Visite guidate per le scuole Dossier di approfondimento sulle mostre
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Visite guidate per le scuole Dossier di approfondimento sulle mostre
Visite guidate per le scuole Dossier di approfondimento sulle mostre Parallelamente al programma espositivo, Fondazione Fotografia propone per le classi delle scuole secondarie di secondo grado percorsi di visita guidata ideati appositamente per i ragazzi. A partire dalle tematiche presentate nelle mostre, le visite si configurano come occasioni di conoscenza e di riflessione sui diversi codici visivi e le implicazioni dell’immagine, sul lavoro degli artisti e la valenza della fotografia nella cultura contemporanea. Per tutte le classi l’ingresso alle mostre è gratuito, sia nel caso di percorsi guidati, sia nel caso di visite indipendenti. È possibile prenotare visite guidate con le classi anche al di fuori dell’orario di apertura degli spazi espositivi. Info e prenotazioni visite guidate: Ufficio Mostre Chiara Dall’Olio, Claudia Fini [email protected] Tel 059 239888 Ex Ospedale S. Agostino, 13 settembre 2013 – 2 febbraio 2014 La mostra presenta per la prima volta in Europa l’opera di Walter Chappell (1925-2000), un fotografo che ha fatto della ricerca spirituale, nell’arte come nella vita, il fulcro primario della sua esistenza. Il suo pensiero e la sua visione del mondo si muovono dalle ricerche intimiste sviluppate tra gli anni Cinquanta e Settanta da artisti come Minor White, di cui Chappell fu allievo, e Paul Caponigro, per poi approdare a un territorio personalissimo, in cui la fotografia diventa la narrazione di un’esperienza di vita a stretto contatto con la natura e il mondo, intesi come campo d’azione e specialmente d’interazione. Prototipo dell’artista hippie, Chappell ha sempre rifiutato il concetto di arte come business, tenendosi lontano da gallerie e circuiti commerciali. Ha condotto un’esistenza appartata, bohemien e primitiva, all’insegna della celebrazione dell’amore come energia che regola il cosmo e della vita come flusso ciclico. La carriera di Chappell nel campo della fotografia d’arte prende avvio dall’intuizione di una realtà più profonda combinata con una tecnica fotografica estremamente precisa, che culmina in ciò che lui stesso definisce “camera vision”. Spirito curioso e anticipatore dei tempi, Chappell ha fotografato numerosi soggetti, ma a stimolare più di ogni altra cosa la sua visione interiore è stata la natura evocativa del corpo umano, spesso in associazione alle forme del paesaggio e della vegetazione. Proseguendo nella sua ricerca, Chappell ha cercato di comprendere l’origine del flusso creativo, di quell’energia che scorre attraverso le cose e le collega come un filo sottile, dando loro senso. Le scoperte di Chappell possono esprimersi in un autoritratto riflesso sul vetro di una finestra o negli infiniti riflessi della luce che danza sulla superficie dell’acqua, nella carne palpitante del ventre di una donna che partorisce una nuova vita, o, ancora, nei movimenti aggraziati della terra erosa dal tempo. Tematiche correlate - La fotografia come indagine interiore La rappresentazione del corpo, del nudo e della sessualità maschile e femminile Corrispondenza tra corpo umano, natura e paesaggio Lo sviluppo della beat generation in USA Le correnti mistico-spirituali che si diffondono in America negli anni ’50-‘60 Biografia Walter Chappell (Portland, Oregon, 1925 - El Rito, New Mexico, 2000) studia disegno architettonico e composizione musicale. Dal 1943 al 1946 presta servizio per l’Esercito Americano, nella 13° Airborne Division. Un incontro con Minor White nel 1947 rinnova l’amicizia già avviata nel 1942, anche se dovranno trascorrere diversi anni prima che la fotografia diventi l’interesse dominante dell’autore, a quell’epoca diviso tra musica, pittura e scrittura. È infatti del 1948 la pubblicazione della raccolta di sue poesie Logue and Glyphs. Nel 1957 si stabilisce a Rochester, nello Stato di New York, per perfezionare a contatto con Minor White le proprie tecniche di stampa fotografica. Entra quindi nello staff della George Eastman House e partecipa al lavoro editoriale e di scrittura della rivista Aperture, oltre ad assistere White nei primi workshop. Nel 1957 produce il libro Gestures of Infinity, una raccolta di immagini e poesie. Nel 1960 George Braziller pubblica Under The Sun, volume fotografico che accosta le opere dei tre artisti Walter Chappell, Nathan Lyons e Syl Labrot. Nel 1962 Chappell è tra i fondatori della Association of Heliographers Gallery Archive, di cui dirige le attività sino al 1965. Trasferitosi a Big Sur, in California, realizza su commissione degli MGM Studios una serie di ritratti a Sharon Tate, Elizabeth Taylor e Richard Burton. Il crescente interesse per l’immaginario del corpo umano all’interno della natura così come per la produzione di film sperimentali, lo spingono a spostarsi nella contea del Taos, nel New Mexico, dove scatta fotografie di nudo e di paesaggio, approfondendo inoltre lo studio delle cerimonie rituali nelle comunità di nativi americani. Tra il 1968 e il 1974 si stabilisce a San Francisco, dove inizia a sperimentare con la fotografia elettronica. L’esito di questo lavoro confluirà nel Metaflora Portfolio, prodotto nel 1980. Nel 1977 riceve la prima di tre borse di studio dal National Endowment for the Arts. Si trasferisce quindi a Hilo, nelle isole Hawaii, dove accetta una residenza d’artista presso il Volcano Arts Center e dove rimane fino al 1979. Rientrato in New Mexico, inaugura nel 1981 una grande retrospettiva presso il Colorado Photographic Arts Center di Denver. Lo stesso anno compone inoltre il Solar Incarnate Portfolio, rimasto inedito. Nel 1987 si trasferisce nel remoto villaggio di El Rito, nel New Mexico, che diventerà la sua residenza definitiva. Anche da qui continua a tenere workshop e conferenze, e a partecipare a diverse mostre. Gli ultimi anno lo vedono intento alla preparazione di Collected Light, una retrospettiva monografica che avrebbe dovuto presentare l’intera sua opera fotografica. Percorso di mostra 1. La lunga amicizia con Minor White condiziona profondamente la vita di Walter Chappell e accompagna il suo progressivo avvicinarsi alla fotografia quale strumento creativo. Grazie a lui entra in contatto con altri fotografi - Edward Weston, Ansel Adams, Imogen Cunnigham, oltre a Beaumont e Nancy Newhall - e percepisce le straordinarie potenzialità dell’immagine fotografica nell’offrire una diversa lettura del mondo. L’influenza di White, come di altri autori legati alla George Eastman House di Rochester, è ben riscontrabile nel corpo di opere realizzate dall’autore tra i primi anni Cinquanta e i primi Sessanta, andate tuttavia in gran parte distrutte con l’incendio che divampò nel 1961 nella sua casa di Wingdale, nello Stato di New York. Le forme variegate della natura offrono a Chappell un campo perfetto per l’esercizio dello sguardo. La grande distesa dell’oceano, i cieli, le nuvole, le rocce e i rif lessi di arbusti sull’acqua, assumono però significati ben diversi da come immediatamente appaiono, richiamando una realtà interiore che alle volte sembra aver bisogno di essere solo risvegliata. Le sue immagini mostrano una realtà “altra”, che sovente non siamo in grado di percepire, capace però di aprire una porta sul mistero della vita, quel fluire incessante di materia organica e inorganica rispetto al quale l’essere umano si pone in ascolto costante, alla ricerca di un equilibrio fra sé e il mondo. 2. Nel 1962 Chappell fonda e dirige la Association of Heliographers Gallery Archive, attiva sino al 1966 e situata presso la Lever House Gallery di New York. I membri fondatori del gruppo sono, oltre allo stesso Chappell, Paul Caponigro, Carl Chiarenza, William Clift, Marie Cosindas, Nicholas Dean e Paul Perticone. Negli anni si iscriveranno oltre quaranta fotografi, tra i quali anche Nathan Lyons, Roy DeCarava, Jerry Uelsmann, W. Eugene Smith, Harry Callahan e Wynn Bullock. L’interesse primario dell’associazione è quello di indagare la natura nelle sue forme più astratte e nascoste, ben oltre la semplice meccanica della pratica fotografica, per arrivare a una comprensione del mondo attraverso il processo di camera vision. Il termine “Eliografia” è preso a prestito direttamente da Nicéphore Niépce e dalla sua celebre definizione del 1829 della fotografia come “scrittura solare”, reinterpretata secondo una doppia ambivalenza: helyos non è solo l’astro luminoso che impressiona la realtà esterna sulla pellicola, ma anche il sole interiore, quello del fotografo, reso manifesto grazie alla visione combinata dell’occhio umano e del processo fotografico. 3. Nel 1960 Walter Chappell pubblica insieme a Nathan Lyons e a Syn Labrot il volume fotografico Under the Sun. In questo libro per la prima volta confluiscono in limpida forma di immagini gli insegnamenti del filosofo e mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjief, che il fotografo di Portland fa propri mediante il processo di camera vision. Come spiega lui stesso nel volume, “Camera vision opera come un filtro intelligente tra l’occhio umano e la totalità della conoscenza, in un momento di consapevolezza. Non c’è bisogno di alcun apparecchio fotografico per farlo, solo la pura sensibilità della mente umana. Per fermare e rifinire questo flusso di impressioni creando una nuova immagine indipendente, uso la mia fotocamera con la stessa attenzione e immediatezza con cui ho imparato a praticare lo sguardo. La fotocamera mi permette di fermare la mia visione nello spazio, precisamente nel momento in cui la mia coscienza intuisce la presenza di una realtà più importante, manifestazione della vera essenza della Vita. Se correttamente espressa nella fase di stampa, l’immagine così ottenuta risulterà la fusione di due mondi opposti all’interno di un unico tutto.” E ancora, “l’arte della creazione, attraverso qualsiasi mezzo si decida di utilizzare, è lo sforzo di unificare la scoperta della Natura con la progressiva scoperta di sé, sfruttando ogni opportunità possibile per creare nuove immagini di conoscenza per i propri sensi, gli stessi che possono ora aiutare, ora impedire la crescita della conoscenza.” 4. La famiglia ha un ruolo fondamentale nella vita artistica di Chappell: ne segue i molteplici spostamenti e ne condivide lo stile di vita così come le necessità creative, determinandone in taluni casi punti di svolta e nuovi sviluppi. Pur non rispondendo alle classiche convenzioni di vita famigliare, il suo rapporto con i figli - sei naturali, più una acquisita, avuti da tre mogli diverse - è segnato da profondo affetto. La visione famigliare di Chappell è idealmente condensata in due immagini scattate nel 1962, entrambe realizzate a Wingdale, nello Stato di New York, e incluse più tardi nel Solar Incarnate Portfolio: Mother and Son e la discussa Father and Son, scattata in collaborazione con la moglie Nancy. Ciò che interessa all’artista non è tanto il patrocinio del nucleo familiare e della sua unità, quanto l’idea di forza vitale e generativa da esso emanata. La stessa forza che è capace di manifestare il corpo nudo - elemento fatto di carne e quindi tangibile, capace di suscitare tenerezza come eccitazione - quando è mostrato senza falsi pudori, nella sua formosità e purezza originaria. 5. Sul finire degli anni Sessanta fino ai primi Settanta alcune composizioni riportano l’eco della cultura hippy: Megan James che beve acqua dalle rocce con il fidanzato Garner, Brannaman e Dustin che passeggiano nudi, due giovani che si abbracciano in una casa di Valarde, nel New Mexico. Negli stessi anni la rappresentazione del nudo diviene ancora più esplicita, specie nella figurazione degli organi sessuali maschili e femminili. I primi, protagonisti della serie Lingam, sono oggetto di riti indiani propiziatori: rifuggendo ogni intento documentaristico, l’autore li rende icone di un’esperienza di vita che è indivisibile da quella artistica. Allo stesso modo è da interpretare anche la vulva femminile, più volte ritratta nelle sue immagini e rappresentata come luogo da cui la vita proviene e continuamente si rigenera. 6. Inizialmente indagata nella linearità delle sue forme, la rappresentazione del corpo è assunta come metafora dell’energia vitale, espressa nella purezza delle relazioni fra gli esseri umani, così come fra questi e la natura che li avvolge. A differenza di Minor White - che utilizza segni e forme quasi astratte per tradurre le pulsioni più intime dell’animo umano, ma che quando affronta il nudo tende piuttosto a celebrarne la bellezza e la sinuosità scultorea – Chappell ostenta il corpo nella sua postura spontanea, incurante dell’eleganza del gesto e volto piuttosto a rappresentarne la vitalità e l’elasticità di movimento. Contestualmente prosegue la produzione di paesaggi, ove la fisicità degli elementi appare come una tabula rasa su cui scrivere la propria storia, una sorta di humus originario dove rocce e fiumi si combinano e assumono le sembianze di esseri viventi. Uomo e donna si riconoscono così metaforicamente nell’acqua, in quell’acqua che a tutto dà inizio: Female Water Torso e Male Water Torso. 7. La sintesi dei diversi temi sviluppati da Chappell è rappresentata nella maquette preparatoria del volume World of Flesh, composto nel 1966, anno della nascita del suo quarto figlio Piki. Rifiutato da diversi editori per la scabrosità di molte tavole e dunque mai pubblicato, il progetto del libro comprende 42 pagine e 98 fotografie realizzate tra Wingdale, Big Sur e Taos ed è il vero manifesto della poetica di Walter Chappell, ora giunto alla maturità artistica. Come su un ordito, in esso trovano naturale collocazione tutti i temi e i soggetti sino ad allora investigati, così come s’intravedono le imminenti declinazioni che di lì a poco emergeranno. World of Flesh è la storia di un mondo dove la carne significa vita, ed è pertanto la storia della vita per immagini: degli organi sessuali grazie ai quali scaturisce, mostrati nella loro essenziale naturalezza, della libera gestualità che caratterizza il rapporto degli adulti con neonati e bambini, e ancora dell’amore, del rispetto e dell’intimità che lega fra loro gli adulti, così come della relazione semplice e genuina che tutti hanno con l’ambiente incontaminato nel quale vivono e con cui condividono in armonia la preziosità della vita. 8. Figura umana e paesaggio continuano ad essere i campi d’indagine privilegiati da Chappell anche nella seconda parte della sua produzione artistica, quando l’autore rallenta la ricerca personale in favore della gestione di workshop fotografici e della pratica meditativa. Nel suo lavoro, le due tematiche si avvicinano ulteriormente l’una all’altra, finendo sovente con il sovrapporsi e completarsi. Le pance post parto e gli addomi sfatti non vengono nascosti, bensì celebrati e resi importanti: sono terre arate, seminate, ove qualcosa è germogliato e si è sviluppato fino a rendersi indipendente. Su di essi restano i segni della gestazione, di ciò che è divenuto altro, come i sedimenti di lava fotografati alle Hawaii, ripresi nel 1977. Allo stesso modo le forme delle rocce e degli aridi paesaggi del New Mexico divengono diretta trasposizione delle forme umane: è il caso di City of Rocks del 1981 e dell’ancora più esplicita Stone Kiss, scattata nel 1989, dove due massi di roccia sembrano unirsi in un amoroso bacio. 9. Nel 1973 Walter Chappell dà avvio ai primi esperimenti con la fotografia elettronica grazie a una speciale tecnica basata sull’alto voltaggio con cui fotografa piante, foglie e fiori. Sui neri fogli fotografici appaiono come per incanto le immagini che costituiscono la raccolta Metaflora, prodotta per la maggior parte tra il 1973 e il 1976. “Il concetto che sovrintende la mia ricerca Metaflora”, spiega lui stesso nel testo che accompagna il lavoro, “giace in profondità, nello stupore e nelle esperienze vissute da ragazzino quando vivevo a stretto contatto con le piante”. Le immagini appartenenti questa serie sono certamente fra le più conosciute di Walter Chappell, per il loro particolare procedimento di stampa e per la meraviglia che sono ogni volta capaci di provocare nello spettatore. Ciuffi di prezzemolo, foglie di cicuta e di nocciolo, ramoscelli di rosmarino, petali di begonia, foglie di felci, erba cristallina, avocado, fiori di nasturzio, fiori di girasole e tanti altri ancora - in gran parte raccolti nella californiana Mill Valley e nella contea di Sonoma – illuminano l’incombente oscurità della carta emulsionata facendola vibrare come se la corrente elettrica ancora scorresse nei piccoli filamenti racchiusi dentro le loro sagome: è la rappresentazione della vita che in essi fluisce, la medesima energia cosmica che governa uomini e cose, animali e piante, l’universo organico come quello inorganico. 10. L’interesse per la cultura dei nativi americani accompagna tutta la vita di Walter Chappell e ne influenza profondamente il lavoro artistico e le scelte personali. Nella seconda metà degli anni Sessanta Chappell soggiorna nella contea di Taos, nel New Mexico, con l’obiettivo di fotografare gli altopiani selvaggi del Southwest e di studiare la vita cerimoniale degli Indiani d’America. Esordisce nello stesso periodo come cineasta, lavorando a una serie di film in 16 mm per sperimentare le immagini in movimento: durante i sette anni successivi ne risulteranno sei cinepoemi e due documentari. Nel 1971, in collaborazione con il fotografo e film-maker Blaine Ellis, realizza il documentario Ya-Ta-Hey Alcatraz!. Il film, della durata di appena 27 minuti, ripercorre l’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte di 79 nativi capeggiati da Richard Oaks che, citando il trattato di Fort Laramie del 1868, rivendicavano l’inutilizzato territorio federale. L’occupazione durò ben diciannove mesi, dal 20 novembre 1969 all’11 giugno 1971, quando gli agenti dell’FBI fecero sgomberare pacificamente gli occupanti dall’isola. Ex Ospedale S. Agostino, 13 settembre 2013 – 2 febbraio 2014 La mostra illustra come a Modena la fotografia, nei suoi oltre 170 anni di vita, sia sempre stata praticata ad altissimi livelli, facendo di questo territorio uno dei luoghi maggiormente sensibili all’arte dei sali d’argento. Dagli atelier Orlandini, Sorgato, Bandieri, Andreola, ai grandi fotoamatori come Ferruccio Testi e Francesco Carbonieri, le oltre settanta immagini selezionate non intendono semplicemente raccontare la storia della fotografia modenese o delle trasformazioni urbanistiche del territorio, quanto piuttosto offrire l’occasione di apprezzare la qualità e il valore artistico degli autori che tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento pongono le basi per l’affermarsi di una radicata cultura dell’immagine. In innumerevoli occasioni infatti è stato chiesto ai fotografi del passato di raccontarci qualcosa della storia delle città. Come sono mutate nel tempo, le modifiche architettoniche che ovunque si sono realizzate per “modernizzare” l’impianto urbanistico e accogliere il traffico delle automobili e dei tram, le grandi aperture causate dal “piccone risanatore” fascista. Poi, dagli archivi dei fotografi fin de siècle abbiamo tratto la storia del costume, la rappresentazione del potere, così come la vita quotidiana, fino alla cronaca delle partite di calcio della centenaria squadra cittadina. Per Modena sono state poche le occasioni in cui si è guardato ai fotografi della prima metà del ventesimo secolo come autori, più che come narratori. Si è voluto quindi con questa mostra rendere omaggio all’arte fotografica che dalla fine dell’Ottocento è la vivace produttrice di una cultura visuale di cui Fondazione Fotografia è l’ultimo prodotto in ordine di tempo. I professionisti - Orlandini, Sorgato, Bandieri e Andreola - ci restituiscono l’immagine ufficiale della città fin de siècle, dove i monumenti appaiono isolati dal contesto come in un ideale catalogo architettonico e in cui i cittadini compaiono quasi per caso. Gli anni del fascismo pongono poi uno stretto controllo e una forte censura alle scelte personali dei fotografi, che trasformano la loro camera nell’occhio del regime. I fotoamatori come Testi e Carbonieri, entrambi appartenenti alla fascia benestante della società modenese, scelgono invece di fotografare la vita quotidiana, le persone e i loro hobby, con la freschezza e la libertà di chi fotografa per il proprio personale interesse. La somma della visione di questi autori, amatori e professionisti, che non si vogliono in alcun modo differenziare per meriti ma solo per la specificità del loro operato, ci restituisce la pluralità e la ricchezza del linguaggio fotografico a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Tematiche correlate - Storia della fotografia e delle tecniche - Le modifiche urbanistiche della città a cavallo fra il XIX e il XX secolo - Il ritratto come prima diffusione della fotografia su vasta scala La ricchezza del linguaggio fotografico Testo da catalogo di Chiara Dall’Olio In innumerevoli occasioni è stato chiesto ai fotografi del passato di raccontarci qualcosa della storia delle città che avevano ritratto. Come sono mutate nel tempo, le modifiche architettoniche che ovunque si sono realizzate per “modernizzare” l’impianto urbanistico e accogliere il traffico delle automobili e dei tram, le grandi aperture causate dal “piccone risanatore” fascista. Poi, dagli archivi dei fotografi fin de siècle abbiamo tratto la storia del costume, la rappresentazione del potere, così come la vita quotidiana, fino alla cronaca delle partite di calcio della centenaria squadra cittadina. Per Modena sono state poche le occasioni in cui si è guardato ai fotografi della prima metà del ventesimo secolo come autori, più che come narratori. Si è voluto quindi con questo volume rendere omaggio all’arte fotografica che dalla fine dell’Ottocento è la vivace produttrice di una cultura visuale di cui Fondazione Fotografia è l’ultimo prodotto in ordine di tempo. Gli autori che sono stati scelti come i più rappresentativi della fotografia modenese fra il 1870 e il 1945 sono: Sorgato, Orlandini, Bandieri, Andreola, Testi, Carbonieri. Citarli solo con il loro cognome è d’obbligo perché in realtà spesso dietro al cognome si cela non un singolo fotografo, ma una vera e propria dinastia familiare dove il mestiere è stato tramandato per due o tre generazioni come nel caso degli studi Sorgato, Orlandini e Bandieri. Il gruppo di autori è quindi più ampio rispetto ai sei nomi presentati perché all’interno di questi atelier commerciali lavoravano diversi fotografi, apprendisti e ritoccatori, che a volte è possibile identificare non solo nominalmente, ma anche a livello di produzione autoriale. Altre volte invece le informazioni a nostra disposizione, si tratti di fonti orali, di materiale d’archivio o di ricerche già pubblicate, non consentono l’individuazione certa dell’autore della singola immagine. In mancanza di attribuzioni certe, la scelta di utilizzare il nome collettivo dello studio appare pertanto la più corretta per citare i fotografi che vi hanno lavorato. La situazione è in parte analoga anche per Ferruccio Testi che, benché praticasse la fotografia come passatempo, realizzò moltissimi servizi fotografici sportivi insieme all’amico Odoardo Gandolfi. Gli archivi dei due per diverse vicissitudini vennero uniti e a oggi anche per loro è difficile riconoscere con esattezza l’autore delle immagini. Nessun problema di attribuzione invece per le fotografie di Francesco Carbonieri, fotoamatore, e per quelle di Salvatore Andreola, professionista e artista del ritratto fotografico che ha lasciato bellissime stampe autografate. I fotografi modenesi attivi nell’arco temporale preso in esame, professionisti e non, sono molto più numerosi rispetto alla selezione qui presentata. Lo scopo di questa mostra, come già detto, non è quello di ricostruire la storia della fotografia, né la storia della città, e si è quindi deciso di selezionare solo una ristretta cerchia di autori scegliendo quelli che, per molteplici ragioni, hanno avuto un ruolo più importante nel tramandare la cultura dell’arte fotografica e contemporaneamente si sono distinti per il valore delle opere realizzate. Non solo, si è cercato di porre sullo stesso piano autori professionisti e fotoamatori, per offrire una panoramica la più completa possibile di cosa è stata l’arte dei sali d’argento fino alla prima metà del ventesimo secolo. Un’altra motivazione che è stata fondamentale nella scelta dei fotografi presentati, è relativa alla vastità e alla completezza degli archivi di ciascun autore, per i quali è stato quindi possibile analizzare un notevole numero di immagini per arrivare alla selezione delle fotografie più rappresentative. A tal proposito si segnala che si è cercato, quando possibile, di scegliere fra le migliaia di immagini di ciascun autore i positivi originali che mostrano sia il valore dello scatto che quello della sua resa in stampa, restituendo così l’abilità del fotografo nella maniera più completa. Per alcuni fotografi, come Orlandini, Bandieri e Carbonieri, questo ha comportato una drastica riduzione delle opzioni, poiché gli archivi detengono in massima parte immagini negative; per Testi si è dovuti ricorrere obbligatoriamente a ristampe moderne, essendo totalmente assenti i positivi originali all’interno del suo archivio di lastre e pellicole. Per Salvatore Andreola, invece, non è rimasto l’archivio dei negativi (perduti), ma fortunatamente l’autore ha donato al Museo Civico d’Arte di Modena oltre duecentocinquanta bellissime stampe che raccontano l’evoluzione artistica del suo lavoro. La selezione delle opere dello studio Sorgato ha comportato la ricerca in diverse collezioni e, fondamentale, è stata la collaborazione degli eredi che detengono ancora moltissimo materiale. Al termine di questo volume sono presenti le biografie di tutti gli autori presentati, ma si vuole tracciare qui un breve cenno delle vicissitudini che li legano. Lo studio di più antica tradizione è quello dei Sorgato, in cui si avvicendano il padre Gaetano e il figlio Ferruccio, ma dove operano come apprendisti altri fotografi. Lo studio Orlandini, nato quasi contemporaneamente ai Sorgato, che negli oltre cento anni di attività vede avvicendarsi alla direzione almeno quattro componenti della famiglia, da Pellegrino, ai figli Enrico e Umberto, al figlio di questi Carlo, oltre a numerosissimi apprendisti. Emblematico il caso dello studio Bandieri, in cui padre e figlio, Benvenuto e William, lavorano insieme per così tanto tempo, quasi trent’anni, che è diventato pressoché impossibile distinguere le due visioni. Il legame fra i fotografi professionisti è molto forte, al di là dei vincoli di parentela, perché ognuno di loro ha appreso il mestiere dall’altro: Gaetano Sorgato (che a sua volta ha imparato dal fratello Antonio) è il maestro non solo del figlio Ferruccio, ma anche di Pellegrino Orlandini, che formerà il figlio Umberto, che a sua volta trasmetterà l’arte della fotografia al figlio Carlo e a Benvenuto Bandieri. È fin troppo evidente come, oltre alla pratica, siano stati tramandati anche gli schemi compositivi e l’iconografia di stampo primo Novecento per tutta la metà del ventesimo secolo. Molto diverso invece il caso di Andreola o dei fotoamatori Testi e Carbonieri che, imparando l’uso della macchina fotografica da autodidatti, sviluppano una visione autonoma e una personale interpretazione dell’arte fotografica. Sicuramente le due figure più influenti e artisticamente più rilevanti sono state quelle di Umberto Orlandini e Salvatore Andreola. Differenti per formazione e impostazione del lavoro – fotografo e direttore d’atelier, editore, sperimentatore con un’eccellente visione estetica l’Orlandini, ritrattista e teorico del valore artistico e psicologico della fotografia Andreola – hanno in comune la passione per la fotografia come espressione artistica. Prova ne è il fatto che entrambi pongono le basi della propria ricerca personale nella fotografia pittorialista, il primo movimento che a livello internazionale alla fine del diciannovesimo secolo si concentra sulla realizzazione di immagini ai sali d’argento simili alle pitture per composizione e utilizzo della luce. Lo scopo era quello di dimostrare come la fotografia potesse essere un linguaggio artistico, al di là della meccanicità insita nella sua realizzazione. Intorno al 1905 Umberto realizzò diverse stampe di sapore pittorialista che ricevettero riconoscimenti nazionali. Andreola arrivò solo negli anni venti, ma la sua ricerca, non condizionata come quella di Orlandini dalle esigenze della gestione commerciale di uno studio con più di dieci collaboratori, approfondì le tematiche della luce e della ricerca artistica in maniera più completa e con risultati davvero eccelsi. Anche Ferruccio Sorgato fece diversi lavori pittorialisti, ma sembra che quel tipo di spinta verso una fotografia più moderna non abbia trovato spazio nel lavoro di atelier. Concludendo,i professionisti ci restituiscono l’immagine ufficiale della città, quell’immagine di stampo ottocentesco, influenzata dal “modello Alinari”, che voleva i monumenti isolati dal contesto, filtrata poi per diversi anni dalla censura politica, in cui i cittadini compaiono quasi per caso e raramente sono il soggetto principale della fotografia. I fotoamatori come Testi e Carbonieri, entrambi appartenenti alla fascia benestante della società modenese, scelgono di fotografare ciò che più li attira, e attraverso il loro sguardo troviamo la vita quotidiana, le persone (magari quelle della loro stessa classe sociale), e i loro hobby come le competizioni sportive. Non è un caso che la figura umana sia protagonista nelle immagini di ricerca personale di Umberto Orlandini, quasi a testimoniare che, liberi dal giogo del dovere, anche i professionisti si dedicano alla rappresentazione più autentica della vita, realizzando al contempo i loro migliori risultati artistici. L’unione della visione di questi autori, amatori e professionisti, che non si vogliono in alcun modo differenziare per meriti ma solo per la specificità del loro operato, ci restituisce la complessità e la ricchezza della pluralità del linguaggio fotografico. Percorso di mostra Ritratti di famiglia Gli studi fotografici modenesi, come quelli di tutto il mondo, dalla fine del XIX secolo costruirono sul ritratto la maggior parte della propria fortuna e notorietà presso il vasto pubblico. Orlandini e Sorgato si contendevano la clientela più agiata che – almeno una volta nella vita, ma più spesso in occasione di eventi speciali come le nozze o la nascita di un figlio – andava a mettersi in posa davanti al loro obiettivo. Storicamente, il ritratto è stato il primo approccio delle persone con la fotografia. Un rapporto che veniva però sempre mediato dal fotografo: era lui a suggerire la posa, così come a fornire gli arredamenti e i fondali che comparivano accanto alle persone (e talvolta a prestare anche gli abiti). Farsi ritrarre era un evento per chiunque e ogni dettaglio era curato minuziosamente, soprattutto per i meno abbienti che avevano quell’unica occasione per fissare la propria immagine. Anche la stampa della fotografia e la sua presentazione – incollata su cartoncini con eleganti disegni in un formato chiamato carte de visite (biglietto da visita) – denota l’importanza che veniva data a questo genere. Solo in qualche raro caso i ritratti venivano scattati dai fotografi amatoriali, che iniziano a farsi più numerosi solo con l’arrivo del nuovo secolo. Attraverso di loro inizia a comparire un nuovo tipo di rappresentazione della vita privata all’interno della famiglia, caratterizzato dalla spontaneità dei gesti e dall’informalità della composizione. In omaggio al festivalfilosofia 2013 sull’amare, si è voluto raccogliere una serie di ritratti di famiglia realizzati dai maggiori atelier modenesi. Nelle immagini selezionate appare evidente come le relazioni affettive, anche quelle più intime, venivano espresse mediante un immaginario ben codificato, teso a tramandare l’immagine ufficiale della coppia o della famiglia. Solo quando il fotografo era coinvolto personalmente nella relazione – ed è il caso degli scatti privati di Francesco Carbonieri – allora si svelavano occhiate e gesti pieni di affetto. Studio Orlandini Pellegrino Orlandini (Modena, 1843 – 1910) è capostipite e fondatore dello studio fotografico modenese più noto, che negli oltre 100 anni di attività ha visto avvicendarsi tre generazioni di fotografi. Appreso il mestiere intorno al 1870 dai modenesi Porta, Bozzetti, Obici e Sorgato, Pellegrino inizia a esercitare la professione in provincia, come fotografo ambulante, specializzandosi in un genere poco diffuso sul territorio: le emergenze architettoniche e naturalistiche dell’Appennino. Nel 1881 apre uno studio in città dove esegue soprattutto ritratti e nel 1887 partecipa alla prima Esposizione nazionale di fotografia di Firenze, uno degli incontri più importanti a livello nazionale, dove si confronta con altri professionisti che come lui in questi anni stanno intraprendendo in Italia una catalogazione sistematica dei monumenti. A Modena lo studio Orlandini gareggia in prestigio e notorietà con i Sorgato, con cui si contende le maggiori commesse pubbliche. Dal 1899 Pellegrino lascia sempre più margine d’azione ai giovani figli: Enrico e il più talentuoso Umberto. Umberto Orlandini (Modena, 1879 – 1931) è la figura di spicco della dinastia Orlandini. Vero appassionato di fotografia apprende con diligenza i segreti del mestiere, ma sa andare oltre e intraprendere una ricerca personale sull’immagine. Nei primi del Novecento, si accosta infatti al pittorialismo e in breve tempo ne recepisce la lezione a livello di ricerca artistica personale. Non modificherà però in questa direzione il lavoro dello studio. Per la ditta di famiglia continua e perfeziona il lavoro già intrapreso dal padre con la documentazione della provincia modenese e la catalogazione dei monumenti cittadini. Nel 1906 debutta come editore di volumi fotografici, quasi tutti riproduzioni di opere d’arte, pubblicando 25 titoli in 25 anni. Il ricercato lavoro artistico, le sperimentazioni tecniche e l’avventura editoriale, fanno di Umberto Orlandini la figura principale e più influente della cultura fotografica modenese nei primi trent’anni del XX secolo. Carlo Orlandini (Modena, 1904 – 1981), figlio maggiore di Umberto, lavora stabilmente nello studio dal 1924. Sotto la sua direzione, dal 1931, si ha il periodo di massima attività dello studio, chiamato dalla committenza ufficiale – Comune, partito fascista e Accademia Militare – a documentare le maggiori manifestazioni pubbliche cittadine. Il suo stile si connota per un tipo di fotografia diretta, che testimonia la realtà senza alcuna ricerca artistica o creativa. L’inquadratura e la composizione del soggetto sono frequentemente condizionate dalle scenografie ben congeniate dal regime. L’attività di Carlo si caratterizza in primo luogo per questo suo ruolo di reporter, oltre, naturalmente, per il ritratto. Lo studio Orlandini chiuderà nel 1980, dopo un secolo di ininterrotta attività. Studio Sorgato Gaetano Sorgato (Padova, 1838 – Modena, 1915) è il fratello più giovane di una famiglia di fotografi che, fra il XIX e il XX secolo, gestisce studi in importanti città italiane: Venezia, Firenze, Bologna. Nel 1880 diventa titolare di un atelier a Modena, che acquista velocemente prestigio e diventa la meta dei nobili e delle famiglie benestanti che ambiscono farsi ritrarre in studio, secondo la moda dell’epoca. Il successo di Gaetano non è dovuto solo a un ottimo marketing imprenditoriale, di cui i Sorgato sono eccellenti promotori, ma sicuramente anche all’indiscussa abilità nell’utilizzo della tecnica e alla spiccata sensibilità artistica nella composizione del soggetto. Lo studio riceve numerose commesse pubbliche: tutte le principali istituzioni cittadine si rivolgono a lui per ottenere riproduzioni di opere d’arte o per la documentazione di eventi di rilievo. Anche l’Accademia Militare sceglie lo studio Sorgato come suo esclusivo referente per le fotografie. Alla fine degli anni novanta lascia l’attività commerciale, continuando ugualmente a dedicarsi alla fotografia non più per lavoro ma per puro diletto. Ferruccio Sorgato (Modena, 1872 – 1932) subentra al padre come titolare dello studio nel 1899, ereditando oltre all’attività anche la fama dell’atelier e delineandosi da subito come uno dei principali concorrenti dello studio Orlandini. Continua a eseguire ritratti e riceve diverse commissioni pubbliche: su incarico del Comune di Modena fra il 1910 e il 1930 realizza alcune campagne fotografiche per documentare l’abbattimento delle mura, l’edificazione del macello e la costruzione del Tempio Monumentale ai caduti. Contemporaneamente produce anche diverse immagini dallo stile marcatamente pittorialista: si tratta di ricerche personali che esulano dal lavoro di bottega, ma che esprimono altresì la sua personalità artistica. Negli anni trenta la popolarità dello studio Sorgato inizia a subire un progressivo declino, dovuto anche alla concorrenza degli altri atelier cittadini - Orlandini e Bandieri in particolare - e chiuderà definitivamente l’attività nel 1933, l’anno successivo alla morte di Ferruccio. Studio Bandieri Benvenuto Bandieri (Modena, 1887 – 1958) perfeziona l’arte della fotografia alle dipendenze di Umberto Orlandini e nel 1917 decide di dare avvio a un proprio studio. Fin da subito si specializza nella fotografia industriale, sempre più richiesta con la progressiva diffusione di cataloghi e campionari illustrati. A questo si aggiungono i classici lavori di bottega come i ritratti, che – con l’entrata in vigore nel 1926 dell’obbligatorietà delle fototessere sulle carte d’identità - diventano una delle principali attività di ogni studio. Benvenuto Bandieri prosegue il lavoro di mappatura degli edifici cittadini che aveva iniziato con gli Orlandini, aggiornandolo con le nuove costruzioni realizzate dal partito fascista o le nuove piazze che si aprono in città con l’abbattimento di alcuni caseggiati. A causa della chiusura dello studio Sorgato e della morte di Umberto Orlandini, nei primi anni trenta Benvenuto Bandieri diventa il fotografo di riferimento in città e il principale occhio del fascismo a Modena. Anche il suo lavoro ne sarà condizionato: com’è noto, infatti, il partito non lasciava spazio all’originalità e richiedeva la propria autocelebrazione attraverso immagini dai canoni compositivi prestabiliti. William Bandieri (Modena, 1911 – 1983) inizia a lavorare col padre in quegli stessi anni. Nel 1941 lo studio raggiunge il periodo di massima attività e la committenza pubblica legata al partito fascista rende necessaria l’assunzione di altri collaboratori. Se risulta appurato che l’attività di camera oscura fosse portata avanti in particolare da William, l’attribuzione di autorialità delle riprese in esterno risulta invece di più dubbia interpretazione. Nei trent’anni in cui lavorano insieme, padre e figlio affinano infatti a tal punto la loro visione da rendere oggi pressoché impossibile distinguere le immagini scattate dall’uno o dall’altro. Anche dopo la morte di Benvenuto, lo studio Bandieri proseguirà sotto la direzione di William, che continua a condurre l’attività commerciale fino al 1981. Salvatore Andreola Salvatore Andreola (Orsogna, Chieti, 1890 – Milano, 1970) si appassiona alla fotografia in giovanissima età leggendo i manuali di Rodolfo Namias: seguendo i consigli pratici e le ricette pubblicate, inizia a sperimentare con successo l’arte dei sali d’argento e, trasferitosi a Modena, nel 1920 apre un proprio studio. La carriera di Andreola è completamente dedicata alla rappresentazione del volto umano e alla resa artistica e psicologica dei suoi soggetti. Celebre per i ritratti - che preferisce eseguire a domicilio per mettere maggiormente a proprio agio le persone e coglierne così l’autentica personalità – diventa il fotografo della borghesia più moderna e attenta alle novità della scena artistica. Dedica molta cura alla lavorazione in fase di stampa, utilizzando tecniche pittorialiste come la gomma bicromata. Il suo lavoro riceve numerosi riconoscimenti e critiche positive, anche grazie alla partecipazione alle principali esposizioni del periodo, tra le quali ricordiamo l’Esposizione Internazionale di fotografia di Torino e l’Annual International exhibition di Londra nel 1923, così come il Salon International de Photographie di Parigi nel 1924. Nel 1929 inaugura a Modena la sua prima mostra personale, a cui ne seguiranno numerose altre in tutt’Italia. All’assidua pratica artistica affianca inoltre un’importante attività teorica, tenendo numerose conferenze sul valore artistico della fotografia e sull’utilizzo della luce. Sull’argomento pubblica inoltre due saggi: L’arte della luce e il ritratto nel 1925 e La psicologia nell’arte del ritratto nel 1955. La grande chiarezza e lucidità di visione, così come la straordinaria sensibilità che accompagna ogni fase del suo lavoro, fanno di Andreola una figura fondamentale nel processo italiano di legittimazione della fotografia come forma artistica. Ne è riprova la presenza di alcune sue opere nella ricostruzione storica della fotografia italiana di ritratto delineata nella mostra L’io e il suo doppio , presentata alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1995. Francesco Carbonieri Figlio di un’importante famiglia di proprietari terrieri, Francesco Carbonieri (Campagnola Emilia, 1886 – Magreta, 1960) acquista nel 1908 la prima macchina fotografica, che impara a utilizzare da autodidatta. Da allora, per trent’anni, Carbonieri fotografa la vita quotidiana della propria famiglia: i viaggi all’estero, gli eventi mondani, i picnic con gli amici. Protagonisti di quasi tutte le immagini sono la bella e amata moglie Clementina Cionini, il figlio Luigi e l’entourage degli amici. Le fotografie di Carbonieri non mostrano solo la vita agiata nella belle époque , ma hanno anche la capacità di trasmettere l’atmosfera serena e gioviale che si respirava in quegli anni. Complice di questo è l’utilizzo frequente di diapositive stereoscopiche a colori (autochrome) che rendono le fotografie tridimensionali e piene di vitalità. Lo sguardo di Carbonieri è assolutamente privato e le sue immagini sono destinate a una visione famigliare, ma questo non rappresenta un limite alla sua creatività. Al contrario, libero dai vincoli commerciali e dalle ricerche estetizzanti che condizionano la grande schiera dei fotoamatori, riesce a veicolare una freschezza rara. Il 31 ottobre del 1938 Carbonieri viene arrestato e condannato al confino insieme al figlio per avere scritto, durante un soggiorno a Nizza, una lettera nella quale sono espressi giudizi negativi sulla politica estera italiana e sul duce. Dopo aver scontato poco più di un anno, nel 1939 riceve il proscioglimento per intercessione del prefetto di Modena. Il confino e il conseguente isolamento da parte di parenti e amici, oltre alle difficoltà economiche, distruggono il mondo dorato nel quale Carbonieri è vissuto fino ad allora. Come segno tangibile di questo drastico cambiamento smette di fotografare, riponendo la camera oscura e tutte le fotografie nella soffitta di casa. Ferruccio Testi Proveniente da un’agiata famiglia di commercianti, Ferruccio Testi (Modena, 1882 – 1958) è uno dei più noti e prolifici fotoamatori modenesi del XX secolo. La sua attività di fotografo nasce dalla passione per le novità tecnologiche e per la velocità: autodidatta e documentatore della cronaca cittadina si interessa all’immediatezza dello scatto più che alla composizione dell’inquadratura. Come i moderni reporter non si occupa direttamente della stampa delle fotografie: conserva tutti i negativi e commissiona allo studio Bandieri la stampa delle sole immagini che gli vengono richieste dai giornali. Nel 1912 compie un viaggio di due mesi nella costa orientale degli Stati Uniti insieme a una delegazione della Camera di Commercio. Le 200 immagini riportate da quell’esperienza straordinaria mostrano lo stupore del giovane modenese per la modernità della metropoli di New York – i grattacieli, l’illuminazione notturna, i treni sopraelevati. Contemporaneamente emerge la capacità di Testi di ritrarre l’umanità con occhio attento ma neutrale: le foto scattate agli immigrati che viaggiano sul ponte di terza classe della nave ricordano – forse inconsapevolmente – quelle più celebri di Alfred Stieglitz. Accanto alle cerimonie ufficiali, nelle sue immagini si trovano riprese quasi casuali della vita quotidiana di Modena a cavallo fra le due guerre, ma soprattutto gli eventi sportivi: le gare automobilistiche e ciclistiche, così come le partite di calcio di cui era un vero appassionato, essendo tra l’altro uno dei fondatori del Modena Football Club. Allo sport si aggiungono l’amore per il bel canto – dal 1939 al 1949 è presidente della Corale Rossini – e per i colombi viaggiatori, tutti soggetti presenti nelle sue fotografie. Questi molteplici interessi sono condivisi anche dall’amico e fotografo Odoardo Gandolfi (1880 – 1964), con cui realizza spesso servizi fotografici a Modena e in tutta Italia. Fotoreporter per passione, libero dai vincoli dei cronisti ufficiali, Testi coglie in ogni occasione attimi fuggenti di vita e ci restituisce una freschezza visiva e un movimento assenti in molte immagini dei fotografi professionisti modenesi del tempo.