cristoforo colombo e l`apertura degli spazi

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cristoforo colombo e l`apertura degli spazi
UFFICIO CENTRALE PER I BENI LIBRARI E GLI ISTITUTI CULTURALI
COMUNE DI GENOVA
SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA
CRISTOFORO COLOMBO
E L'APERTURA DEGLI SPAZI
MOSTRA STORICO-CARTOGRAFICA
Direttorie scientifica GUGLIELMO CAVALLO
I
ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO
LIBRERIA DELLO STATO
ROMA 1992
Continuità delle teorie
tolemaiche nel
medioevo e nel
rinascimento
Gennaine Aujac
traduzione dal francese di Claudio Giobbio
e Paolo Piccolini
Cristoforo Colombo, prima di avventurarsi nell'oceano Atlantico facendo rotta per
occidente, ha avuto modo di conoscere e studiare la Geografìa di Tolomco che la
traduzione latina di Jacopo di Angelo da Scarperia, e poi la stampa, avevano reso
popolare nel XV secolo con il nome di Cosmografìa, avendo il traduttore, perfettamente
consapevole che l'immagine del mondo abitato offerta da Tolomeo era inscindibile dalla
visione che quest'ultimo aveva del cosmos intero, deliberatamente operato tale
cambiamento di titolo. Le altre opere moderne possedute da Colombo, l'Imago mundi di
Pierre d'Ailly o l'Historia rerum ubique gestarum di Enea Silvio Piccolomini - papa Pio II
- riaffermavano anch'esse le medesime concezioni dei greci sul mondo, sia celeste che
terrestre.
D'altro canto Tolomeo ha fatto opera di geografo non solo nel trattato che ha
espressamente consacrato a questa scienza: nella più antica delle sue opere, infatti, la
Composizione matematica, più nota con il nome di Almagesto attribuitele dagli arabi,
dedica i primi due degli otto libri allo studio della terra al centro del cielo; nella
Tetrabiblos traccia a grandi linee il ritratto astrologico del mondo conosciuto e dei diversi
popoli che lo abitano. È soltanto verso la fine della sua vita che, volendo fare per la terra
ciò che aveva fatto per il ciclo e fornire a chiunque la possibilità di tracciare una carta del
mondo abitato, modifica in parte sulla scia del contemporaneo Marino di Tiro i suoi
convincimenti sull’estensione ed i confini del mondo conosciuto e propone
quell’immagine del mondo abitato che, superbamente realizzata dai cosmografi del
rinascimento, assicura a Tolomeo una gloria imperitura.
Senza dubbio Tolomeo, agli occhi di molti, è il geografo greco per antonomasia, forse
l’unico. Eppure, la sua collocazione nel II secolo d.C., in un momento in cui l’impero
romano, sotto gli Antonini, si limitava a consolidare la sua egemonia sul mondo
occidentale, ne fa uno scrittore tardo, erede di una lunga serie di eruditi e di ricercatori. Il
suo fine dichiarato è ordinare gli insegnamenti degli antichi per assicurarne la
trasmissione.
Quando Tolomeo, intorno al 120 d.C, comincia a fare le sue osservazioni ad
Alessandria (fu più astronomo che geografo), la città, fondata nel 331 a.C. da Alessandro
il Grande, ha già alle spalle quattro secoli e mezzo di storia; i primi sovrani, Tolomei
provenienti dalla Macedonia, avevano voluto fame un importante centro intellettuale,
dotato di una ricca biblioteca, dei cui destini si occupò un tempo l’inventore stesso del
termine «geografia», Eratostene di Cirene (ca. 275-196 a.C.), un erudito di fama
universale, astronomo, storico ed anche poeta. Ma se Eratostene inventò la parola, non
per questo aveva inventato la cosa; nel VI secolo a.C., a Mileto, Anassimandro aveva
disegnato, si dice, la prima carta, del mondo abitato ed il suo discepolo Ecateo ne aveva
fatto la descrizione; carta disegnata della terra, descrizione redatta della terra; sono questi
in effetti i due significati che può assumere il termine di geo-grafìa.
Anassimandro (nato ca. nel 610 a.C.) sarebbe anche stato il primo a fabbricare una
sfera per rappresentare il dolo che si vedeva allora «dall’esterno». Due secoli più tardi
Eudosso di Cnido (ca. 408-355 a.C.) aggiunse alla sfera celeste il disegno delle
costellazioni e vi tracciò i circoli fondamentali, l'equatore, i due tropici (a 4/60 di
meridiano da una parte e dall’altra dell'equarore); i circoli artici (tangenti all’orizzonte e
dunque in principio variabili con tale orizzonte), il circolo obliquo dello zodiaco ed i
meridiani. Eudosso è inoltre autore di un Giro della terra andato perduto. Ciò in quanto
astronomia e geografia in Grecia sono sempre state in-scindibili come lo erano la sfera
celeste ed il globo terrestre, che, nel quadro della teoria geocentrica, ne era il centro.
Questa visione del cosmo elaborata dai matematici greci consentiva, con il ricorso alla
geometria ed ai modelli ridotti, di pervenire ad una conoscenza teorica della terra che
spetterà alla posterità dimostrare empiricamente.
Fin dal IV secolo, infatti, la sfericità della terra era ben nota alla maggior parte degli
eruditi; Aristotele (De caelo 2, 14) la dimostra facendo ricorso alle leggi della gravità, alla
caduta dei gravi e, segnatamente, alle eclissi di luna:
«poiché l’eclissi è dovuta all’interposizione della terra, è il profilo della terra che, a causa
della sua forma sferica, produce la figura che vediamo». Dunque se la terra è sferica come
il ciclo, il globo terrestre, al centro della sfera celeste, ne è come la replica; analogamente
ai circoli celesti fondamentali, i circoli terrestri, omonimi dei primi, dividono la terra in
zone che si caratterizzano per la temperatura e, quindi, per l’abitabilità.
La terra, inoltre, non è che un punto in rapporto agli spazi celesti (Euclide, Fenomeni,
prop. 1); l’osservatore si trova dunque sempre al centro della sfera celeste che ruota con
un movimento uniforme intorno ad uno dei suoi diametri, divenuto l’asse del mondo. Era
facile fin da allora impostare, attraverso la geometria della sfera, diversi problemi. Era
possibile in questo modo «dimostrare» l’esistenza di una zona temperata (e dunque
abitabile) nell'emisfero meridionale, di un giorno di 24 ore nel solstizio destate per i
luoghi — come la misteriosa isola di Tule, scoperta da Pitea — situati ad una distanza dal
polo uguale a quella che separa il tropico dall’equatore, di una notte e di un giorno di sei
mesi al di sotto del polo, di giorni sempre uguali alle notti all'equatore.
Ecco le nozioni che facevano parte del bagaglio culturale di ogni uomo dotto nel
mondo greco-romano.
Eratostene aveva fatto fare un passo decisivo alla conoscenza del mondo abitato
calcolando, attraverso procedimenti geometrici, la lunghezza della circonferenza terrestre.
Avendo constatato da lungo tempo che nella città di Siene (Assuan) l'ombra dello
gnomone è nulla a mezzogiorno del solstizio d’estate - il che colloca Siene sotto il tropico
d'estate - egli misurò l'ombra dello gnomone quello stesso giorno, alla stessa ora, ad
Alessandria e ne dedusse il valore dell'angolo al centro che sottende l'arco terrestre
compreso tra Siene ed Alessandria, supponendo queste città sullo stesso meridiano (il che
corrisponde più o meno alla realtà). Tale angolo fu valutato 1/50 di circolo
(l’approssimazione è eccellente). Essendo la distanza Siene-Alessandria fissata in 5000
stadi ca., la circonferenza terrestre misurava più o meno 250000 stadi, cifra arrotondata a
252000 per consentire la divisibilità per 60. Il grado di meridiano corrispondeva allora a
700 stadi.
Elaborando la prima carta «in scala», Eratostene estende il mondo abitato, in larghezza,
dal dodicesimo parallelo nord (passando attraverso il paese produttore di cannella o costa
dei Somali) fino al nostro circolo polare ove colloca l’isola di Tule, in lunghezza, dal
meridiano estremo dell'India fino al meridiano estremo della Spagna, alTincirca 70000
stadi sul parallelo di Rodi (56° N) che ne misura circa 200000. Ne deduce che il mondo
abitato non occupa nemmeno la metà dell'emisfero settentrionale, «in modo che se
l'immensità dell’oceano Atlantico non fosse d'impedimento, sarebbe possibile andarci per
mare dalla Spagna fino alle Indie: sarebbe sufficiente seguire lo stesso parallelo e
percorrere la parte restante, una volta sottratta la distanza indicata, che rappresenta un pò
più di un terzo della circonferenza totale» (Strabone, 1, 4, 6). Una bella anticipazione!
Strabone, contemporaneo dell’imperatore Augusto, confuta il ragionamento di
Eratostene, perché, sostiene, «vi si ammette che, nella stessa zona temperata, possano
esserci due mondi abitati e forse anche più di due e in particolare all’altezza del parallelo
di Atene, nel tratto che attraversa l’oceano Atlantico». Cratete di Mallo, verso il 170 a.C.,
si era infatti reso popolare costruendo una sfera di grandi dimensioni rappresentante il
globo terrestre che conteneva, sulla sua superficie, quattro mondi abitati simmetrici
separati da cinture oceaniche. L’esistenza di continenti sconosciuti si inscriveva nella
logica della Sferica o geometria della sfera.
La traversata dell'Atlantico rappresentava, dunque, con Resistenza degli antipodi o di
un mondo abitato al di sotto dell'equatore, un tema di speculazione familiare presso i
greci. Anche Posidonio (ca. 135-50 a.C.) intervenne nella discussione. Ma avendo ridotto
(impiegando senza sufficiente rigore alcuni procedimenti astronomici) a 180000 stadi il
valore della circonferenza terrestre (il che fissava a 140000 stadi il parallelo di Rodi), ne
traeva delle conclusioni ancora più incoraggianti. «Posidonio formula l'ipotesi che la
lunghezza del mondo abitato è di 70000 stadi, cifra che rappresenta la metà dell'intero
circolo su cui è misurata tale lunghezza in modo tale che, dice, se partendo dall’occidente
si navigasse con il vento di est, al termine di un numero uguale di stadi si arriverebbe
nelle Indie» (Strabone, 2, 3, 6). Tolomeo adotterà cifre e conclusioni.
Strabone il geografo o Gemino il volgarizzatore (in un manuale elementare di
astronomia e di geografia matematica, l’Introduzione ai fenomeni) ci fa conoscere ciò
che, nel mondo greco-romano degli inizi dell'impero, si considerava come acquisito: la
terra, al centro del cosmo, è sferica come il cielo e ripartita come questo in cinque zone
dai circoli paralleli, proiezione dei circoli fondamentali del cielo; il mondo abitato,
circondato da tutti i lati dal mare e simile ad un'isola dalla forma di clamide, non occupa
nemmeno la metà della zona temperata settentrionale, lasciando lo spazio per un altro
mondo abitato nella medesima zona temperata e per altri due, simmetrici ai primi,
nell’emisfero meridionale; esso si dispiega in larghezza dal parallelo che passa attraverso
il paese produttore di cannella, a 12° 1/2 N fino a quello che attraversa l'isola dell’Irlanda
a 54° N (il parallelo di Tule, a 66° N sembrava loro rientrare nella zona glaciale); in
lunghezza va dai capi estremi della Spagna fino ai capi estremi dell'India. Circondato dal
mare esterno, il mondo abitato è anche penetrato da quattro grandi golfi: a sud il golfo
arabico (mar Rosso) e il golfo Persico, a nord il mar Caspio (ma su questo punto le
opinioni divergevano), a ovest, penetrando in profondità all’interno delle terre, il mar
Mediterraneo, che i greci chiamavano familiarmente il «nostro» mare. Il mondo abitato è
ripartito in tre continenti, Asia, Libia ed Europa, separati sia da fiumi, il Nilo ed il Tanai
(Don), sia da istmi, l’Arabico (istmo di Suez) ed il Caspio (o il Caucaso); le discussioni
procedevano quindi vivacemente tra sostenitori e avversari dell’uno o dell'altro modo di
separazione (Strabone, 1, 4, 7-8). La carta del mondo abitato che faceva fede era quella di
Eratostene, in proiezione ortogonale, organizzata intorno a due assi di coordinate, il
parallelo ed il meridiano di Rodi, con alcuni paralleli e meridiani supplementari, ripartiti
irregolarmente da una parte e dall'altra degli assi.
Tali sono nell'insieme anche gli insegnamenti di Tolomeo nel II secolo della nostra era.
Ma il mondo conosciuto si è esteso recentemente verso l’oriente ed il mezzogiorno: sono
state strette relazioni commerciali con la Cina, con il favore di circostanze politiche
favorevoli e della forte domanda di prodotti di lusso avanzata dai romani; la seta era un
prodotto pregiato e le spedizioni romane avevano dato man forte in Africa ai trafficanti
d’avorio, permettendo loro di spingersi lontano e inoltrarsi verso sud. La prosperità
materiale genera a volte numerosi disordini dello spirito: il secondo secolo assiste anche
al trionfo della ciarlataneria e dei «falsi profeti» denunciati da Luciano; lo scetticismo si
sostituisce alla piena fiducia che era riposta precedentemente nelle acquisizioni della
scienza. Da ciò l'ambizione di Tolomeo di conservare tutto e nello stesso tempo di
innovare. Nella Composizione matematica avverte la necessità, cinque secoli dopo
Aristotele, di dimostrare che la terra è di forma sferica (1, 4), che si trova al centro del
cielo (1, 5), che non è che un punto in rapporto agli spazi celesti (1, 6), che non compie
alcun movimento di traslazione (1, 7); per far ciò, fa uso ed abuso del ragionamento per
assurdo, nel più perfetto gusto del tempo. Passando nel libro II alla descrizione del mondo
abitato, lo dice «contenuto più o meno interamente in uno dei quarti settentrionali» (2, 1),
poi, con l'ausilio di numerose costruzioni geometriche, dà le indicazioni che consentono
di trovare mediante il calcolo le caratteristiche proprie di ogni latitudine. Dalla lunghezza
del giorno del solstizio in un determinato luogo si può anche dedurre l'arco di orizzonte
compreso tra lo zodiaco e l'equatore (2, 2), l’altezza del polo al di sopra dell'orizzonte (2,
3), il rapporto dello gnomone con la sua ombra, a mezzogiorno, nei giorni d'equinozio e
di solstizio (2, 4). In breve indica come sostituire il calcolo e la geometria
all’osservazione.
Nel campo dell'applicazione, Tolomeo compila la tavola sistematica dei tratti propri di
ogni parallelo, «attenendosi ad un aumento di un quarto d'ora equinoziale da una
inclinazione di un polo all'altra» (2, 6). Conserva dunque la terminologia antica in cui le
latitudini (designate come climi) erano definite secondo la durata del giorno più lungo.
L'inconveniente è che, in questo sistema di progressione, i paralleli, molto distanziati in
prossimità dell’equatore, si avvicinano man mano che si avanza verso il nord; così, dopo
il ventiseiesimo parallelo, «dove il giorno più lungo dura 18 ore e mezza e la distanza
dall'equatore è di 59° 1/2», Tolomeo è obbligato a modificare il ritmo dell’aumento «in
quanto i paralleli ormai si toccano quasi e la differenza tra le altezze del polo è inferiore
ad un grado completo».
Questo genere di tavola non è nuovo. Il famoso astronomo Ipparco (ca. 150 a.C.) aveva
già «rilevato, secondo quanto afferma, le differenze che intervengono nella posizione
degli astri in ogni punto della terra situato nel nostro quarto, vale a dire dall'equatore fino
al polo nord... Cominciava dalle regioni situate all'equatore, poi, percorrendo l’uno dopo
l'altro, di 700 stadi in 700 stadi, i diversi luoghi geografici lungo il meridiano di Meroe,
tentava di definire i fenomeni celesti in ciascun punto» (Strabone, 2, 5, 34). Ipparco, che
si basava sulla misura della circonferenza terrestre valutata da Eratostene, indicava
dunque le caratteristiche dei 90 paralleli situati tra l’equatore ed il polo nord; tali paralleli,
procedendo di grado in grado, erano equidistanti.
Nella sua tavola dei paralleli, Tolomeo indica per ciascuno la durata del giorno più lungo,
la distanza dall'equatore (espressa in gradi), uno o due luoghi di riferimento, nonché le
lunghezze dell'ombra, per uno gnomone di 60, nei giorni di solstizio e di equinozio.
Cominciando dall’equatore «che costituisce pressappoco il limite meridionale del quarto
di sfera occupato dal nostro mondo abitato», Tolomeo ricorda la controversa questione
dell’esistenza di luoghi abitati al di sotto dell’equatore; Eratostene, ma anche lo storico
romano Polibio, ed ancora Posidonio traevano dalla geometria della sfera l'idea che, al di
sotto dell’equatore, il clima doveva essere più temperato che al di sotto dei tropici, e che
quindi vi potevano essere luoghi abitati. Tolomeo si attiene all’opinione comune
«secondo la quale l’esistenza di luoghi abitati al di sotto dell’equatore è possibile; tale
regione sarebbe in effetti relativamente temperata poiché il sole non si mantiene a lungo
allo zenit (il movimento del sole in latitudine è rapido nei segni equinoziali), donde
un'estate temperata, e, durante i solistizi, non si allontana quasi dallo zenit, donde un
inverno poco rigido. Ma quali sono questi luoghi abitati? Non sapremmo dirlo con piena
certezza perché fino ad oggi, nessuno, proveniente dal nostro mondo abitato, vi è
penetrato e ciò che se ne racconta somiglia molto di più ad un frutto dell’immaginazione
che ad una esposizione veritiera».
Al termine del suo esame dei paralleli, Tolomeo giunge alle regioni polari. «Dove il
polo nord dista dall’orizzonte 90°, rappresentati dal quarto di circolo, la metà del circolo
mediano dei segni (l’eclittica) che è a nord dell'equatore, non passa mai al di sotto della
terra; la metà che è a sud non passa mai al di sopra della terra; così ogni anno, non vi sono
che un giorno ed una none che durano più o meno sei mesi ciascuno e gli gnomoni vi
proiettano sempre un'ombra circolare. In questa posizione della sfera, il polo nord è allo
zenit e l'equatore coincide nello stesso tempo con il circolo sempre visibile, con il circolo
sempre invisibile e con l’orizzonte; l'emisfero situato a nord dell'equatore è dunque
sempre interamente al di sopra della terra, l'emisfero situato al sud sempre al di sotto». In
tutto ciò Tolomeo si mostra fedele alle concezioni tradizionali, accontentandosi di darne
una esposizione sistematica ed esaustiva.
È ugualmente un mondo abitato, «situato in uno dei due quarti settentrionali» (2, 2 )
quello che Tolomeo ci descrive nella Tetrabiblos. Ripartisce prima di tutto le popolazioni
in grandi fasce climatiche che spiegano i loro tratti fisici e morali: neri e crespi, bruciati
dal sole tra l'equatore ed il tropico, gli uomini sono scialbi con i capelli lisci all'estremo
nord, di colorito misto e di costumi civilizzati nella zona temperata intermedia. Più avanti
divide il mondo abitato in quattro parti con assi molto simili a quelli della carta di
Eratostene: l’uno passa «attraverso il ‘nostro’ mare, dallo stretto d'Ercole al golfo Issico,
poi attraverso la catena montuosa che lo prolunga in direzione dell'oriente»; l'altro segue
il golfo arabico (mar Rosso), poi «attraversa il mar Egeo, il Ponto Eusino (mar Nero) e il
lago Meotide (mar d’Azov)». L’asse orizzontale è il parallelo di Rodi, come l’aveva
definito Eratostene e, se l'asse verticale non è il meridiano di Rodi che in Eratostene
seguiva il corso del Nilo, passava per Rodi e Bisanzio e si prolungava oltre la foce del
Boristene (Dnieper) è perché Tolomeo gli attribuiva la funzione essenziale di delimitare
unità territoriali sottomesse alle influenze di questo o di quel pianeta, di questo o di quel
segno dello zodiaco.
Nella Geografìa, per converso, Tolomeo apporta alcune correzioni. Sulla scia d i
Marino di Tiro, che lo precede di poco, prende in considerazione la recente espansione
del mondo conosciuto e in specie fornisce il metodo e gli strumenti per elaborare la carta
generale, e anche le carte parziali, del mondo abitato.
Marino aveva raccolto i racconti dei mercanti che, per terra e per mare, facevano
arrivare la seta dalla Cina o l'avorio dall’Etiopia e aveva letto i resoconti delle spedizioni
militari che i romani avevano compiuto nel Sahara: ne aveva concluso che il mondo
abitato occupava sulla superficie terrestre un'area molto più considerevole di quanto
allora si credesse; ben lungi dall’essere compreso interamente in una metà dell’emisfero
settentrionale, si estendeva verso sud fino al tropico dell’inverno e contava da est a ovest
circa 225° dalla Spagna fino all’estremo oriente cinese. D'un tratto la distanza che restava
da superare per andare via mare dalla Spagna alla Cina si rivelava essere appena superiore
ad un terzo del parallelo di Rodi su cui continuavano ad essere misurate le distanze. Allo
stesso modo si svuotavano del loro contenuto le antiche ipotesi sui quattro mondi abitati
simmetrici, dei quali uno solo sarebbe conosciuto, o su un mondo abitato al di sotto
dell'equatore del tutto separato dal nostro.
Tolomeo fa ricorso agli insegnamenti forniti da Marino ma se ne discosta circa
l’interpretazione, accusando il suo predecessore di attribuire al mondo abitato, per
mancanza di spirito critico, dimensioni eccessive. Così riduce la lunghezza a 180°, valore
già ammesso da Posidonio quando fissava a 180000 stadi (come Tolomeo e Marino) la
circonferenza terrestre ed a 70000 stadi la lunghezza del mondo abitato sul parallelo di
Rodi; quanto alla larghezza rifiuta di farla scendere al di là del parallelo dell'emisfero
meridionale simmetrico a quello di Meroe e si attiene quindi ad una larghezza di circa
80°, tra il parallelo di Tule, che situa come Marino a 63° N, e l’anti-Meroe, a 17° S. Tale
drastica riduzione, che Tolomeo cerca di giustificare con (più o meno) valide
argomentazioni, ha il vantaggio pratico di agevolare la realizzazione della carta.
Tolomeo infatti vuole riuscire là dove Marino ha fallito. Proponendo in continuazione
correzioni di dettagli ma senza cercare di integrarli in un insieme coerente, Marino
rendeva obbligatorio il ricorso alle antiche carte, sovente errate. Tolomeo, invece, vuole
offrire a tutti la possibilità di approntare una carta su nuove basi. Così fa per la terra e per
il mondo abitato ciò che ha fatto, nell’Almagesto, per il cielo e le costellazioni e compila
quindi il catalogo esaustivo delle città ripartite per paesi indicando per ciascuna e per ogni
luogo importante le coordinate, latitudine e longitudine, espresse in gradi: niente era così
lasciato al caso.
È certamente la prima volta che si compilava una tavola completa (pur se notevolmente
illusoria) delle città e dei luoghi del mondo conosciuto sul modello dei cataloghi delle
stelle. Tolomeo inaugurava così la serie delle coppie, sfera celeste-globo terrestre, che
conobbero un notevole successo nel XVII secolo.
Innovatore Tolomeo fu anche nell'adottare per la carta piana la proiezione conica, già
nota ad Ipparco (che rimproverava ad Eratostene di non averne fatto uso) ma non ancora
utilizzata per una rappresentazione generale del mondo abitato. Eratostene (e Marino)
aveva preferito la proiezione ortogonale, giustificandola così: «La differenza sarà
irrilevante se, al posto dei circoli, paralleli e meridiani, tracciamo delle rette, parallele per
i paralleli, perpendicolari alle prime per i meridiani; l'intelligenza può facilmente
trasporre ed immaginare circolare e sferico ciò che l’uomo percepisce su una superficie
piana... Se i meridiani tracciati in ogni punto del globo e che passano per il polo
convergono tutti, nella sfera, verso un solo punto, su una carta piana non sarà affatto
necessario far leggermente convergere le rette (i soli meridiani s'intende); è raro che ciò
sia necessario, e, non più che per la concavità, la convergenza non è esplicita quando le
linee si trovano trasposte su una carta piana e tracciate come delle rette» (Strabone, 2, 5,
10).
Tolomeo, che non fa mai riferimento nè ad Eratostene nè a Strabone, non ignora che la
proiezione conica semplice sia suscettibile di critiche; essa è tanto meno ‘mimetica’ della
realtà sferica quanto la sua carta si prolunga al di là dell'equatore, obbligando ad una
rottura dei meridiani; pertanto Tolomeo suggerisce di sostituirla, per meglio adeguarsi
alla realtà, con una proiezione in cui anche i meridiani siano arrotondati intorno al
meridiano centrale, come li si vede sulla sfera.
Così Tolomeo si è trovato ad essere prima spettatore e poi protagonista di una
trasformazione della geograna. La visione tradizionale di un mondo abitato che non
occupava nemmeno un quarto di globo terrestre, che aveva dapprima adottato
acriticamente, è sostituita, su iniziativa di Marino, da una nuova immagine, estesa a tutti i
paesi recentemente scoperti, in sogno o nella realtà, un'immagine che i prodotti di una
cartografia moderna dovrebbero contribuire a diffondere. Ma tale immagine ha avuto di
primo acchito partita vinta? Non sembra affatto, tanto la tradizionale era radicata e
vischiosa.
L’opera di Tolomeo è rimasta molto viva ad Alessandria nel corso dei secoli, fornendo
le basi dell'insegnamento scientifico. Ma è la Composizione matematica che viene
studiata, commentata e pubblicata. Pappo (fiorito intorno al 300) e successivamente
Teone (fiorito tra 365-390) si sono dedicati a tale attività, lasciandoci numerosi
commenti. Pappo vi aggiungeva lo studio di una raccolta di trattati elementari dovuti ad
Autolico di Pitane, Euclide e Teodosio di Bitinta che verteva sull'astronomia e la
geometria matematica, che gli arabi reputavano indispensabile per intraprendere lo studio
della grande sintesi di Tolomeo; tale raccolta, generalmente designata con il nome di
Piccola astronomia è fondata sulla geometria della sfera e sul geocentrismo.
Quanto alla raffigurazione (tarda) del mondo abitato proposta da Tolomeo, essa non
sembra aver beneficiato di una grande diffusione. Nello stesso tempo in cui Tolomeo era
impegnato ad Alessandria (almeno dal 121 al 150), uno dei suoi compatrioti, Dionigi,
componeva, sotto l’imperatore Adriano (117-136), una Periegesi o Descrizione della
terra abitata che ottenne un vero successo: in circa 1800 versi, metteva insieme, in una
forma facilmente comprensibile, le conoscenze geografiche del tempo, quelle esposte da
Eratostene, Posidonio, Strabone e da Tolomeo stesso nella Composizione. È proprio
questo insegnamento tradizionale di un globo terrestre diviso in zone, con un mondo
abitato ridotto alle dimensioni di una metà della zona temperata, che verrà largamente
diffuso dagli autori posteriori come Macrobio nei suoi Commentarii in Somnium
Scipionis (ca. 400) e gli enciclopedisti come Marziano Capella (fiorito tra 410-439),
Boezio (480-524), Cassiodoro (ca. 490-583) ed Isidoro di Siviglia (ca. 570-636).
A Bisanzio, ove sullo scorcio del V secolo si assiste al manifestarsi di un ritorno di
interesse per i grandi testi della geografìa, Tolomeo occupa un posto di scarso rilievo: è
piuttosto l'opera di Strabone che viene copiata, come testimoniano alcuni frammenti di
testo conservati in un palinsesto (Vat. gr. 2306 + Vat. gr. 2061A + Crypt. Z. . 43). Nel
secolo VI Stefano di Bisanzio estrapola dalla Geografia di Strabone alcune citazioni per il
suo Lessico. Prisciano di Lidia ne presenta alcuni estratti nelle Soluzioni indirizzate a
Cosroe, il famoso sovrano sassanide che accolse nella sua corte di Ctesifonte i filosofi di
Atene quando, nel 529, Giustiniano ordinò la chiusura dell’Accademia. Il grammatico
Prisciano di Cesarea aveva tradotto in latino la Periegesi di Dionigi che diffondeva con
successo l’insegnamento tradizionale. Nel contempo, il nestoriano Cosma Indicopleuste,
autore di una Topografia cristiana diretta contro le rappresentazioni pagane del mondo,
rimprovera soprattutto alla «gente di fuori» di credere ad una terra sferica ed all’esistenza
degli antipodi. Cassiodoro è meno retrogrado: organizzando gli studi per i suoi monaci di
Vivario, raccomanda loro la lettura non solo del poema di Dionigi, grazie al quale
potranno quasi «guardare con gli occhi ciò che avranno percepito con le orecchie», ma
anche del «codice di Tolomeo, che ha indicato così bene tutti i paesi che si potrebbe
credere che li abbia tutti abitati» (inst. 1, 25).
La Geografìa di Tolomeo sembra essere stata grandemente apprezzata in oriente.
Intorno al 440 un certo Mosè di Corene pubblicò in armeno una Geografìa, semplice
compendio di quella di Tolomeo, introducendovi di tanto in tanto alcune rettifiche e
citando, come sua fonte, Ipparco e Marino di Tiro ma anche Pappo, autore di un
commento al Planisfero di Tolomeo. La scuola di Alessandria, dopo la conquista della
città da parte degli arabi nel 642, si era stabilita ad Antiochia per iniziativa del califfo
Omar II e vi fu attiva fino al suo trasferimento ad Harran in Mesopotamia nel 720. È
indubbio che vi abbia trasportato gran parte della sua biblioteca.
L’oriente sarebbe stato a lungo affascinato dal mondo ellenico. All'epoca della
fondazione di Bagdad, nel 762, i califfi vollero fare di questa città un importante luogo di
cultura. Grandi ammiratori della scienza e del pensiero greco, ebbero a cuore di
procurarsi in qualsiasi modo, lecito o illecito, il maggior numero possibile di testi greci
per farli tradurre e mettere a disposizione del mondo arabo;
gli Elementi di Euclide, l’Almagesto di Tolomeo (da una traduzione siriaca) furono tra i
primi a beneficiare di una traduzione in arabo. Il terzo califfo Al Mamun (813-833) diede
un forte impulso alla pratica delle scienze creando a Bagdad la Casa della Saggezza (832)
in cui concentrò una ricca raccolta di libri; fondatore di un osservatorio, fece anche
intraprendere il calcolo, con maggiore rigore, delle dimensioni della terra, per poter
procedere alla compilazione di una grande carta del mondo conosciuto; venne misurata
quindi, in due luoghi differenti, la lunghezza di un grado terrestre, seguendo il merodo
utilizzato da Eratostene e descritto da Tolomeo (Geografia 1, 2).
La Geografia di Tolomeo era infatti molto nota a Bagdad. Il grande saggio Mohammed
ibn Musa al Khwarizmi (morto ca. nell'847), a cui si devono tra l'altro i nomi di algoritmo
e di algebra (dal titolo di un suo trattato), ne aveva fatto un adattamento e aveva disegnato
delle carte (perdute) seguendo i dati di Tolomeo. Nel suo libro Le praterie d'oro, Al
Masudi (morto nel 956) riassume prima di tutto le opinioni correnti: «la terra è rotonda,
con il suo centro sull'asse della sfera; l’aria la circonda da tutti i lati e, paragonata alla
sfera dello zodiaco, è piccola come un punto matematico»; successivamente illustra i sette
climi dal-requatore fino all’isola di Tule, rapportando ciascuno di essi ad un pianeta e ad
un segno dello zodiaco (come nella Tetrabiblos?); più avanti ricorda le carte che
illustrano la Geografìa di Tolomeo in cui si vedono montagne rosse, gialle, verdi, mari
dalle forme diverse, dai colori vivaci «ma i nomi in quest'opera sono in greco e, di
conseguenza, incomprensibili». L'insegnamento di Tolomeo era, di fatto, ampiamente
rappresentato a Bagdad: la Tetrabiblos era stara rradorra in arabo nel corso del IX secolo
da Ishaq ben Hunain e provvista di un commento sotto il califfato di Mansur.
Quanto alla raccolta di geometria sferica conosciuta con il nome di Piccola
astronomia, essa aveva suscitato l’attenzione di Kusta ben Luka che ne diede una
traduzione molto apprezzata. Thabit ibn Kurra si occupò invece dell’Introduzione ai
fenomeni, il manuale di astronomia e di geografia composto nel I secolo a.C. da Gemino e
considerato come una buona preparazione allo studio dell’Almagesto. In breve, la scienza
greca, e in particolare l'astronomia e la geografìa (le due sono inscindibili), era molto viva
nel mondo arabo del IX e X secolo.
Nel frattempo si manifestava a Bisanzio una rinascita, come testimoniano alcuni
manoscritti preziosi, copiati con cura. I testi scientifici vi occupano un posto
preponderante. Uno dei nostri più antichi manoscritti in minuscola, il Laur. 28.18,
conservato a Firenze, contiene il Commentario di Teone e di Pappo alla Composizione
matematica di Tolomeo. Quanto alla Composizione matematica stessa, se ne conserva a
Parigi un esemplare in maiuscola, il Paris. gr. 2389, copiato all'inizio del IX secolo e a
Roma e un esemplare in minuscola, il Vat. gr. 1594, copiato ugualmente nel IX secolo, di
proprietà forse di Leone detto il Filosofo o l’Astronomo e che servì da modello al Marc.
gr. 313, del X secolo, conservato a Venezia. Il bel Vat. gr. 204, che contiene la Piccola
astronomia fu copiato anch’esso nella prima metà del IX secolo.
La geografia non era dimenticata. Verso l'850 si procedette alla traslitterazione della
Geografia di Strabone e se ne ottennero così (almeno) due esemplari in minuscola di cui
uno appartenne al patriarca Fozio (ca. 810-891), l'altro ad Areta di Cesarea (ca. 860-935).
Il primo diede origine a numerose derivazioni: una Crestomazia destinata ad entrare nel
corpus dei geografi minori (è conservata nel Pal. gr. 398 di Heidelberg, copiato verso
1’870); una raccolta di estratti destinata allo stesso corpus, conosciuta con il nome di
lpotiposi; le citazioni tratte da Strabene dall'imperatore Costantino Porfìrogenito per il suo
De Thematibus (933-934); il piccolo trattato Sulla carta geografica di Michele Psello (ca.
1018-1078) costituito da estratti di Strabone. È probabilmente dall'esemplare di Areta che
deriva per converso il più antico manoscritto in minuscola della Geografia di Strabone, il
Paris. gr. 1397, copiato nella seconda metà del X secolo e di cui non resta che il primo
tomo, i libri dal I al IX (ma quest'ultimo è mutilo).
Eustazio, arcivescovo di Tessalonica nel 1175, fornisce una buona testimonianza
dell'interesse che si portava allora alla geografìa di tipo tradizionale. Non solo apprezza la
Periegesi di Dionigi al punto da comporne un importante Commentario ma, tanto in
questo quanto nei suoi commenti all’Iliade e all’Odissea, fa riferimento, a proposito ed a
sproposito, alle opinioni espresse da Strabone che chiama semplicemente il Geografo,
come Omero veniva chiamato il Poeta.
Frattanto, in occidente, le conquiste arabe, soprattutto in Spagna, avevano sviluppato una
civiltà brillante, di cui le scienze, di provenienza greca e non, costituivano il fondamento.
I califfi di Cordova avevano dato vita ad importanti biblioteche: le opere dei filosofi e dei
saggi greci, il più delle volte tradotte, vi occupavano un posto di primo piano. Dalla Siria
e dall’Asia minore erano affluiti i manoscritti, greci ma soprattutto arabi. In seguito, nella
Spagna riconquistata, accorsero i latini, alla ricerca di questi testi antichi fino ad allora
inaccessibili. A Toledo, in particolare, ma anche a Pisa, a Roma, in Sicilia, ci furono delle
scuole di traduttori specializzati incaricati di tradurre dall’arabo in latino opere che
l’occidente aveva perduto di vista da lungo tempo: Platone di Tivoli, stabilitosi a
Barcellona dal 1134 al 1145, tradusse così la Tetrabiblos di Tolomeo (nonché l’opera di
Archimede). Gerardo da Cremona (1114-1187), che aveva fondato a Toledo,
riconquistata dal 1085, una celebre scuola di traduzione, tradusse dall’arabo in latino non
solo l’Almagesto (nonché le opere di Euclide e di Archimede) ma anche la maggior parte
del corpus della Piccola astronomia considerata come una preparazione indispensabile
per chi volesse avvicinarsi all’opera di Tolomeo; tradusse inoltre dall'arabo in latino
l’Introduzione ai fenomeni di Gemino intitolandola Riassunto del libro di Tolomeo di
introduzione all’ Almagesto.
Questo manuale, la cui paternità, nella versione latina, era negata a Gemino, ebbe un
grande successo nel XIII e nel XIV secolo; lo si trova copiato dopo la Geometria di
Euclide commentata da Campano di Novara (Paris. Mazar. lat. 3635, Paris. lat. 16198
dell’inizio del XIV secolo), dopo alcuni testi di Aristotele o su Aristotele (Laur. Fesul.
168 del XIV secolo), dopo l’Almagesto ed altri testi astronomici (codd. Cues 208,
Digbeianus lat. 168 del XIV secolo ora nel fondo Laud. della Bodleian Library di Oxford,
e ancora Dresden, Kgl. Bibl., Db 87 del XIV secolo). Fu tradotto anche in ebraico,
partendo dall'arabo, da Moses Ibn Tibbon. Proveniente da una grande famiglia ebrea di
Spagna, installata nel sud della Francia, Moses portò a termine il suo lavoro a Napoli
come indica il colofone dei manoscritti (Paris. hebr. 1027 del XIV secolo). Il manuale di
Gemino era presentato con il titolo: Libro della scienza degli astri, sintesi di Tolomeo.
Così, dopo una lunga eclissi, l'immagine cara ai greci di un globo terrestre diviso in zone
o in climi e di un mondo abitato che occupava solo un quarto della sua superfìcie
ritornava ad essere familiare all’occidente.
A Bisanzio, duramente provara dal sacco del 1204, con l'avvento al potere dei
Paleologi rifioriva anche la speranza e l’interesse per le lerrere, le scienze e le arti.
Niceforo Blemmida (ca. 1197-1272) si ispirava al poema di Dionigi il Periegeta per
comporre il suo Compendio di geografìa che ebbe un grande successo. Il regno di
Andronico II (1282-1328) segna soprattutto un ritorno in forza degli studi scientifici:
Massimo Planude (1260-1310), Teodoro Metochita (ca. 1260-1332), Niceforo Gregora
(ca. 1295-1360) ne furono i principali attori o artefici ed il monastero di Chora il luogo
privilegiato.
Si deve a Massimo Planude l’aver ritrovato, in cattivo stato, il famoso manoscritto del
X secolo contenente il I tomo della Geografia di Strabone (che ne includeva due), il Paris.
gr. 1397. Ne riparò alla meno peggio i danni causati dai topi e dall'umidità e completò nei
limiti delle sue possibilità i passaggi mancanti. Si trova la sua firma anche su un altro
manoscritto di Strabone, comprendente anche il II tomo della Geografia il Paris. gr. 1393,
della fine del XIII secolo, che corresse di suo pugno e di cui colmò le lacune, nei libri
VIII e IX, alla luce del manoscritto precedente; ne trasse alcuni Excerpta, la cui copia più
antica, conservata nel Laur. 69.30, è anteriore alla data della sua morte. L'interesse
provato nei confronti della Geografìa di Strabone si manifesta in diversi manoscritti
copiati a Bisanzio all’inizio del XIV secolo: il Vat. gr. 482 che contiene l’Epitome di
quest'opera; il Vat. gr. 175, datato 1321-1322, in cui si trova la Sinossi dei golfi del nostro
mondo abitato, tratta da Strabone da Giovanni Catrari; infine il Vat. gr. 1329 che contiene
gli ultimi libri della Geografia.
L'infaticabile Planude, fin dall'estate 1295, si metteva in cerca della Geografia di
Tolomeo, a suo avviso troppo a lungo dimenticata. Impiegò in tale impresa molte energie
ma non riuscì a scoprire che un esemplare privo di carte, il Vat. gr. 177 (di cui una nota
manoscritta lo dichiara possessore, al monastero di Chora). La delusione fu grande! Essa
ispirò a Planude un piacevole poema di quarantasette esametri che si può leggere nel
codice Ambros. A 119 sup. di Milano o nel Matrit. 4621 di Madrid. Per ovviare
all'assenza di illustrazioni, fece eseguire delle carte; l’imperatore Andromco II, a cui le
mostrò, ne fu così ammirato che volle possedere anche lui un esemplare con carte della
Geografia di Tolomeo.
Così videro la luce, probabilmente, i nostri due più antichi manoscritti corredati di
carte: il testo dei primi sette libri della Geografìa è seguito da una carta generale del
mondo abitato, poi da ventisei carte regionali, provviste di riassunti descrittivi che
figurano nel libro VIII. Nel manoscritto Urb. gr. 82, conservato nella Biblioteca Vaticana,
che era forse l’esemplare destinato all'imperatore, la carta generale del mondo abitato è in
proiezione conica semplice; è in proiezione conica arrotondata nel Seragl. 57, conservato
a Istanbul, che fu probabilmente copiato su iniziativa di Planude e per suo uso personale
(uno dei due copisti del manoscritto aveva già copiato l’esemplare di Strabone
appartenente, a Planude, il Paris. gr. 1393). Un altro prezioso manoscritto della fine del
XIII secolo o dell’inizio del XIV, il Vat. gr. 191, riunisce un certo numero di testi
scientifici, tra cui la raccolta conosciuta con il nome di Piccola astronomia e il Commento
ai Fenomeni di Eudosso e di Arato di Ipparco; vi si trova anche la Geografia di Tolomeo,
priva di carte; una nota del copista precisa tuttavia che, se questo esemplare consta di
ventisette carte regionali invece che di ventisei, è perché la decima carta d'Europa è stata
divisa in due, con la Macedonia da una parte, l'Epiro, l’Acaia, il Peloponneso, Creta e
l'Eubea dall'altra; è la prova che questo manoscritto (o piuttosto il suo modello) era bello
e corredato di numerose carte.
Esiste una testimonianza eccezionale dell'interesse per la geografia nella Bisanzio del
XIV secolo: è il codice Vatopedi 655, conservato al monte Athos.
Esso riunisce la Geografia di Tolomeo, con alcune carte (ma il manoscritto è stato
smembrato e la carta generale si trova nella British Library di Londra, Add. 19391),
probabilmente copiata sull’Urb. gr. 82, il corpus dei geografi minori, copiato sul Pal. gr.
398 di Heidelberg, del tardo IX secolo, e la Geografìa di Strabene, proveniente dallo
stesso modello del Paris. gr. 1396 che appartenne a Planude.
È l’Almagesto al contrario, che attirò prima di tutto l’attenzione di Teodoro Metochita.
Pubblicando una Introduzione poi un Commento ai tredici libri della Composizione
matematica perseguiva un duplice obiettivo: chiarire l'opera di Tolomeo e dimostrare la
compatibilità tra la scienza greca e la fede cristiana. Dal 1320 al 1360, molti studiosi si
dedicarono all’astronomia: Niceforo Gregora, Teodoro Meliteniota, Isacco Argiropulo,
Nicola Cabasilas, ed altri contribuiscono con Teodoro Metochita a questa riscoperta della
scienza degli antichi. Ai commenti sull''Almagesto si aggiunsero quelli sulla Geografia,
dovuti a Isacco Argiropulo e a Niceforo Gregora (cfr. il Vat. gr. 176, del XlV secolo). In
breve, tutto il ventaglio del pensiero greco si dispiegava a Bisanzio con diversa fortuna.
Nell'Europa nord-occidentale la persistenza dell’insegnamento tradizionale ereditato dai
greci, a volte per il tramite degli arabi, è testimoniata dai manuali che presentano la
geometria della sfera. Il più celebre è incontestabilmente il De sphaera di Giovanni di
Holywood, detto di Sacrobosco, composto nei primi anni del XIII secolo; quasi
contemporaneamente, tra il 1215 e il 1230, Roberto Grossatesta, in seguito vescovo di
Lincoln, redigeva un trattato dallo stesso titolo che riscosse un notevole successo. Questi
due volgarizzatori nati in Gran Bretagna furono in stretto rapporto con la Francia. Il
primo andò ad insegnare a Parigi ove redasse verso il 1230 il suo trattato che, intorno al
1272, fu provvisto di un commento ad opera di Robertus Anglicus, che si trovava a quel
tempo a Montpellier. Per quanto riguarda Roberto Grossatesta, ebbe per discepolo il
famoso Ruggero Bacone che andò anch'egli ad insegnare a Parigi.
Divenuto molto presto una sorta di opera di riferimento, il De sphaera di Sacrobosco fu
spesso copiato e benefìciò di numerose edizioni fin dai primordi della stampa (se ne
contano una buona trentina prima del 1500). Strutturato in quattro capitoli, tratta
innanzitutto dell'insieme delle sfere che compongono il mondo, della rotazione del cielo
sferico, della posizione della terra, sfera immobile al centro della sfera celeste, della
circonferenza terrestre fissata secondo Macrobio Teodosio ed Eratostene a 252000 stadi.
Il secondo capitolo, illustrato da una sfera armillare, presenta «i circoli di cui la sfera
materiale è composta», equatore, zodiaco, meridiano e orizzonte, tropici e circoli artici;
questi ultimi consentono di dividere il ciclo e la terra in cinque zone. Nel terzo capitolo
Sacrobosco studia il sorgere ed il tramontare dei segni dello zodiaco, così importanti
presso i greci per la conoscenza dell'ora durante la notte e per prevedere la durata dei
giorni e delle notti nei differenti luoghi della terra secondo le stagioni; presenta la
divisione classica del mondo abitato in sette climi, definiti dalla lunghezza del giorno del
solstizio e dall'altezza del polo al di sopra dell'orizzonte (l’equivalente della latitudine). Il
quarto capitolo tratta del movimento dei pianeti e delle eclissi di sole e di luna.
Questo trattato di Sacrobosco fa inevitabilmente pensare al manuale di Gemino di cui
sembra un compendio ma che non è mai citato dall'autore. È vero che accanto ai poeti, ai
matematici e ai filosofi, greci e latini, come Euclide, Teodosio, Aristotele, Macrobio,
Eratostene, Tolomeo, Virgilio e Lucano, nomina spesso Al Fargani (Alfraganus) che
poteva essere a conoscenza del testo di Gemino ma sotto un altro titolo. Al Fargani, che
lavorò a lungo a Bagdad, aveva composto un libro sui movimenti celesti, ispirato alle
teorie di Tolomeo; tradotto in latino (dal solito Gerardo da Cremona) e anche in ebraico,
questo trattato esercitò un'influenza sicura sulla cosmogonia di Dante.
Se l'insegnamento fornito dal De sphaera di Sacrobosco è dello stesso ordine di quello
del manuale di Gemino, ben conosciuto dagli arabi, ne differisce almeno su un punto: il
circolo artico, limite della zona temperata, che in Gemino e nella maggior parte dei
geografi greci e romani, era stato fissato a 54° N, appiombo al circolo artico di Rodi (il
circolo artico celeste che per definizione delimita le stelle sempre visibili è tangente
all’orizzonte del luogo e vana dunque con la latitudine), vi occupa il posto che noi gli
attribuiamo, a 66° N, «sotto il circolo che descrive il polo dello zodiaco durante la
rivoluzione diurna dell'universo», come lo definisce Posidonio (Strabene 2, 5, 43). Al
contrario, come Gemino e molti altri autori antichi (e probabilmente Al Fargani),
Giovanni di Sacrobosco conserva per la circonferenza terrestre il valore di 252000 stadi
considerati da Tolomeo come il valore universalmente ammesso!
A fianco di questo approccio teorico e libresco alla geografìa, si sviluppava un sapere
più empirico, circonfuso a volte di mistero, acquisito nel corso di viaggi lontani,
soprattutto in direzione dell’oriente. Le vie della seta, che tanto avevano contribuito ad
accrescere le dimensioni dello spazio conosciuto al tempo di Tolomeo, tornavano ad
essere più o meno praticabili. Riprendevano le relazioni tra l'occidente e l’estremo oriente
così mal conosciuto. Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252), messo pontificio presso
il Gran Khan, ne aveva riportato una Storia dei Mongoli che noi chiamiamo Tartari.
Guglielmo di Ruy-sdroek, inviato in Cina da s. Luigi nel 1253, aveva redatto un diario di
viaggio. Giovanni di Montecorvino (1246-1328), al termine di un lungo cammino che lo
condusse in India ed in Cina, era divenuto arcivescovo di Pechino. Infine Marco Polo che,
tra il 1260 e il 1295, aveva trascorso la maggior parte della sua vita in estremo oriente
dove era ricevuto dall’imperatore della Cina, aveva riferito le sue esperienze in un Libro
delle meraviglie scritto allo scopo di infiammare l'immaginazione dei lettori. Anche i
racconti più o meno fantastici di viaggi compiuti in levante, in India ed in Cina, da
Giovanni di Mandeville (ca. 1300-1372), che si presentava come un viaggiatore inglese,
godevano di una vasta risonanza alla fine del medioevo.
Tutto ciò forse spiega il rifiorire d'interesse che si osserva nel XV secolo per la geografìa
in generale, e per l'opera di Tolomeo in particolare, in cui è possibile trovare
un'abbondanza di notizie su questi paesi lontani e sulle strade che vi conducono.
Trovandosi Bisanzio, dopo la metà del XIV secolo, alle prese con i turchi, che
finiranno per averne definitivamente ragione nel 1453, la vita intellettuale rifluiva ormai
verso occidente. In un'Italia attiva, arricchita dal commercio, fiera dei suoi artisti e dei
suoi scrittori, cominciava a nascere il desiderio di recuperare l'eredità culturale
compromessa a Bisanzio dalla minaccia turca. I filologi s'impegnavano nel frugare nelle
ricche biblioteche dell’impero d’oriente per trovarvi manoscritti rari e preziosi e riportarli
in Italia; gli umanisti e i dignitari della chiesa inviavano missionari a Bisanzio con
l'incarico di procurarsi a peso d'oro i testi mancanti. I concili, quello di Ferrara nel 1435,
quello di Firenze nel 1439, in cui si riunivano vescovi greci e latini per cercare l’unione
delle chiese, fungevano anche da vere fiere di manoscritti. I contatti tra Costantinopoli e
l’Italia, tra gli eredi dei greci e dei latini, erano costanti e fruttuosi; l’emigrazione,
accelerata dalla paura dei turchi, fece il resto. Manuele Crisolora, nativo di
Costantinopoli, era venuto a Venezia intorno al 1394, inviato dall'imperatore d'oriente per
sollecitare aiuto contro i turchi. Qui fece conoscenza con un giovane fiorentino, Jacopo di
Angelo da Scarperia, desideroso di imparare il greco, che condusse con sé al rientro nel
suo paese. A Firenze, però, avevano apprezzato il suo sapere e lo pregarono di ritornarvi
per insegnare la lingua greca; Manuele si lasciò tentare e, dal 1397, si stabilì a Firenze.
Verso il 1400 iniziò una traduzione della Geografìa di Tolomeo che non portò a termine;
il lavoro fu ripreso e terminato tra il 1401 e il 1406, dal suo allievo Jacopo di Angelo da
Scarperia, che dedicò quest'opera al papa Alessandro V (questi, eletto dal concilio di Pisa,
sedè sul soglio pontifìcio solo dal 1409 al 1410). Jacopo diede al trattato di Tolomeo la
sua impronta personale, sostituendo al titolo originale quello di Cosmografia che
sottolineava l’importanza dei legami che univano, nell’universo dei greci, la terra al cielo,
ma che poteva anche ingenerare confusione.
Questa traduzione latina permise agli umanisti di scoprire con passione il resto di
Tolomeo: il cardinale Guglielmo Filastro approfittò del concilio di Costanza (gennaio
1418) per copiarlo di suo pugno. Successivamente fu la volta delle carte a beneficiare di
nomi latini. Cartografi e miniatori rivaleggiarono allora per zelo nell’eseguire manoscritti,
autentici capolavori, della Cosmografia; nella seconda metà del XV secolo si manifestò,
infatti, una infatuazione generale per l’epera geografica di Tolomeo, illustrata così
brillantemente: principi e grandi personaggi, come Borso d'Este, Luigi di Bruges, Alfonso
d'Aragona, Federico di Montefeltro, duca di Urbino, Mattia Corvino, rè di Ungheria, per
citarne solo alcuni, si facevano un punto d'onore di possederne un esemplare prezioso.
La stampa fece ben presto concorrenza al manoscritto, senza rallentare peraltro lo zelo
dei copisti e dei miniaturisti. La prima edizione, italiana, apparve a Vi-cenza nel 1475,
con il testo latino di Jacopo di Angelo da Scarperia ma priva di carte; fu seguita
dall'edizione di Bologna nel 1477, poi da quella di Roma nel 1478, provviste ambedue di
carte incise su cuoio. La diffusione fu ampia e rapida. È un esemplare dell’edizione del
1478 che Cristoforo Colombo aveva acquistato.
L’Almagesto sembra aver incontrato minor fortuna. Tradotto in latino da Giorgio di
Trebisonda, un amico del cardinal Bessarione, fu stampato a Venezia solo nel 1515. La
Tetrabiblos, al contrario, nell'antica traduzione latina (dall'arabo) di Platone di Tivoli,
accompagnata dal commento di Haly Aboul Hasan, fu stampata a Venezia fin dal 1484 e
pubblicata nuovamente nel 1493, sempre a Venezia, con altri commenti.
La Geografia di Strabone, tradotta in latino quasi mezzo secolo dopo quella di
Tolomeo, era stata stampata a Roma fin dal 1469; fu ripubblicata quattro volte, a Venezia
e a Roma, prima del 1500. Questa edizione era stata commissionata da papa Niccolò V
(1447-1455), fondatore della celebre Biblioteca Vaticana, a Guarino Veronese (13741460), che si era recato a Costantinopoli per studiare il greco. Il lavoro non era ancora
ultimato quando il papa morì. Guarino potè tuttavia portarlo a termine grazie all’aiuto di
un munifico senatore veneziano, Jacopo Antonio Marcello, che immediatamente ne fece
eseguire una stupenda copia miniata in onore di Renato d'Angiò, il buon re Renato. Si
dice che per questa traduzione Guarino avrebbe ricevuto 1500 scudi d'oro dal cardinal
Bessarione (ca. 1400-1472).
Prima di diventare cardinale, Bessarione, nato a Trebisonda, aveva soggiornato cinque
anni a Mistrà (1431-1436). Questa città del Peloponneso era divenuta, sotto l'impulso del
grande erudito Gemisto Pletone (ca. 1360-1452) un focolaio vivace dell’ellenismo. Dopo
aver insegnato qualche anno a Costantinopoli, Pletone, costretto all’esilio, si era stabilito
a Mistrà (verso il 1407-1410) ove soggiornò fino al termine della sua vita, non
allontanandosene che durante i due o tre anni in cui si svolsero i concili di Ferrara e di
Firenze. Platonico fervente, aveva raccolto un'importante biblioteca, in cui figurava al
posto d'onore la Geografìa di Strabone. Pletone ne trasse non solo sei grandi estratti,
raggruppati sotto quattro titoli, ma anche una Diortosi, di cui si ha la copia autografa nel
Marc. gr. 379 (posteriore al 1440). Ciriaco d'Ancona, di passaggio a Mistrà nel 1447-
1448, copia di sua mano questa Geografia, ridotta al tomo I; più tardi acquisterà un
esemplare dell’opera completa di cui «il suo amico Agalliano» aveva terminato la copia
nel 1447 (codici Eton. 141 e Laur. 28.15).
Nominato vescovo di Nicea nel 1437, Bessarione era stato inviato con questo titolo al
concilio di Firenze ove ritrovò con gioia l'amico Pletone. Fautore del-l'unione delle
chiese, si stabilì definitivamente in Italia con il titolo di cardinale. La caduta dell'impero
di Bisanzio, nel 1453, gli fece concepire il progetto di riunire il maggior numero possibile
di manoscritti greci con il fine di metterli a disposizione dei suoi compatrioti che fossero
riusciti a raggiungere l'Italia e, più in generale, di assicurare la sopravvivenza dei grandi
testi dell’antichità greca, selezionando i manoscritti migliori per farli copiare e tradurre in
latino. Nel 1468, ancora in vita, lasciò la sua ricca raccolta di manoscritti e di libri alla
città di Venezia: tale lascito costituisce un fondo di valore inestimabile, le gemma più
preziosa della Biblioteca Marciana.
La riscoperta dei grandi testi dell’antichità non era d'impedimento al successo dei
manuali più recenti, che sovente non erano che una mera compilazione conforme al gusto
del momento. Il De sphaera di Giovanni di Sacrobosco beneficiò di una decina di
edizioni tra il 1478 ed il 1500. L’edizione parigina del 1490 aggiunge in allegato a
quest'opera le note di Pierre d'Ailly. Ora, Pierre d'Ailly, che fu anch'egli cardinale, è
fautore di una Imago mundi che figura tra i libri prediletti da Cristoforo Colombo.
Nato a Compiègne nel 1350, Pierre d'Ailly compì i suoi studi al collegio di Navarra
(ca. 1362-1365), v'insegnò per un certo tempo e poi divenne vescovo di Cambray nel
1393. Risale a quest'epoca la composizione dell'Immagine del mondo «realizzata da
Monsignor Pierre d'Ailly, vescovo di Cambray, raccolta dalla Scrittura e da numerosi
autori, l’anno del Signore 1410, il dodicesimo giorno del mese di agosto». Piuttosto che
dalla Scrittura è dagli autori greci che Pierre d'Ailly ha attinto la materia dei sessanta
capitoli del suo libro. I primi tredici sono consacrati allo studio generale della sfera:
l’autore vi cita Tolomeo, Thabit ben Qurra, Aristotele, Seneca, Albumazar, Alfraganus,
Plinio ed anche l’autore del De sphaera, cioè Giovanni di Sacrobosco; come quest'ultimo,
egli conserva per la circonferenza terrestre il valore di 252000 stadi (quello di Eratostene
e non di Tolomeo nella Geografìa) e situa, il circolo artico a 66° N (il nostro circolo
polare); mantiene anche la divisione del mondo abitato in sette climi.
Nel capitolo che tratta de «La quantità di terra abitabile», ricorda innanzitutto l’opinione
di Tolomeo che, nel libro II dell’Almagesto, colloca il mondo conosciuto in uno dei quarti
del globo terrestre, quindi cita Aristotele, il quale dichiara verso la fine del ubru Sul cielo
e sulla terra (De caelo 2, 14) che il mare che separa l’estremità occidentale della Spagna
dalla parte orientale dell’India è piccolo; richiama infine Seneca che, nella prefazione al I
libro delle Naturales quaestiones, si compiaceva di immaginare che questo tratto di mare
potesse essere, attraversato in pochi giorni con i venti favorevoli. Fino a qui, quindi,
Pierre d'Ailly descriveva la terra dal punto di vista degli astronomi e dei geometri come
aveva fatto Tolomeo nell’Almagesto.
Dal capitolo XIV alla fine, invece, la descrive alla maniera e ad imitazione dei
«cosmografi» che cita: principalmente Orosio e Isidoro di Siviglia ma anche Plinio,
Solino e persino Alfraganus. Passa in nvisia i diversi paesi, ripartiti in continenti, l’Asia
innanzitutto, con l’Egttto, poi l’Europa e, in ultimo, l’Africa. Presenta le montagne
celebri, i principali promontori, le isole, i golfi, i laghi e gli stagni, i fiumi e termina con
un capitolo sui venti e sulla loro diversità. Poco materiale nuovo, dunque, in questa
compilazione, ma una descrizione abbastanza completa del mondo abitato, visto dagli
antichi. Numerosi manoscritti divulgarono l’opera di Pierre d'Ailly (morto nel 1420),
prima della pubblicazione del testo nel 1483.
È a Strabone che si ispirò soprattutto Enea Silvio Piccolomini (1405-1464) che, prima
di essere eletto papa nel 1458 con il nome di Pio II, aveva redatto una Historia rerum
ubique gestarum cum locorum descriptione nostrorum varias continens historias in
cinque libri, dedicata ad Alfonso V re di Napoli (1416-1458). Se l’autore citato più di
frequente è proprio Strabone, molti altri, antichi o più recenti, hanno portato il loro
contributo a questa compilazione: Plinio, Tolomeo, Alberto il Grande, Macrobio e altri.
Stampata per la prima volta a Venezia, nel 1477, l'Historia fu anch'essa uno dei libri
prediletti da Colombo.
Lo stesso anno apparve a Venezia l’edizione del poema geografico (Periegesi) di
Dionigi il Periegeta, in una traduzione latina ad opera di Antonio Beccaria. Questa
edizione fu seguita da numerose altre: Venezia 1478, 1498, 1499, Parigi 1501. Qualche
tempo prima era stata pubblicata a Venezia la traduzione del poema di Dionigi dovuta al
grammatico latino Prisciano, intitolata De situ orbis; essa, accompagnata dal D e
chorographia di Pomponio Mela, fu pubblicata nuovamente a Venezia nel 1482.
Sono queste le antiche teorie della geografia, fondate sulla geometria della sfera, che
persistono sullo scorcio del XV secolo in cui, grazie alla stampa, i testi riprendono vita e
diffondono largamente le conoscenze. Ora tali testi suggeriscono che lo spazio
sconosciuto che separa la Spagna dalle Indie è misurabile, è occupato dall’oceano,
all’interno del quale è forse un'isola sconosciuta, e che, verosimilmente, è possibile
raggiungere via mare le Indie, partendo dalla Spagna e mantenendo la rotta verso ovest.
La Geografìa di Tolomeo aveva, su questi testi aridi, il grande vantaggio di parlare agli
occhi, ora che schemi e carte la illustravano eccellentemente, dispensando quasi dalla
lettura del testo. Incise prima su cuoio poi su legno, le carte generali del mondo abitato
secondo Tolomeo mostravano la Cina, lontano verso est; facevano scendere l'Afnca a sud
dell’equatore, suggerendo resistenza di terre sconosdute che la prolungherebbero ancora
verso sud; esse acquisivano una modernità stupefacente, dopo i viaggi in estremo oriente
di Marco Polo e degli altri missionari, nel momento in cui, sotto l’impulso di Enrico il
Navigatore, si cominciavano ad esplorare le coste sud-occicienrali dell'Africa e a
compiere il periplo di questo continente. La sezione del continente asiatico operata, sulla
carta, dal meridiano situato a 180° da quello delle isole Fortunate e l’opinione, nel testo,
espressa da Marino di Tiro, di un continente euroasiatico estendentesi su 225° da est a
ovest, facevano inequivocabilmente della Geografìa di Tolomeo, così popolare in questo
scorcio del XV secolo, un efficace stimolo al viaggio. Cristoforo Colombo non resterà
sordo ad un simile richiamo.
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