liquami, che, sparsi senza criterio, hanno provocato un insostenibile livello di saturazione7. Per capire i risvolti
economici e ambientali di questo sistema, fra i più moderni d’Italia, è necessario rapportarsi all’attività di un comparto zootecnico che rappresenta 1/3 del patrimonio bovino regionale,
mentre il suo latte concentra l’80% del latte alimentare regionale con un’industria di lavorazione e di trasformazione casearia di spessore europeo.
Per valutare i danni ambientali si consideri che l’intera zona
umida, comprensiva degli stagni citati, riceve i reflui di tutte le
aziende agricole. Prive di fogne, esse producono una media annua di reflui zootecnici di 300.000 mc di letame e di 900.000 mc
di liquame, una quantità eccezionale di concimi, fertilizzanti,
diserbanti e pesticidi. Non è difficile immaginare gli effetti aggiuntivi di 60 t annue di fosforo totale che attualmente inquinano le falde, già in condizioni di crisi per la cementificazione
dei corsi d’acqua e il forte emungimento dei pozzi richiesto da
un’agricoltura industrializzata sempre più agguerrita e differenziata (una produzione di mais, riso, foraggio e colture orticole rappresentative del 60% circa della produzione isolana).
6
A. P. Jacuzzi, Le attività produttive nell’area della Laguna di S’Ena Arrubia
e nei territori circostanti, in Life Natura, Oristano 1997. Tra le colture più curate
emergono le ortive per il 31,22%, seguite dalle foragggere avvicendate per il
14,51%.
7
Arbòrea, Laboratorio per lo Sviluppo sostenibile. I Rapporto sullo stato dell’ambiente. Provincia di Oristano, 2003.
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Ulteriori forme di degrado sono denunciate dalla presenza di
cimiteri di carcasse di animali, affondati nell’humus di una pineta «protetta», e da 4.000 mc di cumuli di amianto che si stagliano alle sue spalle8. A ospitarli è proprio l’ex stagno di Sassu,
a due passi da S’Ena Arrubia, stagno ridotto «a una sorta di autostrada di passaggio obbligato tra la realtà dell’entroterra e il
mare»9, dove l’artificiosa ricaduta di tutte le acque del bacino
imbrifero lo condanna da decenni a un grave problema di eutrofizzazione.
La forte presenza di nitrati fino a 70 metri nel territorio circostante, l’inquinamento delle acque dal color rame degli stagni, l’assenza di vegetazione nel fondo marino invaso da «grossi cumuli, che agli occhi del profano danno l’impressione che si
tratti di un fondo roccioso», hanno ormai alimentato, sin dagli
anni Settanta, un fondo di parassiti «grandi quanto una lenticchia» che «consumano ossigeno quanto ne consuma un pesce
di cento grammi»10. Se «prima gli stagni producevano di più e
meglio», per dirla con i pescatori locali, gli allevatori di Arborea vengono accusati di aver ridotto gli stagni a contenitori di
sbocco di acque sporche e malate. È pur vero che il progressivo inquinamento, a partire dagli anni Ottanta, ha finito per
provocare nelle peschiere un calo della produzione ittica annuale del 20-30% e una esistenza sempre più rara di specie pregiate per la presenza di agenti inquinanti che arrivano nello Stagno di Marceddì, caratterizzati non solo dai reflui zootecnici di
Arborea, ma anche dagli scarichi fognari non sempre depurati
della Marmilla e dai metalli pesanti provenienti dalla lisciviazione di sterili e dal drenaggio della miniera di Montevecchio11.
Una continua conflittualità tra forze lavoratrici e una crescente intolleranza sociale contro l’uso sempre più arrogante e
meno rispettoso delle risorse pubbliche, dichiarata da migliaia
di denunce che si depositano inascoltate sui tavoli delle istituzioni locali, attestano l’impotenza o la complicità del potere
8
M. Masala, Nella pineta il cimitero dei vitelli. Scoperte due fosse comuni con
decine di vitelli; cfr. anche, O. Mereu, Prima o poi tutti i cadaveri vengono a galla;
entrambi in «L’Unione sarda», 18 novembre 2005.
9
Università di Sassari, Progetto LIFE S’Ena Arrubia (Or). Relazione finale,
2000.
10
Arci-Caccia, Comitato provinciale di Oristano, La funzione degli enti locali
e dei comitati faunistici nella protezione dell’ambiente naturale, 11 aprile 1981.
11
Cfr. Indagine analitica su campione di fauna acquatica effettuato dall’Istituto di Chimica farmaceutica e tossicologica dell’Università di Cagliari, 9 giugno
1987. Si vedano anche i dati ottenuti dalla Regione Autonoma Sardegna, Assessorato difesa Ambiente (21/7/1986), Lavori per l’incremento ittico del Compendio di
Marceddì-S. Giovanni finalizzata alla salvaguardia del territorio ed a una sua utilizzazione in acquacoltura, 1989.
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pubblico. Sono le stesse autorità politiche regionali – peraltro
rappresentate nei posti chiave, come l’Assessorato all’Agricoltura, dalle stesse figure che hanno governato le cooperative casearie locali – a condividere pienamente il «sistema» Arborea,
divenuto un enorme business sul quale si regge il sistema capitalistico agricolo e zootecnico regionale, onorato come «fiore
all’occhiello»12 dell’economia sarda – seppure insidiato, nel dicembre 2001, dalla sindrome Bse (morbo della mucca pazza).
Il Codice di buona pratica agricola
A determinare un mutamento di rotta dell’agnostica posizione assunta dagli enti locali è stato il ministro delle Politiche
Agricole, tenuto a prendere atto del decreto n. 152, del regolamento CEE n. 1257/1999 (sul sostegno allo sviluppo rurale dal
fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia), e di
quello applicativo n. 817/2004. Si deve a questa serie di provvedimenti l’attenzione che oggi la Regione Autonoma della
Sardegna volge ai problemi di inquinamento presenti nell’Isola. Sono stati i contenuti operativi della «Direttiva
91/676/CEE, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati provenienti da fonti agricole» e del
D. Lgs 152/99 (rivolto alle Regioni per individuare le zone vulnerabili), a sollecitare la deliberazione n. 1/12 del 18 gennaio
del 2005, con la quale la Regione Sardegna ha delineato, finalmente, un primo impegno ufficiale per affrontare il problema
dell’inquinamento nell’area produttiva del comune di Arborea,
rilevato dai monitoraggi predisposti dalle direttive legislative ai
fini dei finanziamenti agricoli. Sono stati, così, resi noti e controllabili i dati della «Vulnerabilità dovuta ai contenuti in nitrati rilevati nelle analisi chimiche delle acque sotterranee, alla
Vulnerabilità intrinseca degli acquiferi ed alla Vulnerabilità legata ai carichi potenziali di nitrati del comparto agricolo e zootecnico», che hanno definito una situazioni pericolosa per le
acque sotterranee in un’area di 55 kmq13.
Il Codice di buona pratica agricola ha impegnato ciascuna
azienda ad applicare, secondo i propri connotati produttivi, un
12
Ente Regionale di Sviluppo e Assistenza Tecnica in Agricoltura (ERSAT),
Centro zonale Arborea, La zootecnia e la foraggicoltura in Arborea, 2005; cfr. anche Regione Autonoma della Sardegna, Inventario dei Biotopi presenti nella fascia
costiera della Sardegna. Marceddì, stagni di CorruS’Ittiri e San Giovanni. Rapporto finale, Cagliari 1994.
13
Regione Autonoma della Sardegna, Deliberazione n. 1/12 del 18.1.2005. Oggetto: Direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato da nitrati provenienti dalle fonti agricole. Designazione delle zone
vulnerabili di origine agricola.
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razionale «Piano di Utilizzazione Agronomica» per il 2005, pena l’assenza dei finanziamenti europei. Esso comprende «talune prassi di gestione del terreno» che prevedono i periodi di
«divieto di spandimento» dei liquami con limitazioni delle applicazioni dei fertilizzanti e l’adozione di provvedimenti riguardanti l’uso in agricoltura di composti azotati e il loro accumulo nel suolo.
Ma il 2006 ha esordito con il mancato rispetto dei termini
cautelativi indicati per il 2005 e una proroga dei riscontri operativi della «buona pratica agricola» al 2009, concessa dalla Regione per la predisposizione di una pianificazione finanziaria,
dotata di un primo contributo superiore a 20 miliardi, per la
realizzazione delle infrastrutture necessarie allo smaltimento
delle sostanze inquinanti, a partire dalle fogne, ancora inesistenti in tutte le aziende agricole14.
Si auspica, oggi, un nuovo corso del sistema produttivo i cui
eccessi hanno generato fattori di malessere sociale, riscontrabili nella vivibilità dell’aria e dell’acqua, e sullo stato di salute degli abitanti15. È un traguardo che può essere raggiunto solo con
una maturata consapevolezza del valore della territorialità, soprattutto laddove la sua rilevanza è tale da richiedere una progettazione di gestione più democratica, spezzando il nesso di
esclusività e di interesse privato largamente evidenziati nei luoghi citati. Solo in questa direzione può essere intrapresa una
salvaguardia del patrimonio ambientale locale, per evitare ulteriori danni che incombono sull’intero Golfo di Oristano. A insidiarlo sono non «solo» le bombe ecologiche, agricole e zootecniche, ma anche quelle militari scaricate dal Poligono della
base NATO a Capo Frasca, di fronte alla Laguna, per un arco
costiero di 17 kmq (1.600 ettari). I loro effetti, scanditi da esercitazioni con conseguenti depositi di uranio impoverito, si traducono in limiti riproduttivi ai danni dei patrimoni zootecnici
e ittici, con minacce di equilibrio all’intero ecosistema comprensivo della zona umida, riconosciuta dalla Convenzione di
Ramsar, nel 1971, «patrimonio dell’umanità»16.
14
Regione autonoma della Sardegna, Programma d’azione per la zona vulnerabile da nitrati di origine agricola di Arborea, 18. 01.05. Il «Piano regionale di risanamento acque» (PRRA) e il «Piano di tutela acque» hanno predisposto un sistema di collettori fognari per il convogliamento dei reflui civili delle case sparse e
delle borgate di Linnas, Luri, Torrevecchia, Pompongias, S’Ungroni e Sassu, unitamente alle acque di lavaggio degli impianti di mungitura e ai reflui civili e zootecnici di tutte le aziende sparse nel territorio comunale.
15
L. Salis, Storia di cancro, politica, letame, soldi, in «L’Unione sarda», 26 novembre 2005.
16
Arbòrea, Laboratorio per lo Sviluppo sostenibile, cit.
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