Testo completo della sentenza n. 1510/05 del 18/08/2005

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Testo completo della sentenza n. 1510/05 del 18/08/2005
Sentenza n. 1510/05
Pronunziata il 09/07/2005
Depositata il 18/08/2005
Giudizio (rapporto) – Giudicato penale (relazione fra giudicato penale e azione civile) – Lesioni personali –
Patteggiamento – Accertamento non vincolante in sede civile – Infortuni sul lavoro – Infortunio (requisiti e nesso
causale) – Osservanza di norme antinfortunistiche – Rifiuto del lavoratore – Obbligo di sorveglianza del datore di
lavoro – Immanenza – Inadempienza – Esimente dell’interruzione del nesso causale – Insussistenza – Infortuni sul
lavoro – Responsabilità del datore (negligenza del lavoratore) – Rilevanza concorrente delle condotte – Principio
dell’equivalenza delle cause – Rif.Leg.artt.1226,1227,2043,2056,2059,2087 cc;artt.23,24 DPR 164/56;DPR 1124/65;
DLgs.38/00; artt.185, 590 cp; artt. 444,445,651,652 cpp; art.32 Cost;
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MODENA
SEZIONE PRIMA
Il Giudice istruttore dott. Giuseppe Pagliani, in funzione di giudice unico, ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile n. 1550/97 R. G.
promossa da
XX
- Attore rappresentato e difeso dall'Avv. C. Lancellotti del Foro di Modena
CONTRO
YY, in proprio e quale rappresentante della società Impresa Edile JJJJJ s.r.l.
- Convenuto rappresentato e difeso dall'Avv. del Foro di Modena;
in punto a: risarcimento danni.
All'udienza del 315100 la causa è stata assegnata a decisione, con termine fino al
15/6/05 per il deposito di comparse conclusionali e fino al 517105 per il deposito di
repliche, sulle conclusioni precisate dalle parti nel modo seguente:
per parte attrice:
"Voglia codesto Ill.mo Tribunale, ogni contraria istanza ed eccezione reietta,
In via principale:
- accertare e dichiarare la responsabilità ex art. 2043 e ss. c.c. del sig. YY, nella sua duplice veste
di legale rappresentante della s.r.l. Impresa Edile JJJJJ, nonché di responsabile di cantiere, in
ordine all'infortunio occorso in data I1/11/1995 al sig. XX mentre lavorava alle dipendenze della
predetta società;
- conseguentemente condannare il sig. YY a risarcire al sig. XX il danno biologico subito in
dipendenza dell'infortunio lavorativo occorsogli, danno biologico che, sulla base delle tabelle di
liquidazione elaborate dalla Giurisprudenza milanese e pubblicate nell'anno 2004, si quantifica
nella somma di Euro 542.287,81, di cui Euro 519.045,31 per danno biologico da invalidità
permanente, secondo la valutazione percentuale (100%) operata nella C.T.U. agli atti, ed Euro
23.242,50 per danno biologico da invalidità temporanea totale, pure secondo la valutazione (15
mesi) operata dal C. T U. (450 gg. x Euro 51,65).
- Condannare, altresì, il sig. YY a risarcire a XX il danno morale pure subito in conseguenza
dell'infortunio per cui è causa e che si quantifica nella somma di Euro 271.143, 75, pari al 50% del
danno biologico come sopra determinato.
- Il tutto maggiorato di interessi legali con decorrenza, quanto alle somme liquidate a titolo di
risarcimento del danno biologico da invalidità permanente, dalla data di cessazione del periodo di
invalidità temporanea, quanto alle somme liquidate a titolo di danno biologico da invalidità
temporanea, dal giorno mediano di riferimento e, quanto alle somme liquidate a titolo di
risarcimento del danno morale, dalla data dell'infortunio.
In via subordinata e salvo gravame:
- dichiarare tenuto e condannare il sig. YY a risarcire a XX a titolo di risarcimento del danno
biologico e del danno morale da lui subiti in dipendenza dell'infortunio per cui è causa, quelle
diverse, maggiori e/o minori somme, rispetto a quelle sopra indicate, che codesto Ill.mo Tribunale
riterrà di giustizia, anche per l'eventuale e denegata ipotesi che venga accertato un ricorso di colpa
dell'attore nella causazione dell'infortunio di cui è rimasto vittima in ogni caso con vittoria di
spese, competenze ed onorari di causa.";
per parte convenuta:
“Ogni diversa e contraria istanza, eccezione, deduzione reietta.
Respingersi le istanze tutte proposte dall'attore XX contro YY riconoscendosi l'esclusiva
responsabilità dello XX dell'incidente de quo.
In via subordinata salvo gravame dichiararsi che XX è il maggior responsabile dell'incidente de
quo e - conseguentemente - limitarsi la condanna del convenuto YY in quella modesta percentuale
che risulterà dovuta a seguito della espletante istruttoria e comunque nel suo intero in somma
notevolmente inferiore a quella richiesta nell'atto di citazione.
Con vittoria di spese, competenze ed onorari.
Con riserva di ulteriori deduzioni e produzioni".
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con atto di citazione ritualmente notificato in data 9/6/97, XX conveniva avanti il
Tribunale di Modena YY, in proprio e quale rappresentante della società Impresa Edile
JJJJJ s.r.l., per sentirlo condannare al risarcimento di tutti i danni fisici e morali subiti per
effetto di infortunio sul lavoro verificatosi in data 11/11/95 mentre l'attore, dipendente
della società del convenuto, si trovava al lavoro presso il cantiere allestito in (omissis)
(MO) in località (omissis).
2. Con comparsa ritualmente depositata si costituiva il convenuto che contestava la
pretesa attorea, adducendo la responsabilità esclusiva dell'attore nella determinazione
dell'evento lesivo e, in subordine, la responsabilità prevalente del danneggiato.
3. Reso impossibile il tentativo di conciliazione dall'assenza per motivi di salute
dell'attore all'udienza di trattazione, la causa veniva istruita con acquisizione della
documentazione prodotta, assunzione delle prove richieste ed ammesse ed espletamento
di una consulenza tecnica d'ufficio.
All'udienza del 3/5/05 venivano quindi precisate le conclusioni sopra trascritte, con i
termini indicati in epigrafe per il deposito di conclusionali e memorie di replica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Nel merito, va anzitutto rilevato che, perché il giudice civile possa risarcire il danno da
reato, occorre il previo accertamento della sussistenza degli elementi essenziali del reato,
o da parte del giudice penale o da parte del giudice civile in via autonoma. È tuttavia
pacifica, sul piano normativo, l'assoluta indipendenza dei due giudizi, civile e penale, sul
medesimo illecito, senza alcuna interferenza, salvo che nei casi previsti dalla legge a
norma degli art. 651 e 652 c.p.p. e, in particolare, nel caso di sussistenza di una sentenza
penale definitiva di condanna o di assoluzione.
In giurisprudenza si afferma costantemente ed in modo assolutamente conforme il
principio esposto:
- ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale l'inesistenza di una pronuncia del
giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma
degli art. 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare “incidenter
tantum” l'esistenza del reato, nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone
l'autore e procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale.
(Fattispecie relativa ad un giudizio civile in materia di risarcimento dei danni conseguenti
ad un infortunio sul lavoro preceduto da un sentenza penale cosiddetta di
patteggiamento) (Cass. S.L., 9/10/2000, n. 13425);
- nell'ipotesi in cui la legge subordini la liquidazione del danno non patrimoniale
all'esistenza di un reato, è sufficiente che sussista un fatto astrattamente configurabile
come reato, accertabile “incidenter tantum”dal giudice civile, indipendentemente dalla
sua concreta punibilità (Pretura Bologna, 29 gennaio 1994, in: Gius 1994, fasc. 14, 141);
- ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale è sufficiente che il fatto illecito,
secondo la valutazione del giudice civile, configuri astrattamente gli estremi di un reato
(Tribunale Pordenone, 18 gennaio 1994, in: Gius 1994, fasc. 11,173);
tanto che il giudice civile può accertare incidentalmente gli elementi di reato anche in
caso di improcedibilità dell'azione penale per difetto di querela (Cass. III, 21/11/2000, n.
15022) o l'estinzione del reato, per le più svariate ragioni, dall'amnistia alla prescrizione
(Cass. III, 14/2/2000, n.1643; Cass. III, 23/6/99, n. 6400; I, 19/8/95, n. 8946; III,
29/1/91, n. 877).
5. Pertanto, il giudice civile può e deve, in simili ipotesi, procedere ad accertare la
sussistenza dell'illiceità penale degli atti posti in essere dal convenuto ai danni dell'attore
e la sussistenza del reato di lesioni personali, sia sotto il profilo materiale (condotta,
evento, nesso di causalità) che sotto quello psicologico (“suitas” e colpevolezza in senso
ampio), ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 2059 C.C. e 185 C.p..
Nel far ciò, tuttavia, il giudice civile utilizza le regole probatorie proprie del diritto civile.
Nel caso di specie il procedimento penale per l'imputazione di lesioni colpose con
violazione di norme antinfortunistiche si è concluso con sentenza di applicazione della
pena ai sensi dell'art. 444 C.p.p. (cosiddetto "patteggiamento"), sulla portata della quale
nel giudizio civile si è a lungo discusso.
In proposito non si ritiene di discostarsi dall'orientamento della Corte di cassazione
civile, i cui pronunciamenti più significativi sono stati indicati anche dalle parti.
Da un lato, è assodato che la sentenza con la quale il giudice applica all'imputato la pena
da lui richiesta e concordata con il Pubblico Ministero, pur essendo equiparata a una
pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445, comma 1, C.p.p., non è
tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, e da ciò consegue che essa non ha, nel
giudizio civile, la efficacia di una sentenza di condanna; nel senso, in particolare, che da
essa non può ricavarsi la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato
e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (ad es.: Cass. III, 6/5/03,
n. 6863; Cass. S.L., 16/4/03, U. 6047).
In ordine alle ulteriori conseguenze che se ne ricava per l'utilizzo nel processo civile, tra
un atteggiamento secondo il quale “il giudice civile deve decidere accertando i fatti illeciti e le
relative responsabilità autonomamente dal giudice penale, pur non essendogli precluso di valutare,
unitamente ad altre risultanze, anche detta sentenza penale di applicazione della pena su richiesta
delle parti” (Cass. n. 6863/03 cit.), e qualche pronuncia in cui si afferma che essa “costituisce
indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale
efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una
sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione” (Cass.
S.L., 21/3/03, n. 4193), appare indiscutibilmente corretto il più approfondito
insegnamento secondo il quale la sentenza penale costituisce in ogni caso una fonte di
prova per il giudice civile, e, inoltre, implica “pur sempre un accertamento che, benché non
vincolante, deve comunque essere esaminato ed apprezzato, palesandosi capace di concorrere al
convincimento del detto giudice, il quale è perciò legittimato a sottoporlo a vaglio critico,
utilizzandolo come elemento istruttorio emerso in sede penale o, per converso, considerandolo
insufficiente per il raggiungimento della prova, ferma restando la necessità, in entrambi i casi, di
dare adeguata ragione dei motivi della scelta” (Cass. I, 24/2/04, n. 3626). Secondo il
predetto criterio ermeneutico, quindi, l'accertamento compiuto in sede penale - diverso
da quello scaturente da sentenza definitiva a seguito di dibattimento - non vincola, ed il
giudice civile deve formare il proprio convincimento con le regole del processo civile e
sugli elementi in esso versati, con valutazione che, caso per caso e di volta in volta, può
condurre a ritenere la sufficienza o l'insufficienza degli elementi emergenti dagli atti del
processo penale.
6. In concreto, la materialità dei fatti è provata in base agli atti ed alla documentazione
prodotta, ed alle testimonianze assunte. In particolare è certo che in data 11/11/1995
l'attore, dipendente del convenuto, subisce un incidente mentre si trova al lavoro presso
un cantiere allestito in (omissis) (MO) in località (omissis), cadendo da un ponteggio edile
dall'altezza di circa 7/8 metri, mentre era sprovvisto di cinture di sicurezza, in violazione
degli artt. 23 e 24 del D.P.R. n. 164/56, per mancato rispetto di specifiche norme
antinfortunistiche.
Le predette circostanze formano oggetto dell'accertamento definitivo del giudice penale
e non sono contestate tra le parti (cfr. sentenza di patteggiamento, che ha confermato
l'esattezza dell'imputazione relativa agli artt. 10-77 del D.P.R. n. 164/1956 e 590 C.p.).
Nella presente sede civile si è anche accertato che il lavoratore non indossava le cinture
di sicurezza, presenti in cantiere ed a disposizione del lavoratore, per suo espresso
rifiuto, e si discute della responsabilità del convenuto, quale datore di lavoro e direttore
di cantiere, per la violazione dell'obbligo di vigilanza.
In proposito vengono in rilievo le seguenti testimonianze:
teste S. (già dipendente della ditta Impresa Edile JJJJJ): «Si faceva una riunione annuale e si
spiegava quello che si doveva fare. Poi era risaputo di tenere le cinghie. Io non ero sempre in
cantiere, non so se il responsabile di cantiere lo abbia richiamato.»;
teste M. (dipendente e cugino del convenuto): «Si, le abbiamo sempre avute. Io faccio il
carpentiere e il manovale, un po' di tutto. (...) Non le indossava quasi mai, diceva che era un
esperto a fare i ponteggi (...) Non indossava le cinture di sicurezza. In pratica non le ha mai
indossate. Anche YY gli ha detto più volte di indossare le cinture, non solo io. Un po' tutti glielo
dicevano.».
Sul punto va affermato che il datore risponde per la violazione al suo obbligo di vigilanza
anche se il lavoratore si rifiuta di indossare le cinture; nel caso di specie, poi, anche se era
noto che quel lavoratore non voleva indossare le cinture, il dovere di vigilanza che grava
sul datare di lavoro e i suoi collaboratori imponeva al datore di impedire al lavoratore di
svolgere quelle determinate mansioni non in condizioni di sicurezza; in concreto, cioè, il
datare ha l'obbligo di non far lavorare il lavoratore che si rifiuta di indossare le cinture di
sicurezza, o impedendogli l'accesso al cantiere o, comunque, non consentendogli di
lavorare su ponteggi sospesi e, in genere, in condizioni nelle quali è previsto l'uso di quel
dispositivo di sicurezza. Soprattutto in un caso, come quello di specie, in cui il mancato
uso delle cinture di sicurezza da parte di quel lavoratore non è stato occasionale ed
improvviso, ma era frutto di un costante atteggiamento di volontà del lavoratore, già in
precedenza manifestato e messo in pratica.
Questa impostazione emerge chiaramente dalla normativa di settore ed è confermata
dalla giurisprudenza civile e penale in materia; ragionando diversamente, d'altra parte, si
consentirebbe un'illegittima esenzione di responsabilità del datore di lavoro per effetto
della volontà del lavoratore, incidente su diritti assoluti dei quali non ha la disponibilità,
come l'integrità fisica e la vita.
In giurisprudenza si veda, tra le varie:
- il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso ad un operaio se il lavoro si
svolge in condizioni di pericolo e senza la possibilità di agganciare ad un punto fisso le
cinture di sicurezza. Né vale a scriminarlo, specialmente in un'impresa di piccole
dimensioni, il fatto che sul cantiere fosse presente un capo-cantiere (rectius un caposquadra). La responsabilità del datore di lavoro e del capo-cantiere non è attenuata per
effetto del concorso di colpa della vittima, allorché questa si sia spostata per ragioni di
lavoro e non abbia potuto utilizzare la cintura di sicurezza per mancanza di un appiglio a
cui fissarla: Pretura Venezia Mestre, 14 maggio 1977;
- i datori di lavoro, quali destinatari delle norme antinfortunistiche, sono tenuti ad
ovviare ai rischi connaturali all'esercizio di attività lavorative tutelando l'incolumità dei
lavoratori addirittura contro la loro stessa volontà (Fattispecie in tema di caduta dall'alto
di operaio che aveva omesso di usare la cintura di sicurezza fornitagli dal datore di
lavoro): Cass. pen. IV, 21 marzo 1979;
i fini dell'osservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni da parte dei soggetti
obbligati, non è sufficiente porre a disposizione del lavoratore il casco protettivo o
prescrivergli l'uso di esso, ma è necessario esigere che il casco venga indossato,
escludendolo, in caso di rifiuto, dal lavoro in posti pericolosi: Cass. pen. IV, 12 marzo
1982;
- nel quadro della normativa dettata dal d.lg. 19 settembre 1994 n. 626 in tema di
bilanciamento delle responsabilità tra datore di lavoro e lavoratore, il lavoratore è tenuto
ad osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro ai fini della sicurezza, mentre il
datore di lavoro ha l'obbligo di assicurare una costante vigilanza sull'esecuzione dei lavori
nel rispetto delle norme di sicurezza e delle disposizioni preventivamente o anche
immediatamente impartite, obbligo stabilito dal legislatore anche al fine di rafforzare, in
regime sinergico, e con pari pregnanza, l'obbligo di sicurezza configurato in capo al
lavoratore, sì da sopperire alla sua minore esperienza o conoscenza in materia tecnica o
anche solo al fine di evitare conseguenze pericolose di manovre disattente o imprudenti
(Cass. pen. IV, 12 luglio 2002, n. 37248).
Solo in pochi casi particolari, come quello citato dalla Difesa del convenuto, non si
ravvisa responsabilità perché, in sostanza, si interrompe il nesso causale: nel caso di Cass.
S.L. 10/7/96, n. 6282 il lavoratore, normalmente esperto, aveva compiuto una manovra
improvvisa, estremamente pericolosa e non necessaria per l'esecuzione del compito
affidatogli, con conseguente imprevedibilità della stessa.
Nel caso di Cass. pen. IV, 18/2/93, Si è esclusa la responsabilità (per una folgorazione)
del datore di lavoro che aveva dato disposizioni di attendere il suo arrivo prima di
effettuare i collegamenti con la rete elettrica, ordine contravvenuto dai lavoratori con
autonoma decisione.
Cass. pen. IV, 22/10/99, n. 12115, ipotizza come motivo di esclusione di responsabilità
un comportamento del lavoratore avventato ed esorbitante rispetto alle normali
attribuzioni, interrompente il nesso di causalità, che si pone come serie causale autonoma
rispetto alla precedente condotta del datore di lavoro; ma nella specie la Corte di
cassazione, ravvisando un comportamento avventato ma non esorbitante, ha annullato
con rinvio la sentenza impugnata perché venisse compiutamente accertato
l'adempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi su di lui gravanti, specificati
in: 1) doveri di prevenzione tecnica ed organizzativa; 2) doveri di prevenzione
informativa e formativa; 3) doveri di vigilanza e controllo.
Decisioni, queste ultime, che, delineando le eccezioni, confermano la regola dei principi
sopra ricordati.
7. Sulla base delle risultanze di causa va, altresì, rilevato che le modalità concrete
dell'incidente sono decisive per attribuire la responsabilità del convenuto, come sopra
evidenziato, ma anche per attribuire una consistente percentuale di responsabilità nella
determinazione dell'evento al danneggiato stesso.
Infatti, se, come già rilevato, emerge che l'attore non ha subito l'incidente esclusivamente
per effetto di una sua condotta autonoma, non determinata da altri, e tale da escludere la
rilevanza della condotta colpevole del convenuto, è, d'altronde, emerso che il
danneggiato ha gravemente violato le regole di prudenza e previsioni specifiche di legge,
e che la violazione posta in essere dal danneggiato stesso ha avuto, purtroppo, efficacia
causale determinante nella produzione delle conseguenze dell'evento lesivo. Come già
osservato, in altri termini, la condotta del lavoratore non assume connotati tali da far
ritenere esclusa la sussistenza di un nesso causale tra la condotta dei convenuto e
l'incidente in concreto verificatosi, in quanto non si è trattato di una iniziativa non
richiesta, imprevedibile, inevitabile e repentina autonoma mente assunta dal danneggiato
stesso.
Nel caso di specie può, invece, dirsi che la produzione dell'evento dannoso è riferibile a
più azioni od omissioni (del lavoratore e del datore-preposto), per cui opera il c.d.
principio dell'equivalenza delle cause, senza poter riconoscere l'esclusiva rilevanza
giuridica, rispetto alla produzione dell'evento, dell'una o dell'altra condotta.
Nel caso di specie, dunque, in applicazione del combinato disposto degli artt. 1227, 2° c.,
e 2056 C.c. (cfr., sull'applicabilità alla responsabilità aquiliana: Cass. 28/3/97, n. 2763;
16/9/96, n. 8281), va ribadito, da un lato, che il danno che taluno arreca a sé medesimo
non può essere posto a carico dell'autore della causa concorrente, essendo documentato
il comportamento non diligente ed imprudente del danneggiato; e, dunque, sulla base
delle considerazioni esposte, si stima equo valutare i rispettivi ambiti di colpa in misura
equivalente, e pertanto in pari misura (50% a carico di ciascuna delle due parti).
Logica conseguenza sarà la riduzione, nei limiti della percentuale sopra indicata, di
quanto liquidato a titolo di risarcimento, nei confronti di parte attrice.
Ciò posto, occorre determinare l'ammontare del risarcimento dovuto, al quale é limitato
l'oggetto del contendere.
In proposito va, anzitutto, rilevato che il D.Lg. n. 38/2000 (che, all'art. 13, ha inserito il
danno biologico nella copertura assicurativa pubblica) non si applica al caso di specie
perché l'incidente è precedente all'entrata in vigore del nuovo regime (Cass. S.L.
21/3/02, n. 4080; S.L. 30/7/03, n. 11704; S.L. 23/8/03, n. 12387; S.L. 14/2/04, n.
2889; S.L. 10/3/04, n. 4920).
Per cui, in base alla disciplina di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, applicabile per il periodo
antecedente all'entrata in vigore del D.Lg. n. 38/2000, l'indennizzo a carico dell'Inail
erogato per l'infortunio sul lavoro non comprende il danno biologico (esso, infatti, si
riferisce esclusivamente alla riduzione della capacità lavorativa e, anche in base
all'interpretazione della Corte cost. - sentenze n. 319 del 1981, n. 87 e 356 del 1991 -,
non comprende una quota volta a risarcire il danno biologico, atteso che la
configurabilità concettuale della duplice conseguenza -patrimoniale e non patrimoniale del danno alla persona non significa che il diritto positivo prevedesse un "danno
biologico previdenziale patrimoniale": Cass. n; 12387/03, cit.).
Quindi non si pone un problema di liquidazione del c.d. danno differenziale, dovendo il
danno biologico essere risarcito secondo i consueti criteri e per intero.
9. In ordine alla quantificazione dei danni, parte attrice chiede il risarcimento del danno
biologico da invalidità permanente e del danno morale.
Anzitutto, spetta la liquidazione del danno alla persona, da qualificarsi senz'altro come
ingiusto ai sensi degli artt. 32 Cost. e 2043 C.c., perché lesivo del diritto alla salute ed alla
integrità psicofisica. La liquidazione di tale danno, non esistendo criteri sicuri ed
attendibili per la valutazione del valore biologico dell'uomo, non può che essere condotta
in via equitativa, secondo parametri che tengono conto oltre che dell'età, del sesso e di
ogni altro indice sociale, culturale ed estetico che consente di adeguare in concreto il
risarcimento al fatto.
Ad integrare la valutazione equitativa del giudice soccorre, inoltre, la consulenza tecnica
d'ufficio, che ha accertato che la lesione ha prodotto una invalidità temporanea assoluta
di quindici mesi e la sussistenza di postumi a carattere permanente quantificabili in una
totale riduzione dell'integrità psicofisica (nell'ordine del 100%).
Il danneggiato, nato il 17/10/1950, è affetto attualmente, e senza prospettive di
miglioramento, da «grave paraparesi degli arti inferiori con anestesia in territorio S1 ed
ipoestesia in L4 -L5 con marcata ipotonotrofra muscolare a carico degli arti inferiori e lassità
legamentosa e conseguente incapacità alla deambulazione autonoma che è resa possibile solo con
l'ausilio di ortesi e deambulatore e solo per brevi spostamenti; vescica neurologica iperriflessica
con necessità di catetere urinario e permanenza ed uso di pannolone; disturbi sfinteriali con
ritenzione fecale ed impotentia coeundi».
Tenuto, quindi, conto degli elementi sopra indicati, dell'epoca del fatto e delle tabelle e
correntemente applicate da questo Tribunale, nella fattispecie appare equo liquidare €.
55,00 per ogni giorno di invalidità totale temporanea (giorni 450).
Per quanto riguarda l'invalidità permanente indennizzabile, sulla base della consulenza
tecnica d'ufficio essa viene stimata nel 100%; secondo il predetto criterio del calcolo di
valutazione a punto, tenuto conto del predetto grado di invalidità e dell'età della vittima
all'epoca dell'evento dannoso (anni 45 e mesi 1), e con l'aggiunta dell'invalidità
temporanea, la determinazione della cifra per detto titolo di danno consta, dunque, in €.
276.887,50 (importo già ridotto tenendo conto della decurtazione per il concorso di
colpa del danneggiato pari al 50% sulla base di quanto esposto al punto 7.).
10. Quanto al danno morale, come già rilevato l'esame del materiale probatorio descritto
ai punti precedenti consente di affermare con certezza l'illiceità anche penale e la
sussistenza degli elementi del reato di lesioni colpose in danno dell'attore, sia sotto il
profilo materiale (condotta, evento, nesso di causalità) che sotto quello psicologico
(“suitas” e colpevolezza in senso ampio), ai sensi e per gli effetti del combinato disposto
degli art. 2059 C.C. e 185 C.p., nel senso che l'evento di cui è causa ha prodotto anche
un danno non patrimoniale che è anch'esso da valutare necessariamente in sede
equitativa ai sensi dell'art. 1226 C.c..
Fatto il dovuto riferimento ai vari parametri indicati da concorde giurisprudenza, anche
al fine di adeguare il ristoro al caso particolare, e valutata la intensa incisività del danno
morale subiettivo nel caso concreto, nonché la particolare gravità delle condizioni
complessive di vita e la qualità della vita residua del soggetto leso, il danno morale può
essere equamente stimato nel medesimo importo liquidato per il danno biologico da
invalidità permanente e, quindi, liquidato nella somma di €. 262.262,50 (importo già
ridotto tenendo conto della decurtazione per il concorso di colpa del danneggiato pari al
50% sulla base di quanto esposto al punto 7.).
11. La somma complessiva risultante dalle varie poste di danno va rivalutata in moneta
attuale e sul dovuto va calcolato il danno da ritardo, con applicazione degli interessi in
misura legale (che, in base alla normativa vigente, viene variato in relazione alle
dinamiche dei tassi correnti sul mercato), calcolati dalla data del momento generativo
della obbligazione risarcitoria sino al momento della liquidazione, non sulle somme
integralmente rivalutate (il che condurrebbe ad una duplicazione delle voci risarcitorie,
come affermato nella nota Cass. S. U. IL 1712/95), ma sulle somme rivalutate via via
con periodicità annuale (cfr. Cass. 20.6.1990, n. 6209).
Alla stregua di tutto quanto sopra esposto, la complessiva determinazione di quanto
dovuto a parte attrice a titolo di risarcimento del danno (punti 9. e 10.) è la seguente:
A) Danno liquidato al 11/11/1995:
B1) Interessi maturati:
B2) Rivalutazione maturata:
B) Interessi e rivalutazione totali (B1 + B2):
Importo totale (A + 13) dovuto:
€. 450.856,79
€. 166.883,63
€ 93.514,47
€. 260.398,10
€. 711.254,89.
Le spese di causa seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P. Q. M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando,
dichiara obbligato e condanna YY, in proprio e quale rappresentante della società Impresa Edile
JJJJJ s.r.l., a corrispondere a XX la somma di G. 711.254,89;
dichiara altresì obbligato e condanna YY, in proprio e quale rappresentante della società Impresa
Edile JJJJJ s.r.l., a rifondere a XX le spese di giudizio, che liquida in complessivi €. 8.500,00, di cui
€350,00 per spese, €. 2.650,00 per competenze ed €. 5.500,00, per onorari, oltre p rimborso per
spese generali, IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Modena, il giorno 9/7/05. Consegnato per il deposito in Cancelleria il 27/7/05
Il Giudice
(Dr. G. Pagliani)
Depositato in Cancelleria il 18/08/2005