Frontiere N. 1 - Shanthi
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Frontiere N. 1 - Shanthi
Anno VII N. 1/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I. Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000 1/2 2008 CHI SIAMO EDITORIALE Viaggiare col “cuore”, nello spazio e nel tempo MILLE E UNA NOTTE Racconti di malati di viaggi Un intervallo del respiro Zaccaria A briglia sciolta: in solitaria dall’Italia all’Afganistan a bordo di una fiat panda 4x4 Una vita in Panda Kenya: longitudine 36°43’2” est latitudine 2° 45’9” nord L’ANIMA DEL VIAGGIATORE Club Magellano Niger: le facciate decorate di Zinder Sotto la Croce del Sud L’ANGOLO DEL NATURALISTA Argonauti Explorers Venezuela: il mondo perduto DOSSIER Obiettivo sul mondo Indocina: le tribu dell’oppio Le minoranze etniche nella storia recente ITINERARI INSOLITI Argonauti Explorers Pakistan Baltoro: la via dei giganti RACCONTI PER IMMAGINI Argonauti Explorers I popoli Ateker Sudan Ethiopia Kenya Uganda viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini FRONTIERE ihtnahS inimou ilged erret ellen àteiradilos id iggaiv ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati. www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911 CLUB MAGELLANO - Torino Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza? Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia. Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina) ITINERARI AFRICANI - Cuneo L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania. Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721 LE VIE DEI VENTI - Varese L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti. www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente) MULA MULA - Pontoglio (Bs) Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel. Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected] OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non ha perso di vista la filosofia dell’Associazione. E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli) SOMMARIO Mille e una notte: racconti di malati di viaggi - Le vie dei venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’anima del viaggiatore – Itinerari Africani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’angolo del naturalista: Venezuela - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dossier: Indocina: le Tribù dell’oppio – Obiettivo sul Mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Itinerari insoliti: Pakistan: Baltoro - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi - I popoli Ateker: Sudan, Ethiopia, Kenya, Uganda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. pag. pag. . pag. pag. pag. 2 8 10 12 18 20 In copertina: Ragazza Pao Lao Kor (Laos, provincia di Phong Saly) foto dal libro “Le Tribù dell’oppio”, a cura dell’Associazione “Obiettivo sul Mondo” All’interno foto di: Sandro Bernes, Gianluca Borgo, Donato Cianchini, Guido Ciceri, Renato Civitico, Fabio Migli, Francesco Montessoro, Carlo Onofri, Carla Parato Milone, Pieffe Montrucchio, Roberto Pattarin, Monica Pellegrino, Luisa Rolandi, Roberto Salgo, Claudio Tirelli F RONTIERE Editoriale Viaggiare col “cuore”, nello spazio e nel tempo di Marco Di Marco Continua gradualmente, anche con questo numero, il piano di rinnovamento della rivista. E’ un processo che vogliamo condiviso il più possibile con quanti tra i lettori vorranno mettere a disposizione dell’impresa sensibilità, creatività e spirito critico. In questa prima fase, più che modulare diversamente la struttura, abbiamo preferito inserirvi nuovi elementi di riflessione sul viaggio, dando nello stesso tempo più spazio anche a forme di narrazione legate alle sensazioni e non solo ai contenuti. Questa è anche una risposta a chi ci aveva fatto giustamente notare come le impressioni di viaggio possano essere talora più stimolanti delle informazioni. Con ciò, evidentemente, non rinunciamo alla ricchezza, pur essa stimolante, che può essere offerta dalla descrizione precisa di un itinerario, dalla presentazione di un contesto etnografico o di un habitat naturale. Ma vogliamo rendere più dense di sfumature le nostre narrazioni. La contemplazione, la fantasia ed anche l’ironia possono combinarsi col rigore descrittivo, ed in ogni percorso ci si deve confrontare sempre con lo “sguardo dell’altro”, che si tratti di un volto, di un panorama, di una foresta piena di vita o di un monumento carico di antichi messaggi. Il viaggio - ed il suo racconto - può essere quindi un’occasione irripetibile per esplorare molteplici dimensioni conoscitive. Viaggio col “cuore”, dunque, nello spazio e nel tempo: dai luoghi che visitiamo possono scaturire esperienze che ci rendono ancor più consapevoli dello spessore storico e della complessità, in contesti e linguaggi, del mondo, contro il rischio di sperimentare anche qui una realtà “liquida”, puro consumo di istantanee sempre meno diverse e significanti. In questo senso la galoppata “a briglia sciolta” di Fabio Migli lungo le rotte dell’Asia Centrale - che proponiamo tra le narrazioni di questo numero - ci indica forse una risposta agli interrogativi che andiamo ponendoci sul futuro del viaggio. Anche in questo caso c’è qualcuno capace di partire con freschezza e semplicità verso mete che il buon senso e la geopolitica parrebbero sconsigliare, armato solo di curiosità, apertura umana, ironia e auto-ironia (e scusate se vi pare poco!...). Certo, non tutte le esperienze narrate sono automaticamente ripetibili (e questo probabilmente vale per la strabiliante avventura di Fabio), ma ciò che la nostra intelligenza deve ricavare da racconti come questo è la fiducia in un mondo ricco anche di positive sorprese. Mi piace allora pensare che l’immagine di Fabio, sorridente e trasognato, quasi abbracciato dal baffuto e cordiale venditore afghano di SIM card, sia espressione emblematica di una diversa globalizzazione in cui la novità tecnologica - assorbita nel secolare “marketing” del bazar, dove le relazioni di scambio sono anche rapporti umani - non soverchia, ma si intreccia con antichi costumi, per diventare così pretesto virtuoso di nuove comunicazioni amicali. Porgendoci, insieme, un messaggio di speranza. Forse davvero il “terribile” Afghanistan, come più di duemila anni fa - quando nella civiltà Gandhara si celebrò l’incontro tra Occidente (la classicità greca) e Oriente (il buddhismo) - avrà di nuovo la forza di proporsi nel suo antico ruolo di crocevia di culture. E questa speranza si estende a tutti gli “scontri di civiltà” che attualmente rendono più piccolo il nostro pianeta. Saranno sogni, ma a un viaggiatore, di certo, s’addice sognare. F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi “Un intervallo del respiro” di Gianluca Torrente Viaggiando per le sconfinate distese di Internet, mi è capitato casualmente di imbattermi in Annemarie Schwarzenbach, autrice di diversi servizi giornalistici e fotografici che ripercorrono i viaggi intrapresi dal 1933 al 1942. In un reportage scritto nell’ottobre del 1939, scrive: “In viaggio con le nostre biciclette o con la Ford, non cercavamo l’avventura, ma soltanto un intervallo del respiro, in paesi nei quali le leggi della nostra civiltà non valevano ancora e dove speravamo di fare l’incomparabile esperienza che queste leggi non sono tragiche, assolutamente necessarie, indispensabili, ineluttabili. Almeno lo immaginavamo giustamente: il tempo non valeva niente! Le ore, il calendario, erano superflui! E avevamo subito trovato persone, contadini, nomadi, per i quali il denaro non significava niente...” Per lei ed i suoi compagni di viaggio, “l’intervallo del respiro” è rappresentato dalle giornate, attimi per un viaggiatore, in cui “i campi nomadi e le belle valli” li avevano disabituati a contare i giorni e a calcolare i chilometri percorsi, a poter ricevere notizie da tutto il mondo, ma anche a godere di vasche da bagno, letti soffici, una tavola apparecchiata…Sapevano benissimo che a Kabul avrebbero appreso che “la guerra, scoppiata all’improvviso nel nostro paese al di là del mare e delle montagne, al di là del tempo e dello spazio delle nostre vite attuali”… si sarebbe abbattuta su di loro come “una mazzata”. Il riferimento era alla Seconda Guerra Mondiale. Ora la guerra investe da anni l’Afghanistan e in Europa viviamo in un periodo di pace, ma non si può non condividere il senso dell’intervallo di un respiro: in viaggio ci pare di scoprire il Paradiso che Annemarie ben distingue dal paese della cuccagna (“c’erano notti spietatamente calde, mancanza d’acqua, vane battaglie contro le pulci, dune e tempeste di sabbia e altre piaghe egizie…”), sospesi fra la propria nostalgia ed un futuro incerto che rende il nostro ritorno assai difficile. Zaccaria testo di Alessandra Monti Se c’è un luogo che mi ricorda l’oasi come la immaginavo nei miei sogni, questa è Timià. C’è la fortezza francese diroccata che domina il deserto, da cui sembrano appena usciti i legionari, ci sono anche le palme, gli insospettabili orti con arance e melograni. Qui, in mezzo all’Air, proprio non mi aspettavo di vedere questo luogo, che pare disegnato da un bimbo. Stasera abbiamo un invito a cena. Sotto il cielo di velluto scuro, nel cortile di una bella e grande casa, tutta la famiglia della nostra guida, originaria di qui, ha lavorato per prepararci il cibo migliore. La padrona di casa la intravediamo un attimo dietro la tenda. Non mangia con noi, come si usa da queste parti. La cena è buona e, in nostro onore, compaiono anche lattine di coca cola. Quando stiamo per alzarci, la nostra guida ci ferma: aspettiamo un ospite, una persona un po’ speciale. Zaccaria compare dal nulla. Nel buio della notte compare con il suo camicione bianco, sembra un fantasma. Si siede con noi per prendere il the. Ha saputo che nel villaggio siamo arrivati noi ed è venuto a salutarci. Perchè è anche lui un po’ italiano. Ha sposato una ragazza di Milano e ora abita a Roma. Ha un laboratorio di oggetti d’argento, che lei disegna e lui fabbrica: gli affari vanno benino. Ma... “che cosa c’è che non va, Zaccaria?” Ci racconta che, da quando è emigrato, non trova più pace. Quando è a Roma sogna la sua bella oasi con fichi e mandarini; quando viene a trovare la sua gente a Timià, una volta all’anno, si annoia e non vede l’ora di tornare in città. Non riesce mai a 2 Niger: Trasporti “on the road” - Carlo Onofri (Bologna) fare incontrare le due parti della sua personalità, tanto è grande la differenza fra i due mondi, ognuno dei quali gli ha dato tanto. Ci guarda fisso negli occhi, per cercare di capire se comprendiamo il suo disagio. Noi assentiamo convinti, ma come può chi, come noi, è nato e cresciuto in un solo luogo, parlando un’unica lingua, che è cresciuto insieme agli stessi amici, comprendere la sua lacerazione e, soprattutto, l’impossibilità di ricomporla, se non rinunciando ad una parte di sé stessi? Come possiamo, noi inguaribili sedentari, che riusciamo a partire solo per tornare poco dopo per consolidare le nostre radici, comprendere la difficoltà di chi non riesce a capire quale luogo chiamare “casa”? Non è un drammatico sbarco, non è disagio sociale, ma anche questa è immigrazione, con tutti i suoi insolubili problemi. F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi A briglia sciolta: in solitaria dall’Italia all’Afghanistan a bordo di una fiat panda 4x4 testo e foto di Fabio Migli Quella che mi appresto a raccontare è la storia di un viaggio finito per combinazione in una nazione particolare, spesso al centro dell’attenzione mediatica. Troppo di frequente l’Afghanistan è stato presentato come un posto ostile, quasi fosse centro negativo dell’universo e causa di tutti i mali. Avevo da tempo il desiderio, se non la necessità, di scoprire in presa diretta cosa si celasse nel martoriato mondo afghano, ancora oggi governato dalle regole del “Grande Gioco”. L’Afghanistan, dunque, era nell’aria, come una meta ineluttabile. Per ben due volte ci ero passato vicino. La prima nel 2003, ripercorrendo una delle antiche Vie della Seta, tra i monti del Pamir, in Tajikistan, a fianco del tumultuoso fiume Panj che divide i due stati. La seconda nel 2004, di ritorno da un interminabile viaggio tra Cina, Tibet e Pakistan, nell’irrequieto Balochistan, fiancheggiandone il confine sud est. Tutti questi lunghissimi tragitti terrestri, compreso quello del 2006, dall’Italia a Pechino e ritorno via Mongolia, li ho compiuti utilizzando una “storica” Panda 4x4 del 1989, ora giunta a 680.000 km, interamente percorsi da me. Nel luglio 2007 decido di ritentare la via della Cina, usando però, la mia seconda Panda 4x4, che consideravo “nuova” essendo del 1999 (con solo, si fa per dire, 180.000 km). Sapevo bene di avere poche possibilità di entrare in Cina, senza gli speciali e costosissimi documenti auto, ma volevo tentare ugualmente. 2/07/2007, il viaggio ha inizio. Una specie di collaudo per la seconda auto I chilometri filano via veloci, ripercorrendo luoghi conosciuti: Austria, Slovacchia, Ucraina, Russia. Qui faccio una “variazione sul tema”, i monti del Caucaso. Una parentesi di frescura che diverrà presto un ricordo nell’infuocato deserto stepposo di Ustyurt, scorciatoia per l’Uzbekistan di 500 km su pista sabbiosa. In alcuni tratti la Panda sembra scomparire nella sabbia fine come borotalco. Le nuvole di polvere ricadono sul cofano costringendomi a utilizzare il tergicristallo. Comunque sia, arrivo indenne all’approssimativo asfalto uzbeko, e visito lo sconcertante panorama di Mujnak. Qui, fino a 40 anni fa si estendeva il limpido e pescoso Mar d’Aral. Ora, invece, al posto dell’acqua, solo distese desertiche incrostate da sale e impressionanti relitti arrugginiti di vecchie imbarcazioni, adagiate dove un tempo era il mare, che ormai è arretrato di quasi 200 km per il dissennato sfruttamento agricolo dei suoi due emissari. Lascio la depressa area dell’Aral, puntando decisamente a est. Faccio piacevoli tappe nelle storiche città di Kiva, Bukhara e Samarcanda, località che ben conosco, incontrando vecchi amici. Mi sento di casa in questi luoghi dominati da alti minareti e cupole coperte da lapislazzuli. Il fatto di parlare abbastanza il russo, mi aiuta molto a farmi sentire quasi uno del posto. Oltrepassata Tashkent, capitale uzbeka, entro nel montuoso Kyrgyzstan. Appena fuori Osh prendo a inerpicarmi tra i monti del Pamir fino a valicare i 4.200 metri. I ghiacciai circostanti sembrano vicinissimi e la vista si perde nell’orizzonte punteggiato dalle candide yurte dei pastori kirghisi. “La Cina è vicina”, mi dico, mentre guido lentamente sulla pietraia che da Sary-Tash porta al confine di Irkestam. L’ “esame” cinese L’uscita dal Kyrgyzstan avviene senza problemi, ma mi attende lo “scoglio” cinese. In un primo momento tutto sembra filare fin troppo liscio, quando mostro ai militari la speciale targa provvisoria cinese che erroneamente mi era rimasta dal viaggio del 2006. Mi fanno addirittura varcare il confine e timbrano il passaporto, ma è solo un loro attimo di sbadataggine. Infatti, il responsabile di dogana si accorge che le targhe sono vecchie, e il giorno successivo mi ricacciano indietro. “Maledizione, era quasi fatta!”, penso disperato. Volevo raggiungere il Pakistan, ma la Cina mi sbarra il passo. Che fare? La stramba trovata. Ecco allora balenarmi nella mente un’idea pazza che rendeva inquiete le mie notti: tornare a sud, in Uzbekistan, provare ad attraversare l’Afghanistan e finalmente entrare in Pakistan, luogo che mi è rimasto nel cuore dal precedente viaggio in Panda del 2004. Sembra un’idea impossibile, ma diventa concreta allorché, all’ambasciata afghana di Tashkent, mi consegnano il visto in sole due ore! Incredibile! Non credo ai miei occhi, mentre rigiro tra le mani il passaporto con il visto afghano! Afghanistan: il solo nominarlo fa un po’ paura, ma ben presto capisco che si tratta di un timore più che altro indotto dai media. Con emozione adrenalinica attraverso il lungo ponte metallico sul fiume Amudarja che divide l’Uzbekistan dall’Afghanistan. In fretta la preoccupazione svanisce, quando incontro gli amichevoli e sorridenti militari di frontiera sotto il cartello “Welcome to Afghanistan”, sovrastato dall’immagine dello scomparso comandante Massud. 3 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi L’ingresso in Afghanistan La prima città, caotica e viva, che incontro è la splendida Mazar-e-Sharif con la spettacolare “Moschea Blu” splendente di lapislazzuli celesti. Mi confondo tra la gente sentendomi tra amici come in tante altre parti dell’Asia Centrale visitate in precedenza. Nel convulso bazar stipulo velocemente un contratto telefonico con un gestore di telefonia mobile afghano, e mi sento come uno di loro quando un simpatico commerciante baffuto mi consegna la nuova SIM “Roshan”! Riprendo il viaggio verso le montagne a sud attraversando Pol-e-Kohmri, però quando vedo il cartello che indica la strada per Bamiyan, non resisto alla tentazione di andare a visitare i Buddha, o quel che ne resta. Una stradaccia tutte pietre e polvere, ma attraverso panorami di rara bellezza fatti di campi verdi, di arcaici villaggi di argilla e genti semplici. E’ meraviglioso l’incontro con queste persone, mi sento ben accetto. E’ grande la curiosità e la meraviglia dimostrata da grandi e piccini quando faccio provar loro gli speciali dispositivi di guida (sono disabile dall’età di 10 anni) della macchina. Ogni volta scateno l’apoteosi dei presenti e tutti sorridono, quando schiacciando sul volante, il motore come per magia accelera. I Buddha di Bamiyan Alla periferia del villaggio di Bamiyan appare una lunghissima e alta parete di roccia rossastra tormentata da grotte di varie dimensioni, usate in tempi remoti come abitazioni. Due sono di altezza gigantesca: sono le nicchie che contenevano i Buddha. Non ne resta quasi più traccia, ma a guardar bene nella cavità si riesce ancora a intuire la forma delle statue. E’ come un alone rimasto impresso nella roccia sottostante che dà l’idea delle loro dimensioni ciclopiche, oltre 50 metri. Ora sono in atto lavori di restauro da parte di ditte tedesche e italiane per riportarli in vita. Non vedo altre persone gironzolare tra le rovine. Nei campi poco distanti, la popolazione è intenta ai lavori di sempre utilizzando arcaiche tecniche manuali. Trattori e altri mezzi motorizzati sono quasi del tutto sconosciuti. L’unico aiuto viene dai muli o dai buoi usati per arare i campi, o per molare il grano. Donne a volte bellissime, 4 I Buddha di Bamiyan vestite in colorati sari, a volto scoperto, trasportano sulla testa il frutto del lavoro avvolto in teli variopinti. Il paesaggio circostante, anche senza i Buddha, rimane di una bellezza sconcertante e senza età. I laghi Band e Amir 80 km a ovest di Bamiyan, su pista misto pietre e sabbia, incontro i laghi blu cobalto di Band-e-Amir. Uno spettacolo che mi lascia senza fiato. Mai in passato avevo visto nulla di simile. E’ un dono della natura di un colore puro mai visto prima, incastonato come una pietra preziosa in un vasto canyon di pietra dalle pareti altissime e verticali. Ricorda il Gran Canyon Usa, soltanto più piccolo. Parcheggio la macchina quasi sull’orlo di una lingua di roccia. Sotto di me un baratro che precipita nell’acqua limpidissima. Provo a gettar una pietra, e passano sei lunghi secondi prima di udirne il tonfo. Meglio non sporgersi troppo! Il lago da un lato è chiuso da una barriera di calcare bianchissimo solcato da una cascata. Da lontano si ha l’idea di un ghiacciaio che si butta nell’acqua. Il contrasto di colori è indescrivibile. Stento a credere di essere nel “terribile” Afghanistan. Finalmente Kabul Tutto sembra andare per il meglio, quindi dopo dieci giorni di viaggio in terra afghana mi sento ormai tranquillo e “accasato”. Il 20 settembre giungo a Kabul sul far della sera. Come per magia, vagando per le sconnesse e polverose vie della città, mi trovo davanti al cancello dell’ospedale di Emergency, dove gli impagabili medici italiani mi ospitano per la notte nel loro appartamento. In città, all’ambasciata del Pakistan, devo ottenere un documento doganale per oltrepassare il confine afghano/pakistano, ma qui cominciano i problemi: il console mi informa che dal 2006 è stato interdetto il transito terrestre ai mezzi leggeri tra i due Paesi, per ordini governativi. Una doccia fredda. Provo a insistere, ma non c’è verso: in Pakistan con la macchina non si può andare. A questo punto penso di tornare in Italia via Herat e Iran, e prontamente riprendo a guidare tra i vari blocchi di cemento sovrastati da militari armati che delimitano la strada attorno alle “zone sensibili”, Laghi di Band e Amir F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi fino all’ambasciata iraniana. Qui altre difficoltà: “Per avviare le procedure di richiesta del visto, ci deve prima fornire una lettera d’introduzione da parte della sua ambasciata”, mi comunica un funzionario. “Altro giro, altro regalo” penso, intanto che mi reimmergo nel caotico traffico di Kabul alla volta della non lontana Ambasciata italiana. La “via di fuga” Quando varco il massiccio e alto cancello nero che occulta alla vista la sfarzosa sede diplomatica di casa nostra, il mio viaggio prende una piega che mai avrei immaginato. I sorpresi carabinieri di guardia chiamano un ancor più incredulo Consigliere (l’Ambasciatore è in vacanza in Italia). Un ragazzo simpatico e affabile, ma irremovibile di fronte al mio voler proseguire il percorso verso l’Iran. “La strada per Herat è interrotta per operazioni militari in corso e l’unica via sarebbe a sud attraverso Kandahar, zona pericolosissima, non possiamo permetterti di proseguire oltre, in passato abbiamo già avuto fin troppi problemi con sequestri vari. Forse ti possiamo organizzare una via di fuga un po’ “avventurosa”, ma penso che si possa fare. Ora ne parliamo con il Generale”, afferma il Consigliere. La “via di fuga” escogitata è da pazzi: vorrebbero farmi rimpatriare con un grande aereo militare C130, Panda compresa! “Abbiamo avvertito l’unità di crisi, e il Generale si sta già dando da fare, è una cosa fattibile, c’è solo da attendere un aereo non troppo carico che vada in Italia. Credimi, non hai altra scelta. Intanto che aspetti sarai nostro ospite, la stanza presidenziale è a tua disposizione.”. Il Consigliere è di una squisitezza unica, sempre pieno di attenzioni nei miei riguardi, e in breve divengo la mascotte dell’ambasciata. Mi sento imprigionato, ma non mi lasciano altre chance. La Panda volante Cinque lunghi giorni di attesa, poi, finalmente, il 26 settembre m’imbarco con la macchina sul poderoso quadrimotore nell’ipercontrollato e armato aeroporto militare di Kabul. Prima della partenza due elicotteri Apache si levano a mezz’aria, perfettamente paralleli, per controllare l’area della pista. L’interno, spartano ed essenziale, ricorda la stiva di una nave o anche un dirigibile. I quattro potenti motori a elica fanno un rumore infernale, fastidioso anche con i tappi Una vita in Panda di Fabio Migli Tutto cominciò nel lontano autunno 1982. In occasione del mio diciannovesimo compleanno i genitori mi regalarono una nuova, fiammante Fiat Panda 30, con la quale cominciai ad apprendere i primi rudimenti di guida. I maestri erano, a fasi alterne, mio padre Alessandro e mio fratel- Il venditore di SIM Card nelle orecchie. Quando si stacca dal suolo, il C130 ondeggia paurosamente tra le onde del cielo, ma una volta in quota si stabilizza e diviene quello che è definito “ferro da stiro”. Destinazione finale Ciampino, dopo uno scalo negli Emirati. Con immenso stupore mi trovo a guidare per le vie di Ciampino, frastornato ed assorto. “Soltanto due giorni fa ero nel caos di Kabul, ed ora eccomi di nuovo in Italia!”, rifletto incredulo. Mi fermo tra vie che conosco benissimo, dato che collaboro da tanti anni con una ditta di radiocomunicazioni appena fuori il centro e, inaspettatamente, una voce familiare mi chiama per nome: “Fabio, cosa ci fai qui? Pensavo fossi ancora in Afghanistan!”. E’ il mio principale, esterrefatto al vedermi già di ritorno. Difficile raccontargli come sono andate le cose. Prosegue: ”Beh, meglio così, forse sono state le nostre raccomandazioni a farti tornare in anticipo. Domani ti aspettiamo, c’è un mucchio di lavoro arretrato per te!”. Il 27 settembre è così terminata, insperatamente, la mia avventura in terra Afghana. Quest’ultimo pazzo viaggio mi è rimasto nell’anima più di ogni altro. Anche se tra i più brevi (18.000 km in quasi tre mesi) degli ultimi tempi, si è rivelato molto intenso, emotivo e partecipato. I miei viaggi, comunque, sono sempre sentiti e vissuti, amplificati dal fatto di partire da solo: il vivere nell’ambiente circostante con la comoda Panda-minicamper, in compagnia delle genti che incontro lungo la strada, mi permette di condividere con loro momenti indimenticabili. Queste brevi righe sono a ricordo di quei meravigliosi e incancellabili giorni trascorsi tra le generose genti afghane. lo Stefano. M’insegnarono due condotte completamente differenti uno dall’altro. Con il babbo dovevo mantenere un’andatura calma e precisa, come nella sua metodologia d’altronde, con Stefano, invece, esattamente l’opposto: portamento scattante e nervoso. Guai ad invertire, inavvertitamente, gli stili di guida altrimenti ero rimproverato con frasi del tipo: “Vai piano, rallenta!”, nel caso del capo famiglia, oppure “accelera, sembri una lumaca!”, quando era mio fratello maggiore a farmi da istruttore. 5 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Una situazione paradossale che generò in me una certa confusione. Ad ogni modo, anche se un po’ indeciso sull’esatta tecnica da tenere durante l’esame di pratica, riuscii a passare la prova al primo tentativo. Fu una grande festa e vittoria per me, considerando anche i miei innegabili problemi di mobilità, poiché fin da bambino non ho più l’uso degli arti inferiori. Dal 1983 in poi nessuno riuscì più a fermarmi. Fu un’escalation di viaggi. Dalle prime brevi fughe in Germania, passai alla penisola Scandinava. Poi dal 1989 con l’acquisto di una nuova Panda 4x4, che all’epoca mi sembrò una specie di astronave, cominciai ad allontanarmi sempre più, perfezionando l’aspetto logistico. Una volta ero obbligato a dover dipendere da hotel con determinate caratteristiche, non sempre facili da trovare ed oltretutto limitanti e costosi, per i pernottamenti. Finché, dopo vari tentativi, riuscii ad attrezzare la piccola ma robusta vettura per ogni evenienza. Via i sedili posteriori per far posto ai bagagli e modifiche a quello anteriore destro per renderne possibile lo smontaggio dello schienale. In questo modo il lato passeggero della Panda poteva divenire completamente piatto. Un semplice materasso ad aria gonfiato con KENYA: longitudine 36° 43’ 2” est - latitudine 2° 45’ 9” nord testo e foto di Renato Civitico Davanti a me un vasto pianoro color cenere, poi pietre, lingue di sabbia e poco altro. Dall’alto della collina una sottile striscia verde, che dal lago corre orizzontalmente verso l’interno. Idealmente è come se qualcuno avesse tracciato una riga di color verde sopra un foglio grigio. L’oasi! Ovvero acqua, vita e riparo per chi vive in quest’arida terra. Nell’estensione temporale di un viaggiatore questi luoghi così suggestivi rappresentano un’attrazione; sono lo spazio dove ci si può fermare a raccogliere sensazioni e pensieri. Loyangalani nella lingua locale significa “il posto dai molti alberi”, ed è un piccolo villaggio posizionato sul litorale sud-est del lago Turkana, nel nord del Kenya. 6 Villaggio Dassanech di Illeret l’uso di un piccolo compressore alimentato dalla batteria della macchina, un sacco a pelo, e via, eccomi libero di girovagare per il mondo! Da allora con questo nuovo, lungimirante modo di viaggiare, in completa libertà ed autonomia e senza più limitazioni di sorta, ho cominciato a spostarmi da una parte all’altra del globo, percorrendo attualmente 680.000km. Europa, Africa o Asia, mi basta una strada oppure una pista appena accennata, un campo libero dove passare la notte e un orizzonte sconfinato da seguire. Amo partire solo, via terra, con continuità evitando traghetti, navi o aerei, e raggiungere posti lontani nello spazio e nel tempo, con calma e tranquillità, assaporando lentamente, con curiosità e rispetto, qualsivoglia cambiamento paesaggistico, incontrando genti d’ogni tipo, razza e cultura, sentendomi in qualunque luogo come a casa, tra amici. Io cerco di vivere il viaggio dall’interno, in prima persona, forse correndo anche dei rischi, abitando nell’ambiente che mi circonda. Riprendendo ad apprezzare i silenzi ed i suoni della natura, svincolato da obblighi temporali, percependomi parte integrante ed indissolubile del tutto. Il Lago Turkana, è uno dei grandi specchi d’acqua dell’Africa centro-orientale, ed è situato nel nord del Kenya, lungo la Rift Valley. Ha una superficie di 6.405 km², lungo 250 km, largo fino a 56 km, quasi completamente in territorio Kenyano; solo la parte settentrionale, in corrispondenza del delta del fiume Omo, si trova in Etiopia. Il lago venne chiamato “Rodolfo”, in onore del principe austro-ungarico Rodolfo d’Asburgo-Lorena, dagli esploratori Samuel Teleki e Ludwig von Höhnel, che furono i primi europei a raggiungerne le sponde (1888). Dal 1975 porta l’attuale nome, che è anche il nome della principale etnia che abita la regione attorno al lago. Nel villaggio la vita scorre tranquillamente, qualche carretto percorre la via principale ed alcuni ragazzini corrono verso la vicina pompa dell’acqua. Le donne all’imbrunire rientrano a casa e tra poco il buio decreterà la fine della giornata. Il sole è da poco scomparso a occidente, e il cielo sta perdendo le tinte di fuoco per lasciar posto ai colori dell’anticamera della notte. E’ questa l’ora più bella per contemplare il paesaggio. Dalla cima di un’altura riesco a scrutare la valle, il lago e quello che c’è oltre. Ora, anche se può sembrare una contraddizione voglio provare a suddividere in più parti lo scenario che ho di fronte. C’è sicuramente qualcosa di brutale nello scomporre un’immagine, ma forse un procedimento così rozzo può aiutarmi a comprendere questo luogo, a scoprirlo più a fondo, rendendomi conto anche delle sue complessità. F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Il lago Turkana a Nord: Illeret E’ impressionante la bellezza di questo panorama con le sue nette suddivisioni. Le parti del paesaggio sono formate da più fasce parallele, sovrapposte una all’altra. Nella fascia più alta c’è il cielo, nel quale ora volano stormi di uccelli. Nella seconda fascia ci sono le montagne brulle, e subito sotto un immenso lago dal colore azzurro-verde, o meglio color giada! Nella quarta fascia c’è poi la terra. Questa veduta ha tagli netti e tutti orizzontali, sembra quasi che qualcuno abbia preso un taglierino ed abbia sezionato i vari elementi per poi accostarli uno sopra l’altro, componendo ad arte un’unica scena ordinata. In questo paesaggio così duramente ed arbitrariamente tagliato, la natura mette in atto una composizione accurata. Mi viene da pensare che la divisione del paesaggio avvenga secondo accurati criteri d’accostamento di tonalità; è come se tutto fosse unito da una specie di grande accordo armonico. Nell’atto di guardare questo scenario mi sembra d’essere immerso nell’oscurità di un teatro, intento ad osservare dalla poltrona il palcoscenico mentre sta per cominciare la visione dello spettacolo, con al centro la riproduzione della natura. In questi casi si parla di emozioni e di vibrazioni che avvolgono lo spettatore. In questo paesaggio c’è la scomparsa di un centro, o meglio in questa raffigurazione “teatrale” tutto è centro e nulla diventa periferia. La fondamentale logica della distanza si attenua, quasi scompare per costruire un’unica grande figura d’equilibrio, ed il mio occhio penetra nell’orizzonte. In questi frangenti l’occhio si riprende la sua naturale funzione di organo “selvaggio” e si pone al di fuori degli schemi più tradizionali di visione. Ora l’occhio e lo sguardo non sono la stessa cosa, l’occhio è rivolto alla natura, mentre lo sguardo è rivolto ad una visione più ampia di cultura. In questi momenti è l’occhio che si prende cura del corpo, interagendo con lui, per trasportarlo nel magico mondo delle emozioni. C’è un sapere nell’occhio che viene prima di ogni altro nostro sapere, compreso quello dello sguardo, e quando guardo un paesaggio come questo ritorno a quel sapere originario. Scopro che ogni interpretazione dell’immagine si risolverà con una fuga dal presente per abbracciare uno stato di torpore; tanto che potrà arrivare il momento in cui per un attimo mi accorgerò di non sapere né da dove sia partito, né da che parte dovrò andare. Sono momenti vissuti in silenzio con tanta calma interiore. Lo scandire del tempo, lo sforzo fisico ed il rumore del mondo non hanno importanza, tutto si placa per concentrarsi sull’attimo. E tutta questa bellezza, così acquisita mi sbalordisce. La bellezza mi fa sentire “salvo”. E’ una specie di grazia divina che non mi viene elargita, ma che ho conquistato entrando nella natura. Di bella natura! “Ad ogni passo lo scenario diventava sempre più cupo e completamente desertico. Scoscesi pendii rocciosi si alternavano a gole cosparse di detriti. Questa accecante monotonia continuò fino alle due. Ci aspettavamo ormai di imbatterci solo in qualche piccola e fangosa pozza d’acqua verde, con la quale estinguere la nostra sete quando, salendo un declivio moderato, un enorme e stupendo panorama improvvisamente si aprì davanti a noi. Tale fu la nostra emozione che pensammo che la cosa fosse una mera fantasmagoria. Andando ancora più in alto, gradualmente un picco isolato si erse intorno a noi, con dolci e simmetrici contorni da ogni lato. Era un vulcano. Ad oriente della montagna la terra era uniformemente piatta, una pianura d’oro accesa dal sole. Sempre più ad est la base del vulcano sembrava uscire da una profondità senza fondo, un vuoto che nell’insieme rappresentò un mistero per noi. Ci sbrigammo il più possibile a giungere fino alla sommità della cresta, quando davanti ai nostri occhi stupefatti si affacciò un intero nuovo mondo. Il vuoto, quasi per magia, si riempì di montagne pittoresche dagli aspri dirupi, un guazzabuglio di gole e valli, che si chiudevano da ogni lato a formare una cornice per un lago dalla superficie blu scura, che si estendeva ben al di là del nostro sguardo. Per molto tempo, ammutoliti e deliziati, lo fissammo. Ammaliati dalla bellezza della scena che era davanti a noi…Pieni di entusiasmo e grati per l’interesse dimostrato per i nostri piani dalla Sua Altezza Reale e Imperiale, il Principe Rodolfo d’Austria, il Conte Teleki battezzò la distesa d’acqua, incastonata come una perla di grande valore nel meraviglioso scenario che avevamo di fronte, Lago Rodolfo”. (Von Hohnel, The Discovery of Lakes Rudolf and Stefanie, 1894). Il lago Turkana a sud: Loyangalani 7 F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore Niger: le facciate decorate di Zinder testo e foto di Donato Cianchini Il Niger, nell’ultimo rapporto stilato dall’Unesco, possiede un certo numero di siti architettonici da salvaguardare come patrimonio dell’Umanità. Accanto alla città storica di Agadez, troviamo Zinder con numerosi edifici le cui facciate sono decorate da bassorilievi geometrici che le conferiscono una dimensione aristocratica degna del suo passato. Sono ubicati nei quartieri storici di Birni e Zingou insieme alla grande moschea e all’imponente palazzo del Sultano. Studi recenti effettuati da esperti di fama internazionale, hanno fatto conoscere al mondo intero l’architettura haussa rinnovando l’interesse per questo tipo di costruzioni realizzate con l’ausilio della terra. Nate principalmente come opere di difesa da attacchi nemici, cingevano città e villaggi in vaste zone dell’Africa occidentale. Le mura di Kano in Nigeria erette nell’XI sec., erano alte 12 metri con un’estensione di 18 chilometri, ed avevano sette porte di accesso. Anche Zinder aveva una possente muraglia d’argilla alta dai 9 ai 8 Tipica casa Haussa Il ‘Dagui”, o Impronta del Leone 10 metri con mura spesse fino a 12 metri. I crolli degli ultimi anni, dovuti essenzialmente agli agenti atmosferici e alla scarsa manutenzione, ne hanno accelerato il degrado e la scomparsa pressoché totale. Ne restano esili testimonianze come la grande porta di accesso chiamata Tamessindi, nei pressi del quartiere antico di Birni. Per la cronica mancanza di fondi, le autorità locali non sono riuscite a porvi rimedio. A ciò si aggiunge un fatto quanto mai curioso: negli ultimi decenni, gli abitanti hanno avuto la bizzarra idea di usare la terra delle mura per costruire le proprie abitazioni! Zinder ebbe la sua importanza fra il XVIII e il XIX sec. Sorta su un’importante carovaniera, divenne un luogo di sosta e d’interscambio. Perfino l’esploratore tedesco Henrich Barth vi soggiornò all’epoca del viaggio dall’Algeria al Congo. E’ stata la prima capitale del Niger dall’inizio del periodo coloniale francese fino al 1926, quando il potere amministrativo e politico passò a Niamey. Oggi ha quasi 90.000 abitanti ed è suddivisa in 3 quartieri dove s’intrecciano i larghi viali brulicanti di traffico, con le stradine strette e tortuose, regno di sgangherati carretti e dei rombanti motorini giapponesi. Il quartiere moderno, con alberghi, banche ed edifici commerciali è sorto nel mezzo di quelli storici di Zingou e Birni. Ovunque donne e bambini in marcia con taniche di plastica e secchi di latta traboccanti d’acqua. Ha sete Zinder come tutto il Sahel. La gente ha la gola perennemente riarsa dall’inclemenza del sole e dalla cronica penuria d’acqua. In città viene razionata, e solo ad alcune ore del giorno è possibile fare la scorta necessaria ai bisogni quotidiani. Intorno alle fontane si formano lunghe code di ordinaria umanità. Le donne con i bou bou variopinti chiacchierano animosamente mentre i bambini sfruttano l’attesa per ridere e giocare. Alla periferia est, su una collina svetta imponente il nuovo “chateau de l’eau”, opera faraonica alta 30 metri che, a detta degli abitanti, dovrebbe alleviare i problemi idrici nei prossimi anni. Speriamo che non rimanga una delle tante meraviglie incompiute dell’uomo in Africa! F RONTIERE Club Magellano L’anima del viaggiatore L’architettura haussa al pari di quella sudanese necessita di un materiale naturale indispensabile: la terra argillosa. Di facile reperibilità, è l’elemento base dell’architettura tradizionale in molti paesi dell’Africa occidentale. Il banco, così chiamato localmente, ha una buona resistenza grazie alla presenza dell’argilla, a patto però che sia protetto dai venti saheliani e soprattutto dalle piogge torrenziali, evitando crolli e cedimenti strutturali. Le costruzioni di terra hanno degli indubbi vantaggi da un punto di vista termico: sono relativamente calde in inverno e fresche in estate! Le mura spesse sono un’efficace protezione contro gli sbalzi termici, mentre le piccole fessure ai lati delle pareti garantiscono un’adeguata ventilazione. La realizzazione degli edifici spetta ai maestri muratori che si tramandano il mestiere da diverse generazioni. Le decorazioni in bassorilievo, riproducono una vasta gamma di motivi legati alla vita quotidiana e a quella spirituale. Sulle facciate di molte abitazioni si possono vedere le figure stilizzate di alcuni animali mitici come il serpente Sarki, l’impronta del leone Dagui, le orecchie del coniglio Zanko. La leggenda racconta che durante il regno della regina Daura, il territorio era infestato dal terribile e mitico serpente Sarki, che impediva alla popolazione di attingere l’acqua dai pozzi. Un giorno un uomo dalla pelle chiara proveniente dall’Est combatté al fianco della regina, uccise il serpente e sposò Daura. La figura di quest’animale così potente e cinico, è rimasta talmente impressa nella mitologia haussa, al punto che tutti i regnanti si fanno chiamare, oggi come allora, con l’appellativo di Sarki. I muratori utilizzano diverse tecniche per fare gli intonaci. Inizialmente sono distesi a mano sulle pareti e, se non si aggiungono ulteriori decorazioni, resta visibile il segno dell’autore. E’ una sorta di firma, un autografo parietale che sancisce un rapporto arcaico fra l’uomo e la materia. In genere le costruzioni sono ad un piano, ma in alcuni casi possono averne di più come il palazzo del Sultano, notevole esempio di grandiosità, armonia e robustezza. Secondo la tradizione si trova dietro la grande moschea, nel cuore del quartiere di Birni. Sulla facciata dell’ingresso principale sono evidenziati i simboli del potere: una lancia, lo scudo e il “dagui”, l’impronta del leone nella mitologia haussa, segno di potenza e di supremazia. Per ammirare la straordinaria bellezza e la particolarità delle decorazioni sulle facciate di case e palazzi, è necessario addentrarsi con l’aiuto di una guida locale, nei vicoli sabbiosi di Birni e Zingou. Soprattutto a Birni dove, a sentire i suoi abitanti, si nasconde ancora il serpente mitico Sarki. Di giorno è al riparo fra le spaccature della roccia, ma di notte, quando soffia l’harmattan, striscia silente fra i vicoli stretti e bui. Sotto la Croce del Sud di Natalia Veronesi Prada Ti porto nel cuore, Africa dolce ed estrema di discordi armonie. Terra di manghi in fiore e culla della vita: Africa impareggiabile. Conosci il sole ardente e gli uragani, il crepitio che fanno le prime gocce rade in forma di promessa su colline bruciate dalla “secca”. Poi la musica dura dello scroscio, fiume e mare, a mozzarti il respiro e spegnerti la parola. Il profumo sottile della terra bagnata nel vapore che sale dall’arsura, e l’improvviso risvegliarsi di fiori, d’erbe e d’orchidee a fare dolci i colli e la savana. Ma il tuo manto regale è la tua notte, più buia d’ogni notte del mondo, con miriadi di stelle lucide e misteriose. Notte primordiale, profonda di oscurità e silenzi negati a noi da questa decadente civiltà ciarliera e rumorosa. da: Natalia Veronesi Prada, “I grandi fiumi verdi e le colline”, Ibis Edizioni, 2004 (per gentile concessione dell’Editore) Natalia Veronesi Prada, pediatra, ha lavorato come medico in un ospedale del Burundi, a contatto con le vicende tragiche di questa zona dell’Africa. Oltre al volume da cui è tratta questa poesia, ha pubblicato un’altra raccolta poetica, “Giorni a piene mani” (2002), presso Book Editore. 9 F RONTIERE Argonauti Explorers L’angolo del naturalista VENEZUELA: il mondo perduto testo e foto di Marco Bono In Sudamerica una regione grande quattro volte l’Italia, la Guyana, è caratterizzata da un ambiente di primario interesse scientifico e di straordinaria bellezza, che si estende su gran parte del Venezuela (dall’Orinoco al Rio delle Amazzoni) e dal Suriname (ex Guyana olandese) alla Sierra de Macarena in Colombia. Il suo habitat è quello tipico della foresta pluviale tropicale dell’Amazzonia, e la sua fauna è quella tipica neotropica. Qui si trova il monte Roraima, primo di una serie di altopiani tabulari diffusi in tutta la Guyana e detti tepuy. Alto circa 3000 m, presenta sulla cima un paesaggio arido sul quale il vento e le piogge intense dei tropici hanno scolpito formazioni rocciose elaborate, che talora assumono le fattezze di mostri o draghi di antiche leggende; sul terreno desolato crescono solo alghe, funghi e licheni od altre piante, endemiche di questo pianoro. Anche gli insetti e i ragni sono a loro agio in questo ambiente ostile con una temperatura che di giorno non supera mai i 10 °C. Agli inizi del Novecento lo scrittore inglese A. Conan Doyle, affascinato dalle teorie evoluzioniste, dai ritrovamenti di dinosauri e di altri fossili e dai resoconti degli esploratori, scelse queste cime per far rivivere gli animali preistorici nel romanzo “Il Mondo Perduto”. Anche se una simile realtà vivente non è scientificamente pensabile, di certo questa fitta giungla racchiude ancora tanti segreti inviolati. Le “Galapagos” dell’Amazzonia Questi monti dalle cime piatte sono il residuo di un immenso altopiano di arenaria; se ne conoscono più di un centinaio, ma solo meno di una decina sono stati, a tutt’oggi, parzialmente esplorati e studiati. Sono avvolti da una coltre di nubi perenne, al punto che l’esistenza di alcuni è stata rivelata solo grazie a rilevazioni radar compiute da aerei ad alta quota. Il più remoto ed inaccessibile è il Pico Neblina: scoperto dai radar a metà degli anni ’50, pare che sia attraversato da un sistema di canyon di un’estensione paragonabile a quella del Gran Canyon. Alto circa 4000 m, ha una superficie tabulare di 250 kmq (come l’Isola d’Elba). La storia geologica dei tepuy è antichissima: derivano da un immenso blocco di arenaria che ere geologiche di piogge, venti e dilavamenti consumarono, lasciando pochi rimasugli a formare questi rilievi, gemelli dei monti della Monument Valley nello Utah, ma, a differenza di questi, coperti da nubi e circondati alla base da una fittissima giungla. Per il loro isolamento, che da milioni di anni impedisce scambi biologici, si potrebbero considerare le “Galapagos dell’Amazzonia”. Innumerevoli gli endemismi, sia vegetali che animali, disseminati tra anfratti e canyon e sulla superficie degli immensi tavolati: fino ad ora sono state classificate, in totale, duemila specie di vegetali, alghe, muschi e licheni di cui la metà esiste solo in 10 questa parte della giungla sudamericana. Ogni Tepuy, come un’isola dell’oceano, ha avuto una storia biologica propria che ha portato allo sviluppo di specie differenti. Siamo in un autentico “Eldorado” naturalistico, popolato di animali estremamente bizzarri: si va da rane così minuscole che potrebbero stare sull’unghia di un pollice (come l’oreophrynella), ad insetti con la coda a forma di pennello. Un elusivo bestiario Il modo più facile per visitare questa regione è di volare, come nel mio caso, in Venezuela. Da Caracas si raggiunge con un breve collegamento aereo il campo base del “Mondo Perduto”, nel villaggio di Canaima, il cui nome riporta alle leggende degli indios Pemón, che vogliono i tepuy popolati dai Mawari, gli spiriti degli altopiani: uno di questi è Canaima, il demone che dà il nome al fiume, un essere scimmiesco che vagherebbe per i boschi armato di clava ad assalire coloro che gli capitano a tiro, spezzando le ossa ai malcapitati. Riferimenti a scimmie antropomorfe non sono infrequenti nella letteratura di questa zona: in Colombia vi sono molte narrazioni su esseri metà scimmie e metà uomini, soprannominati “didi”, dotati di una forza sovrumana e coperti da un foltissimo pelame, mentre nella regione di Amazonas esisterebbero i “vastiri”. Potrebbe trattarsi di pura mitologia, anche se in un libro apparso nel Settecento, si riferisce di creature simili all’orang utan. Interessante, in questo senso, l’esperienza capitata alla spedizione del geologo svizzero F. De Loys, nel 1920, al confine tra Colombia e Venezuela, che fu attaccata da due scimmioni privi di coda, ne uccise uno e lo fotografò. L’autenticità della foto è stata per anni al centro di accese polemiche. L’idea che possa trattarsi di una scimmia antropomorfa americana sarebbe la più ardita, anche perché il Nuovo Mondo non ha primati che possano essere collocati nel nostro albero genealogico, ma una sola fotografia, purtroppo, non può fornire elementi probatori. Un altro possibile membro di questo elusivo bestiario è una creatura considerata estinta da circa 10mila anni: il bradipo gigante o “Mapinguari”, che potrebbe essere sopravvissuto nascosto nel cuore della foresta amazzonica della regione di Acre e in quella tra Brasile e Venezuela. Il nome è quello di un essere mitico del folklore indio, da riferire, secondo alcuni studiosi, a un discendente dei milodonti e dei megaterii, i cui resti si abbondano in tutto il continente. Secondo D. Oren, esperto di biodiversità, vi sarebbero parecchie testimonianze in questo senso tra le popolazioni distribuite tra il Rio Negro ed il Mato Grosso. Una tribù ne avrebbe addirittura catturato un cucciolo lasciandolo libero poco dopo a causa del fetore che emanava (l’odore insopportabile è comune a tutti i racconti e le testimonianze). Le descrizioni riferiscono di un essere enorme, alto circa tre metri, coperto da un fitto pelame rossastro, con le zampe rivolte all’indietro, che lancerebbe grida tali da terrorizzare i guerrieri più arditi. L’odore sarebbe dovuto ad una ghiandola posta nella regione ventrale. Comunque la sua ricerca è estremamente difficile, dato che vivrebbe nelle aree più fitte ed impenetrabili della giungla. F RONTIERE Argonauti Explorers L’angolo del naturalista Anche se non lo sembra, è proprio un dinosauro... Oltre la riva del Rio Carrao si scorgono i colossali, titanici tepuy emergere dai vapori delle cascate. Dopo avere percorso una strada fangosa su un camion traballante compare nella selva un villaggio dei Pemón. La vista spazia su un panorama talmente maestoso da mozzare il fiato, mentre la canoa si addentra in un dedalo di canali circondati dalla verde muraglia della giungla, che qui appare impenetrabile. In questa parte dell’Amazzonia l’evoluzione ha originato dalla progenie dei dinosauri - da cui discendono pure i variopinti pappagalli ara che svolazzano sopra le nostre teste - una specie alquanto peculiare: se si penetra per alcune centinaia di metri qualche caverna, si può udire una serie di suoni metallici secchi simili al ticchettio di una tastiera. La lanterna della guida ne rivela subito l’origine: sono dovuti ai guaciari, uccelli che volano nell’oscurità con la stessa precisione dei chirotteri senza urtare ostacoli e pareti e senza scontrarsi tra di loro. La grotta è costellata da una miriade di punti rossi, gli occhi di questi volatili che hanno avuto un’evoluzione convergente con i pipistrelli, con i quali condividono anche il modo di stare a riposo, appesi a testa in giù agli spuntoni di roccia. Un altro piccolo “dinosauro” alato che qualsiasi naturalista e qualsiasi ornitologo ambirebbe a vedere è l’hoazin, uno degli animali più straordinari della giungla neotropica, in cui molti vedono una specie di anello di congiunzione nel percorso evolutivo che ha condotto agli uccelli. Delle dimensioni di un corvo, è da alcuni considerato un galliforme mentre, secondo altri, farebbe parte di un ordine a sé stante. Per il suo piumaggio ed il suo aspetto fisico particolari richiama moltissimo l’Archeopterix, soprattutto negli individui giovani, che posseggono artigli sull’estremità delle ali, per mezzo dei quali abbandonano precocemente il nido arrampicandosi sui rami. Questi monti - le rocce più antiche delle Americhe - videro i dinosauri, i gliptodonti e gli enormi marsupiali carnivori, in seguito scomparsi mentre la Guyana assumeva il suo aspetto attuale, dopo infinite stagioni di piogge e di alisei tempestosi come quelli che ci accompagnano nella navigazione fluviale. La massa verde della giungla si dirada lasciando intravedere una piccola baia dove scendiamo a terra; sullo sfondo dominano i mille metri e più dell’Ayuantepuy e il frastuono del Salto Angel, con i suoi 979 m la cascata più alta del mondo, scoperta casualmente negli anni ‘30 da un pilota di nome Jimmy Angel, che le diede il nome. Mentre i primi spruzzi ci accolgono a metà del cammino, incappiamo in un enorme serpente velenoso che attraversa il sentiero per il Mirador. Il percorso è arduo, anche perché bisogna guadare alcuni torrenti ingrossati dalla pioggia, ma lo spettacolo è tale da mozzare il fiato. Il mistico e il plesiosauro Il salto non è l’unico mito di Canaima. Navigando lungo il Rio Carrao dalle acque color cioccolato per il tannino da decomposizione dei vegetali, raggiungiamo un’isola chiamata Orquidea, dove vive un bizzarro personaggio dal passato oscuro detto Laime, probabilmente un profugo lituano che gli indios considerano un saggio e un mistico. Costui, a detta dei nostri accompagnatori, vive in una capanna, dalla quale si assenta spesso in cerca di pepite d’oro, col cui ricavato si mantiene e fa arrivare libri da Caracas. Pare sia piuttosto irascibile, per cui conviene evitare domande indiscrete sulle sue origini e sul suo passato. Ma oggi non c’è, si è recato in spedizione. La curiosità e il fascino che lo circondano sono dovuti al fatto che, da giovane, avrebbe scorto sulla cima dell’Ayuan Tepuy, nei pressi di un laghetto, due animali lunghi circa un metro, del tutto simili agli estinti plesiosauri. Lo scetticismo è d’obbligo, e qualcuno pensa che Laime si sia confuso e abbia visto in realtà solo “perros de agua”, cioè lontre, ma sembra improbabile che anche questi piccoli mammiferi abbiano potuto raggiungere la vetta, tra l’altro una delle meglio esplorate. Il Cessna si alza in volo per Caracas. Possiamo scorgere i tepuy che si levano poderosi dal manto verde della foresta. L’Amazzonia, per noi tanto insidiosa, ha saputo generare e alimentare animali straordinari, costituendo il sistema con il più alto grado di variabilità biologica: una sterminata ricchezza di vita, un patrimonio da proteggere che gli indios custodiscono da tempo immemore. Un ultimo sguardo ai tepuy, fortezze inespugnabili poste a difesa di questo Eldorado naturalistico in cui si racchiudono ricchezze molto più importanti di quelle cercate da migliaia di reietti e disperati. Su queste vette di sicuro non vivono i dinosauri sognati da Conan Doyle e probabilmente neppure i miniplesiosauri di Laime, ma la forza creatrice della natura, da sempre superiore alla fantasia degli uomini. Laguna di Canaima 11 F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier INDOCINA: le tribù dell’oppio di Marco Di Marco Questo Dossier sulle minoranze etniche dell’Asia Sudorientale (che popolano la zona anche nota come il “Triangolo d’Oro”) è in larga parte tratto e liberamente adattato dal libro “Le Tribù dell’oppio”, pubblicato a cura dell’Associazione culturale “OBIETTIVO SUL MONDO” nel 1998. Il volume è il risultato dell’incontro dei due curatori, Gianluca Borgo e Claudio Tirelli, e della loro esperienza di viaggio e ricerca, con Francesco Montessoro, docente di Storia dell’Asia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano. Il testo del libro è opera di Francesco Montessoro e Veronica Porro, mentre le fotografie che lo illustrano sono di Gianluca Borgo, Carla Parato Milone, Francesco Montessoro, Claudio Tirelli. Nelle pagine che seguono vi proponiamo un estratto-sintesi della seconda parte del libro, dedicata a illustrare il contesto socioculturale e ambientale su cui si è innestata l’economia dell’oppio. Le foto a corredo sono anch’esse ricavate dal libro, di cui costituiscono parte non accessoria, integrando la funzione descrittiva e analitica del testo con la ricchezza espressiva dell’immagine. Di nostro abbiamo aggiunto un breve articolo che si propone di mettere a fuoco il ruolo centrale che il problema delle minoranze etniche ha da sempre avuto nella “questione birmana” e più in generale in tutta l’Indocina, anche alla luce dei recenti drammatici sviluppi della situazione politica e della lotta per la democrazia in Birmania/Myanmar. Un vivo ringraziamento va agli autori e ai curatori del libro per aver acconsentito al suo utilizzo in questo numero di Frontiere. Le tribù dell’oppio dal libro “Le Tribù dell’Oppio”, a cura di Gianluca Borgo, Claudio Tirelli Associazione “OBIETTIVO SUL MONDO”. Libero adattamento dal testo di Francesco Montessoro e Veronica Porro. La grande eterogeneità etnica dell’Asia sudorientale può apparire sconcertante. Innanzi tutto, vi sono popoli che hanno lasciato un’impronta storica significativa, dando luogo a civiltà complesse e a culture sofisticate: i cinesi Han, in primo luogo, poi i Vietnamiti e i Thailandesi, i Birmani, i Lao, i Khmer per citare soltanto i gruppi etnici e culturali maggiori dell’Asia orientale continentale. In secondo luogo, si trattava di civiltà agrarie, fondate su un modello agricolo intensivo e in particolare sulla risicoltura in campi irrigui: le pianure, e soprattutto i bacini alluvionali dei grandi fiumi erano la loro sede di elezione. L’assenza del pascolo, l’intensività delle colture e soprattutto la capacità di ottenere più raccolti di riso resero possibile una costante ascesa demografica. Questo modello agricolo diede luogo a opere idrauliche assai complesse, fondate su una fitta rete di canali e dighe, che soltanto uno stato articolato e potente avrebbe potuto concepire, realizzare e conservare in efficienza. Queste società, infine, si caratterizzarono per una struttura sociale complessa, articolata e gerarchica, per l’urbanesimo e per tratti culturali segnati dalla scrittura (nella regione si imposero gli alfabeti derivati dal sanscrito, o gli ideogrammi cinesi) e da grandi religioni come l’induismo e, soprattutto, il buddhismo. Si tratta in sostanza di 12 civiltà che hanno costruito il proprio mondo, disegnato il proprio spazio, scritto la propria storia. In Asia sudorientale, tuttavia, vi erano anche società che avevano elaborato modelli di civiltà assai differenti. L’estrema eterogeneità di questi gruppi (che si differenziavano anche per caratteri peculiari, come alcuni elementi della cultura materiale, e per gli originali abiti femminili) tende ad apparire relativamente più semplice considerando che si trattava di società che non elaborarono mai forme politiche statuali e che hanno conservato un’organizzazione di tipo tribale. Queste società si fondano ancora oggi su un’economia di sussistenza basata sull’agricoltura itinerante, che permette la sopravvivenza di pochi individui. Laos: Fumatore d’oppio Akha F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier Solo nel corso dell’ultimo secolo, sono state introdotte attività agricole non di sussistenza ma dedicate alla produzione di beni vendibili sul mercato, come il papavero da oppio. Questi gruppi non avevano elaborato vere gerarchie o un sistema di classi, né sviluppato una vera divisione sociale del lavoro, se si esclude una certa ripartizione dei compiti sulla base del sesso. Erano società estranee ad attività mercantili e non conoscevano la scrittura, né scrivevano la propria storia. Erano dotate in gran parte di credenze religiose di tipo animistico. Si trattava, insomma, di civiltà di montagna, complesse e fragili, suscettibili di assimilazione da parte delle più articolate società delle pianure. Coesistenza, migrazioni e conflitti Queste differenze permisero per un lungo periodo la coesistenza, e una effettiva estraneità, tra i differenti gruppi umani: i popoli delle montagne non erano necessariamente in conflitto, e talvolta non venivano neppure in contatto, con le società delle pianure. Le eventuali situazioni di belligeranza o, al contrario, di associazione non rappresentavano comunque una competizione per gli stessi territori e per le stesse risorse. In Cina, tuttavia, a partire dal secolo XVIII, la crescente pressione demografica fu all’origine di gravi tensioni, che sfociarono in vere guerre etniche in cui i cinesi Han si contrapposero alle tribù delle montagne (soprattutto i Hmong) in un conflitto destinato a durare fino alla metà del secolo XIX, condizionando storia ed economia dei paesi a sud della Cina: Birmania, Laos, Vietnam, Thailandia. La migrazione di gruppi umani relativamente poco numerosi in aree scarsamente popolate, come quelle montuose che dividono l’alto bacino dello Yangzijiang, in Cina, dai bacini del Fiume Rosso, nel Tonchino, del Mekong, Menam, Salween e Irrawaddy, ebbe tuttavia effetti di grande rilievo. Gli equilibri etnici della regione, soprattutto in Indocina e nella Birmania settentrionale, hanno profondamente condizionato eventi storici recenti, come la guerra del Vietnam. L’esito di questo conflitto, che aveva le sue radici nella società vietnamita, fu influenzato, oltre che dalla geopolitica internazionale (intervento prima francese e poi americano) anche da quanto accadeva in regioni montuose solo apparentemente marginali. alle aree forestali ad altitudini relativamente modeste, spesso nelle strette valli fluviali. Sono popolazioni anche assai diverse sotto il profilo linguistico o per l’organizzazione socioculturale (come Shan, Karen, Lua, Htin in area birmana e thailandese, Muong nel Vietnam), ma sostanzialmente composte da comunità di agricoltori sedentari. Vi sono poi popolazioni che potrebbero essere definite di alta montagna (tra i 1500 e i 2200 m di altitudine) e sono effettivamente nomadi: praticano, infatti, forme di agricoltura itinerante che implicano lo sfruttamento della foresta soltanto per un breve periodo, e il suo successivo abbandono. Le tecniche del debbio, il cosiddetto “taglia e brucia”, prevedono l’abbattimento degli alberi della foresta e l’incendio della vegetazione residua. I suoli arricchiti dalle ceneri sono coltivati per 1-2 anni, e infine lasciati a un lungo maggese per riacquistare la perduta fertilità. E’ una tecnica di coltivazione che richiede utensili semplici e manuali ed è in grado di sostenere popolazioni con densità molto basse. Questa agricoltura, che comporta la migrazione verso nuove terre e la fine dei vecchi villaggi, non conosce la proprietà privata della terra, poiché le norme consuetudinarie permettono ai membri delle comunità di ripartirsi la superficie coltivabile. Le terre vergini, non ancora liberate dalla foresta primaria, appartengono a chi le occupa per primo, mentre i terreni già messi a coltura restano in possesso di una famiglia fino a quando non verranno abbandonati. I rapporti tra i vari gruppi sono stati assai modesti, per incompatibilità geografica e di habitat oltre che L’agricoltura itinerante delle montagne I popoli delle montagne elaborarono una forma di agricoltura itinerante, che richiedeva ampie porzioni di foresta da trasformare in suolo coltivabile. Così, mentre in pianura e nelle vallate un ettaro di risaia poteva assicurare la sussistenza di molte decine di individui, nelle regioni montuose erano necessari spazi molto più estesi per garantire l’alimentazione di un numero esiguo di abitanti. Per questo, sulle montagne dell’Asia Sudorientale la densità media sarà assai modesta, 10 - 30 abitanti per kmq. Le popolazioni tribali nelle aree montuose si possono suddividere in due differenti ambiti altimetrici, cui corrispondono differenti modelli di civiltà, di economia, di insediamento umano. Vi sono gruppi tribali che coltivano campi sottratti col fuoco Birmania: Anziana donna Padaung 13 F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier per l’inesistenza di lingue comuni o della scrittura. Dal punto di vista ambientale è opportuno sottolineare come questi metodi di coltivazione siano mirati al raggiungimento della più intensa produzione possibile, ma non alla conservazione e alla stabilità dei terreni. Reciprocità e redistribuzione All’interno delle società insediate nell’area del Triangolo d’Oro si possono individuare, accanto all’economia di mercato, forme di scambio basate sulla reciprocità e sulla redistribuzione, in base alle quali ognuno riceve un valore eguale in cambio di quanto ha dato. In un sistema economico così caratterizzato il sistema politico tende ad essere egualitario, privo delle strutture di uno stato: i membri della comunità interagiscono in modo contrattuale tramite negoziati e successivi accordi. Si organizzano di frequente grandi feste, aperte a tutti i membri del villaggio, in occasione di circostanze rituali che assumono un carattere magico-religioso. Per un matrimonio, una nascita, un funerale, durante un rito d’iniziazione o per una malattia il capofamiglia sacrifica un pollo, un maiale o un bufalo, distribuendo poi la carne a tutti i componenti del villaggio per consolidare i legami comunitari, per saldare un debito, per esorcizzare il male e richiamare lo spirito che ha abbandonato il corpo di un malato. Questi riti, in realtà, possono essere interpretati in termini socioeconomici: il sacrificio di un animale agli spiriti o l’orga- 14 Cina - Yunnan: Donna Akha nizzazione di una festa implicano lo scambio e la circolazione della ricchezza. Chi offre carne agli altri membri della comunità di villaggio ha la certezza che questo cibo gli verrà restituito perché anche gli altri, a loro volta, daranno una festa, restituendo ciò che avevano ricevuto. Chi non fosse in grado di restituire il cibo diventerebbe un debitore e vedrebbe diminuire il proprio prestigio. Nelle società che adottano come forma di scambio la reciprocità prevale, quindi, la conservazione di una parità non monetaria e non economica, ma sociale. La produzione non è finalizzata esc1usivamente a soddisfare i bisogni materiali, in quanto il surplus è utilizzato per determinare il proprio merito e la propria posizione all’interno della comunità. La capacità di offrire feste, o l’esibizione da parte delle donne di gioielli d’argento durante le cerimonie, sono il modo con cui si mostra la propria ricchezza e il proprio status. Oppio, mais e riso Gli eventi della storia contemporanea hanno contribuito a fare di una delle aree più inaccessibili del mondo la principale zona di produzione del papavero da oppio, e di eroina, merci che purtroppo sono strettamente connesse al mondo attuale, ma che non necessitano di fattori produttivi e di sistemi di distribuzione moderni, adattandosi a contesti proibitivi per qualsiasi altra merce: la lontananza delle aree di produzione dai mercati e la mancanza di vie di comunicazione non sono un ostacolo, anzi, Laos, provincia di Phong Saly: Ragazze Lahu F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier l’economia dell’oppio ricava proprio dall’isolamento un vantaggio sostanziale. Peraltro, l’oppio concentra in un minimo ingombro e in un peso limitato un considerevole valore, al punto che l’intera produzione annuale di una famiglia di coltivatori (5 - 8 kg) può essere trasportata in uno zaino o a dorso di mulo. Nessun altro prodotto agricolo può, a parità di peso e di resa per unità di superficie, competere con l’oppio, che, inoltre, non è deperibile e può essere tesaurizzato come un metallo prezioso. L’economia delle tribù di montagna del Triangolo d’Oro dipende sempre più dal papavero da oppio, la cui coltivazione si è integrata in un unico complesso con quelle di mais e riso e con l’allevamento dei maiali. La preparazione dei campi inizia a gennaio o a febbraio con l’abbattimento della foresta: il legname reciso viene lasciato essiccare durante il mese di marzo e alla fine di questo mese, quando termina la stagione asciutta, si incendia quanto è rimasto sul terreno. Tra maggio e giugno si semina il mais nei campi così preparati, poi sarà la volta del riso. A settembre o a ottobre il mais è pronto per essere raccolto, ma in molti casi la mietitura viene effettuata dopo la semina, nello stesso campo, del papavero da oppio. Tra novembre e dicembre si raccoglie il riso e tra febbraio e marzo l’oppio. La raccolta implica due operazioni: l’incisione delle capsule dei papaveri e la raschiatura del lattice coagulato. L’incisione viene praticata con un coltello a due o tre lame di uguale lunghezza, circa 10 cm, leggermente ricurve e tenute assieme da una corda di cotone. Il raschietto è costituito invece da un’ampia lama di metallo infilata in un’impugnatura di legno o di bambù. Dalle incisioni praticate su ogni capsula, da una a tre a seconda delle sue dimensioni, fuoriesce una linfa biancastra che si coagula velocemente a contatto con l’aria. Il lattice, raschiato il giorno successivo e diventato nel frattempo marrone scuro, è già oppio grezzo. La droga, in pani, viene avvolta in petali di papavero o in carta velina per essere trasportata al villaggio. uso prolungato, che porta inevitabilmente a una condizione di dipendenza. L’uso di droga fra le tribù di montagna, contrariamente a quanto avviene altrove, non genera al solito comportamenti aggressivi, e la facilità con cui ci si può procurare oppio fa sì che non si producano quelle tensioni di natura criminale che invece caratterizzano il mondo della tossicodipendenza nelle società economicamente avanzate. La principale sanzione dell’oppiomania proviene dalle donne dei villaggi, soprattutto dalle più giovani, che spesso rifiutano di sposare un oppiomane, che, avendo una minore capacità di lavoro, e consumando una quota significativa della droga prodotta, o dovendola acquistare, porterà con sé soltanto condizioni di impoverimento materiale, perdita di salute, di dignità e di status sociale, che non possono essere tollerate troppo a lungo all’interno delle comunità tribali. Popolazione e risorse Nel Triangolo d’Oro si è verificata negli ultimi decenni una significativa espansione demografica: i tassi di incremento annuo della popolazione hanno raggiunto il 5-6%, e questa tendenza decisamente elevata non può essere solamente attribuita all’aumento della crescita naturale, ma anche a flussi di profughi e di immigrati dalle origini storiche e politiche molto complesse. Gruppi etnici coinvolti nei conflitti in Birmania e nella penisola indocinese si sono spostati nel corso degli anni ‘60 e ‘70 in Thailandia, oppure hanno cercato nuove aree di insediamento Il consumo locale d’oppio L’ oppio è usato dai popoli di montagna, oltre che per ragioni voluttuarie, anche come analgesico, essendo una delle poche sostanze dotate di principi attivi disponibili nelle aree marginali del Triangolo d’Oro, lontane da ospedali, da farmaci e da medici moderni; ma la sua natura rende molto sottile la linea che separa i due impieghi. Chi non è ancora tossicodipendente non usa spesso l’oppio a scopi medicinali, anche se in molti casi l’assunzione della droga durante una malattia o in seguito a una lesione favorisce l’inizio della dipendenza. L’assenza dei rimedi della medicina occidentale e il possesso di pochi farmaci moderni rende l’oppio il prodotto della farmacopea tradizionale più efficace a cui le tribù di montagna possano ricorrere per alleviare il dolore, in zone nelle quali la malaria è endemica. Un uso occasionale, e a scopo medico, al solito non porta alla dipendenza, e nelle aree tribali la maggior parte degli adulti assume solo piccole quantità di narcotico per alleviare il dolore o la fatica di una giornata di lavoro. Nel caso di malattie invalidanti e di lunga durata, come la malaria, occorre, invece, un Cina - Yunnan: Ragazza Lahu 15 F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier all’interno degli stati che li ospitavano da decenni. La crescita demografica ha progressivamente deteriorato il rapporto tra gli uomini e l’agricoltura itinerante: l’aumento della popolazione nelle aree di montagna ha determinato infatti la diminuzione relativa delle terre da coltivare, per cui quelle già dissodate sono state sottoposte a un più intenso e prolungato sfruttamento, che ha irrimediabilmente danneggiato l’equilibrio tra uomo e risorse nelle zone dell’oppio. In condizioni caratterizzate da un equilibrio precario tra uomini e terra, la crescita demografica riduce drasticamente il periodo di riposo dei terreni, precludendo ai coltivatori la possibilità di spostarsi su suoli vergini. I produttori di papavero sono costretti dunque a restare in aree già sfruttate, favorendo il collasso delle capacità produttive dei suoli e l’avanzare della savana. Il diboscamento selvaggio provoca infatti danni considerevoli ai terreni, per l’erosione e gli squilibri dei sistemi idrologici delle vallate. Le minoranze etniche nella storia recente le foreste con la loro agricoltura itinerante tradizionale e per questo duramente repressi. Non è questa la sede per dare conto di tutte le violazioni dei diritti umani e le atrocità perpetrate in questa area della Birmania, di cui si può trovare ampia documentazione nei vari siti di organizzazioni umanitarie e in migliaia di resoconti. Le dimensioni della tragedia sono enormi, coinvolgendo milioni di persone. Basti pensare che gli Shan sono il 7-9% della popolazione birmana, i Karen il 7-8%, gli Arakan il 4%, i Mon, i Chin e i Kachin il 2% ciascuna, i Kayah lo 0,5%: insomma, quasi un terzo dell’intera Myanmar. E queste sono solo le sette etnie cui la costituzione birmana attribuisce formalmente uno dei sette stati inclusi nel territorio nazionale. La percentuale sale ancora del testo di Marco Di Marco Nel 1947 la Birmania si avviava all’indipendenza guidata dal giovanissimo generale Aung San, che aveva organizzato, in accordo con gli inglesi, l’insurrezione contro le truppe d’occupazione giapponesi. Il disegno di Aung San mirava a costruire uno stato fondato sull’adesione volontaria di tutte le sue componenti, e perciò regolato da una costituzione che avrebbe garantito ad ogni gruppo etnico in diritto a separarsi, entro dieci anni, dall’Unione. Aung San si era impegnato personalmente con i Karen, gli Shan e tutti gli altri, conquistando la loro fiducia. Ma - racconta sua figlia Suu Kyi, diventata in questi ultimi decenni il simbolo di una possibile redenzione democratica del paese - “il 19 luglio, durante una riunione del consiglio esecutivo, Aung San, assieme a sei consiglieri [...] fu assassinato da uomini in uniforme entrati nella sala riunione priva di guardie impugnando fucili mitragliatori”. Non ci è dato di sapere come sarebbe andata altrimenti, ma di certo le possibilità di risolvere in maniera equa il complesso e difficile problema delle minoranze subirono un colpo pressoché mortale. Da allora nella storia della Birmania la negazione delle libertà fondamentali, ad opera delle varie dittature militari, si è sempre accompagnata alla repressione delle minoranze etniche, in una sequela interminabile di sanguinosi conflitti. Così è stato per gli Shan, insorti nel 1958 - quando il governo centrale avrebbe dovuto, secondo gli accordi, riconoscere loro la possibilità di porre in atto la secessione - e da allora in lotta, in una lunga storia in cui il loro movimento si confuse per lunghi tratti con l’egemonia militare del signore della guerra (e dell’oppio) cinese Khun Sa. Come pure per i Karen, anche loro da decenni in lotta per l’indipendenza. Questi conflitti hanno comportato enormi sofferenze per le popolazioni. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette, dalle offensive militari, portate avanti con tutti gli strumenti del terrore e facendo “terra bruciata”, a rifugiarsi nei paesi confinanti, in particolare in Thailandia, dove vivono mal tollerati, privi dello status di rifugiati politici, e spesso senza documenti. Sono anche accusati di distruggere 16 Laos: Donna Hmong F RONTIERE Obiettivo sul mondo Dossier 5-10% se si contano le altre 65 etnie che non hanno diritto ad uno stato. Ci troviamo di fronte ad un mosaico etnico-culturale di estrema complessità. Oltre a tutto le terre abitate dai tribali si trovano al centro di piani di “modernizzazione” che minacciano pesantemente il loro ambiente e, insieme, la loro sopravvivenza e identità culturale. E’ infatti di questi ultimi anni il progetto (condiviso con la Thailandia) per la costruzione di quattro mega dighe sul fiume Salween, per la cui realizzazione si parla di un piano di spostamento coatto di ben 100mila Karen (pare che siano già stati evacuati e distrutti 96 villaggi). E migliaia di Karen sono stati costretti a prestare la loro opera, in drammatiche condizioni di lavoro forzato, per la costruzione della rete stradale a ciò necessaria. Ma il dramma delle minoranze etniche non è limitato alla Birmania e alla Thailandia. Se ci spostiamo in Vietnam arriviamo a contatto con quello dei cosiddetti “montagnard”: con questo nome i francesi indicavano le popolazioni delle cosiddette Terre Alte ai confini tra il Vietnam e la Cambogia. I montagnard sono tra i più antichi abitanti della regione, costretti nei secoli a ritirarsi sugli altopiani centrali dall’arrivo di popolazioni più forti. Il loro isolamento geografico e la loro specificità culturale si erano accentuati nella fase coloniale con la conversione in massa al cristianesimo, ad opera dei missionari arrivati al seguito dei francesi. E’ per questo che, durante la guerra del Vietnam, essi cooperarono con le forze statunitensi, sperando così di creare uno stato autonomo. Con la fine della guerra e la vittoria del Nord Vietnam, i montagnard si trovarono esposti, senza alcuna difesa, alla volontà punitiva del regime di Hanoi, che ne nazionalizzò le terre e distrusse centinaia di villaggi per far posto alle piantagioni di caffé di proprietà dello Stato. La persecuzione, che continua tuttora, è anche indirizzata contro l’appartenenza cristiana, sempre di più un forte elemento di identità. Basti ricordare la cosiddetta “Pasqua di sangue” del 2004, in cui le proteste di 130mila cristiani furono represse con 10 morti e centinaia di feriti. Oppure, ancora, la repressione del febbraio 2001, con pesanti condanne ai leader politici. E infine il blocco informativo a cui è stata sottoposta per anni l’area, per impedire a giornalisti e operatori umanitari di documentare persecuzioni e violazioni dei diritti umani. Analoga la sorte degli Hmong del Laos, reclutati dalla CIA a decine di migliaia, durante la guerra in Vietnam e la parallela guerra civile in Laos, per combattere l’esercito nord-vietnamita e i comunisti del Pathet Lao. Ciò fu la causa, dopo la pace seguita alla vittoria del Pathet Lao, dell’emigrazione di centinaia di migliaia di Hmong. Altre migliaia si rifugiarono nelle foreste da dove continuarono, anche per trent’anni, a combattere contro l’esercito laotiano, in un conflitto dai risvolti tragici per le popolazioni e per il quale il governo laotiano è stato accusato da Amnesty International di gravi violazioni dei diritti umani. Laos, provincia di Phong Saly: Ragazza Pao Lao Kor Vietnam: Donna Hmong Rossa 17 F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti PAKISTAN Baltoro: la via dei giganti testo e foto di Luisa Rolandi Cosa colpisce lo sguardo salendo lungo il ghiacciaio del Baltoro? No, la domanda è posta in modo sbagliato! Lo dico con gli occhi del viaggiatore sorpreso dall’incanto del cammino sopra la morena, tra le “vele” di neve alte metri e metri che affiorano tra detriti di pietre scure e rocce aguzze, lì per ricordare la presenza incombente dell’anima di ghiaccio che pulsa e spinge sotto i piedi, verso la luce alla ricerca dell’aria. E allora, la domanda giusta da porsi è: come si può raccogliere nella memoria, cementificata, ogni singola immagine di una natura così imponente, che l’occhio ingoia passo dopo passo? Il Baltoro scende in Pakistan, nel Baltistan, per circa 62 km, nel gruppo del Karakorum, o delle “rocce nere”. E’ incastrato tra alcune delle vette più alte della terra: K2 (o Chogori, 8611 m), Broad Peak (o K3, 8047 m), Gasherbrum I (o K5, o Hidden Peak, 8068 m), Gasherbrum II (o K4, 8035 m), Gasherbrum III (7952 m), Chogolisa (7665 m). Tutti colossi visibili da quella meravigliosa arena naturale del Circolo Concordia, la “piazza glaciale” che prende nome da Konkordia Platz il luogo omonimo nell’Oberland Bernese. Qui convergono più ghiacciai, provenienti dal K2 (Godwin Glacier), dal Broad Peak (Broad Peak Glacier), dal gruppo del Gasherbrum (Abruzzi Glacier), e quindi un enorme ammasso di detriti e “vele” accoglie i campi di alpinisti, in attesa dell’attacco alle vette, e di viaggiatori, a caccia della foto perfetta. Ma non è finita! Salendo sulla lingua di ghiaccio, prima di arrivare a Concordia, si incontrano montagne non meno spettacolari: Grande Trango (6286 m), Cathedral Peak (5828 m), Uli Biaho (6417 m), Mutzag Tower (7273 m) e l’imponente Masherbrum (7821 m). Il fascino del paesaggio è davvero incredibile, gli occhi sono costantemente calamitati dallo spettacolo selvaggio ed incombente, raffinato e commovente, carico di sfide per gli alpinisti, denso di accattivanti messaggi al tramonto e di dolci speranze all’alba per il viandante. Ho camminato 12-14 giorni con la sensazione che l’ossigeno mancante fosse generato direttamente dall’imperdibile scenografia, sempre col viso alzato verso le vette, per respirare meglio il giorno che cadeva ad ogni passo dalle montagne sovrastanti. K2, Chogori, la “Grande Montagna” Arrivati al Circolo Concordia la “montagna degli italiani” è lì, bellissima e perfetta, un diamante di roccia e ghiaccio, la seconda vetta della terra, una sfida alquanto impegnativa pure per gli alpinisti più esperti. Fino al 2000 poco meno di 200 persone avevano raggiunto la sua ambita cima, contro le 1500 che invece sono riuscite a scalare l’Everest. Il K2, quasi 300 m meno dell’Everest, è più difficile e più pericoloso per i molteplici passaggi ripidi e tecnicamente ardui e per il microclima, rigido, in continuo cambiamento, assolutamente imprevedibile, che scatena fredde tormente per giorni e giorni, impedendo così l’ascesa. Dal primo tentativo (1909) di Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, accompagnato dal famoso fotografo Vittorio Sella, solo alle ore 18.00 del 31 luglio 1954, Lino Lacedelli ed Achille Compagnoni raggiungono la vetta. Entrambi rientrano poi in cattive condizioni psicofisiche e Compagnoni, per i gravi congelamenti alle mani, subisce varie amputazioni. Walter Bonatti venne accusato di aver tentato di raggiungere la vetta da solo, usando le bombole di ossigeno che avrebbe dovuto portare al Campo IX (programmato a 8060 m), dove però non era arrivato. Così le bombole, abbandonate poche decine di metri sotto il campo e recuperate a fatica dai due compagni, si sarebbero esaurite due ore prima della vetta, mettendo a rischio l’esito della spedizione. Questa la versione “ufficiale” a cui si è attenuto Ardito Desio, capo della spedizione. Al contrario il processo, nato dalla causa per diffamazione da lui intentata, dava ragione a Bonatti ed alla sua versione dei fatti: Lacedelli e Compagnoni avrebbero allestito il campo ad una quota superiore, e perciò lui e il pakistano Mahdi non riuscirono a raggiungerli prima di notte e furono costretti a bivaccare in terribili condizioni climatiche (a Mahdi furono amputate tutte le dita dei piedi a causa del congelamento). Bonatti negava inoltre di aver usato le bombole (le maschere sarebbero state negli zaini di Lacedelli e Compagnoni). Nel 2004 la commissione storiografica del CAI ha ufficialmente riconosciuto il ruolo svolto da Bonatti e cioè l’importanza di aver portato le bombole ai due compagni per consentirne l’ascesa. Il K2 viene quindi ricordato anche per queste polemiche, spesso dimenticandone bellezza e difficoltà alpinistiche. Il trekking al Campo Base del K2 e al Gondoghoro La Al di là dell’incognita della reazione del fisico alla quota, il trekking non comporta difficoltà tecniche, soltanto spirito di adattamento. Si cammina su morena, un terreno pietroso, con tappe abbastanza lunghe e sempre in alta quota. L’unico passaggio in cui ci si deve impegnare è la salita al Passo del Gondoghoro La e soprattutto la discesa, dove è meglio usare i 18 Ghiacciaio Baltoro F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti ramponi che danno più sicurezza. Per arrivare a Skardu (2287 m), capoluogo del Baltistan, da Islamabad ci vogliono ben due giorni lungo la Karakorum Highway oppure, per i più fortunati, qualche ora di aereo. A Skardu, cittadina di commercianti di pietre, stoffe e mille altri prodotti, sita su una piana nel mezzo delle montagne, si prende la jeep per arrivare ad Askoli, punto di partenza del trekking. Lungo il percorso si incontrano alcuni villaggi, Dassu, Apligon, Pakora, Hoto Chongo, capanne di fango e paglia immerse nelle coltivazioni di grano saraceno, sino a quando non si inizia a salire verso il primo campo di Thongal, proprio sotto il villaggio. Si attraversa per ben tre volte il fiume Braldu: preparatevi agli incontri con altre jeep, ed a sperare che gli esperti autisti calcolino al millimetro i pochi centimetri tra un mezzo e l’altro, visto che lo strapiombo segue le ruote ad ogni curva! Una visita ad Askoli vale la pena: uomini, anziani e bambini vengono con voi e cercano la fotografia; donne appaiono e scompaiono come macchie di colore tra i muri di fango delle case; una lunga canaletta piena di acqua accompagna la vostra visita tra i vicoli e i piccoli orti che si aprono qua e là. Giorno 1 - Thongal/Askoli-Korofoung (4 ore, alt. 3200 m): Inizia il trekking con una camminata di un paio di giorni lungo le lingue finali dei ghiacciai Biafo e Braldu. Dopo un’oretta si attraversa il villaggio di Askoli ed i campi circostanti. Quindi si supera il ghiacciaio Biafo. Giorno 2 - Korofoung-Johla (4-5 ore, alt. 3300 m): Incrociato il ghiacciaio Biafo, il sentiero procede lungo il fiume Braldu. Si intravede ancora la via dei primi del ‘900, così stretta ed acuminata che pare impossibile abbia guidato portatori ed alpinisti per un centinaio di anni. Dopo una lunga deviazione ad “U”, si arriva al ponte di legno sul fiume Dumordo e quindi a Bardumal, dove i portatori hanno già montato il campo. Giorno 3 e 4 - Johla-Paiyu (5-6 ore, alt. 3650 m): Il cammino procede come un serpente tra le pietre, con sali-scendi sino all’oasi di Paiyu, sormontata dall’omonimo picco alto 6000 m. In genere tutti i gruppi sostano almeno un giorno per l’acclimatamento prima di salire sul ghiacciaio del Baltoro. In questa giornata libera si macellano anche le capre per preparare la carne per le prossime tappe. Giorno 5 - Paiyu-Urdukas (6-7 ore, alt. 4210 m): Finalmente saliamo sul ghiacciaio. La tappa è interamente sui detriti, sulle rocce, sulle pietre, sulla neve ed addirittura sulla sabbia. Attorno la natura si scatena in tutta la sua fantasia di artista, forme e colori invadono lo sguardo, Cathedral Peak, Trango Tower e Masherbrum. Giorno 6 - Urdukas-Goro (5-6 ore, alt. 4525 m): Sarete senza fiato, non solo per la quota. Ormai siete circondati dai colossi di neve e roccia e, arrivati al campo, avrete solo l’imbarazzo di scegliere la vista dalla vostra tenda: la parete incombente del Masherbrum oppure la catena del Gasherbrum sullo sfondo? Giorni 7 e 8 - Goro-Concordia (5-6 ore, alt. 4700 m): Il passo è colpito dalle pietre, ma anche dalle “vele” del Baltoro che ormai da due giorni bucano i detriti della morena ed esplodono alte lungo il cammino. La fama di Concordia è meritata: siete al centro di una scenografia che non si accontenta dello sfondo, ma che abbraccia da ogni lato. Ed è lì anche il K2, Chogori, che rappresenta con la sua morfologia la montagna perfetta. Qui ci siamo fermati un giorno, per giunta è nevicato, ed era metà agosto. Giorno 9 - Concordia-Campo base del K2-Concordia (6-7 ore andata e ritorno, alt. 5000 m): Per chi ha la fortuna che il tempo non peggiori si può arrivare ai piedi del Chogori seguendo il ghiacciaio Godwin Austen, passando anche dal campo base del Broad Peak. La gita classica porta al Gilkey Memorial, dedicato a questo giovane studente di geologia che faceva parte della spedizione di Charles Houston, morto mentre i compagni tentavano di portarlo al campo base. Giorno 10 - Concordia-Ali Camp (4 ore, alt. 4800 m): La prima parte della risalita verso Ali Camp è la più difficoltosa perché si attraversa il ghiacciaio del Baltoro e si passa quindi su enormi lastroni di ghiaccio bianco ed azzurro. Poi si cammina sulla neve ed il ghiaccio del Biarchedi costeggiando il Chogolisa e le sue pareti a picco. Una tappa davvero bellissima. Giorno 11 - Ali Camp-Khursipin via Gondoghoro La Pass (7-8 ore, alt. 5680 m): Si parte verso l’una di notte, così da raggiungere il passo all’alba. La salita è lenta e servono soste per prendere fiato, ma la fatica è ripagata dalla vista che si gode dalla cima: pare di essere dentro la mappa del Karakorum. Occorre essere fortunati col tempo, perché non è possibile questo passaggio in condizioni climatiche avverse. I primi 700 m. di discesa sono attrezzati con corde fisse, così da agevolare non solo i trekkers, ma soprattutto i portatori carichi, non supportati dal nostro equipaggiamento tecnico. Occorre prestare attenzione perché si tratta di una zona che slavina neve e scarica pietre. Sono necessarie almeno 3 ore per arrivare al campo, sito proprio sotto il Laila Peak. Giorno 12 - Kursipin-Shaitcho (5-6 ore, alt. 3750 m): La tappa si srotola lungo la valle di Hushe che si snoda dal Masherbrum verso sud fino al fiume Shyok. Gradualmente si abbandonano i ghiacci per passare attraverso prati verdi, ruscelli ed animali che pascolano. Al campo è stata attrezzata persino una doccia che sfrutta l’acqua che scende dalle montagne, un po’ fredda, ma alquanto utile dopo giorni di cammino. Giorno 13 - Shaitcho-Hushe (5-6 ore, alt. 3200 m): Scendendo lungo il fiume Gondoghoro, attraverso ampie zone verdeggianti, la vista delle montagne non ci abbandona: il K6 (7278 m), il K7 (6932 m), il Link Sar (7038 m). Continuando la discesa si arriva al villaggio di Hushe, molto interessante, nascosto tra i campi di grano saraceno. Il campo si trova all’interno dell’abitato in una zona recintata destinata all’accampamento. Giorno 14 - Hushe-Skardu: Trasferimento in jeep per tutta la mattinata sino al primo pomeriggio. Il percorso è molto verde, i villaggi sono molto più grandi di quelli che si incontrano all’andata, i tetti delle case sono ricoperti di albicocche messe ad essiccare, i campi verdissimi contrastano col grigio delle montagne, i colori delle vesti delle donne si mescolano alla polvere, un arcobaleno di immagini di vita. 19 F RONTIERE Racconti per immagini: l’arte di ornare se stessi Anziano Toposa (Sud Sudan) Sandro Bernes (Udine) Donna Toposa (Kenya) Guido Ciceri (Milano) Cerimonia Toposa dello Ngetamu (Sud Sudan) Roberto Salgo - Cagliari Ragazza Jie (Sud Sudan) Roberto Pattarin (Sondrio) Toposa (Bume) Nyangetom (Sud Sudan/Ethiopia) Pieffe Montrucchio (Torino)) I popoli Ateker Sudan Ethiopia Kenya Uganda Donna Dodos (Uganda) Pieffe Montrucchio (Torino) Donna Turkana (Kenya) Guido Ciceri (Milano) Cerimonia Turkana dell’Asapan (Kenia) Guido Ciceri - Milano Donna Karamoyong (Uganda) Roberto Pattarin (Sondrio) Ragazzo Ik (Uganda - Karamoja) Monica Pellegrino (Cuneo)