Solo un uomo al mondo può permettersi di

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Solo un uomo al mondo può permettersi di
Nel deserto dei tesori
Solo un uomo al mondo può permettersi di chiamare
con un nomignolo Tutankhamon: è Zahi Hawass, un
archeologo da cui Indiana Jones avrebbe molto da
imparare. Monsieur lo ha incontrato per scoprire...
l’amico di
KING TUT
[ DI
GIANLUCA TENTI
]
corbis
ZAHI AWASS, QUI FOTOGRAFATO CON, SULLO SFONDO, LA PIRAMIDE DI CHEOPE, È SEGRETARIO GENERALE DEL SUPREMO CONSIGLIO DELLE
ANTICHITÀ EGIZIANE. NELLA PAGINA A FIANCO, LA MASCHERA FUNERARIA DI TUTANKHAMON, LA CUI TOMBA FU SCOPERTA NEL 1922.
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offre la chiave del tempio del sapere
Menkaure, Khufu, Khafre. Conosco l’eternità. L’ho incontrata sul plateau di Giza, seguendo affannosamente un funambolo di jeans vestito,
con un cappello a tesa larga, che sale con familiarità i gradoni della Grande Piramide. È un archeologo, anzi l’archeologo. Quel che so dell’Egitto,
quello che ho visto con occhi iniziati al grande mistero, lo devo a lui. E
alle intense giornate spese nella Valle dei Re, tra ricercatori e polvere.
Con lui ho bevuto il tè fumante nella solenne notte del Tempio di Luxor, l’antica Tebe. E mi considero una persona fortunata. Perché ho realizzato un sogno (un progetto editoriale) al fianco dell’unica persona al
mondo che conosce ogni millimetro dell’immensa storia dell’Egitto.
Questa persona è Zahi Hawass, segretario generale del Supremo consiglio delle Antichità egiziane, una figura che si staglia a metà tra l’archeologo e lo spirito indomito di un vero Indiana Jones. Tutti lo conoscono. Chi colleziona i volumi di quest’inesauribile fonte di sapere che
è la terra dei Faraoni, chi sfoglia il National Geographic o chi subisce piacevolmente le emozionanti immagini televisive delle ultime scoperte archeologiche. Non c’è evento a coronamento del quale non sia richiesta
la sua presenza, perché Zahi Hawass è, agli occhi di tutti, la chiave di
Hiram del tempio della conoscenza. A lui chiedo di accompagnare il lettore di Monsieur in un ideale viaggio alla scoperta della bellezza assoluta e dei segreti che la sabbia del deserto continua a custodire nonostante oltre un secolo e mezzo di scavi pressoché ininterrotti. E, come
al solito, in poche ore è arrivata la sua disponibilità ad assecondare la richiesta. Conosco Hawass quel tanto che basta per chiamarlo Zahi. L’ho incontrato tre anni fa davanti a un bicchiere di tè verde, nel salotto
del suo ufficio al Cairo. Ero arrivato in Egitto carico di speranze per po-
ter realizzare il libro Luxor assieme al creatore di moda fiorentino Stefano Ricci, e certo non potevo immaginare che quello scambio di opinioni sarebbe stato il primo passo di un’amicizia sincera. Volevo conoscerlo. Di lui mi avevano colpito due aspetti. Il primo erano state alcune interviste televisive realizzate da Lorenza Foschini («trasmissioni incredibili», disse Zahi, «perché io non sapevo una parola d’italiano, lei non parlava arabo e con l’inglese c’erano un po’ di difficoltà»).
L’altro era stato un acceso dibattito televisivo nel corso del quale Hawass aveva controbattuto le tesi di Graham Hancock su presunte influenze extraterrestri nella realizzazione delle piramidi egiziane («sciocchezze», tagliò corto Zahi). E con grande attenzione avevo poi seguito alcuni brani di una lunga intervista rilasciata a Roberto Giacobbo
(ai tempi di Stargate) nel corso della quale Hawass anticipava scoperte destinate a rivoluzionare una parte della storia dell’Egitto. Il segretario generale del Supremo consiglio delle Antichità, ruolo che fu di Gaston Maspero, ha infatti destabilizzato il credo di decenni di studio.
Ha cioè individuato una serie di prove che testimoniano come i costruttori delle piramidi non fossero schiavi (come per anni abbiamo appreso), ma lavoratori specializzati cui era stata concessa una qualità della vita elevata: potevano mangiare pesce, disponevano di dormitori
confortevoli per l’epoca e di una sorta di piccolo ospedale. Seduto davanti alla sua scrivania, attorno alla quale si affannavano una decina di
assistenti, non potevo immaginare quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Zahi mi dette appuntamento per l’indomani, vicino alla piramide di
Menkaure. E qui rivelò il suo dogma: «Vedi questa sabbia? Qui, come
a Luxor e Baharyia custodisce segreti antichi migliaia di anni».
I N A LTO , Z A H I H AWA S S A L L AVO R O I N U N A TO M BA N E L L A VA L L E D E L L E M U M M I E D ’ O R O . « N E H O T R OVAT E P I Ù D I 2 50 , T U T T E AV VO LT E N E L P R E Z I O S O
M E TA L LO » , D I C E L ’ A R C H EO LO G O E G I Z I A N O C H E , N E L L A PAG I N A A F I A N C O , S I S TA CA L A N D O N E L L ’ I N G R E S S O D I U N S E P O LC R O N E L S I TO D I SAQ Q A R A .
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entrammo nella tomba di nefertari...
vedere quel gioiello di architettura e arte, la luminosità dei colori vegetali,
la delicatezza dei tratti. Ma Zahi non poteva certo farmi da guida. Così mi trascinò nella Valle dei Re dove, in un costante saliscendi attraverso
cunicoli polverosi e sale buie, popolate di muffe e fobie, non fu facile memorizzare tutti gli avvenimenti se non vergandoli frettolosamente su un
taccuino. Quella mattinata non mancarono le emozioni: dall’abbattimento di una parete nella tomba di Amenhotep II per la riscoperta di
tre mummie, al labirinto infinito della tomba contrassegnata dalla sigla
Kv5 (quella dei figli di Ramses II), in cui era stato appena individuato
un nuovo corridoio all’interno del quale dominava un’oscurità violata
4mila anni fa dai primi operai. Nel viaggio di ritorno verso Luxor fummo poi fermati da alcuni archeologi tedeschi che avevano appena rinvenuto una statua di donna del tempio di Amenophis III, giusto dietro i celebri Colossi di Memnone. Ecco perché penso che Zahi Hawass
si stanchi forse di più quando resta seduto dietro la scrivania dell’ufficio di Zamalek, al Cairo, dalle 9 del mattino alle 5 pomeridiane, tra problemi amministrativi, supervisione dei progetti per i musei, pratiche burocratiche e autorizzazioni per gli scavi.
«A metà giornata», dice, «mangio un frutto, bevo un succo e mi dedico alla scrittura di articoli per i quotidiani arabi e i magazine internazionali o alla redazione di nuovi capitoli per i libri». Al termine della giornata lavorativa dedica un paio d’ore alla cura del corpo (ginnastica e sauna: «Porta via lo stress») e alle 8 cena con ospiti internazionali o conoscenti. «Dopo», confida Zahi, «prendo un caffè arabo, ma stavolta solo con i veri amici, gente che non ha niente a che vedere con l’archeologia. Persone con le quali ceno, preferibilmente al Greek Club».
U N ’ A LT R A I M M AG I N E D I H AWA S S N E L L A VA L L E D E L L E M U M M I E D ’ O R O , C H E S I T R O VA N E I P R E S S I D E L L ’ OA S I D I BA H A R I A , 3 7 5 C H I LO M E T R I C I R CA A
O V E S T D E L CA I R O . S E C O N D O G L I A R C H E O LO G I , I C O R P I A N C O R A S E P O LT I S OT TO L A SA B B I A I N Q U E S TO S I TO P OT R E B B E R O E S S E R E P I Ù D I 10 M I L A .
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«Cerco di rigenerare la mente perché lavoro sette giorni la settimana.
L’unico piccolo lusso lo riservo al venerdì, quando mi fermo all’Hilton
Café del Cairo e fumo una water pipe, bevo due espresso e, se non sono troppo stanco, vado a vedere un film». Una vita ordinaria, verrebbe
da dire. Se non si trattasse dell’archeologo più famoso del mondo. Ed
ecco, infatti, tornare prepotentemente il suo lavoro come dominante della conversazione. «Dico questo», spiega Hawass, «perché voglio far capire a chi legge che è importante ciò che facciamo in ogni momento della nostra vita. Io lavoro nell’archeologia, nel mio Paese. E so che la sabbia, il deserto, rivela sempre nuovi segreti. Io e la sabbia siamo amici, e
la sabbia mi ha rivelato molte cose». C’è poesia nelle sue parole.
«Sono riuscito a scoprire le tombe dei costruttori delle piramidi», prosegue. «E grazie ai dati scientifici posso dire che le piramidi furono costruite da egiziani, non da schiavi». Presa così, la scoperta potrebbe essere il coronamento di una vita di lavoro. Ma non nel caso di Hawass.
Che, infatti, prosegue: «Ma una delle scoperte a cui tengo maggiormente
è quella della Valle delle Mummie d’Oro, dove ne ho trovate più di 250
coperte dall’oro». E non è tutto. «Negli ultimi mesi ho lavorato molto
a un sito della ventiseiesima dinastia a Saqqara. Sono sceso in una cavità per più di 22 metri e ho scoperto che la camera sepolcrale non era
intatta, ma era già stata violata dai ladri nell’antichità. Questo fa parte
del mio lavoro. Non fermarmi mai. Entrare nei cunicoli, calarmi nei crepacci, leggere i geroglifici e capire le statue, parlare con le mummie. Anche a rischio di lavorare per mesi e scoprire poi che una tomba non è inviolata. Ma a Giza abbiamo recentemente trovato altre due tombe e spero proprio che sia confermato quanto credo, ovvero che sono intatte. Una
corbis
«Sono sicuro che quello che oggi conosciamo, quello che vediamo
esposto nei musei è niente a confronto di ciò che il deserto ha protetto. I tesori archeologici non ancora conosciuti sono ancora l’80% di ciò
che l’Egitto ha realizzato nella sua grande storia». Ripensando oggi a
quelle parole mi convinco sempre più che Zahi ha ragione. Da allora siamo rimasti costantemente in contatto. Ho seguito con interesse ogni sua
iniziativa. Anche quando ha tuonato contro quei musei internazionali
che non volevano restituire, sia pure in forma di prestito, alcuni manufatti o statue («È assurdo che gli egiziani non possano vedere, nel loro
Paese, le più importanti opere d’arte che sono state trafugate nel corso
dei secoli e oggi sono il cuore delle esposizioni all’estero. Chi non collabora a questo progetto non avrà alcuna agevolazione in futuro da noi»).
Zahi Hawass è così: un uomo vero, un lavoratore infaticabile.
«Proprio oggi», confida a Monsieur, «ero impegnato in nuovi scavi nella Valle dei Re dove, come ben sai, l’attività archeologica non conosce
tregua. Da quando mi alzo, alle 8, fino a notte, non penso altro che al
lavoro di ricerca. Ho appena il tempo di bere un tè verde, mangiare pane e formaggio, che devo subito dedicarmi ai miei scavi a Giza o Saqqara, dove presto inaugureremo il nuovo museo di Imothep». L’attività di Zahi è travolgente. La prima volta che ero con lui, stentavo a crederci. E la visita agli scavi di Giza (era stata scoperta la tomba di Kai,
alto dignitario di Khufu) o dentro la Grande Piramide non mi dette l’effettiva portata della sua vitalità. Le cose cambiarono, e non poco, quando ci trasferimmo a Luxor e in una mattinata faticai a tenergli il passo. Perché Hawass era ovunque. Entrammo nella tomba di Nefertari
(scoperta da una missione italiana nel 1904) perché volevo assolutamente
ho sentito la magia e il potere del re
è della quarta dinastia, è posizionata nella zona nord alla fine del corridoio di Menkaure, scavata nella roccia, coperta dai detriti quando gli
architetti dovevano completare il camminamento. Spero di poterla
aprire prima della fine del 2005. L’altra è in un cunicolo all’ombra della Grande Piramide, datato Antico periodo. Sono sceso a una profondità di sei metri e ho trovato alcune camere scavate nella roccia. Una di
queste conteneva un box di shabits, piccole figure che dovevano servire al deceduto nella vita oltre la morte per rispondere alle domande degli dei. Non abbiamo ancora scavato la camera sepolcrale, ma lo faremo anche questo entro la fine dell’anno». Quanto basta per avere un’agenda impegnata? Neppure per scherzo. «Vedi», dice Zahi Hawass, «c’è
un’altra e più importante nuova scoperta alla quale, come sai, sto lavorando da anni. Mi riferisco a che cosa è celato dietro la porta che abbiamo scoperto con l’ultima missione del National Geographic all’interno della Grande Piramide di Khufu. Quel giorno dovrai essere con me».
Impossibile capire quale parte del grande Egitto sia la più cara per uno
come Zahi. «Ho molti posti vicini al mio cuore», spiega l’archeologo.
«Uno è Alexandria, dove ho vissuto per cinque anni quando ero giovane. Un altro è il mio villaggio, dove tramonta il sole sul Nilo e dove guardo il fiume che dona fertilità alla mia terra. E, al Cairo, sicuramente Giza, il posto più bello, perché qui ho vissuto per anni e ho
studiato per molto più tempo». Qualche tempo fa Zahi Hawass è stato protagonista di un altro momento storico per l’archeologia mondiale:
la tomografia assiale computerizzata alla mummia di Tutankhamon.
Di quest’importante esperienza esiste un Dvd in commercio nel quale lo stesso Hawass spiega i vari passaggi del delicato test.
L ’ E M OZ I O N A N T E « FAC C I A A FAC C I A » T R A Z A H I AWA S S E T U TA N K H A M O N . L A FOTO ( I N A LTO ) È S TATA S CAT TATA I N U N ’ O C CA S I O N E S P E C I A L E : I L S E P O LC R O
D E L FA R AO N E ( M O RTO T R A I 1 8 E I 20 A N N I ) È S TATO A P E RTO P E R S OT TO P O R R E L A M U M M I A A U N A S E R I E D I TO M O G R A F I E A S S I A L I C O M P U T E R I Z Z AT E .
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anche uno come lui era emozionato
ria della ricerca di Howard Carter sin dalla prima volta che avevo letto il volume in cui il ricercatore descrive in maniera semplice, lineare e
un po’ noiosa la sua scoperta, scevra da emozioni (meno romanzata), e
ritrovarmi al cospetto della maschera di King Tut, davanti agli amuleti in oro, alle chiavi della vita, al diadema come ai sandali d’oro, al collare con testa di falco, al pettorale che raffigura Tutankhamon tra le divinità menfite, alla collana con Udjat in faience, così come alle lacrime
cobalto dei leoni del letto funerario di Mehet-ueret, allo sguardo eterno di Anubi (item 261) che aveva accolto la flebile luce della candela di
Carter nel buio dell’eterna dimora del giovane re, fu un’emozione di quelle che segnano una vita. In realtà avevo già ammirato quel tesoro una
decina d’anni prima, quando per la prima volta avevo visitato come turista quella sala. Ma ritrovarsi di notte, da solo, a contatto con gli anelli con Amon-Ra, così come davanti alla «lampada tripla» con le scene
dipinte al suo interno, valeva la benedizione definitiva di Zahi.
C’è poi un altro riferimento che lega Hawass a King Tut. Nelle immagini affascinanti degli esami Tac cui è stato sottoposto il re più famoso d’Egitto, si vede proprio Zahi estrarre dal sarcofago in quarzite,
dentro la tomba Kv61, la mummia di Tuthankamon. Al di là della sorpresa, evidente, di scoprire l’emozione anche sul volto di uno come Zahi (per la prima volta a tu per tu col Faraone fanciullo), c’è un momento
indimenticabile. Zahi scopre, appoggiato sull’addome della mummia,
un biglietto lasciato dallo stesso Howard Carter che certifica come i resti di re Tut siano stati ricollocati nella sua tomba dopo un’ispezione. Zahi a sua volta ha lasciato un proprio messaggio per il prossimo studioso che sarà chiamato a indagare, con nuove tecniche, sul Faraone.
I N A LTO , Z A H I AWA S S , M A S S I M O E S P E RTO D E L L ’ A N T I C O E G I T TO , E SA M I N A U N SA R C O FAG O A P PA RT E N E N T E A L L A V E N T I S E I E S I M A D I N A S T I A ( E D U N QU E
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Ma c’è un particolare che merita di essere evidenziato. «Trovarmi al cospetto di King Tut è stato un momento davvero importante nella mia
vita, perché volevo scoprire i segreti di questo re, visto che la gente non
sa come morì e in molti ritenevano che fosse stato ucciso. Mentre mi trovavo in Germania e negli Stati Uniti per una serie di mostre e discorsi pubblici, ho ricevuto un regalo davvero prezioso: una Ct scan machine
dal National Geographic e dalla Siemens. Ricorderò per sempre il giorno in cui sono andato a vedere il sovrano nel suo sarcofago nella Valle
dei Re. Abbiamo tolto la copertura di cristallo, ripulito dalla polvere il
sarcofago. Poi ho visto il volto di King Tut per la prima volta. Ho sentito la sua magia e il potere di questo re morto così giovane».
Già, Tutankhamon. L’ideale passaggio di testimone tra Howard Carter,
l’archeologo che scoprì nel 1922 la tomba del re, e Zahi Hawass. Molti aspetti legano Zahi a King Tut. Da un lato, il sovrintendente d’azione, pronto a scendere in un canalone, a farsi calare con una fune dentro un crepaccio, capace di fronteggiare cobra e scorpioni come di arrampicarsi sulla vetta della Grande Piramide per onorare il suo amore
per l’Egitto. Dall’altro, il Faraone fanciullo nei confronti del quale Zahi prova un sincero e profondo rispetto. Me lo confessò nella Sala del
tesoro di Tutankhamon, al primo piano del Museo del Cairo (nel gennaio 2003) quando, circondati dalla polizia che imbracciava i mitra, assistevamo all’azione di un tecnico che, arrampicatosi sulle teche che proteggono gli ori e i manufatti realizzati per il re, lo stesso Zahi consentì alla spedizione di Luxor (composta dal giornalista Umberto Cecchi
e dai fotografi Mario Marchi ed Elisabetta Cafissi) di ammirare senza
«veli» quelle meraviglie. Quella notte piansi. Perché avevo amato la sto-