note su metastasio e alfieri

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METASTASIO E ALFIERI : NOTE PER UN CONFRONTO
Vincenza Perdichizzi
Université de Lille
Talvolta, per far emergere in maniera più netta alcuni aspetti dell’oggetto di
studio che indaga, la critica letteraria procede per contrasti chiaroscurali, si avvale cioè
di confronti con altri testi ed autori che consentano di definire una dialettica di
continuità e scarti, di tradizione e innovazione, per stabilire confini e individuare svolte
che una cauta verifica provvede poi a sfumare e a dettagliare. Alcune di queste
contrapposizioni affondano le loro origini in tempi lontani e – private delle punte
polemiche che, soprattutto all’inizio, le assimilano ad aspri certami – costituiscono
ineludibili topoi critici : è il caso, per esempio, del rapporto Dante-Petrarca, AriostoTasso, e Metastasio-Alfieri.
In particolare, il confronto fra questi due ultimi autori si è sempre svolto
all’insegna di una rigida contrapposizione, instaurata precocemente dai contemporanei
e alimentata dallo stesso Alfieri, che più volte nei suoi scritti attribuisce a Metastasio la
funzione di paradigma inverso. Come è noto, infatti, dopo un esordio letterario ispirato
al modello metastasiano (la Cleopatraccia), presto ripudiato e presentato nella Vita
come testimonianza della « scarsezza del suo patrimonio poetico in quel tempo »1,
Alfieri elabora una poetica tragica antimelodrammatica, forgiandosi uno stile ruvido e
dissonante, agli antipodi dalla cadenzata melodia dei versi del poeta cesareo.
Il percorso di allontanamento dal melodramma non è però così lineare ed
univoco come l’autobiografia vorrebbe dipingerlo, non solo perché nelle tragedie
1
Vittorio Alfieri, Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, in Id., Opere, introduzione e scelta di
Mario Fubini, testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, III, 14,
appendice.
1
risuonano in più occasioni echi del Metastasio, le cui opere Alfieri aveva viste
rappresentate e lette fin dall’adolescenza 2, ma anche perché, alla fine della sua carriera,
egli si rivela disposto ad accondiscendere almeno in parte al gusto dei contemporanei,
cimentandosi
nella
composizione
della
« tramelogedia »
Abele,
anticipata
dall’inserimento di parti cantate sia nel Saul che nella Mirra, e prevedendo un
accompagnamento musicale anche per il Bruto primo, come lascia ipotizzare un foglio
autografo di Montpellier3.
Una volta ammessi i debiti dell’astigiano nei confronti del predecessore e
consideratene certe aperture alla moda musicale settecentesca4, non si può comunque
non riconoscere la sostanziale divergenza della tragedia alfieriana rispetto al
melodramma del Metastasio. Tale divergenza si manifesta innanzitutto nelle estetiche
opposte dei due poeti, che pur condividono una concezione idealistica dell’arte,
funzionale alla proposizione di un paradigma etico su cui modellare la realtà
(Metastasio : « Noi altri poveri poeti drammatici, avvezzi a descriver gli uomini come
dovrebbero essere, perveniamo tardi a conoscere quali essi sono »5 ; Alfieri : « avvezzo
da molti anni a dipingere gli uomini in poesia quali potrebbero e dovrebbero essere ;
troppo mi farebbe ora stomaco il dipingerli quali sono »6). Si realizza in tal modo, per
così dire, un’osmosi mimetica, per cui il teatro riflette la vita fornendone una versione
nobilitata, e la vita, a sua volta, dovrebbe ispirarsi al teatro nel tentativo di inverarne le
apparenze esemplari, sia nel « contagio eroico » di Metastasio, che innesca una gara di
virtù destinata a propagarsi dalla scena alla platea, sia nella rappresentazione alfieriana
2
Ibid., II, 4 (« Di nessun altro poi de’ poeti nostri aveva io cognizione ; se non se di alcune opere del
Metastasio, come il Catone, l’Artaserse, l’Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti
dell’opera di questo, o di quel Carnovale »).
3
Biblioteca Émile Zola di Montpellier, ms. 61 31 6. Il manoscritto comincia con l’indicazione « Sinfonia
dà principio » e suggerisce movimenti musicali alla fine di ogni atto : rispettivamente « Allegro
lunghetto », « Allegrissimo », « Adagio », « Adagio flebile » e « Adagio flebilissimo e brevissimo ». Cfr.
Angelo Fabrizi, « La Musica », in Id., Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri), Modena, Mucchi,
1993, p. 215-250. Per gli intermezzi lirici del Saul, della Mirra e dell’Alceste seconda cfr. Arnaldo Di
Benedetto, « Un mito alfieriano : Caino », in Id., Tra Sette e Ottocento. Poesia, letteratura e politica,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991, p. 53-66.
4
Queste aperture, peraltro, non intaccano la poetica tragica di Alfieri, come riconosce Angelo Fabrizi
(« La Musica », cit., p. 230), per cui « egli ammise la musica o come semplice sussidio del testo poetico o
come accattivante adornamento dell’elemento fantastico, non mai come parte integrante del contenuto
tragico ».
5
Pietro Metastasio, Lettere, in Id., Tutte le opere, a cura di Bruno Brunelli, Milano, Mondadori, 1951,
vol. III, 756.
6
Vittorio Alfieri, Misogallo, in Id., Scritti politici e morali, vol. III, a cura di Clemente Mazzotta, Asti,
Casa d’Alfieri, 1984, p. 203.
2
di un universo plutarcheo, che si configura come una « scuola di virtù » per il pubblico,
chiamato a riprodurre le gesta degli eroi libertari delle tragedie.
Mentre però Metastasio asseconda gli spettatori, ne soddisfa le aspettative,
adattando i classici antichi al gusto moderno – nella consapevolezza che « si parla a
popolo diverso e diversamente educato il quale vuol esser sempre solleticato, qualche
volta punto, ma non mai trafitto »7 –, Alfieri, nei cui scritti comincia a manifestarsi
l’apprezzamento della generazione successiva per lo stile energico dei « primitivi »,
condanna la sensibilità raffinata dei moderni, che comporta un ottundimento delle
sensazioni (« Questo popolo colto viene a sentire meno fortemente, appunto perchè con
maggior sottigliezza egli sente »)8 e ironizza sulla levigatezza edulcorata del
melodramma metastasiano (« [...] il Metastasio è norma, / Che i Greci imìta, e i Greci a
un tempo ammenda. / Tutta sua la Tragedia, in blanda forma / Gli alti sensi feroci
appiana, e spiega, / Sì che l’alma li beve e par che dorma »)9, cui contrappone un
modello tragico « tetro e feroce, per quanto la natura lo soffra »10.
Analogamente, mentre il poeta cesareo agevola la fruizione delle sue pièces da
parte del pubblico, sia sul piano contenutistico (attraverso una distribuzione preliminare
ed esaustiva delle informazioni necessarie alla comprensione dell’intrigo), sia sul piano
linguistico (attraverso la « difficilissima facilità » del linguaggio adoperato11, vale a dire
una « facilità frutto di laboriosissima cura »12), perché, come scrive in una lettera a
Francesco Algarotti, « nessuno di quanti ci leggono vuole affaticarsi per lodarci »13,
Alfieri lima il testo delle sue opere alla ricerca di una tesa essenzialità, che impone al
pubblico un’« intensità d’attenzione » tale da arrecare « forse [...] più assai fatica che
diletto alla mente di chi ascolta »14. Si forgia inoltre uno stile complesso ed ellittico, che
rifugge dalla grazia in nome dell’energia e sollecita lo sforzo interpretativo degli
spettatori, cui rifiuta ogni concessione :
7
Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. III, 152.
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, in Id, Scritti politici e morali, vol. I, a cura di Pietro
Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, II, 2.
9
Vittorio Alfieri, Satire, in Id., Scritti politici e morali, vol. III, cit., VIII, v. 80-84.
10
Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri alla lettera del Calzabigi, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose
critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 217.
11
Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. V, 2334.
12
Ibid., 2415.
13
Ibid., vol. III, 246.
14
Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 145.
8
3
a voler esser brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che sola genera
l’energia, non si può esserlo che usando molti modi contratti, che oscuri non
sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua [...] Il pubblico italiano non è
ancora educato a sentir recitare : ci vuol tempo, e col tempo si otterrà ; ma
intanto non per questo lo scrittore deve essere lasso o triviale. Se le cose sue
meritano, non è egli meglio, e più giovevole, che il volgo faccia un passo
verso il sapere, imparando, che non l’autore un passo verso l’ignoranza,
15
facendo in sue mani scapitar l’arte che tratta e la lingua che scrive ?
Per esemplificare come queste dichiarazioni di poetica influenzino la struttura
del discorso nei testi dei due autori, basterà prendere in considerazione il diverso
impiego dei nessi connettivi : se entrambi i poeti prediligono i periodi brevi e una
sintassi paratattica, nelle tragedie di Alfieri i rapporti logici fra le componenti della frase
sono allusi piuttosto che esibiti, non si esprimono attraverso connettivi grammaticali, e
pertanto il lettore-spettatore è costretto a recuperarli in prima persona, attivando un
meccanismo d’integrazione rispetto alle informazioni fornite dallo scrittore, laddove
Metastasio fa ricorso a nessi espliciti, preoccupandosi di rendere sempre evidente la
« legatura » a vantaggio del pubblico 16.
In Artaserse I, 1, 85-86, « [...] troppo mi sdegno, / Perché troppo t’adoro [...] »17,
la ripetizione del termine troppo – enfatizzata dal mantenimento della posizione
anticipata rispetto al verbo – non basta a costituire una cerniera logica fra i due
segmenti, il cui rapporto viene dunque chiarito dalla congiunzione perché,
contrariamente a quanto avviene in Alfieri, dove i segmenti testuali restano giustapposti
(per esempio, Timoleone IV, 1, 28-30 : « [...] Or dal tuo stato / Troppo è diverso il suo :
sangue già troppo / Versato egli ha [...] »)18.
Nel Demofoonte (III, 9, 1362-1363) Timante si rivolge a Cherinto supplicandolo
nei seguenti termini: « [...] Lascia ch’io mora, / Finché sono innocente ». La stessa
volontà di una morte che sottragga il personaggio alla colpa cui va inesorabilmente
incontro è espressa a posteriori anche nelle tragedie alfieriane, dove però si fa a meno
15
Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 233-234.
Nella lettera a Francesco Algarotti menzionata Metastasio consiglia a proposito di un passaggio logico
oscuro : « Ma io avrei voluto che voi aveste un poco più aiutato il lettore a conoscer subito la legatura »
(Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. III, 246).
17
Le citazioni dei melodrammi metastasiani sono tratte da Pietro Metastasio, Drammi per musica, a cura
di Anna Laura Bellina, Venezia, Marsilio, 2002-2004, 3 vol.
18
Vittorio Alfieri, Timoleone, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1981. Cfr. anche Id.,
Antigone, a cura di Carmine Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, III, 1, 128, « Troppo mi è nota ; e troppo
io l’amo [...] ».
16
4
del nesso subordinante ( Mirra V, 4, 220, « Io moriva... innocente ;... empia... ora...
muojo... »)19.
In Temistocle I, 1, 37-42 poi, l’eroe ateniese spiega al figlio i motivi che lo
inducono a perseverare nella fedeltà alla patria che l’ha esiliato :
[...] Odia l’ingrato,
E assai ve n’ha, del benefizio il peso
Nel suo benefattor ; ma l’altro in lui
Ama all’incontro i benefizi sui ;
Perciò diversi siamo ;
Quindi m’odia la patria, e quindi io l’amo.
Nel passo i rapporti contrastivi fra l’ingrato e il benefattore e fra la patria e Temistocle
si traducono nell’opposizione dei verbi odiare-amare, che si ripetono per le due coppie
di termini, stabilendo le equivalenze patria-ingrato e Temistocle-benefattor. Il poeta
però si avvale di numerosi connettivi per articolare minutamente gli snodi logici (ma...
all’incontro... perciò... quindi).
L’esito di queste scelte è un’organizzazione del periodo fluida e distesa, lontana
dal ritmo convulso delle tragedie di Alfieri, che scarnifica la frase eliminando ogni
elemento superfluo. A tal proposito, la differenza fra i due autori si evince soprattutto
nei casi in cui entrambi fanno ricorso ad espressioni simili, per i quali non è necessario
supporre necessariamente una dipendenza di Alfieri dal melodramma.
In Siroe II, 2, 663-671 Emira, rivolta al protagonista, argomenta diffusamente
l’impossibilità del loro idillio, dovuta all’inimicizia che oppone i rispettivi padri, ed
innesca così una schermaglia amorosa condotta sulle note di un registro patetico :
[...] A noi, che siamo
Figli di due nemici,
È delitto l’amor ; dobbiamo odiarci.
Tu devi il mio disegno
Scoprire a Cosroe, io prevenir l’accusa ;
Tu scorgere in Emira il più crudele
Implacabil nemico, in Siroe io deggio
Aborrir d’un tiranno il figlio indegno.
Cominci in questo punto il nostro sdegno.
19
Vittorio Alfieri, Mirra, a cura Martino Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1974.
5
Nell’Antigone alfieriana (III, 3, 324-326), al contrario, le parole della protagonista,
spesso interrotte da silenzi allusivi, sono ridotte all’essenziale :
Vivi Emon, tel comando... In noi l’amarci
Delitto è tal, ch’io col morir l’ammendo ;
Col viver, tu.
Nei versi della tragedia, Alfieri omette la precisazione di Emira sugli ostacoli che si
frappongono ai sentimenti dei due innamorati (che siamo figli di due nemici) e, tramite
la soppressione della proposizione incidentale, avvicina il pronome al verbo (in noi
l’amarci). Poi espone le conseguenze dell’amore funesto senza soffermarsi sui risvolti
esplicitati da Metastasio (è delitto l’amor ; dobbiamo odiarci), che indugia nello
sviluppo di uno stesso motivo.
Nel melodramma omonimo (II, 2, 669-671) la minaccia di Demofoonte, volta ad
imporre l’autorità regale al figlio,
Io fin ad ora, o prence,
Da padre ti parlai ; non obbligarmi
A parlarti da re.
si contrae nella durezza allusiva di Filippo II, 4, 184-185, in cui il tiranno chiede a
Carlo : « [...] ma perchè almeno, / Da che il padre non ami, il re non temi ? »20.
Nell’Achille in Sciro, I, 8, 221-223 Deidamia dichiara il suo amore per Achille :
[...] Fu Achille il primo
Che amai finora, e voglio
Che sia l’ultimo Achille. [...]
La contrapposizione fra primo e ultimo, intorno a cui nel melodramma si costruisce e
lievita la frase, viene sviluppata da Alfieri in forma implicita, nella contrapposizione dei
due contrari avvinti in un’unica formula : Filippo I, 2, 154-155, « [...] Odi ; la prima, / E
in un di amor l’ultima prova è questa », Merope III, 3, 292, « [...] favore ultimo, e
primo »21, La congiura dei Pazzi, I, 1, 85, « [...] chi l’ultim’è primiero », II, 4, 217,
20
21
Vittorio Alfieri, Filippo, a cura di Carmine Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1952.
Vittorio Alfieri, Merope, a cura di Angelo Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968.
6
« Fia il periglio primier l’ultima meta »22, Sofonisba V, 5, 200, « Il don primier, l’ultimo
pegno a un tempo »23. Analogamente i due estremi della nascita e della morte, separati
da una progressione cronologica marcata dai tempi verbali in Temistocle III, scena
ultima, 1354, « Se avrò la tomba ove sortii la cuna », vengono sovrapposti nell’Antigone
alfieriana (I, 1, 8) in cui la reggia di Tebe è definita sinteticamente da Argia, « Cuna del
troppo amato sposo, e tomba ».
A sua volta, il poliptoto in cui Seneca cristallizza la legge fondamentale della
tirannide, « timet timentes » si traduce in maniera diversa in Metastasio e in Alfieri,
anche se entrambi i poeti preservano l’allitterazione : mentre in Ezio I, 8, 409-410 si
legge « Chi fa troppo temersi / Teme l’altrui timor [...] », cui segue quasi una glossa
esplicativa (« [...] Tutti gli estremi / Confinano fra loro. Un dì potrebbe / Il volgo
contumace / Per soverchio timor rendersi audace »), Alfieri, nella sua Antigone (V, 5,
100-101), conferisce forza epigrafica alla sententia, gareggiando con l’originale, « [...] e
in trono trema / Chi fa tremar. [...] ».
Al di là delle scelte sintattiche, l’antitesi che più allontana la scrittura dei due
autori va riferita al valore che attribuiscono rispettivamente alla musica, pur partendo
dallo sfondo comune dell’estetica cartesiano-razionalista settecentesca. Quest’ultima
comporta la svalutazione della musica in quanto arte asemantica, atta ad agitare i sensi e
a
provocare
emozioni
passeggere,
ma
incapace
di
rivolgersi
all’intelletto,
contrariamente alla poesia, che può invece veicolare contenuti concettuali ed assolvere
così a una funzione didattica 24. In tale ottica, non stupisce che le maggiori critiche di
Alfieri al melodramma riguardino le arie 25, in cui la musica riveste di necessità un ruolo
protagonistico, determinando l’asservimento della ragione ai sensi, poiché, priva di
valore conoscitivo, essa si propone come unico scopo di « satollare l’orecchio, e fra le
mollezze e l’ozio seppellire l’ingegno »26.
Anche Metastasio, da parte sua, espone in più occasioni delle riserve sulla
corruzione della musica contemporanea, in termini non troppo diversi da quelli
22
Vittorio Alfieri, La congiura de’ Pazzi, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968.
Vittorio Alfieri, Sofonisba, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1989.
24
Cfr. Enrico Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, Einaudi, 1968 e Angelo Fabrizi,
Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri), cit.
25
Cfr. Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., II, 4, in cui egli ammette di aver tratto sommo diletto dai
testi metastasiani percorsi in gioventù, « fuorché al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli
affetti », che gli provocava invece un « dispiacere vivissimo ». Cfr. anche Id., Satire, cit., VI, v. 49-57
26
Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche,
cit., p. 245.
23
7
adoperati da Alfieri, visto che, a suo avviso, « avendo rinunziato i musici
all’espressione degli affetti, non grattano più che l’orecchio »27. Però, mentre l’adesione
ai parametri puristi della poetica classica induce l’Astigiano a considerare il
melodramma come un prodotto del gusto degenerato dei moderni, le cui diverse
componenti si intralciano a vicenda all’insegna di un vacuo edonismo, per Metastasio la
musica che accetta un ruolo ancillare rispetto alla poesia e se ne lascia dirigere può
potenziare i valori testuali e contribuire alla trasmissione di un insegnamento morale.
Pertanto, sulle orme di Apostolo Zeno, egli si fa promotore di una riforma del
melodramma che restituisca al testo poetico il ruolo preminente usurpato dal
virtuosismo canoro degli interpreti, però – a differenza del predecessore, orientato verso
la tragedia e costretto ad accettare suo malgrado la componente melodica del
melodramma –, Metastasio attribuisce alla musica un’importanza fondamentale : « io
non conosco poesia senza musica », dichiara infatti in una lettera del 1767 indirizzata a
un poeta amburghese, Daniele Schiebeler, che lo invitava a comporre dei drammi senza
arie28. Tale affermazione trova conferma e sviluppo nell’impegno ermeneutico
adoperato nell’Estratto dell’Arte Poetica di Aristotele, a sostegno della tesi che
estendeva il canto agli episodi della tragedia greca, e che consentiva dunque di
rivendicare per il melodramma lo statuto di erede legittimo del teatro antico, ma essa va
applicata anche all’« interna melodia » connaturata ai versi29, cioè al ritmo scandito
dalla regolarità degli accenti e dalle rime, che predispone di per sé la poesia a
un’intonazione musicale.
Alfieri invece rifiuta una versificazione scandita, che genera « cantilena » e
« dalla cantilena l’inverisimiglianza, dalla inverisimiglianza la noja »30. Eludendo il
dibattito sulla corretta esecuzione del verso drammatico greco (« poco sappiamo se
cantasse, e come cantasse fra gli antichi ; e poco altresì importa il saperlo »)31,
sottolinea che la tragedia « non canta fra i moderni »32. Se poi il poeta cesareo, nella
lettera all’amico Giovanni Claudio Pasquini, si dichiara pronto a sfidare « arditamente e
27
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 890. Cfr. anche 878 (« Quindi lo spettatore ha sempre il cuore
in perfettissima calma, e non aspetta dagli attori che la sua grattatina d’orecchie ») e vol. IV, 1368 (« E la
verità espressa trionferà di cotesti meravigliosi suonatori di gola che, scordati affatto della loro umanità,
non aspirano che alla gloria de’ violini, cioè a grattare unicamente le orecchie »).
28
Ibid., vol. IV, 1574.
29
Ibid., 1433.
30
Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 232.
31
Ibid., p. 230.
32
Ibid.
8
la tromba omerica e la tibia sofoclea »33, sottintendendo così uno sviluppo musicale sia
per l’epica che per la tragedia, designate attraverso i loro massimi esponenti antichi, per
Alfieri « strumento musicale alla tragedia non si è attribuito mai [...] ogni giorno si dice
la tromba epica, la lira delfica, il coturno e pugnale della tragedia »34.
In definitiva, abbandonando il « coturno » e il « pugnale » che le competono per
dotarsi della « tibia » metastasiana, secondo Alfieri la tragedia abdica alle prerogative di
« più terribile genere di poesia che v’abbia »35 per divenire un frivolo divertissement,
che concilia l’« oblio » di un pubblico asservito, invece di incitarne gli animi alla
riscossa libertaria :
Non più scomposta il crine, il guardo orrendo,
In fuoco d’ira fiammeggiante il volto ;
Nè parlar rotto, e da mollezza sciolto ;
Nè furor più, nè minacciar tremendo ;
Non più sforzarvi a inorridir piangendo ;
Non più il coturno e il manto in sangue avvolto :
Nè il grondante pugnale in me rivolto :
Tutt’altra omai di appresentarmi intendo.
Io canterò d’amor soavemente ;
Molle udirete il flauticello mio
L’aure agitare armonïosamente,
Per lusingar l’eterno vostro oblio.
Poi, per scolparmi, alla straniera gente
Dirò : l’Itala son Melpomen’io36.
Questo celebre sonetto – composto dall’autore nel 1783 « in ringraziamento, e
risposta alle molte, e sublimi critiche fatte al I o volume delle sue Tragedie,
principalmente sulla durezza del verseggiare, da vari Giornalisti, Gazettieri, Poeti,
Corrieri europei, e altri simili » – svolge in una serie di immagini i temi trattati più
diffusamente in sede teorica. La rinuncia provocatoria a una poetica tragica improntata
ad austerità e vigore viene parodiata nella seconda parte del componimento, in cui gli
avverbi soavemente e armoniosamente, insieme al termine flauticello (equivalente
degradato del latineggiante « tibia » impiegato da Metastasio), non si limitano a
contrapporsi da un punto di vista tematico e semantico all’atmosfera cruenta evocata per
la tragedia e ai suoi soggetti orridi, ma con la distensione stessa del loro corpo fonico
negano di fatto il parlar rotto alfieriano, caratterizzato dalla frammentazione del verso
33
Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. IV, 1225.
Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 230.
35
V. Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 166.
36
V. Alfieri, Rime, a cura di Francesco Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, 52.
34
9
in numerose battute e dalla sua scompaginazione interna in monosillabi. L’autore
intende contrapporre così il proprio stile a quello languido e carezzevole del
melodramma, che i critici gli avevano additato a modello, in contrasto con la durezza
rimproverata al suo dettato tragico.
Lo scarto espressivo fra i due generi, corrispondente allo scarto tematico fra i
soggetti sentimentali del melodramma e quelli politicamente impegnati della tragedia,
costituisce la trasposizione stilistica del diverso « impulso » che anima le due tipologie
di intellettuali tratteggiate nel Del principe e delle lettere : il poeta tribuno e il poeta
cortigiano. Mentre il primo compone obbedendo a un incoercibile « impulso naturale »,
che lo sprona a ricercare l’utile collettivo attraverso l’espressione di « tuoni di verità [...]
maschi, [...] veritieri, incalzanti, e feroci », suscettibili di apparire « forse meno
eleganti »37, il secondo non possiede che un « impulso artificiale », sottoposto all’urgere
delle necessità materiali, che lo inducono a ricercare la protezione dei principi. Titolare
di una musa asservita e mercenaria che ne compromette la funzione civile, il poeta
cortigiano non può che avvalersi dell’involucro stilistico per esporre in termini tanto
raffinati quanto esili dei contenuti depauperati, « una verità debolmente accennata,
guasta, e in mille tortuosi giri ravvolta e affogata tra mille falsità »38.
L’incontro con Metastasio descritto nella Vita si svolge secondo il contrasto fra
le due tipologie di intellettuali ; infatti, per quanto all’epoca l’Alfieri, immerso nella
dispersione di una giovinezza scapestrata, non fosse ancora divenuto scrittore,
manifestava già tutti i segni della futura vocazione. Durante la tappa a Vienna del
Grand Tour, dopo aver riferito di aver avuto, grazie al ministro piemontese,
l’opportunità di essere introdotto alle serate culturali organizzate da Metastasio e di aver
declinato l’invito perché « quell’adunanza di letterati di libri classici » gli sembrava
« dover essere una fastidiosa brigata di pedanti », Alfieri continua :
Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schenbrun nei giardini
imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì
servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi
esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di
contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta
all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita. In tal guisa io andava a
poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore ; e queste
disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all’età di vent’anni e le
37
38
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 3.
Ibid., III, 7.
10
loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai
originale e risibile39.
Occorre innanzitutto sottolineare come l’occasione volutamente mancata della
frequentazione di Metastasio si riproponga in seguito per Rousseau, secondo modalità
analoghe e inverse al tempo stesso. Durante il suo secondo soggiorno parigino, infatti,
Alfieri ha la possibilità di essere presentato al filosofo tramite un conoscente italiano
disposto a fare da intermediario, che incita anzi il poeta all’incontro, assicurandogli una
futura intesa con Rousseau (« Quest’italiano mi ci volea assolutamente introdurre,
entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l’un l’altro,
Rousseau ed io »)40. Ma Alfieri preferisce rifiutare nonostante l’« infinita stima » nutrita
« più assai per il suo [sc. di Rousseau] carattere puro ed intero e per la di lui sublime ed
indipendente condotta, che non pe’ suoi libri »41. Stavolta non è il contrasto, ma
piuttosto l’affinità caratteriale a determinare la sua ricusa :
con tutto ciò, non essendo io per mia natura curioso, né punto sofferente, e
con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto più orgoglio e
inflessibilità di lui ; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad
un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza
scortesia glie n’avrei restituite dieci42.
La cortigianeria di Metastasio e la sua amabile socievolezza da una parte e
l’indipendeza scorbutica di Rousseau dall’altra provocherebbero dunque una identica
reazione di Alfieri, che evita l’incontro con entrambi gli autori. Naturalmente la
narrazione dei due episodi ha un valore molto più che aneddotico, in quanto nelle sue
pieghe si adombra la rivalità letteraria che oppone il poeta agli scrittori contemporanei,
soprattutto nelle pagine della Vita in cui l’affermazione antagonistica della propria
originalità è un tema costante, che si presta a uno svolgimento tendenzioso. Infatti, se
Metastasio rappresenta un antimodello esplicito per le tragedie, Rousseau è piuttosto un
antimodello implicito per l’autobiografia, su cui, più che la critica diretta, grava una
reticenza tesa ad occultare certe analogie originarie, in seguito rinnegate 43. In tale
39
Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 8.
Ibid., III, 12.
41
Ibid.
42
Ibid.
43
Come osserva Bartolo Anglani, (« Alfieri tra Rousseau e Montaigne », in Pérette-Cécile Buffaria (a
cura di), Vittorio Alfieri et la culture française, Révue des Études Italiennes, janvier-juin 2004, t. 50,
p. 163-178 (164) : « il racconto della Vita rispecchia [...] l’atteggiamento postumo dell’autobiografo, il
40
11
contesto, il rifiuto di conoscere i due autori, atteggiato a distacco indifferente ed
altezzoso, finisce per segnalare con più forza l’influenza che essi esercitano sulle opere
alfieriane. D’altronde, lo slittamento dal piano biografico a quello letterario è
autorizzato non solo dal giudizio riduttivo che il poeta esprime quasi per inciso sulla
produzione di Rousseau (rivelando che i suoi libri, o meglio « que’ pochi che avea
potuti pur leggere », lo avevano « piuttosto tediato come figli di affettazione e di
stento »)44, ma anche dalla continuità fra vita e scrittura asserita nel Del principe e delle
lettere, secondo cui « a voler conoscere qual dei due impulsi movesse un dato scrittore,
molte volte basta, senza quasi leggere il libro, il sapere chi fosse lo scrittore, ed in quali
circostanze tempi e luoghi ei scrivesse »45.
Nel brano relativo a Metastasio, Alfieri, imbevuto di velleità plutarchiane, rivela
il suo disprezzo per la « Musa appigionata » del poeta cesareo ; il resoconto non
risparmia i giovanili furori del protagonista stesso, ridimensionati, secondo un
procedimento consueto nell’autobiografia 46, dallo sguardo del narratore maturo.
Tuttavia, l’ironia si esercita sferzante nelle poche pennellate che schizzano un ritratto
indelebile del poeta cesareo : l’avverbio servilmente, assente nella prima stesura della
Vita, viene introdotto per rincarare la condiscendente e appagata subordinazione del
poeta, ma il termine più marcato è l’alterato genuflessioncella (in corrispondenza
formale con il flauticello delle Rime), che rimpicciolisce l’uomo più che l’azione.
Il contrasto fra un Metastasio docile servitore e un Alfieri inflessibile oppositore
del dispotismo presenta al tempo stesso un risvolto caratteriale e uno ideologico,
entrambi storicamente determinati. Mentre l’epistolario metastasiano è percorso da
inviti alla moderazione e a un saggio adattamento alle vicende umane (« L’arte, anzi
l’obbligo nostro, è di adattarci alle vicende umane, persuasi della temeraria pretensione
di adattar quelle a noi »)47, la rigida intransigenza di Alfieri vede nel compromesso un
quale narra l’episodio dopo aver letto le Confessions e dopo aver stabilito in cuor suo di costruire se
stesso come un anti-Rousseau o per lo meno di accentuare i tratti antirousseauiani del personaggio di sé ».
44
Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 12.
45
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 7.
46
Cfr. Emilio Bigi, « Giudizio e passione nello stile della “Vita” alfieriana », in Id., Poesia e critica tra
fine Settecento e primo Ottocento, Milano, Cisalpino-La Goliardica, 1986, p. 1-21.
47
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. IV, 1043. Cfr. anche vol. III, 88 (« Onde converrà accomodarsi al
mondo, giacché non si può accomodare il mondo a noi »), 146 (« Persuaso di non poter accomodar il
mondo a me, procuro d’accomodar me al mondo »), 246 (« In questa come nella maggior parte delle
costumanze civili io credo impresa meno difficile l’accomodar me alla moltitudine che quella di
disingannarla »), 338 (« Dopo aver molto filosofato, io trovo impossibile d’accomodare a me le vicende
del mondo. Onde procuro d’accomodar me stesso al corso di quelle »), vol. IV, 1015 (« [...] e ve ne
12
attentato all’integrità dell’individuo. Nelle tragedie, non a caso, sono i tiranni a
consigliare alle loro vittime una pieghevole remissione48, e nel trattato Del principe e
delle lettere, Alfieri vagheggia nei seguenti termini la figura dell’oratore di una futura
repubblica :
Così gli oratori non intenderanno a laudar la potenza, ma la sola virtù ; non al
persuadere i principi a giustizia e a clemenza, ma al persuadere i popoli a
cercare con più stabilità nelle sole leggi la prima, e a non abbisognar mai di
quest’ultima : non al convincere e dimostrare agli uomini con ampollosità di
parole, e con sottigliezza di tortuosi argomenti, che la virtù nell’adattarsi ai
tempi consiste, ma al dimostrare che ella veramente consiste nel riadattare i
tempi a virtù49.
Il rifiuto dell’adattamento è espresso in termini perentori, come anche avviene
nell’autobiografia (basti ricordare l’episodio del confino in camera durato per più di tre
mesi nell’anno 1764 : « Io mi ostinai sempre più a non voler mai domandare d’esser
liberato, e così arrabbiando e persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi
mai »)50 e prefigura un nuovo modello di intellettuale, che sostituisce alla pacata
saggezza improntata a una mediocritas oraziana51 un carattere indomito ed estremo,
tormentato da un’irrequietudine già romantica 52. Nello scarto generazionale che separa
Metastasio, nato nel 1698, da Alfieri, nato nel 1749, si consuma infatti la fase più
costruttiva del secolo dei Lumi e tramontano alcuni dei miti che avevano contribuito ad
alimentare l’ottimismo illuminista. Metastasio, che si colloca all’inizio del movimento,
serviste, giacché l’arte di accomodare a noi le vicende umane non è concessa a’ mortali, per istrumento
dell’altra, che insegna ad accomodare a quelle noi stessi »), vol. V, 2277 (« Non essendovi scienza al
mondo che c’insegni ad obbligar le vicende umane ad adattarsi a noi, non ci rimane altro rifugio se non se
studiar l’arte di adattar noi medesimi al corso di quelle : arte difficile ma gloriosa per chi la possiede e che
non si propone un impossibile »).
48
Cfr., per esempio, Merope, cit., I, 2, v. 150-151 (Polifonte : – « [...] Tu dunque ai tempi / Adatta te
stessa omai [...] ») ; La congiura de’ Pazzi, cit., II, 3, v. 185-187 (Lorenzo : – « Va’ ; se il figlio ti cal,
seguilo : ai tempi / Fa’ ch’ei meglio si adatti ; e a ciò gli giova / Coll’esemplo tuo stesso. [...] ») ; Agide, a
cura di Raffaele De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, I, 3, v. 245-249 (Anfare : – « [...] Assai tu puoi, /
D’Agide madre, entro a Spartani petti, / E sovr’Agide più : quelli (a me il credi) / Al cessar dai tumulti, e
questo or traggi, / Per poco almeno, all’adattarsi ai tempi »).
49
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 8.
50
Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., II, 8.
51
Sulla sfortuna di Orazio a partire dalla seconda metà del Settecento cfr. Arnaldo Di Benedetto, « Il
declino della fortuna di Orazio nel Settecento : Orazio in Alfieri », in Id., Le passioni e il limite.
Un’interpretazione di Vittorio Alfieri. Nuova edizione riveduta e accresciuta, Napoli, Liguori, 1994,
p. 173-198.
52
Cfr. Marco Cerruti, « Dalla “sociabilité” illuministica al mito del poeta solitario. La Musa saturnina »,
in Guido Santato (a cura di), Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo,
Genève. Droz, 2003, p. 95-109.
13
in un’epoca che Binni aveva definito « arcadico-razionalistica »53, nonostante le
profonde incomprensioni che lo allontanano dai philosophes, partecipa allo slancio
riformatore del suo secolo, di cui condivide a suo modo gli interessi sociali (« Io credo e
sostengo che “Non meritò di nascere / Chi vive sol per sé” »)54, laddove Alfieri assiste
piuttosto alla fase declinante del pensiero illuminista e vive tutta l’inquietudine che si
accompagna alla denuncia dei limiti della ragione e alla delusione per il fallimento degli
ideali progressisti che aveva condiviso negli anni giovanili.
È il caso, per esempio, dell’atteggiamento verso la religione ; se nel suo
epistolario Metastasio depreca la battaglia illuminista contro i dogmi cristiani e il potere
clericale, e ribadisce a più riprese la propria ortodossia, tanto da dichiarare di non
credere « infallibile se non il papa quando pronuncia ex cathedra »55, per Alfieri invece
« un popolo, che crede potervi essere un uomo, che rappresenti immediatamente Dio ;
un uomo, che non possa errar mai ; egli è certamente un popolo stupido »56, oltre che
maggiormente propenso a subire il giogo tirannico, per alcuni aspetti analogo
all’autoritarismo religioso e, peraltro, da quest’ultimo approvato e sorretto :
Un popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del papa, è già
interamente disposto a credere in un tiranno, che con maggiori forze effettive
e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o
sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al
solo papa nelle religiose57.
L’anticlericalismo che permea il giovanile trattato Della tirannide, intriso di
umori voltairiani, si smorza però nelle opere mature del poeta, che rinnega il suo passato
« filogallo » e rivaluta la funzione sociale della religione, di cui prende le difese nella
satira L’Antireligioneria58, senza rinunciare per questo al proprio ateismo.
Resta invece immutato l’atteggiamento antitirannico, che comporta la condanna
di ogni sistema politico esposto all’arbitrio assolutistico del sovrano e un conseguente
scetticismo nei confronti del dispotismo illuminato, a cui Metastasio – al servizio di una
53
Walter Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1968 (1963), p. XVII.
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. IV, 1006 ; vol. V, 2042.
55
Ibid., vol. III, 246.
56
Vittorio Alfieri, Della tirannide, in Id., Scritti politici e morali, vol. I, cit., I, 8.
57
Ibid.
58
Cfr. a proposito Guido Santato, Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki,
1988 e Id., Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999.
54
14
delle corti europee allora più all’avanguardia nell’accoglimento delle proposte
illuministe – aveva invece prestato una sincera adesione.
D’altronde, le recenti indagini critiche sull’opera del poeta cesareo mirano a
rettificare le accuse di evasione rivolte al suo melodramma, per valorizzarne l’impegno
sia nell’orchestrazione del consenso attorno al sovrano, sia nella proposizione di
contenuti pedagogici volti a definire un modello complesso di regalità, basato sulla
clemenza e sul contenimento delle passioni59. Di fatto, il progetto di cooperazione degli
intellettuali con i principi, scaturito dall’esigenza di incidere concretamente sulla realtà,
comincia presto a rivelare le sue difficoltà intrinseche, come dimostra l’esito piuttosto
deludente del viaggio in Russia compiuto da Diderot nel 1773, al fine di orientare la
politica di Caterina II ; e non a caso, dopo l’esperienza di Metastasio, la posizione del
poeta all’interno del palazzo imperiale diventa più controversa e conflittuale, per cui
sono significative le vicende dei suoi successori a Vienna, Giovanni Battista Casti e
Lorenzo Da Ponte, entrambi costretti ad abbandonare l’incarico presso la corte.
La diversa concezione della sovranità costituisce il discrimine ideologico
fondamentale fra Metastasio e Alfieri, che esprimono pareri profondamente divergenti
anche nei testi non teatrali, e a volte non letterari. Riguardo al mecenatismo, per
esempio, alla fiducia di Metastasio, secondo cui « i principi hanno un lume che noi non
abbiamo, e scuoprono meriti dove noi non sapressimo vederne »60, si oppone il
disincanto di Alfieri, convinto invece del fatto che « il principe, per naturale sua indole,
pende sempre maggiormente per i mediocri »61. Mentre poi il poeta cesareo si mostra
propenso ad assolvere dall’accusa dell’uccisione del coniuge la zarina Caterina II, che
per i suoi interessi culturali e per i rapporti intrattenuti con i philosophes incarna forse
nella maniera più compiuta l’immagine del sovrano illuminato (« Si dice morto d’una
colica nefritica, emorroidale ; ma a primo colpo tutto il mondo ne accuserà la regnante.
Pensando peraltro giustamente io non lo posso credere »)62, la condanna di Alfieri della
59
Cfr. in particolare Elena Sala Di Felice e Rossana Caira Lumetti (a cura di), Il melodramma di Pietro
Metastasio : la poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, Atti del convegno di
studi Roma, dicembre 1998, Roma, Aracne, 2001.
60
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 176.
61
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 5.
62
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. VI, 1273.
15
« Clitennestra filosofessa », « giustamente tacciata del più orrendo delitto »63, si associa
alla critica del suo operato politico.
Del tutto antitetica, come si può immaginare, è anche la valutazione di
Machiavelli, in quanto la nota ammirazione di Alfieri per « quel nostro divino
ingegno »64, che svela gli arcani del potere, contrasta con l’opinione di Metastasio, che
gli attribuisce la responsabilità del degrado morale della politica :
Nel corto raziocinio degli uomini malvagi ha sempre prevaluto l’utile
all’onesto come se fossero separabili ; ma dopo che il segretario fiorentino ha
sollevato il vizio alla categoria delle scienze, cotesto non men falso che reo
principio, quasi che da lui giustificato, è divenuto la dottrina arcana de’
gabinetti65.
Forti delle diverse concezioni ideologiche che si traducono in diverse esperienze
di vita, per cui l’incarico a corte di Metastasio si oppone alla « spiemontizzazione » di
Alfieri – vale a dire alla sottrazione agli obblighi di suddito piemontese attraverso la
rinuncia ai beni aviti –, i due autori propongono nelle rispettive opere una raffigurazione
simmetricamente inversa delle prerogative regali, in quanto ai monarchi esemplari di
Metastasio, quali Tito e Adriano, si contrappongono le figure di Alfieri attinte al
comune patrimonio classico ma di segno opposto, quali Creonte e Nerone.
Il sovrano metastasiano, tollerante e benevolo, esercita una regalità dai forti
connotati paterni66, laddove il tiranno alfieriano presenta un’indole corrotta dal potere,
che gli fa violare persino i vincoli di sangue. A tal proposito è indicativo l’esito opposto
che i due autori conferiscono a un intrigo simile, l’amore del figlio verso la sposa del
padre-sovrano, rispettivamente nell’Antigono e nel Filippo : l’ira di Filippo, prima
grande archetipo tirannico del teatro alfieriano, conduce alla morte dei due giovani
protagonisti, per quanto responsabili di un amore votato alla rinuncia, e contrasta con il
perdono finale di Antigono, il quale – commosso dalla devozione del figlio Demetrio,
accorso in suo aiuto nonostante l’esilio cui egli lo aveva condannato in un primo tempo
–, finisce con il cedergli « volontario il combattuto possesso di Berenice »67.
63
Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 9.
Vittorio Alfieri, Della tirannide, cit., II, 8.
65
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 588.
66
Cfr., per esempio, le parole di Artaserse in Pietro Metastasio, Artaserse, III, 8, v. 1458-1459 : « A voi,
popoli, io m’offro / Non men padre che re [...] ».
67
Pietro Metastasio, Antigono, argomento.
64
16
Il lieto fine del melodramma risponde alle istanze consolatorie della giustizia
poetica, corrispettivo artistico del dispotismo illuminato, mentre la catastrofe della
tragedia mira a conseguire « non l’appagamento dello spettatore, ma la sua
insoddisfazione di fronte alla realtà come di fronte alla finzione »68. In entrambi i casi il
teatro tende a un prolungamento nella realtà, come si evince anche dalla licenza che
Metastasio appone alla sua opera, svelandone la simbologia politica, volta a stabilire
una specularità fra la vicenda rappresentata e il modello monarchico : l’amore di
Antigono per il figlio leale rispecchia quello del sovrano per i suoi sudditi, che a loro
volta lo ricambiano con la stessa dedizione di Demetrio (v. 1159-1163, « [...] Non son
ristretti / I tuoi paterni affetti / Fra i confini del sangue ; hanno i tuoi regni / Tutti il lor
padre in te ; per te ciascuno / Ha di Demetrio il cor [...] »), instaurando un patto basato
rispettivamente su fedeltà e clemenza (v. 1163-1165, « [...] La fede altrui / E la
clemenza tua sono a vicenda / E cagione ed effetto [...] »). Ne risulta la coincidenza
perfetta delle figure del monarca e del padre (v. 1174-1175, « [...] in dolce error
confondono / Sempre col padre il re »).
Come si può arguire dalla trama dell’Antigono, il modello regale elaborato da
Metastasio si fonda sulla rinuncia del sovrano, che sacrifica la propria felicità personale
per il bene dei figli/sudditi. Tale è il messaggio proposto da numerosi melodrammi, che
trova un’enunciazione diretta nelle parole di Adriano : « [...] Ah ! si cominci / Su’
propri affetti a esercitar l’impero »69. Al contrario, nelle tragedie di Alfieri il potere
assoluto coincide per l’appunto con l’esplicazione sfrenata delle voglie del despota, che
agisce secondo il proprio arbitrio, come dichiara Creonte nell’Antigone : « [...] Al poter
mio, / Altro confin che il voler mio non veggio »70 ; e come emerge nella stessa
definizione di principe che Alfieri propone nel suo secondo trattato : « Colui, che può
ciò che vuole, e vuole ciò che più gli piace ; nè del suo operare rende ragione a persona ;
nè v’è chi dal suo potere il diparta, nè chi al suo potere e volere vaglia ad opporsi »71.
Senza inoltrarsi oltre in un confronto puntuale delle due drammaturgie, che
richiederebbe uno sviluppo molto più ampio, ci limiteremo a presentare il diverso
impiego di una stessa ripresa letteraria, utile a confermare l’esame condotto finora.
68
Enrico Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, p. 210.
Pietro Metastasio, Adriano in Siria, I, 1, v. 92-93.
70
Vittorio Alfieri, Antigone, cit., III, 1, v. 55-56.
71
Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 2.
69
17
Nel melodramma metastasiano La clemenza di Tito, rappresentato per la prima
volta nel 1734, la finzione teatrale sembra precorrere la descrizione della realtà : in un
passo dell’opera infatti il poeta inscena l’intervento benefico dell’imperatore in favore
delle vittime di una catastrofe naturale, l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Il
riferimento è alle parole pronunciate da Tito durante il suo primo ingresso in scena,
estremamente importanti al fine della caratterizzazione del personaggio grazie alla loro
posizione di rilievo ; rifiutando la costruzione di un tempio a lui dedicato che lo
parificherebbe agli dèi, l’imperatore chiede che i tesori offerti per erigere l’edificio
siano invece destinati alle vittime del vulcano :
Quegli offerti tesori
Non ricuso però : cambiarne solo
L’uso pretendo. Udite. Oltre l’usato
Terribile il Vesevo ardenti fiumi
Dalle fauci eruttò ; scosse le rupi,
Riempié d ruine
I campi intorno e le città vicine.
Le desolate genti
Fuggendo van ; ma la miseria opprime
Quei che al fuoco avanzar. Serva quell’oro
Di tanti afflitti a riparar lo scempio.
Questo, o Romani, è fabbricarmi il tempio72.
Nel 1755 si verifica il terribile terremoto di Lisbona, che ha forti ripercussioni
sul pensiero illuminista e lascia numerosi echi nella produzione contemporanea ; in
quell’occasione, Metastasio indirizza una lettera al caro « gemello », il cantante Carlo
Broschi allora residente a Madrid, in cui manifesta il proprio sconcerto per l’episodio ed
elogia al tempo stesso l’intervento della corona :
Io ho provato nel mio interno tutto lo sconvolgimento dell’infelice Lisbona.
Che orrore ! che flagello ! che miseria ! Povera umanità ! Fra tanti motivi
d’afflizione io rifletto per consolarmi al largo campo che la Provvidenza ha
aperto al vostro adorabile sovrano di spiegar le grandi e ammirabili
disposizioni del regio suo cuore. Ciò ch’egli ha fatto e sta facendo in questa
fatale circostanza parrebbe immaginazione poetica, s’io l’attribuissi al mio
Tito o al mio Alessandro. Queste sono azioni, caro gemello, che onorano tutta
l’umanità73.
Il raffronto con i melodrammi è svolto esplicitamente da Metastasio, che attribuisce al
sovrano spagnolo una funzione di soccorso esercitata con un’efficacia e una dedizione
72
73
Pietro Metastasio, La clemenza di Tito, I, 5, v. 216-227.
Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 902.
18
che fanno addirittura impallidire il modello poetico. La stessa convinzione riemerge in
seguito per episodi meno drammatici, come testimoniano le lettere del 7 marzo 1778 a
Tommaso Filipponi e del 2 agosto 1779 a Giuseppe Azzoni. In quest’ultima, che ha per
oggetto un’« ostinatissima siccità e l’orribile scoppio del nostro magazzino di polvere »,
il poeta descrive il coraggioso intervento dell’imperatore Giuseppe II 74, mentre nella
precedente si sofferma su un’inondazione del Danubio :
La furiosa inondazione del Danubio, mercé la paterna carità del nostro
augustissimo, che ha soccorso col senno e con la mano gl’infelici abitanti de’
sobborghi inondati, non ha prodotto quei tragici effetti che si sono
giustamente temuti : onde il male è stato infinitamente minore dello spavento,
che tuttavia non ci abbandona75.
Nel brano il resoconto dell’operato del sovrano si avvale di un’illustre citazione :
la ripresa dei versi incipitari della Gerusalemme liberata, riferiti a Goffredo di Buglione
(I, 1, 3, « Molto egli oprò co’l senno e con la mano »), quasi a suggerire un’equivalenza
fra Giuseppe II e l’eroe tassiano.
Nel trattato Del principe e delle lettere, Alfieri, come si è visto, auspica
l’instaurazione di una repubblica futura che promuova il risorgimento delle lettere e
definisce il nuovo ruolo dei letterati, fra cui il poeta epico :
Quindi allora il veramente epico poeta, che in sublimi versi una impresa
veramente sublime piglierà a descrivere, sceglierà certamente piuttosto di
cantare la liberazione di Roma da Bruto, che quella di Gerusalemme da
Goffredo76.
La celebrazione di Goffredo, nella prospettiva alfieriana, è una scelta imposta a
Tasso dagli obblighi cortigiani, che gli impediscono di cimentarsi in un’opera di
autentico valore politico, come la vicenda di Bruto. Quasi a voler rimediare all’ingiusta
sostituzione di soggetto, nel trattato Della tirannide il poeta sembra « correggere » il
testo tassiano : mettendo polemicamente a confronto la ferocia dei dispotismi antichi
con la moderazione delle monarchie contemporanee, osserva che « difficilmente può
74
Ibid., vol. V, 2249 : « Ed il nostro adorabile augustissimo ha dimostrato in questa occasione tutta la
grandezza dell’umano suo, tenero e paterno cuore. Si è immediatamente inoltrato fra le ruine nulla
curando il suo rischio, animando tutti con l’autorità, con l’esortazione, con le preghiere, coi doni, e molto
più con l’esempio, a soccorrere i miserabili che potevano ancora essere assistiti, e con tal premura ed
affetto che ha mosso tutti i presenti ad un pianto universale di tenerezza e d’ammirazione ».
75
Ibid., vol. IV, 1650.
76
V. Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 8.
19
nascere ai tempi nostri un Nerone », ma che « assai più difficilmente ancora può nascere
un Bruto, e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno »77. La citazione della
Gerusalemme è ancora una volta di immediata evidenza : Bruto si sostituisce all’eroe
del Tasso in un sincretismo letterario che assimila e riscrive il modello, conferendo al
personaggio alfieriano la statura imponente dell’epica.
Metastasio e Alfieri ricorrono dunque al paradigma epico, sintesi suprema delle
virtù del leader, per applicarlo l’uno a una raffigurazione idealizzata del sovrano, l’altro
all’eroe libertario (si tratti esso di Lucio Giunio Bruto, responsabile della cacciata dei
Tarquini, o del cesaricida Marco), protagonisti delle rispettive opere teatrali.
Le istanze ideologiche che permeano la scrittura dei due autori animano in
entrambi i casi un universo poetico di estrema coerenza interna, che adatta gli strumenti
espressivi alla resa di un’opposta concezione drammaturgica. La distanza del teatro
metastasiano rispetto alla tragedia di Alfieri si lega strutturalmente all’evoluzione del
contesto storico e culturale che attraversa la seconda metà del Settecento, culminando
nella Rivoluzione francese. Non a caso, per De Sanctis Metastasio rimane « l’ultimo
poeta della vecchia letteratura »78, ancorato a una società in declino, laddove Alfieri
rappresenta « l’uomo nuovo, che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei »79.
Il passaggio di consegne tra i due autori si può idealmente collocare nel 1782,
anno in cui alla recita simbolica del Requiem per Metastasio, morto a 84 anni, succede
quella del Te Deum per Alfieri, che in seguito al trionfo romano dell’Antigone80, la
prima opera messa in scena dopo l’esperimento della Cleopatra, viene salutato come
Sofocle italico presso quella stessa Accademia dell’Arcadia di cui Metastasio era stato il
massimo esponente.
77
V. Alfieri, Della tirannide, cit., I, 9.
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1962
(1912), vol. 2, p. 321.
79
Ibid., p. 370.
80
Cfr. Ezio Raimondi, « Un teatro terribile : Roma 1782 », in Id., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il
sublime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 17-64.
78
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