All`ex ospedale Sant`Agostino la Fondazione Fotografia propone
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All`ex ospedale Sant`Agostino la Fondazione Fotografia propone
Cultura | Scatti americani All’ex ospedale Sant’Agostino la Fondazione Fotografia propone una selezione di 150 fotografie scattate tra gli anni Cinquanta e Ottanta Il mondo sconosciuto di Walter Chappell Chappell è considerato il prototipo dell’artista hippie. Si è sempre tenuto lontano dai circuiti commerciali e ha esposto raramente in Europa. Modena ospita la prima vera retrospettiva internazionale dedicata al fotografo statunitense scomparso tredici anni fa di Stefano Marchetti 96 OUTLOOK - Settembre/Ottobre 2013 «Senza titolo», 1977, stampa ai sali d’argento Cultura | Scatti americani G uardi le fotografie di Walter Chappell e ti sembra di sentire una delle celebri canzoni di «Hair», «This is the dawning of the age of Aquarius», sta iniziando l’era dell’Acquario, un tempo di «harmony and understanding, sympathy and trust abounding», armonia e comprensione, tolleranza e verità. Per lui l’atto di fotografare era come un’esperienza mistica: «Ho sempre cercato di unire la mia scoperta della Natura con la crescente scoperta del mio essere interiore», confidava. «Chappell era un puro, e lavorava su un’idea di energia vitale che passa attraverso le cose e le collega come un filo sottile», spiega Filippo Maggia, direttore della Fondazione Fotografia di Modena e curatore dell’importante mostra, la prima vera retrospettiva internazionale, che viene dedicata all’artista statunitense scomparso tredici anni fa. Dal 13 settembre fino al 2 febbraio 2014, negli spazi espositivi dell’ex ospedale Sant’Agostino vedremo esposta una selezione di circa 150 fotografie vintage, realizzate fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, oltre alla maquette originale di «World of flesh» del 1966, un libro mai nato, rifiutato dagli editori che lo ritenevano troppo esplicito, insomma scandaloso. Già, perché Chappell fu spesso controverso, discusso, a volte anche osteggiato o censurato, ma in lui c’era solo il desiderio di celebrare un abbraccio universale e di trovare quel flusso creativo che unisce tutto, i corpi umani e le rocce, la foglia di una quercia e le ali di una farfalla. Tutto è in «Eternal impermanence», eterna impermanenza, come è il titolo scelto per questo omaggio postumo a un genio hippie e alla sua vita, forse inconsapevolmente provocatoria. Ogni foto di Chappell esprimeva un segno d’amore: non a caso, dunque, la mostra si inaugura proprio nei giorni del Festival Filosofia che quest’anno ci invita ad «amare». Walter Chappell vide la luce nel 1925 a Portland nell’Oregon, e nelle sue vene scorreva anche il sangue dei nativi americani: sua madre era un contralto e cantava nel Portland Symphony Choir, suo padre un inge- «Nelle foto di Walter Chappell non c’era alcuna costruzione, ma neppure ingenuità», osserva Filippo Maggia, direttore della Fondazione Fotografia di Modena e curatore della retrospettiva. «Le immagini volevano semplicemente trasmettere quell’idea di purezza ed energia vitale che lui ricercava, la fascinazione del mistero della vita senza la necessità di volere a tutti i costi capire il mondo» 98 OUTLOOK - Settembre/Ottobre 2013 Chappell fu spesso controverso, discusso, a volte anche osteggiato o censurato, ma in lui c’era solo il desiderio di celebrare un abbraccio universale e di trovare quel flusso creativo che unisce tutto, i corpi umani e le rocce, la foglia di una quercia e le ali di una farfalla. Perché tutto è in «Eternal impermanence», eterna impermanenza, come il titolo scelto per questo omaggio postumo a un genio hippie e alla sua vita Il profilo Una vita dedicata al mistero della Natura W alter Chappell nacque nel 1925 a Portland nell’Oregon: inizialmente studiò pianoforte e composizione musicale al Conservatorio della sua città, quindi architettura al leggendario Talesin West costruito da Frank Lloyd Wright in Arizona, ma nella sua formazione fu fondamentale l’incontro con il fotografo Minor White, avvenuto quasi fortuitamente nel 1942, durante un’escursione sciistica sui monti dello Stato di Washington. Chappell strinse con White un’amicizia e un rapporto creativo che non si interruppe, anzi si rinsaldò con il trascorrere degli anni. Il giovane Walter desiderava dedicarsi alla pittura, ma nel 1954 si ammalò di tubercolosi: guarì dopo un lungo ricovero a Denver, e i medici gli raccomandarono di abbandonare il sogno di dipingere con i pennelli, e a quel punto Chappell spostò con decisione il suo interesse verso la fotografia. Nel 1957 Walter Chappell si trasferì a Rochester, New York, e studiò tecniche di stampa sotto la guida di White, per poi affiancare Beaumont Newhall come curatore della George Eastman House. In quegli anni collaborava anche con la rivista di fotografia artistica «Aperture», diretta sempre da Minor White, che sosteneva una cultura fotografica indipendente dagli scopi commerciali o documentativi. Come allievo di White e di Edward Weston, Chappell seguì una tradizione fondata da Alfred Stieglitz, che vedeva la fotografia come il tramite per attingere a una realtà più profonda. Nel 1962 fondò l’Associazione of Heliographers, a cui aderirono celebri artisti come Paul Caponigro, e l’anno successivo si trasferì in California, e iniziò a lavorare sempre più sulle forme del corpo umano, trovandovi una corrispondenza con le forme della natura. Sulla West Coast Walter Chappell trascorse gran parte della vita, e poi nel 1980 si trasferì nel New Mexico, prima a Santa Fe poi a El Rito, continuando a tenere conferenze e workshop (per esempio sul nudo in natura), a viaggiare e a compiere spedizioni fotografiche. È stato considerato il prototipo dell’artista hippie, e si è sempre tenuto lontano dai circuiti commerciali: ha esposto raramente in Europa. Nei suoi 45 anni di carriera comunque ha ricevuto per tre volte il Photographer’s Fellowship del National Endowment for the Arts e nel 1999 il governatorato del New Mexico gli ha tributato il premio per l’eccellenza nelle arti. I suoi scatti sono presenti nelle più importanti collezioni internazionali, dal Museum of Modern Art di New York alla Library of Congress di Washington. Chappell è morto l’8 agosto 2000: stava preparando una retrospettiva sul suo lavoro, intitolata «Collected Light». I figli hanno creato the Walter Chappell Estate, catalogando centinaia di fotografie: la mostra di Modena si realizza appunto in collaborazione con l’archivio dell’artista americano. «Il mezzo fotografico è uno strumento creativo nella ricerca di più alte qualità dell’essere, per rivelare una realtà interiore nella vita umana» Walter Chappell «Pregnant Arch», 1963, stampa ai sali d’argento Settembre/Ottobre 2013 - OUTLOOK 99 Cultura | Scatti americani gnere ferroviario con ascendenze fra gli indiani d’America, i nonni erano fioristi e vivaisti. Visse i primi tre anni nella riserva indiana di Umatilla, e proprio lì, certamente, ebbe il primo approccio con la cultura tribale, il fascino della natura. Da bambino iniziò a studiare il pianoforte, poi passò ai corsi di architettura, fino a quando decise di prendere la strada dell’arte. Aveva 17 anni quando incontrò per la prima volta Minor White, che divenne suo amico e suo maestro, ed ebbe un ruolo importante nella formazione della sua «visione»: White, attento sperimentatore sui sentieri già tracciati da Alfred Stieglitz, non documentava il mondo ma grazie alla fotografia trovava la possibilità di riconciliare il mondo esteriore con quello interiore. Il suo astrattismo era come una filosofia. «A San Francisco Minor White e Ansel Adams, insieme a Edward Weston e Imogen Cunningham, piantarono i semi dell’interesse di Chappell per la fotografia», ha scritto lo storico Richard Pitnick. Già negli anni Cinquanta, Walter Chappell iniziò ad avere un suo contatto, quasi un dialogo, con il mistero della Natura, che possiamo avvertire nei riflessi sull’oceano, nei bagliori di luce in cielo, fra le fronde di un albero. Nel 1957 fu proprio Minor White a suggerire il suo nome per l’incarico di assistente al curatore alla George Eastman House di Rochester, New York. Walter Chappell dunque si trasferì sulla East Coast e nel 1962 fondò la Association of Heliographers, di cui faceva parte anche Paul Caponigro: già nel loro «manifesto» enunciavano di voler affidarsi al mezzo fotografico come a «uno strumento creativo nella ricerca di più alte qualità dell’essere, per rivelare una realtà interiore nella vita umana». E per la prima volta, in questa dichiarazione d’intenti, si parlava di «camera vision», il momento in cui il visibile e l’invisibile si incontrano, e l’intuizione di una realtà più profonda si combina con una tecnica fotografica rigorosa. In tutto il suo percorso, Chappell fu legato proprio a questa camera vision, ovvero «una funzione intelligente tra l’occhio umano e la totalità della comprensione, in un momento di consapevolezza attiva»: la macchina insomma poteva fissare l’attimo in cui la coscienza arrivava a sentire (e magari provare) una realtà più importante. In questi pensieri si ritrovano anche le teorie esoteriche di Georges Ivanovic Gurdjieff, filosofo e mistico armeno vissuto fra Otto e Novecento: per lui tutta la nostra vita è vicina al sogno, e tutti noi abbiamo le potenzialità per raggiungere un livello superiore di conoscenza. Già allora Chappell era uno spirito senza briglie, non seguiva le convenzioni o le forme sociali. Nella sua vita traslocò decine di volte, ebbe due mogli, tantissime relazioni e sette figli. Si sentiva libero nel praticare il 100 OUTLOOK - Settembre/Ottobre 2013 Dopo una lunga esperienza sull’East Coast nei primi anni Sessanta Chappel torna in California. La Metro Goldwyn Mayer gli affida alcuni ritratti di celebrità, Sharon Tate, Liz Taylor, Dennis Hopper, ma l’artista è distante anni luce da quel mondo. «Era innamorato della natura, della vita», sottolinea Maggia. «Non aveva alcun legame con la società ufficiale e non era interessato ad averne» nudismo, e la stessa libertà di pensiero la metteva anche nella sua vita quotidiana, nel suo lavoro, in un’esistenza appartata e bohèmienne: «Era completamente lontano dal business, non gli interessavano i meccanismi del mercato», aggiunge Maggia. «Quando aveva bisogno di soldi, portava un paio di fotografie in una galleria, ma poi ripassava dopo due anni». Nel 1963 tornò sulla West Coast, fra gli orizzonti del Big Sur, San Francisco, Los Angeles, e poi le Hawaii, Santa Fe, per approdare negli anni Ottanta nel New Mexico: nei primi anni in California la Metro Goldwyn Mayer gli affidò alcuni ritratti di celebrità, Sharon Tate, Liz Taylor, Dennis Hopper, ma già allora Chappell era distante anni luce da quel mondo. «Lui era innamorato della natura, della vita», sottolinea il curatore. Non aveva alcun legame con la società ufficiale, e di certo «non era interessato ad averne». Per vivere produceva patate, oppure faceva anche il pescatore di ostriche e il carpentiere. E magari teneva workshop fotografici, dove lui, l’insegnante, si presentava senza abiti, nature, appunto. La sua fattoria di Velarde, nel New Mexico, divenne meta di artisti e figli dei fiori. «Tuttavia, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Chappell non era quello che noi oggi definiremmo un fricchettone», annota Maggia. «Fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, ma i figli mi hanno detto di non averlo mai visto assumere droghe. Neppure uno spinello». Anticonformista, certo. Scomodo, anche. Almeno per i perbenisti. Cieli, pietre, tronchi d’albero, fronde, e corpi umani. Corpi abbracciati, corpi sinuosi, braccia e seni, mani e piedi. Dagli anni Cinquanta e Sessanta, per Walter Chappell divenne sempre più naturale ritrarli, e ritrovare in tutti la linfa di un mondo che è invisibile agli occhi. Nelle foto si individuano singolari ma luminose analogie, e i solchi fra le rocce di un canyon si rispecchiano idealmente nei segni e nelle pieghe del ventre di una donna che ha appena partorito. Il corpo è sempre nudo, svelato, ma senza esibizionismi. Un fiore sul sesso di una ragazza per Chappell è una celebrazione della vita. E anche l’abbraccio fra il padre e il figlio, nudi, in una posa che ci può apparire scabrosa, in realtà non contiene alcuno scandalo. L’unica malizia, semmai, è negli occhi di chi guarda. «Chappell non si è mai posto il problema di creare un caso. Nelle sue foto non c’era alcuna costruzione, ma neppure ingenuità: anzi, senza dubbio egli agiva con grande lucidità», osserva Filippo Maggia. «Era un uomo estremamente sereno. Le immagini volevano semplicemente trasmettere quell’idea di purezza ed energia vitale che lui ricercava, la fascinazione del mistero della vita senza la necessità di voler a tutti i costi capire il mondo». A volte, però, le creazioni dell’artista «Hopiland», 1967, stampa ai sali d’argento Settembre/Ottobre 2013 - OUTLOOK 101 Cultura Cultura | Fotografi modenesi Sempre all’ex Sant’Agostino anche la mostra su «Modena e suoi fotografi» con un ricco materiale da importanti collezioni storiche cittadine L’artista statunitense parla di «camera vision», il momento in cui si incontrano il visibile e l’invisibile, e l’intuizione di una realtà più profonda si combina con una tecnica fotografica rigorosa. Per lui, la macchina può fissare l’attimo in cui la coscienza arriva a sentire e magari provare una realtà più importante «Nude Armpit», 1957, stampa ai sali d’argento Cieli, pietre, tronchi d’albero, fronde e corpi umani. Corpi abbracciati, corpi sinuosi, braccia e seni, mani e piedi. Dagli anni Cinquanta per Walter Chappell divenne sempre più naturale ritrarli e ritrovare in tutti la linfa di un mondo che è invisibile agli occhi 102 OUTLOOK - Settembre/Ottobre 2013 dovettero passare attraverso le forche caudine della legge: l’autoritratto di Chappell nudo con uno dei figli, realizzato negli anni Sessanta, ancora nel 1990 venne posto sotto sequestro e tacciato di oscenità dalle autorità del Maine. E forse anche per questo l’opera dell’artista di Portland è rimasta a lungo quasi sconosciuta all’esterno del mondo della fotografia d’arte. Anche se Chappell, a parere di Peter Burnell, già curatore della sezione fotografia al MoMa di New York, può essere considerato «l’anello finale della catena della fotografia Modernista che ebbe i suoi inizi con il lavoro di Stieglitz e quindi passò nell’arte di Edward Weston e Minor White». Perfino le piante potevano rivelare la loro vita nascosta, una loro essenza interiore. Negli anni Settanta Walter Chappell si dedicò anche a esperienze di elettrofotografia, immagini che venivano realizzate direttamente in camera oscura, senza il tramite dell’obiettivo e della macchina: si applicava una corrente elettrica a fiori e foglie, e la pellicola fotografica veniva impressionata dal campo elettromagnetico che si creava tutt’attorno. L’effetto è quello di un alone luminoso, dei bagliori di un’aura, come nella fotografia Kirlian che torna spesso negli studi sul soprannaturale e sull’inconoscibile. Chappell, con questo metodo, realizzò tutte le foto del ciclo «Metaflora», pubblicato nel 1980. Fra scienza e poesia, andava a esplorare un altro universo nascosto che vive con noi e che noi non vediamo, così come ci sono invisibili l’ossigeno e l’idrogeno che si uniscono a formare una goccia d’acqua. E attraverso questa metafora, ancora una volta ci voleva dire che anche noi, nella nostra interiorità, abbiamo tutto un mondo da scoprire. Basta solo volerlo. «Let the sunshine in». Sì, lasciate che entri il sole. • Una città da riscoprire C ’era una volta una città antica, ricca di storia, con le mura e le porte, poche auto, molte carrozze e i tram a cavalli. C’era una volta, e in realtà c’è ancora, anche se i tempi sono cambiati e qualche volta facciamo fatica a riconoscerla. È grazie ad alcune firme se possiamo ancora ritrovarne il volto di un secolo fa: gli scatti degli studi Bandieri, Sorgato, Bandieri e Andreola o dei fotoamatori Ferruccio Testi e Francesco Carbonieri ci restituiscono l’immagine di una Modena di cui talora abbiamo nostalgia. In parallelo alla mostra dedicata a Walter Chappell, sempre all’ex ospedale Sant’Agostino, dal 13 settembre fino al 6 gennaio 2014 la Fondazione Fotografia propone un percorso su «Modena e i suoi fotografi 1870-1945», con settanta «punti di vista» provenienti da importanti collezioni storiche cittadine. È il primo capitolo di un progetto espositivo che il prossimo anno si completerà con le Salvatore Andreola «La cupola della chiesa del Voto», ante 1930, Gelatina al bromuro d’argento. Museo Civico d’Arte di Modena fotografie di autori modenesi dal secondo dopoguerra al nuovo millennio. Come è noto, nella Fondazione Fotografia è confluito il Fotomuseo Giuseppe Panini con importanti raccolte che testimoniano l’evoluzione della nostra città: «Nei suoi oltre 170 anni di vita, a Modena la fotografia è sempre stata praticata ad altissimi livelli», evidenzia la curatrice Chiara Dall’Olio. La mostra ripercorre dunque il lavoro di atelier di lunga tradizione, come quello dei Sorgato o quello degli Orlandini, che fu- Atelier di lunga tradizione e fotografi amatoriali riuniti per raccontare strade e visi modenesi dall’Unità d’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale Settembre/Ottobre 2013 - OUTLOOK 103 Cultura | Fotografi modenesi Benvenuto Bandieri «Modena, piazza Grande, le bancarelle del mercato», 1917‐1931. Gelatina al bromuro d’argento. Archivio Panini di Modena Francesco Carbonieri «Modena, piazza Muratori», 1908 circa. Gelatina al bromuro d’argento. Fondazione Cassa di Risparmio di Modena Pellegrino Orlandini e Figlio, «Modena, piazza Grande, antiche case», ante 1888. Albumina. Museo Civico d’Arte di Modena Ferruccio Sorgato e F.llo, «Modena, abbattimento delle mura da Barriera Garibaldi a Baluardo S. Pietro (oggi viale Martiri della Libertà)», 1911. Gelatina al bromuro d’argento, Museo Civico d’Arte di Modena Ferruccio Testi «Modena, resa dei soldati tedeschi alle truppe alleate», 1945 Gelatina al bromuro d’argento (ristampa contemporanea da negativo originale). Fondazione Cassa di Risparmio di Modena rono sì concorrenti, ma in realtà furono legati da una sorta di passaggio del testimone: Gaetano Sorgato infatti insegnò il mestiere di fotografo al figlio Ferruccio ma fu anche il maestro di Pellegrino Orlandini che poi formò il figlio Umberto. E proprio Umberto Orlandini tramandò i segreti del mestiere al figlio Carlo e a Benvenuto Bandieri, nel cui studio lavorò poi anche il figlio William. Di ogni atelier si colgono le peculiarità e le specializzazioni. Ad esempio, per Umberto Orlandini e Salvatore Andreola la fotografia era un’espressione artistica, ed entrambi si mossero nell’ambito del pittorialismo che voleva riprodurre sulla carta fotografica gli schemi compositivi e le atmosfere dei dipinti, anche se Andreola (come si può apprezzare in mostra) approfondì soprattutto le tematiche della luce e del ritratto, mentre degli Orlandini ricordiamo soprattutto la preziosa opera di documentazione dei monumenti e del territorio che ha fatto paragonare il loro prezioso lavoro a quello degli Alinari: la figura umana è presente più che altro nelle foto che Umberto Orlandini scattava per sua passione personale. Ferruccio Testi e Francesco Carbonieri, liberi dagli obblighi dei professionisti, puntarono invece l’obiettivo sulla vita quotidiana, sulle passioni e sugli hobby. In particolare, Testi ha lasciato un ampio archivio dedicato agli eventi sportivi, dall’automobilismo al ciclismo al calcio, e non a caso fu uno dei fondatori del Modena Football Club nel 1912. La selezione esposta ci porta a riscoprire angoli di una Modena che non c’è più, ma anche visi, ambienti e persone, aprendo finestre sul costume. È curioso per esempio notare come i fotografi di quell’epoca rappresentassero i rapporti affettivi: i fidanzati o gli sposi si facevano ritrarre in studio in pose sempre rigorose, dal tono quasi ufficiale. «La stessa foto di fidanzamento di Francesco Carbonieri ha una compostezza estremamente formale», spiega Chiara Dall’Olio. Ma le pazienti ricerche fra i materiali d’archivio hanno permesso di scovare anche una foto in cui Carbonieri e signora si guardavano negli occhi. Sì, era già il segno di tempi nuovi. • Settembre/Ottobre 2013 - OUTLOOK 105