Conferenza sul ministro del sacramento della penitenza

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Conferenza sul ministro del sacramento della penitenza
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Aggiornamento Teologico Presbiteri - 7 Giugno 2016
«Essere segno concreto
della continuità di un amore divino
che perdona e che salva» (MV 17).
Il sacramento della riconciliazione
Il Sacramento della Penitenza è uno di quei segni sacri che la Chiesa scopre di avere
ricevuto dal Signore. Il suo cammino storico è travagliato, ma affonda le sue radici nella
necessità di porre un segno di riconciliazione con Dio e con i fratelli per coloro che hanno
compromesso questa comunione con alcune scelte contrarie alla volontà del Signore.
La storia di questo Sacramento è molto suggestiva, e forse merita una sua attenzione
esclusiva anche solo per imparare cosa è la Chiesa e il suo rapporto con i Sacramenti.
Noi ci soffermiamo sulla forma attuale del sacramento così come il Concilio Vaticano II
l’ha promossa ed è stata formulata con Paolo VI. La nostra attenzione, come Corso di
Aggiornamento Teologico per Presbiteri, sarà evidentemente quella del ministro del
Sacramento, anche se non sarebbe inutile anche una attenzione al sacerdote come
penitente e al suo cammino di conversione al Signore. Lascio ad altri questa
preoccupazione.
Chi sia il sacerdote in rapporto ai Sacramenti, e quale sia il senso del suo “ministero” lo
vorrei attingere da una espressione antica e sempre ripetuta nella Chiesa, che si ritrova nei
riti di benedizione degli oli santi, fin dall’alto medioevo.
I sacerdoti accompagnano la processione degli oli santi, specie del Crisma, perché sono
Testimoni e Cooperatori del ministero di questo sacrosanto olio.
Postea sequantur bini et bini illi XII presbiteri testes et cooperatores eiusdem sacrosancti
chrismalis ministeri (PRG 99,268)
Sotto i nostri occhi e con il nostro aiuto, l’olio dell’unzione di Cristo raggiunge tutte le
membra del corpo mistico, e dona sollievo e forza, gioia e salute (Is 61,3). Noi siamo
collocati in un luogo straordinario per accorgerci dell’opera di Salvezza, iniziata da Cristo
e non più conclusa, perché tutt’ora all’opera.
Se mi è concesso un paragone, noi siamo come i servi delle nozze di Cana, cooperatori
obbedienti nel riempire d’acqua inutile le giare e testimoni di come questa porti ebbrezza e
gioia ai commensali.
È il mistero di salvezza che si compie, l’opera stessa di Cristo che nei suoi santi misteri (i
sacramenti) continua a realizzare il bene che l’umanità attende: sotto i nostri occhi (testes)
e con una nostra partecipazione (cooperatores).
Il Sacramento alla luce del Concilio Vaticano II
Il Concilio ci ha aiutato a comprendere il valore di questi segni santi nel loro legame con il
mistero di salvezza e nella loro efficacia che supera il problema della sola validità e liceità
della celebrazione.
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I Sacramenti, che sono il perno della vita liturgica della Chiesa (SC 6), “esprimono e
manifestano il mistero di Cristo, insieme alla natura della Chiesa” (SC 2). Conviene
soffermarci un istante su questi due termini: esprimono e manifestano.
* esprimono: è un riferimento linguistico prezioso, che ci richiama alla dimensione
comunicativa della celebrazione rituale. Proprio gli elementi “esteriori”, formali del rito
sono quelli che sono in grado di “esprimere”, cioè di “dire il mistero di Cristo e l’identità
del popolo sacerdotale che celebra”.
Altrove il Concilio dice che proprio nella loro capacità espressiva questi segni sono
efficaci: poiché esprimono qualcosa e limitatamente a quello che esprimono essi sono
capaci di attuare l’opera di salvezza (SC 7).
Una attenzione al sacramento che si limitasse alla sola validità per l’essenziale rapporto
tra materia e forma, rischierebbe di fallire, perché lascerebbe al caso l’elemento
comunicativo e la capacità di coinvolgere i fedeli nelle sue parti rituali, perché esprimano
in maniera coerente ed efficace il mistero che vogliono comunicare. Per questo il Concilio
chiede ai ministri di avere uno sguardo più ampio su questo, ovvero di preoccuparsi
della partecipazione attiva dei fedeli, proprio per quegli aspetti rituali che nel
coinvolgimento diventano essenziali per l’efficacia della celebrazione (SC 11).
* manifestano: la manifestazione, come ci ricorda anche la festa dell’Epifania, è il momento
nel quale si incontra ciò che era da sempre, ma finché non decide di rendersi visibile,
rischia di rimanere inaccessibile. Il Verbo eterno c’è anche prima che i Magi entrino nella
casa, c’è anche prima che nasca e che si incarno nel grembo della Vergine Maria, ma
finché non si incarna e non nasce, non assume l’umanità, insomma non si manifesta, non
si lascia incontrare. Così, nella celebrazione dei sacramenti, il Mistero di Cristo si
manifesta, assume quella visibilità nei riti che ci permette di dire, ho incontrato il Verbo
fatto carne (cfr 1Gv 1,1-4), come pure i Magi possono dire:“ho incontrato il Verbo eterno
del Padre, nell’incontrare il Figlio di Maria”.
Proprio l’elemento visibile ed espressivo della celebrazione, questa che incontra i nostri
sensi è l’esperienza del Mistero di Cristo che ci viene concessa, perché senza i nostri sensi
noi non facciamo alcuna esperienza. Abbiamo pertanto bisogno che il Mistero di Cristo si
manifesti per poterlo incontrare.
Il Mysterium Salutis
Qual è il Mistero di Salvezza che in incontra nella celebrazione della Penitenza?
Il Mistero di Salvezza è uno solo, è quello nascosto da secoli e rivelato in Cristo, ovvero
che, secondo la lettera agli Efesini, Dio Padre ha resto partecipi tutti gli uomini della vita
eterna attraverso il Figlio (Ef 3,2-7).
Quella umanità che in Adamo si era allontanata, in Cristo è stata ricondotta al suo vero
rapporto con Dio, quello filiale.
* Adamo. Decidere il bene e il male come decisione allontanare Dio per scegliere di essere
autonomamente il Creatore del Mondo: prendere del mondo, dargli valore invece di
riconoscerlo, e decidere di ricomporre il mondo secondo il proprio disegno Non è più un
paradiso, ma un inferno. La persuasione diabolica lo porta a considerare Dio non come
un Padre, ma come un ostacolo invidioso alla sua realizzazione, per cui quanto più sarà
lontano e indipendente da Dio, tanto più sarà libero e felice. Grande illusione (Gen 3).
* Gesù. Vero Figlio del Padre che vive il rapporto con il Padre nella fedeltà, a differenza di
Adamo. Accoglie la volontà del Padre e la fa sua: non solo obbedisce, ma ama il Padre,
pertanto non si fida di chi gli consiglia, diabolicamente, di fare diverso, perché stima più
affidabile la promessa del Padre che non qualsiasi altra soluzione (Lc 4,1-13, 23,35-46).
Così entra nella morte sicuro che sacrificare la propria vita per il Padre (vivere da figli) è
trovarla. E ha ragione! Il Padre non lascia che il suo Figlio veda la corruzione (Sal 15).
La morte in croce di Cristo rivela allora la ribellione del mondo (Mt 21,33-44), l’amore del
Padre (Rm 8,32), l’identità del Figlio (Gv 15,9-10).
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La risurrezione rivela la fedeltà dell’amore del Padre, e la giustizia del Figlio, collocando
così nella gloria e nella esaltazione il Figlio davanti a tutti gli uomini: Il Padre svela che lui
è il nome da invocare per avere perdono e salvezza (At 2,22-36). La redenzione nel sangue
di Cristo (Ef 1,7) è pertanto questa: una fedeltà al Padre che si consuma per rimanere nella
sua volontà per amore (Gv 2,17.22)! Questo è radicalmente diverso dal vecchio Adamo; è
un vero rapporto filiale. Chi assume la vita di Cristo, chi ne riceve lo Spirito ed entra nel
suo rapporto con il Padre, smette la condizione ribelle di Adamo e diventa figlio di Dio per
davvero (1 Gv 3,1-2). Il peccato è perdonato, per coloro che smettono la condizione ribelle
e diventano figli (Lc 15,11-32).
La via sacramentale che attua il Mysterium Salutis
Il sacramento che esprime e manifesta questo mistero di salvezza di perdono del peccato,
dismissione della condizione di Adamo e partecipazione alla condizione riconciliata del
Figlio di Dio è il Battesimo, per porta così i rinati dall’acqua e dallo Spirito al banchetto
eucaristico, in cui si sacrificano graditi al Padre, insieme al sacrificio di Cristo.
Insieme al Battesimo è quindi l’esercizio eucaristico dei Battezzati che annuncia la
riconciliazione, perché l’“Agnello toglie il peccato del mondo”, quando l’uomo battezzato
vive da figlio e quindi offre se stesso insieme alla vittima spirituale gradita a Dio, il Figlio
unigenito.
Ma per il battezzato che ha prestato orecchio e volontà alla persuasione diabolica,
commettendo il peccato, la Chiesa riconosce un segno che esprime e manifesta
efficacemente la penitenza e la riconciliazione, che è il Sacramento della perdono.
Il perdono ricevuto nel Battesimo ed esercitato nell’Eucaristia ha bisogno di essere
confermato: non ridato, ma confermato.
Da questo punto di vista preferisco chiamare la Confessione una Confermazione del
Battesimo, perché il discepolo peccatore è spinto a cercare una conferma di quel perdono
che ha ricevuto nel Battesimo e che ha offuscato con le sue scelte contrarie alla volontà del
Padre.
Il Figlio prodigo della parabola, credendo che la presenza del Padre gli impedisca la
felicità, preferisce considerarlo morto, usurpare l’eredità e allontanarsi da lui.
Ma egli non smette di essere figlio: potrà cessarne l’esercizio, ma si tratta di una identità
che egli non può cambiare. Noi nasciamo figli e questa condizione è incancellabile. Ma
l’esercizio di questa identità filiale può essere contraddittoria o addirittura ostile rispetto al
propria condizione.
E mentre lontano dal Padre la sua identità filiale si compromette, così che lui non la
riconosce più (si crede di poter tornare come schiavo nella casa del Padre) il Padre invece
non ha mai cessato di conservare per lui questa identità. Il Padre celeste è colui che
custodisce per sempre l’identità filiale di tutti gli uomini.
Così il cammino imperfetto eppure intenso che il fratello minore sta compiendo trova il
volto misericordioso del Padre che lo sta aspettando e lo ristabilisce, ben oltre le sue
aspettative e contro ogni senso di giustizia, in quella condizione che lui aveva rifiutato.
Noi ministri siamo testimoni e cooperatori di questo mistero di salvezza. Sotto i nostri
occhi il Signore agisce attirando a sé l’umanità, che con i loro cammini, parziali, imperfetti,
intensi, cercano il Signore, perché torni a definire la loro identità offuscata.
Si comprende così perché definire Conferma del Battesimo il Sacramento della Penitenza,
perché il Signore dice al suo figlio smarrito: “io ti confermo l’amore con cui ti ho amato e
non ho mai smesso di amarti, con cui ti ho atteso, ti ho seguito, ti ho attirato a me. Ti ho
amato prima che decidessi di fare il bene e il male, e non ho mai smesso. A te è sembrato
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che io ti fossi ostile, e che la mia legge ti impedisse la felicità: ti confermo che invece sono il
migliore alleato della tua felicità”.
A noi è richiesto di esercitare il nostro ministero di modo che in esso “esprima e manifesti”
questa premura di Dio, di riconciliare a sé il discepolo che ha attirato al ritorno. Il ruolo del
sacerdote, proprio per la dimensione comunicativa del rito, è efficace proprio nel momento
in cui riesce a “dire” la premura divina nei confronti del figlio penitente. Limitatamente
quello che significa è efficace (SC 7) e quindi, oltre alla validità o liceità, è proprio in
questione la vera esperienza di salvezza che il penitente riesce a fare, l’essere raggiunto dal
Mysterium salutis divino. Questa attenzione e responsabilità del ministro si vede bene nel
passaggio dal Rituale Romano tridentino a quello del Vaticano II.
Note dal Rituale Romano di Paolo V:
2. Il confessore ricordi anzitutto che egli è insieme giudice e medico: egli è stato
costituito da Dio ministro della sua giustizia e insieme della sua misericordia,
come mediatore tra Dio e gli uomini, per procurare insieme la gloria di Dio e la
salvezza delle anime.
3. Egli dovrà dunque saper discernere tra male e male, e come un esperto medico
curare abilmente le malattie delle anime, a ciascuna applicando il rimedio adatto.
A tal fine procuri di prepararsi con impegno, acquistando la più vasta conoscenza
teorica e pratica sia per mezzo dell'orazione sia con lo studio degli autori approvati,
specialmente del Catechismo Romano, e con la consultazione di persone qualificate
e prudenti.
Il ministro offre una perizia al penitente, quella del discernimento e del giudizio, e insieme
un rimedio, quello della medicina che risana e guarisce. Ma questi elementi risultano
parziali e rischiano di andare a braccetto con il clericalismo. È evidente che anche nel
passato, con queste indicazioni, santi sacerdoti hanno esercitato questo ministero con un
coinvolgimento personale straordinario, senza la “degnazione” clericale di offrire ai miseri
quello che non possono ottenere da soli.
Perché a ben vedere il giudice dopo aver espresso la sentenza, torna a casa sua, come pure
il medico, una volta fatta la diagnosi e stabilita la terapia: il malato si trova da solo con la
sua malattia da curare.
Il Rito post conciliare insiste, tra gli altri elementi di novità, sul legame tra il ministro e il
penitente, i quali sono uniti prima, durante e dopo la celebrazione. Così la giustizia e la
cura non sono dimenticate, ma interpretate in una relazione ministeriale che si chiama
adesso: paternità e pastoralità. Il penitente non è indifferente al sacerdote, perché egli non
è un erogatore anonimo di salvezza. Nel legame tra ministro e penitente si “esprime e
manifesta” il legame ecclesiale in cui si attua il perdono dei peccati.
Note dal Rituale Romano di Paolo VI:
10. Esercizio pastorale di questo ministero
a) Per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, il confessore deve saper
distinguere le malattie dell'anima per apportarvi i rimedi adatti, ed esercitare con
saggezza il suo compito di giudice; deve inoltre con uno studio assiduo, sotto la
guida del Magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, procurarsi la scienza
e la prudenza necessarie a questo scopo. Il discernimento degli spiriti è l'intima
cognizione dell'opera di Dio nel cuore degli uomini: dono dello Spirito Santo e frutto
della carità.
b) Il confessore sia sempre pronto ad ascoltare le confessioni dei fedeli, ogni qual
volta i fedeli stessi ne fanno ragionevole richiesta.
c) Nell'accogliere il peccatore penitente e nel guidarlo alla luce della verità, il
confessore svolge un compito paterno, perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e
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impersona l'immagine di Cristo, buon Pastore. Si ricordi quindi che il suo ministero è
quello stesso di Cristo, che per salvare gli uomini ha operato nella misericordia la
loro redenzione, ed è presente con la sua virtù divina nei sacramenti.
L’impulso dato da papa Francesco.
Non è sfuggito l’impulso che il papa ha dato alla considerazione e alla pratica del
Sacramento della Penitenza. A più riprese è intervenuto nei suoi discorsi e nelle sue omelie
invitando ad apprezzare maggiormente questo Sacramento e per esortare i preti ad un
esercizio del ministero di confessore meno inquisitorio e più misericordioso e paterno.
Non si contano più le volte in cui egli ha insistito perché i confessionali non siano luoghi
di tortura e in cui si evitino curiosità fastidiose! Ogni tanto viene da chiedersi quale
panorama abbia presente, ma tant’è, queste sue preoccupazioni risultano molto frequenti,
insieme anche a inviti positivi e stimolanti per l’esercizio del nostro ministero. Certamente
il punto di maggiore rilievo lo abbiamo ricevuto nella indizione e conduzione del Giubileo
della Misericordia. Oltre alla sorpresa di questo evento giubilare, ci ha offerto anche una
comprensione del nostro tempo ecclesiale a partire dalla chiusura del Concilio Ecumenico
Vaticano II: siamo nell’esercizio della misericordia che la Chiesa ha riconosciuto con la
assise Conciliare e vuole esercitare in questo tempo, nei confronti del suo annuncio del
vangelo al mondo.
Il Sacramento della Penitenza è evidentemente uno degli strumenti più espliciti che la
Chiesa possiede per “annunciare e attuare” (SC 6 ) la misericordia del Signore. Così, su
questo esercizio del nostro ministero, il pontefice è tornato spesso, per responsabilizzarci
alla buona riuscita di questo Sacramento, grazie all’atteggiamento e alla disposizione
d’animo anzitutto del presbitero.
Non mi stancherò mai di insistere perché i confessori siano un vero segno della
misericordia del Padre. Non ci si improvvisa confessori. Lo si diventa quando,
anzitutto, ci facciamo noi per primi penitenti in cerca di perdono. Non
dimentichiamo mai che essere confessori significa partecipare della stessa missione
di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e
che salva. Ognuno di noi ha ricevuto il dono dello Spirito Santo per il perdono dei
peccati, di questo siamo responsabili. Nessuno di noi è padrone del Sacramento, ma
un fedele servitore del perdono di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli
come il padre nella parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio
nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé
quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non
si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori e incapace di gioire,
per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto, e non ha senso dinanzi alla
misericordia del Padre che non ha confini. Non porranno domande impertinenti, ma
come il padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio
prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e
la richiesta di perdono. Insomma, i confessori sono chiamati ad essere sempre,
dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della
misericordia (MV 17).
Vorrei allora concludere questa riflessione richiamando alcuni spunti che il papa ha offerto
alla Chiesa italiana nel convegno ecclesiale di Firenze, in cui non ha dato alcuna
indicazione pratica da seguire, ma ha offerto a tutti l’invito a imitare l’umanità di Gesù,
secondo l’invito paolino dell’inno ai Filippesi. Si tratta non tanto di una identità astratta di
cosa sia l’umanità, ma di assumere i sentimenti concreti e umani che il Verbo ha assunto
con l’incarnazione, che ha esercitato e nei quali ha compiuto la sua amorevole obbedienza
al Padre.
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Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta
umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma
anche quello degli altri. (Fil 2,3-4).
Accanto all’umilità e al disinteresse, che il papa prende dalla citazione di Filippesi,
Francesco propone anche un altro sentimento di Gesù, e lo offre alla nostra imitazione:
quello della sua beatitudine, sulla scia del discorso della montagna in Matteo. Beatitudine
che non consiste nella soddisfazione del proprio desiderio, ma nella fiducia che dal Padre
venga la realizzazione delle proprie attese: beatitudine come atto di fede nei confronti di
Dio, perché la nostra felicità si compie in Lui, nell’obbedienza amorosa alla sua volontà:
nell’essere figli.
Mi piace pensare allora che, per realizzare bene l’espressione e la manifestazione della
Misericordia di Dio nel Sacramento della Penitenza, il sacerdote debba imitare, anzi
esercitare i sentimenti di Cristo, facendo dell’azione in persona Christi non solo un punto di
forza del suo sacerdozio (clericalismo), ma un punto di partenza dell’esercizio del suo
servizio.
Così si potrà accostare a penitente che lo cerca con umiltà, disinteresse, beatitudine.
Umiltà:
Il primo sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri
superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla
del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è
un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria
“dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo
perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che
sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci
sorprende sempre (papa Francesco a Firenze).
Il ministro non è superiore al penitente, solo perché egli non ha il dovere di denunciarsi
peccatore come l’altro. Chissà di cosa saremmo stati capaci noi (o di cosa siamo capaci noi)
nelle stesse condizioni! Nessuna arroganza o presunzione nel gesto, nel tono della voce,
nelle parole. L’umile considera gli altri superiori a se stesso: il penitente, per il suo
accostarsi al confessionale, è già nell’opera di Dio che ci ha preceduto e lo ha attirato a sé.
Egli ha già una sua grandezza, per il cammino a cui il Signore lo conduce, sebbene parziale
o insufficiente.
Dice il patriarca Giuda: “Tamar è più giusta di me“ (Gen 38,26), ricorda Ambrogio nel de
Poenitentia (II, 73-77).
Disinteresse:
«Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse.
«Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede
ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi
ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica,
autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso,
allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture
che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici
implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii
gaudium, 49).
Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La
nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo
seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo
di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa,
che arriva ad essere feconda (papa Francesco a Firenze).
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Non si tratta di “menefreghismo”, è esattamente il contrario. Si tratta di non avere il
proprio interesse come primario, ma di avere a cuore anzitutto il bene dell’altro. Il ministro
che si vede comparire davanti il penitente, occorre che si preoccupi anzitutto del suo bene,
di quello di cui ha bisogno, perché il sacramento che sta celebrando sia efficace.
L’accoglienza, la scelta della Parola di Dio da annunciare, le parole è il caso di dire e quelle
che non è il caso di dire, perché non tutti sono in grado di sopportare tutto. Quanta
sapienza è richiesta in questo esercizio! Se dici troppo, sei pesante; se dici poco, non lasci
nulla… torna alla memoria la sfilza di esempi della Regola Pastorale di Gregorio Magno,
in cui il pastore deve essere tutto e il contrario di tutto a seconda della persona che ha
davanti. Ma primaria attenzione è di verificare di non avere un altro interesse, un altro
scopo, come quello di piacere, “sedurre”, ingaggiare, umiliare…
Beatitudine:
Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano è un
beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino.
Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente
umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo
poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e
povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa
beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere
anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a
volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella
delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella
misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.
Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano
con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza
possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé.
Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze
perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione
dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una
scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si
raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è
buono il Signore» (Sal 34,9)! (papa Francesco a Firenze).
Felicità, nel ministero della confessione, ce ne sono poche: vuoi perché si confessano poco,
vuoi perché non si confessa mai chi ne avrebbe bisogno… fatto sta che mentre il confessore
ce la mette tutta, dall’altra parte è facile trovare persone che desiderano solo un rapido
lavaggio, invece del rapporto paterno che il Sacramento propone. La beatitudine di Cristo
chiede però al ministro di gioire della gioia di Dio, non della gratificazione personale. “C’è
più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno
di conversione” (Lc 15,7.10).