Ormai faceva male da morire
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Ormai faceva male da morire
Ormai faceva male da morire. Non si respirava più come in una stanza troppo piccola per 20 persone. L’aria viziata che turbava il lento mio respiro. Affannoso. Avanti e indietro, contavo a lunghi passi quel buio. Perchè sì, era buio. Non c’era una dimensione, un punto di riferimento. Ero perso. Così mi sentivo da mesi. Solo. Perso. Illuso. Io, solo. Quando era cominciato?… Cosa? Il mio tormento?… No! Tutto, quando era iniziato?… ____________________________ Il sole che filtrava dalle persiane batteva forte sulle mie palpebre ancora indolenzite dalle due ore di sonno di quella notte. Il sole che mi aveva svegliato ora si nascondeva dietro grosse nubi nere. Dio, sì!… Amo la pioggia. Jim Morrison diceva che la pioggia è il dono più bello perché puoi andare in giro piangendo con la testa alta. Ma quanto è vero. E quante volte quell’estate avevo pianto nella pioggia per non sentirmi solo, ma almeno in quello compreso. E mi viene sempre spontaneo pensare all’acqua come pioggia e nient’ altro. Dio è nella pioggia. Non credo in Dio, ma questo ne sono sicuro è un dono prezioso. Ed io amo la pioggia. Ricordo che da sempre ho avuto un solo sogno proibito. Per me era importante tanto chi quanto il come sarebbe accaduto. Fare l’amore sotto la pioggia. I corpi caldi, amati, cercati e trovati, passionali, ardenti di follia e rinfrescati dalla pioggia che gode nel vedere un simile spettacolo di corpi sudati e belli. Questo è l’acqua. Questo la pioggia. Quella volta pioveva davvero forte, il rumore delle gocce sui tetti rimbombava sino a divenire frastuono tanto che fu quasi totalmente inutile accendere lo stereo e lasciarsi andare sulle prime note della canzone che passava per RTL 102.5: “Wish you were here” dei Pink Floyd. Abbandonavo i movimenti del mio corpo al dolce suono della chitarra elettrica, inconsapevole di ogni mio gesto futuro, di ciò che mi sarei dovuto aspettare dal fuuro, io che nel futuro non avevo mai creduto, non ci avevo mai sperato, e nonostante tutto esso non era mai riuscito a incutermi timore. Mi sentivo strano quella mattina, forse la pioggia aveva risvegliato in me il desiderio di vivere, mi aveva fatto fiorire di nuovo, ma prima di tutto, dovevo andare a scuola, l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale. Era stata programmata la simulazione di terza prova ed io ovviamente non avevo sprecato tempo nel prepararmi adeguatamente, ma mi ero limitato solamente a procurarmi degli ottimi bigini, per prendere più della sufficienza senza troppi sforzi. Mercoledì 21 Dicembre. Colazione a base di caffè. Impugno le chiavi della mia macchina, una Honda Civic nera, con un rapido gesto. Apro la porta di casa, urlando un “ciao” troppo generale, e la richiudo alle mie spalle. Infile le chiavi nel cruscotto della mia auto appositamente lucidata, pronta per le serate che mi avrebbero atteso durante le vacanze. Piede sinistro, frizione. Piede destro, acceleratore. Mano, sul cambio. Parto. E’ la mia giornata, con il diluvio che impazza sul mio parabrezza, i tergicristalli a ritmo con la velocità superiore agli 80 km/h. Non volevo sapere cosa mi sarebbe accaduto. Ma qualcosa, sì, qualcosa sarebbe necessariamente accaduto perchè dopo 7 mesi, io finalmente mi sentivo vivo. Le strade familiari correvano al mio fianco, gli alberi, le persone e tutto quello che mi circondava, come tutti i giorni da quando un anno prima avevo preso la patente era stato, ma quel giorno era diverso. Gli alberi si muovevano, le persone parlavano e le cose avevano un significato inspiegabile ma profondo. Semaforo rosso. I motorini dei ragazzini sfrecciavano ai lati della mia Honda e si mettevano ai limiti dell’ incrocio pronti a girare la manopola destra e far rombare gli 80 CV illegali sotto le loro selle. Una vespa rosa, un cinquantino. La ragazza si sistema gli occhiali Carrera neri. Sembra non preoccuparsi di stare dietro alla mia macchina e sembra fissarmi così a fondo da sentire il suo sguardo aperto nei miei occhi. Insopportabile. Sono sempre stato una persona schiva, ho paura, tremo quando la gente mi guarda negli occhi, ed anche quella volta avevo girato il volto lungo la strada che mi aspettava. Verde. Gli scooter a gara accelerano, uno dopo l’ altro, ma la ragazza, la vespa rosa aspetta il mio turno, pronta a seguire il mio tracciato. Libero da pensiero percorro via Mazzini, mentre la radio trasmette “Cat and Mouse” dei Red Jumpsuit Apparatus. Svolta a destra. Anche la Vespa. Anche la ragazza. Corso Umberto. Anche la ragazza. Ma chi era?… Non mi stava seguendo, sarebbe impossibile, nessuno in quella città mi conosceva. Impossibile, non mi aveva nemmeno guardato in faccia, riconosciuto e nient’ altro. Ero un volto nuovo. Mi ero trasferito in quel nuovo paese da poco tempo, tre mesi, perchè dove avevo sempre abitato la scuola superiore aveva chiuso, ed allora avevo cercato un nuovo Istituto ed il più vicino era quello di Milano. Dovevo completare l’ ultimo anno di Liceo Classico, ancora sei mesi, ed ero nuovo per chiunque. Quindi no. Quella ragazza non mi stava inseguendo e non sapeva nemmeno chi fossi, neanche fossi stato suo compagno di classe. Piazzale 3 Agosto. Fermo la macchina. Spengo la radio. Mi accendo una Lucky Strike prima ancora di aver chiuso definitivamente la portiera. Non mi interessava che piovesse, io amo la pioggia, e così goccia dopo goccia mi avvicinai al chiostro della scuola che ospitava tutti gli studenti, chi studiava Seneca, chi copiava una versione, chi parlava o raccontava della serata precendente con il proprio ragazzo o con gli amici e chi come me invece, nell’ incognito, si fumava una sigaretta prima di incominciare la parte realmente dura della giornata. 8.20. Driiin. Inizia la scuola. Classe IIIB. Italiano. LEI No. Ancora quella dannata pioggia. Merda, piove sempre e stamattina ancora nessuno mi porterà a scuola. Colazione? Me la scordo, la dieta prima di tutto. Un sorso di succo, nemmeno un bicchiere ed è tempo di andare. Ipod nano rosa in tasco, auricolari bianchi, jeans stretti. Così sto davvero bene. Carrera neri, belli scuri come il colore naturale dei miei capelli. Scendo in garage. Apro il portone e a cavalcioni monto sulla mia piccola Vespa rosa. Ero consapevole che non sarei mai arrivata salva o addirittura asciutta a scuola, ma ormai ci ero abituata. Erano diciassette anni che vivevo a Milano, sapevo benissimo come le cose funzionavano. Mia mamma mi diceva sempre ogni anno di comprare l’ abbonamento ATM, ed io comunque non l’avevo mai ascoltata. Come ogni santo giorno dunque, uscii dal cancello del mio appartamento che ero fradicia, e messa in moto la Vespa, accelerai per allontanarmi da quella prigione solitaria che amavo chiamare casa, giusto in tempo per prendere un semaforo rosso ed accendermi una delle mie Lucky Strike e buttare via il pacchetto da dieci consumato la sera prima insieme ad Alessandro. Davanti a me c’era una Honda Civic nera. Alla guida, per quanto la vista attraverso lo specchietto retrovisore della macchina potesse concedermi, un ragazzo con un semplice cresta ed un maglione nero. Carino, o forse no. Non lo so e non mi interessava comunque.Verde. L’ Honda gira a destra, ed io la seguo. Un pò seguendo l’ istinto ma prima di tutto perchè era la stessa strada che mi avrebbe portato a scuola. Sembrava in realtà che io stessi inseguendo quella ragazzo alla guida di quella bellissima macchina nera appena lucidata. Ma non era così. Piazzale 3 Agosto. Fermo la Vespa rosa, ormai lontana dalla Civic ed entro nel chiostro al riparo dal diluvio che non mi aveva lasciato asciutto nemmeno il culo. La sigaretta consumata dalla prima accelerata mi era rimasta stretta inutilizzata tra le mie dita snelle, così vidi quello stesso ragazzo di prima che veniva verso di me, o forse no. Ma veniva anche lui nel chiostro. <<Ciao. Non è che avresti una siga?>> gli chiesi, quasi del tutto consapevole che non mi avrebbe detto mai di no. <<No. Le ho finite.>> ero sicura che mi stava mentendo. Bastardo. Aveva la faccia da bastardo tenebroso. Ma era enormemente carino in quel suo stato da stronzo inconcepibile e tutto sommato attraente. <<Uff. Va bè, fa niente grazie mille lo stesso.>> e me ne andai senza aspettare la sua risposta. Se mai me l’ avesse data. 8.20. Driin. Inizia la scuola. Classe IIIA. Inglese. LUI Non avevo voglia di sentire l’ennesima lezione sul pessimismo leopardiano. Ci mancava solo quello ad agiungersi alla mia situazione catastrofica. Ormai le mie giornate a scuola passavano come un supplizio eterno senza darmi la minima possibilità di respiro. L’ unica pausa salutare, se così si può dire, era data dalla campanella dell’intervallo alle 11.05. Sì, finalmente aria pura. Esco dalla porta antincendio che dà sul cortile in cemento della scuola. Indosso il giubbotto pesante, riparando i capelli ingellati sotto il cappuccio, perchè almeno quello sì, non aveva ancora smesso di piovere. Voci femminili gridavano per le nuove scarpe bagnat, per i propri capelli rovinati da quella gelida pioggia d’inverno. Sovrappensiero tiro fuori dalla tasca dei miei 55D blu il pacchetto nuovo di Lucky Strike morbide, le mie preferite. Strappo l’involucro di plastica con furore. Tolgo la carta argentata. Impugno con la mano destra il Bic mentre con l’altra infilo in bocca la sigaretta. Una boccata di fumo, una boccata di nicotina e libertà mentre mi vengono in mente le parole di “Nicotina Groove” dei Subsonica…segui il suo sentiero giallo tra le dita… <<Ehm ehm>> due colpi forti di tosse richiamano la mia attenzione come se volesse dall’ inizio essere quello l’obiettivo di una tosse improvvisata << mi avevi detto di non averne di sigarette >>. Era la Vespa rosa. Ancora quella ragazza. Pensai subito che fosse molt presuntuosa e d’ altronde l’avevo pensato anche quella mattina sotto al chiostro prima della campanella. E poi, perchè mai dovevo giustificarmi con lei solo per non averle offerto una sigaretta? Ecco. Non le dovevo alcuna spiegazione <<Non avevo voglia di dartene una.>> risposi seccato e con tono ancora più presuntuoso per farle capire che stava rovinando la Mia sigaretta ed il mio momento di libertà. La ragazza di cui non sapevo nemmeno il nome era rimasta impietrita di fronte alla mia schiettezza, non se lo sarebbe mai aspettato. Piuttosto avrebbe preteso che io le dessi una delle mia Lucky Strike. Un suo gesto veloce e con la mano mi strappò dalle labbra la sigaretta prima ancora che io potessi fare o dire qualsiasi cosa, prima ancora che potessi reagire, bloccarla o urlare, e se ne andò trionfante sculettando in gesto di vittoria: aveva un bel culo, lei. Lei perchè non sapevo come si chiamasse e comunque non mi interessava nemmeno saperlo. Stavo sorridendo, ero da solo, io, era circondata da amiche lei; presi un’ altra sigaretta e l’accesi anche se non avrei mai fatto in termpo a finirla prima che riniziassero le lezioni. Ero rimasto guardarla tra un tiro ed un altro. Lei si gira e a malapena intuisco il suo labiale “E’ buona questa Lucky Strike” e sorride generosamente. Ti odio. Presuntuosa. Ti odio. LEI “Dr. Jekyll and Mr. Hyde”. Era coesistano due entità, una buona delle vacanze di Natale ed io e tutti quei 20 giorni che avremmo coinvolgente. Era bello leggere come nell’ essere umano esistano e ed una malvagia. Era, come dire, intrigante. Era l’ultimo giorno prima la mia migliore amica Alessandra stavamo progettando le serate per avuto tutti per noi. Una festa di qua, una di là senza mai fermarsi. Perse in questi fantasie recondite le raccontai di quel ragazzo, quella mattina, che mi aveva infastidito e lei forse senza nemmeno ascoltarmi, si limitava ad annuire come per darmi la tara. Dopo la doppia ora di inglese che mi aveva appassionato e l’ora buca, causa assenza prof di religione, eccoci all’ intervallo. Come quella mattina non avevo le sigarette e sapevo già a chi sarei andato a chiederne una. Passavo per il corridoio e già lo vedevo tenebroso e solo in mezzo al cortile sotto la pioggia gelata. Perchè se ne stava sempre da solo? E perchè mai era così attraente, nonostante sembrasse uno stronzo?… Aprii la porta antincendio e leggera, coprendomi per non bagnarmi, mi avvicinai a lui così che non mi potesse sentire. Avevo una domanda che mi premeva da tutta la mattinata. Perchè mi aveva detto di no? E adesso come faceva ad avere le sigarette? La sua risposta mi lasciò a bocca aperta. Mi disse che non aveva avuto voglia di darmene una. Io, presa dalla rabbia, mi lascia andare al primo gesto. Infuriata, gli tolsi la sua preziosa Lucky Strike da quella splendida carnosa bocca, e orgogliosa me ne andai sculettando vittoriosa. L’avevo in qualche modo umiliato o almeno ci avevo tentato. Da lontano continuavo a guardarlo, perchè in fondo non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso nel suo giubbotto nero di jeans, nonostante il freddo e la pioggia, e il cappuccio nero della felpa che gli copriva la testa. Lo guardavo e cercavo di capire cosa lo muovesse, cosa provasse. Quando i nostri sguardi si incrociarono non sapevo più cosa fare, allora a bassa voce gli feci intuire che la sua Lucky Strike era molto buona. La sua espressione mutò improvvisamente. Mi odia. Lui. Mi odia. Ed io sorridevo. LUI Ero rientrato in classe con 5 minuti di ritardo, ma non m’ importava, come non mi toccavano nemmeno le parole urlate dalla prof Bianchessi, quella di arte. <<Non siamo ai tuoi ordini e comodi, Gasti.>> Mi ero seduto strafottente sulla mia sedia al mio banco, lo stesso di sempre da 5 anni ormai. Le gambe allungate sotto al tavolo, la biro che girava tra le mie dita ed i miei pensieri che tornavano nuovamente a quella ragazza. Perchè la stavo pensando, e pensandola sorridevo? Mi tornava alla mente Carolina. Carolina. Karol. Bella. Era stata un’ avventura, un incontro casuale e di lei, unica, mi ero innamorato, mi ero fidato, avevo imparato ad apprezzarla. Ma lei non aveva ricambiato, mi aveva tradito, colpito, ucciso ed illuso. Io avevo lottato per tenerla al mio fianco, inutilmente. Ormai non valevo più nulla, non ero più stato capace da quel momento di aprirmi, vivere, respirare e sorridere. Non fino ad oggi. Un’ altra ragazza, la sua presuntuosità forse mi aveva colpito come allora, mi aveva ridato il battito ed il ritmo regolare del respiro. Almeno, pensai, avevo ricominciato a vivere, senza nemmeno sapere il suo n0me. La biro nera scivolava leggera sulle mie labbra mentre, prima dell’ ultima boccata d’ aria, la campanella suonava prepotente. La libertà. L’ esodo la scuola. La speranza remota, e non so nemmeno perchè ci sperassi, che mi chiedesse un’ altra sigaretta. Uscii velocemente dalla classe senza darmi neanche il tempo di infilarmi il giubbotto di jeans. Fuori il temporale non era ancora cessato e quanto era bello ammirare le gocce rimbalzare sull’ asfalto gelato! Quanto era placante quel lieve rumore. Fermo sotto al chiostro dell’ edificio esitai un momento ancora, aspettando qualcosa di inatteso, forse lei, prima di mettermi in testa il cappuccio nero e correre rapido fino alla macchina per poi gettarmici dentro al riparo dal diluvio che io volevo non si fermasse mai. Con la pioggia potevo piangere ridendo. Poi la vidi. Era incazzata. Si sarebbe bagnata di nuovo. Una sigaretta in bocca. Da chi l’ aveva scroccata questa volta? Dannata. Avevo il respiro corto non per la corsa, perchè avevo fatto solo dieci metri. Perchè? Perchè mi ricordava così tanto Carolina? Perchè mi ero fermato nel parcheggio senza andarmene rituale che avevo da quattro lunghi mesi? Ero fermo. Accesi il motore. Inserii la guida sportiva sulla mia Honda e feci rombare i 160 CV passando vicino a lei. Ma come si chiama? LEI Sorridendo salii le scale per rientrare nei corridoi, senza alcune fretta perchè sapevamo tutti che, come al solito, il prof di italiano sarebbe arrivato in ritardo. Colsi l’ occasione per parlare con Ale, la mia amica, e ne ero sicura, stavolta mi avrebbe ascoltato attentamente. Le chiesi se conosceva quel ragazzo e la sua risposta fu altrettanto rapida quanto sbalorditiva: <<Non lo so, solo perchè non lo sa nessuno. Mai visto in giro.>> Strano. Lei sapeva sempre tutto. <<Perchè?>> continuò lei. No, niente, così tanto per sapere. Non è vero. Lo volevo sapere, perchè quel ragazzo mi aveva acceso la giornata. Mi aveva fatto sorridere nonostante il freddo. Mi aveva colpito la sua arroganza e la sua solitudine. Era riuscito a stare al mio gioco, complicemente, e mi era piaciuto molto. Raccontai tutti questi momenti alla mia migliore amica che ascoltava attenta, senza lasciarsi sfuggire nemmeno un particolare, e pronta a ribattere sempre con domande più pungenti e pignole. <<NO! Non farei mai l’amore con lui, lo sai!>> risposi così ad un certo punto quando ormai le richieste si erano fatte sempre più insistenti e quanto meno spudorate. In realtà non lo avrei mai fatto con nessuno. Io totalmente strana ma diversa dalle altre ragazze che conoscevo. Avevo avuto due ragazzi soltanto, io che avevo 18 anni ed a volte me ne vergognavo. Non mi ero mai fidata dei ragazza e preferivo il mio stato di castità piuttosto che assomigliare a quelle bambine sedicenni troppo cresciute per la loro età che seminano la propria verginità al primo che passa. Senza offesa, ma questa è la realtà, pensavo ogni volta riguardo a questo argomento. Potevo e avrei voluto donare ciò che di più prezioso ho solo quando mi fossi sentita libera, bella ed unita all’ altro e nell’ altro. Questo Ale lo sapeva benissimo, così che subito dopo avermi fatto la domanda scoppiò fragorosamente a ridere mentre il prof d’ italiano, il Dona, raggiungeva la nostra classe con importantissimi 25 minuti di ritardo. Grazie prof. Leopardi occupò le nostre menti per le quasi due ore successive eccetto gli sguardi che io e la mia compagna di banco ci scambiavamo riguardo l’argomento precedente. Ogni volta arrossivo. Aveva capito che stavo pensando ancora a quel ragazzo tenebroso e ci giocava a suo piacimento per farmi ridere durante la spiegazione. Driiin. Il Dona concluse velocemente la letture de “Il sabato del villaggio” salutandoci con un rapido gesto di cortesia << Buone vacanze a tutti>>. Il coro degli alunni gli rispose alcuni con un semplice grazie ed altri con insulti senza senso. Presi il casco rosa, misi gli auricolari del mio Ipod e avvicinandomi ad Ale la baciai sulla guancia sussurrando <<a stasera amore>> << ok. A stasera e non pensare troppo a lui, è uno sfigato!>>. Ci salutammo così perchè lei avrebbe dovuto aspettare la madre in via Marconi ed io invece mi sarei dovuta recare nel parcheggio della scuola. Quando uscii l’ aria gelato mi sferzò il volto e rimasi ferma intontita senza riuscire a scorgere nemmeno il mio cinquantino. Mi accesi la sigaretta rubato a Luca, un mio compagni di classe. Eccolo. Rapida raggiunsi il motorino rosa mentre lo cercavo tra le macchine. Non c’era. Bè, fa niente. Girai le chiavi dando un colpo alla Vespa perchè scendesse dal cavalletto. Un rumore fortissimo. Un rumore improvviso. Una macchia di colore nero. Non poteva essere che lui. Provai anche a chiamarlo tra un insulto ed un altro. << Fermati,… Sei uno stronzo!!!>> Ma come si chiama?