note su metastasio e alfieri
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METASTASIO E ALFIERI : NOTE PER UN CONFRONTO Vincenza Perdichizzi Université de Lille Talvolta, per far emergere in maniera più netta alcuni aspetti dell’oggetto di studio che indaga, la critica letteraria procede per contrasti chiaroscurali, si avvale cioè di confronti con altri testi ed autori che consentano di definire una dialettica di continuità e scarti, di tradizione e innovazione, per stabilire confini e individuare svolte che una cauta verifica provvede poi a sfumare e a dettagliare. Alcune di queste contrapposizioni affondano le loro origini in tempi lontani e – private delle punte polemiche che, soprattutto all’inizio, le assimilano ad aspri certami – costituiscono ineludibili topoi critici : è il caso, per esempio, del rapporto Dante-Petrarca, AriostoTasso, e Metastasio-Alfieri. In particolare, il confronto fra questi due ultimi autori si è sempre svolto all’insegna di una rigida contrapposizione, instaurata precocemente dai contemporanei e alimentata dallo stesso Alfieri, che più volte nei suoi scritti attribuisce a Metastasio la funzione di paradigma inverso. Come è noto, infatti, dopo un esordio letterario ispirato al modello metastasiano (la Cleopatraccia), presto ripudiato e presentato nella Vita come testimonianza della « scarsezza del suo patrimonio poetico in quel tempo »1, Alfieri elabora una poetica tragica antimelodrammatica, forgiandosi uno stile ruvido e dissonante, agli antipodi dalla cadenzata melodia dei versi del poeta cesareo. Il percorso di allontanamento dal melodramma non è però così lineare ed univoco come l’autobiografia vorrebbe dipingerlo, non solo perché nelle tragedie 1 Vittorio Alfieri, Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso, in Id., Opere, introduzione e scelta di Mario Fubini, testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977, III, 14, appendice. 1 risuonano in più occasioni echi del Metastasio, le cui opere Alfieri aveva viste rappresentate e lette fin dall’adolescenza 2, ma anche perché, alla fine della sua carriera, egli si rivela disposto ad accondiscendere almeno in parte al gusto dei contemporanei, cimentandosi nella composizione della « tramelogedia » Abele, anticipata dall’inserimento di parti cantate sia nel Saul che nella Mirra, e prevedendo un accompagnamento musicale anche per il Bruto primo, come lascia ipotizzare un foglio autografo di Montpellier3. Una volta ammessi i debiti dell’astigiano nei confronti del predecessore e consideratene certe aperture alla moda musicale settecentesca4, non si può comunque non riconoscere la sostanziale divergenza della tragedia alfieriana rispetto al melodramma del Metastasio. Tale divergenza si manifesta innanzitutto nelle estetiche opposte dei due poeti, che pur condividono una concezione idealistica dell’arte, funzionale alla proposizione di un paradigma etico su cui modellare la realtà (Metastasio : « Noi altri poveri poeti drammatici, avvezzi a descriver gli uomini come dovrebbero essere, perveniamo tardi a conoscere quali essi sono »5 ; Alfieri : « avvezzo da molti anni a dipingere gli uomini in poesia quali potrebbero e dovrebbero essere ; troppo mi farebbe ora stomaco il dipingerli quali sono »6). Si realizza in tal modo, per così dire, un’osmosi mimetica, per cui il teatro riflette la vita fornendone una versione nobilitata, e la vita, a sua volta, dovrebbe ispirarsi al teatro nel tentativo di inverarne le apparenze esemplari, sia nel « contagio eroico » di Metastasio, che innesca una gara di virtù destinata a propagarsi dalla scena alla platea, sia nella rappresentazione alfieriana 2 Ibid., II, 4 (« Di nessun altro poi de’ poeti nostri aveva io cognizione ; se non se di alcune opere del Metastasio, come il Catone, l’Artaserse, l’Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell’opera di questo, o di quel Carnovale »). 3 Biblioteca Émile Zola di Montpellier, ms. 61 31 6. Il manoscritto comincia con l’indicazione « Sinfonia dà principio » e suggerisce movimenti musicali alla fine di ogni atto : rispettivamente « Allegro lunghetto », « Allegrissimo », « Adagio », « Adagio flebile » e « Adagio flebilissimo e brevissimo ». Cfr. Angelo Fabrizi, « La Musica », in Id., Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri), Modena, Mucchi, 1993, p. 215-250. Per gli intermezzi lirici del Saul, della Mirra e dell’Alceste seconda cfr. Arnaldo Di Benedetto, « Un mito alfieriano : Caino », in Id., Tra Sette e Ottocento. Poesia, letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991, p. 53-66. 4 Queste aperture, peraltro, non intaccano la poetica tragica di Alfieri, come riconosce Angelo Fabrizi (« La Musica », cit., p. 230), per cui « egli ammise la musica o come semplice sussidio del testo poetico o come accattivante adornamento dell’elemento fantastico, non mai come parte integrante del contenuto tragico ». 5 Pietro Metastasio, Lettere, in Id., Tutte le opere, a cura di Bruno Brunelli, Milano, Mondadori, 1951, vol. III, 756. 6 Vittorio Alfieri, Misogallo, in Id., Scritti politici e morali, vol. III, a cura di Clemente Mazzotta, Asti, Casa d’Alfieri, 1984, p. 203. 2 di un universo plutarcheo, che si configura come una « scuola di virtù » per il pubblico, chiamato a riprodurre le gesta degli eroi libertari delle tragedie. Mentre però Metastasio asseconda gli spettatori, ne soddisfa le aspettative, adattando i classici antichi al gusto moderno – nella consapevolezza che « si parla a popolo diverso e diversamente educato il quale vuol esser sempre solleticato, qualche volta punto, ma non mai trafitto »7 –, Alfieri, nei cui scritti comincia a manifestarsi l’apprezzamento della generazione successiva per lo stile energico dei « primitivi », condanna la sensibilità raffinata dei moderni, che comporta un ottundimento delle sensazioni (« Questo popolo colto viene a sentire meno fortemente, appunto perchè con maggior sottigliezza egli sente »)8 e ironizza sulla levigatezza edulcorata del melodramma metastasiano (« [...] il Metastasio è norma, / Che i Greci imìta, e i Greci a un tempo ammenda. / Tutta sua la Tragedia, in blanda forma / Gli alti sensi feroci appiana, e spiega, / Sì che l’alma li beve e par che dorma »)9, cui contrappone un modello tragico « tetro e feroce, per quanto la natura lo soffra »10. Analogamente, mentre il poeta cesareo agevola la fruizione delle sue pièces da parte del pubblico, sia sul piano contenutistico (attraverso una distribuzione preliminare ed esaustiva delle informazioni necessarie alla comprensione dell’intrigo), sia sul piano linguistico (attraverso la « difficilissima facilità » del linguaggio adoperato11, vale a dire una « facilità frutto di laboriosissima cura »12), perché, come scrive in una lettera a Francesco Algarotti, « nessuno di quanti ci leggono vuole affaticarsi per lodarci »13, Alfieri lima il testo delle sue opere alla ricerca di una tesa essenzialità, che impone al pubblico un’« intensità d’attenzione » tale da arrecare « forse [...] più assai fatica che diletto alla mente di chi ascolta »14. Si forgia inoltre uno stile complesso ed ellittico, che rifugge dalla grazia in nome dell’energia e sollecita lo sforzo interpretativo degli spettatori, cui rifiuta ogni concessione : 7 Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. III, 152. Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, in Id, Scritti politici e morali, vol. I, a cura di Pietro Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, II, 2. 9 Vittorio Alfieri, Satire, in Id., Scritti politici e morali, vol. III, cit., VIII, v. 80-84. 10 Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri alla lettera del Calzabigi, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 217. 11 Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. V, 2334. 12 Ibid., 2415. 13 Ibid., vol. III, 246. 14 Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 145. 8 3 a voler esser brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che sola genera l’energia, non si può esserlo che usando molti modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua [...] Il pubblico italiano non è ancora educato a sentir recitare : ci vuol tempo, e col tempo si otterrà ; ma intanto non per questo lo scrittore deve essere lasso o triviale. Se le cose sue meritano, non è egli meglio, e più giovevole, che il volgo faccia un passo verso il sapere, imparando, che non l’autore un passo verso l’ignoranza, 15 facendo in sue mani scapitar l’arte che tratta e la lingua che scrive ? Per esemplificare come queste dichiarazioni di poetica influenzino la struttura del discorso nei testi dei due autori, basterà prendere in considerazione il diverso impiego dei nessi connettivi : se entrambi i poeti prediligono i periodi brevi e una sintassi paratattica, nelle tragedie di Alfieri i rapporti logici fra le componenti della frase sono allusi piuttosto che esibiti, non si esprimono attraverso connettivi grammaticali, e pertanto il lettore-spettatore è costretto a recuperarli in prima persona, attivando un meccanismo d’integrazione rispetto alle informazioni fornite dallo scrittore, laddove Metastasio fa ricorso a nessi espliciti, preoccupandosi di rendere sempre evidente la « legatura » a vantaggio del pubblico 16. In Artaserse I, 1, 85-86, « [...] troppo mi sdegno, / Perché troppo t’adoro [...] »17, la ripetizione del termine troppo – enfatizzata dal mantenimento della posizione anticipata rispetto al verbo – non basta a costituire una cerniera logica fra i due segmenti, il cui rapporto viene dunque chiarito dalla congiunzione perché, contrariamente a quanto avviene in Alfieri, dove i segmenti testuali restano giustapposti (per esempio, Timoleone IV, 1, 28-30 : « [...] Or dal tuo stato / Troppo è diverso il suo : sangue già troppo / Versato egli ha [...] »)18. Nel Demofoonte (III, 9, 1362-1363) Timante si rivolge a Cherinto supplicandolo nei seguenti termini: « [...] Lascia ch’io mora, / Finché sono innocente ». La stessa volontà di una morte che sottragga il personaggio alla colpa cui va inesorabilmente incontro è espressa a posteriori anche nelle tragedie alfieriane, dove però si fa a meno 15 Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 233-234. Nella lettera a Francesco Algarotti menzionata Metastasio consiglia a proposito di un passaggio logico oscuro : « Ma io avrei voluto che voi aveste un poco più aiutato il lettore a conoscer subito la legatura » (Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. III, 246). 17 Le citazioni dei melodrammi metastasiani sono tratte da Pietro Metastasio, Drammi per musica, a cura di Anna Laura Bellina, Venezia, Marsilio, 2002-2004, 3 vol. 18 Vittorio Alfieri, Timoleone, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1981. Cfr. anche Id., Antigone, a cura di Carmine Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, III, 1, 128, « Troppo mi è nota ; e troppo io l’amo [...] ». 16 4 del nesso subordinante ( Mirra V, 4, 220, « Io moriva... innocente ;... empia... ora... muojo... »)19. In Temistocle I, 1, 37-42 poi, l’eroe ateniese spiega al figlio i motivi che lo inducono a perseverare nella fedeltà alla patria che l’ha esiliato : [...] Odia l’ingrato, E assai ve n’ha, del benefizio il peso Nel suo benefattor ; ma l’altro in lui Ama all’incontro i benefizi sui ; Perciò diversi siamo ; Quindi m’odia la patria, e quindi io l’amo. Nel passo i rapporti contrastivi fra l’ingrato e il benefattore e fra la patria e Temistocle si traducono nell’opposizione dei verbi odiare-amare, che si ripetono per le due coppie di termini, stabilendo le equivalenze patria-ingrato e Temistocle-benefattor. Il poeta però si avvale di numerosi connettivi per articolare minutamente gli snodi logici (ma... all’incontro... perciò... quindi). L’esito di queste scelte è un’organizzazione del periodo fluida e distesa, lontana dal ritmo convulso delle tragedie di Alfieri, che scarnifica la frase eliminando ogni elemento superfluo. A tal proposito, la differenza fra i due autori si evince soprattutto nei casi in cui entrambi fanno ricorso ad espressioni simili, per i quali non è necessario supporre necessariamente una dipendenza di Alfieri dal melodramma. In Siroe II, 2, 663-671 Emira, rivolta al protagonista, argomenta diffusamente l’impossibilità del loro idillio, dovuta all’inimicizia che oppone i rispettivi padri, ed innesca così una schermaglia amorosa condotta sulle note di un registro patetico : [...] A noi, che siamo Figli di due nemici, È delitto l’amor ; dobbiamo odiarci. Tu devi il mio disegno Scoprire a Cosroe, io prevenir l’accusa ; Tu scorgere in Emira il più crudele Implacabil nemico, in Siroe io deggio Aborrir d’un tiranno il figlio indegno. Cominci in questo punto il nostro sdegno. 19 Vittorio Alfieri, Mirra, a cura Martino Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1974. 5 Nell’Antigone alfieriana (III, 3, 324-326), al contrario, le parole della protagonista, spesso interrotte da silenzi allusivi, sono ridotte all’essenziale : Vivi Emon, tel comando... In noi l’amarci Delitto è tal, ch’io col morir l’ammendo ; Col viver, tu. Nei versi della tragedia, Alfieri omette la precisazione di Emira sugli ostacoli che si frappongono ai sentimenti dei due innamorati (che siamo figli di due nemici) e, tramite la soppressione della proposizione incidentale, avvicina il pronome al verbo (in noi l’amarci). Poi espone le conseguenze dell’amore funesto senza soffermarsi sui risvolti esplicitati da Metastasio (è delitto l’amor ; dobbiamo odiarci), che indugia nello sviluppo di uno stesso motivo. Nel melodramma omonimo (II, 2, 669-671) la minaccia di Demofoonte, volta ad imporre l’autorità regale al figlio, Io fin ad ora, o prence, Da padre ti parlai ; non obbligarmi A parlarti da re. si contrae nella durezza allusiva di Filippo II, 4, 184-185, in cui il tiranno chiede a Carlo : « [...] ma perchè almeno, / Da che il padre non ami, il re non temi ? »20. Nell’Achille in Sciro, I, 8, 221-223 Deidamia dichiara il suo amore per Achille : [...] Fu Achille il primo Che amai finora, e voglio Che sia l’ultimo Achille. [...] La contrapposizione fra primo e ultimo, intorno a cui nel melodramma si costruisce e lievita la frase, viene sviluppata da Alfieri in forma implicita, nella contrapposizione dei due contrari avvinti in un’unica formula : Filippo I, 2, 154-155, « [...] Odi ; la prima, / E in un di amor l’ultima prova è questa », Merope III, 3, 292, « [...] favore ultimo, e primo »21, La congiura dei Pazzi, I, 1, 85, « [...] chi l’ultim’è primiero », II, 4, 217, 20 21 Vittorio Alfieri, Filippo, a cura di Carmine Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1952. Vittorio Alfieri, Merope, a cura di Angelo Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968. 6 « Fia il periglio primier l’ultima meta »22, Sofonisba V, 5, 200, « Il don primier, l’ultimo pegno a un tempo »23. Analogamente i due estremi della nascita e della morte, separati da una progressione cronologica marcata dai tempi verbali in Temistocle III, scena ultima, 1354, « Se avrò la tomba ove sortii la cuna », vengono sovrapposti nell’Antigone alfieriana (I, 1, 8) in cui la reggia di Tebe è definita sinteticamente da Argia, « Cuna del troppo amato sposo, e tomba ». A sua volta, il poliptoto in cui Seneca cristallizza la legge fondamentale della tirannide, « timet timentes » si traduce in maniera diversa in Metastasio e in Alfieri, anche se entrambi i poeti preservano l’allitterazione : mentre in Ezio I, 8, 409-410 si legge « Chi fa troppo temersi / Teme l’altrui timor [...] », cui segue quasi una glossa esplicativa (« [...] Tutti gli estremi / Confinano fra loro. Un dì potrebbe / Il volgo contumace / Per soverchio timor rendersi audace »), Alfieri, nella sua Antigone (V, 5, 100-101), conferisce forza epigrafica alla sententia, gareggiando con l’originale, « [...] e in trono trema / Chi fa tremar. [...] ». Al di là delle scelte sintattiche, l’antitesi che più allontana la scrittura dei due autori va riferita al valore che attribuiscono rispettivamente alla musica, pur partendo dallo sfondo comune dell’estetica cartesiano-razionalista settecentesca. Quest’ultima comporta la svalutazione della musica in quanto arte asemantica, atta ad agitare i sensi e a provocare emozioni passeggere, ma incapace di rivolgersi all’intelletto, contrariamente alla poesia, che può invece veicolare contenuti concettuali ed assolvere così a una funzione didattica 24. In tale ottica, non stupisce che le maggiori critiche di Alfieri al melodramma riguardino le arie 25, in cui la musica riveste di necessità un ruolo protagonistico, determinando l’asservimento della ragione ai sensi, poiché, priva di valore conoscitivo, essa si propone come unico scopo di « satollare l’orecchio, e fra le mollezze e l’ozio seppellire l’ingegno »26. Anche Metastasio, da parte sua, espone in più occasioni delle riserve sulla corruzione della musica contemporanea, in termini non troppo diversi da quelli 22 Vittorio Alfieri, La congiura de’ Pazzi, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968. Vittorio Alfieri, Sofonisba, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1989. 24 Cfr. Enrico Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, Einaudi, 1968 e Angelo Fabrizi, Le scintille del vulcano (Ricerche sull’Alfieri), cit. 25 Cfr. Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., II, 4, in cui egli ammette di aver tratto sommo diletto dai testi metastasiani percorsi in gioventù, « fuorché al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti », che gli provocava invece un « dispiacere vivissimo ». Cfr. anche Id., Satire, cit., VI, v. 49-57 26 Vittorio Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia, in Id., Parere sulle tragedie e altre prose critiche, cit., p. 245. 23 7 adoperati da Alfieri, visto che, a suo avviso, « avendo rinunziato i musici all’espressione degli affetti, non grattano più che l’orecchio »27. Però, mentre l’adesione ai parametri puristi della poetica classica induce l’Astigiano a considerare il melodramma come un prodotto del gusto degenerato dei moderni, le cui diverse componenti si intralciano a vicenda all’insegna di un vacuo edonismo, per Metastasio la musica che accetta un ruolo ancillare rispetto alla poesia e se ne lascia dirigere può potenziare i valori testuali e contribuire alla trasmissione di un insegnamento morale. Pertanto, sulle orme di Apostolo Zeno, egli si fa promotore di una riforma del melodramma che restituisca al testo poetico il ruolo preminente usurpato dal virtuosismo canoro degli interpreti, però – a differenza del predecessore, orientato verso la tragedia e costretto ad accettare suo malgrado la componente melodica del melodramma –, Metastasio attribuisce alla musica un’importanza fondamentale : « io non conosco poesia senza musica », dichiara infatti in una lettera del 1767 indirizzata a un poeta amburghese, Daniele Schiebeler, che lo invitava a comporre dei drammi senza arie28. Tale affermazione trova conferma e sviluppo nell’impegno ermeneutico adoperato nell’Estratto dell’Arte Poetica di Aristotele, a sostegno della tesi che estendeva il canto agli episodi della tragedia greca, e che consentiva dunque di rivendicare per il melodramma lo statuto di erede legittimo del teatro antico, ma essa va applicata anche all’« interna melodia » connaturata ai versi29, cioè al ritmo scandito dalla regolarità degli accenti e dalle rime, che predispone di per sé la poesia a un’intonazione musicale. Alfieri invece rifiuta una versificazione scandita, che genera « cantilena » e « dalla cantilena l’inverisimiglianza, dalla inverisimiglianza la noja »30. Eludendo il dibattito sulla corretta esecuzione del verso drammatico greco (« poco sappiamo se cantasse, e come cantasse fra gli antichi ; e poco altresì importa il saperlo »)31, sottolinea che la tragedia « non canta fra i moderni »32. Se poi il poeta cesareo, nella lettera all’amico Giovanni Claudio Pasquini, si dichiara pronto a sfidare « arditamente e 27 Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 890. Cfr. anche 878 (« Quindi lo spettatore ha sempre il cuore in perfettissima calma, e non aspetta dagli attori che la sua grattatina d’orecchie ») e vol. IV, 1368 (« E la verità espressa trionferà di cotesti meravigliosi suonatori di gola che, scordati affatto della loro umanità, non aspirano che alla gloria de’ violini, cioè a grattare unicamente le orecchie »). 28 Ibid., vol. IV, 1574. 29 Ibid., 1433. 30 Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 232. 31 Ibid., p. 230. 32 Ibid. 8 la tromba omerica e la tibia sofoclea »33, sottintendendo così uno sviluppo musicale sia per l’epica che per la tragedia, designate attraverso i loro massimi esponenti antichi, per Alfieri « strumento musicale alla tragedia non si è attribuito mai [...] ogni giorno si dice la tromba epica, la lira delfica, il coturno e pugnale della tragedia »34. In definitiva, abbandonando il « coturno » e il « pugnale » che le competono per dotarsi della « tibia » metastasiana, secondo Alfieri la tragedia abdica alle prerogative di « più terribile genere di poesia che v’abbia »35 per divenire un frivolo divertissement, che concilia l’« oblio » di un pubblico asservito, invece di incitarne gli animi alla riscossa libertaria : Non più scomposta il crine, il guardo orrendo, In fuoco d’ira fiammeggiante il volto ; Nè parlar rotto, e da mollezza sciolto ; Nè furor più, nè minacciar tremendo ; Non più sforzarvi a inorridir piangendo ; Non più il coturno e il manto in sangue avvolto : Nè il grondante pugnale in me rivolto : Tutt’altra omai di appresentarmi intendo. Io canterò d’amor soavemente ; Molle udirete il flauticello mio L’aure agitare armonïosamente, Per lusingar l’eterno vostro oblio. Poi, per scolparmi, alla straniera gente Dirò : l’Itala son Melpomen’io36. Questo celebre sonetto – composto dall’autore nel 1783 « in ringraziamento, e risposta alle molte, e sublimi critiche fatte al I o volume delle sue Tragedie, principalmente sulla durezza del verseggiare, da vari Giornalisti, Gazettieri, Poeti, Corrieri europei, e altri simili » – svolge in una serie di immagini i temi trattati più diffusamente in sede teorica. La rinuncia provocatoria a una poetica tragica improntata ad austerità e vigore viene parodiata nella seconda parte del componimento, in cui gli avverbi soavemente e armoniosamente, insieme al termine flauticello (equivalente degradato del latineggiante « tibia » impiegato da Metastasio), non si limitano a contrapporsi da un punto di vista tematico e semantico all’atmosfera cruenta evocata per la tragedia e ai suoi soggetti orridi, ma con la distensione stessa del loro corpo fonico negano di fatto il parlar rotto alfieriano, caratterizzato dalla frammentazione del verso 33 Pietro Metastasio, Lettere cit., vol. IV, 1225. Vittorio Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 230. 35 V. Alfieri, Parere sulle tragedie, cit., p. 166. 36 V. Alfieri, Rime, a cura di Francesco Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, 52. 34 9 in numerose battute e dalla sua scompaginazione interna in monosillabi. L’autore intende contrapporre così il proprio stile a quello languido e carezzevole del melodramma, che i critici gli avevano additato a modello, in contrasto con la durezza rimproverata al suo dettato tragico. Lo scarto espressivo fra i due generi, corrispondente allo scarto tematico fra i soggetti sentimentali del melodramma e quelli politicamente impegnati della tragedia, costituisce la trasposizione stilistica del diverso « impulso » che anima le due tipologie di intellettuali tratteggiate nel Del principe e delle lettere : il poeta tribuno e il poeta cortigiano. Mentre il primo compone obbedendo a un incoercibile « impulso naturale », che lo sprona a ricercare l’utile collettivo attraverso l’espressione di « tuoni di verità [...] maschi, [...] veritieri, incalzanti, e feroci », suscettibili di apparire « forse meno eleganti »37, il secondo non possiede che un « impulso artificiale », sottoposto all’urgere delle necessità materiali, che lo inducono a ricercare la protezione dei principi. Titolare di una musa asservita e mercenaria che ne compromette la funzione civile, il poeta cortigiano non può che avvalersi dell’involucro stilistico per esporre in termini tanto raffinati quanto esili dei contenuti depauperati, « una verità debolmente accennata, guasta, e in mille tortuosi giri ravvolta e affogata tra mille falsità »38. L’incontro con Metastasio descritto nella Vita si svolge secondo il contrasto fra le due tipologie di intellettuali ; infatti, per quanto all’epoca l’Alfieri, immerso nella dispersione di una giovinezza scapestrata, non fosse ancora divenuto scrittore, manifestava già tutti i segni della futura vocazione. Durante la tappa a Vienna del Grand Tour, dopo aver riferito di aver avuto, grazie al ministro piemontese, l’opportunità di essere introdotto alle serate culturali organizzate da Metastasio e di aver declinato l’invito perché « quell’adunanza di letterati di libri classici » gli sembrava « dover essere una fastidiosa brigata di pedanti », Alfieri continua : Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schenbrun nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore ; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all’età di vent’anni e le 37 38 Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 3. Ibid., III, 7. 10 loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile39. Occorre innanzitutto sottolineare come l’occasione volutamente mancata della frequentazione di Metastasio si riproponga in seguito per Rousseau, secondo modalità analoghe e inverse al tempo stesso. Durante il suo secondo soggiorno parigino, infatti, Alfieri ha la possibilità di essere presentato al filosofo tramite un conoscente italiano disposto a fare da intermediario, che incita anzi il poeta all’incontro, assicurandogli una futura intesa con Rousseau (« Quest’italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l’un l’altro, Rousseau ed io »)40. Ma Alfieri preferisce rifiutare nonostante l’« infinita stima » nutrita « più assai per il suo [sc. di Rousseau] carattere puro ed intero e per la di lui sublime ed indipendente condotta, che non pe’ suoi libri »41. Stavolta non è il contrasto, ma piuttosto l’affinità caratteriale a determinare la sua ricusa : con tutto ciò, non essendo io per mia natura curioso, né punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto più orgoglio e inflessibilità di lui ; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n’avrei restituite dieci42. La cortigianeria di Metastasio e la sua amabile socievolezza da una parte e l’indipendeza scorbutica di Rousseau dall’altra provocherebbero dunque una identica reazione di Alfieri, che evita l’incontro con entrambi gli autori. Naturalmente la narrazione dei due episodi ha un valore molto più che aneddotico, in quanto nelle sue pieghe si adombra la rivalità letteraria che oppone il poeta agli scrittori contemporanei, soprattutto nelle pagine della Vita in cui l’affermazione antagonistica della propria originalità è un tema costante, che si presta a uno svolgimento tendenzioso. Infatti, se Metastasio rappresenta un antimodello esplicito per le tragedie, Rousseau è piuttosto un antimodello implicito per l’autobiografia, su cui, più che la critica diretta, grava una reticenza tesa ad occultare certe analogie originarie, in seguito rinnegate 43. In tale 39 Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 8. Ibid., III, 12. 41 Ibid. 42 Ibid. 43 Come osserva Bartolo Anglani, (« Alfieri tra Rousseau e Montaigne », in Pérette-Cécile Buffaria (a cura di), Vittorio Alfieri et la culture française, Révue des Études Italiennes, janvier-juin 2004, t. 50, p. 163-178 (164) : « il racconto della Vita rispecchia [...] l’atteggiamento postumo dell’autobiografo, il 40 11 contesto, il rifiuto di conoscere i due autori, atteggiato a distacco indifferente ed altezzoso, finisce per segnalare con più forza l’influenza che essi esercitano sulle opere alfieriane. D’altronde, lo slittamento dal piano biografico a quello letterario è autorizzato non solo dal giudizio riduttivo che il poeta esprime quasi per inciso sulla produzione di Rousseau (rivelando che i suoi libri, o meglio « que’ pochi che avea potuti pur leggere », lo avevano « piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento »)44, ma anche dalla continuità fra vita e scrittura asserita nel Del principe e delle lettere, secondo cui « a voler conoscere qual dei due impulsi movesse un dato scrittore, molte volte basta, senza quasi leggere il libro, il sapere chi fosse lo scrittore, ed in quali circostanze tempi e luoghi ei scrivesse »45. Nel brano relativo a Metastasio, Alfieri, imbevuto di velleità plutarchiane, rivela il suo disprezzo per la « Musa appigionata » del poeta cesareo ; il resoconto non risparmia i giovanili furori del protagonista stesso, ridimensionati, secondo un procedimento consueto nell’autobiografia 46, dallo sguardo del narratore maturo. Tuttavia, l’ironia si esercita sferzante nelle poche pennellate che schizzano un ritratto indelebile del poeta cesareo : l’avverbio servilmente, assente nella prima stesura della Vita, viene introdotto per rincarare la condiscendente e appagata subordinazione del poeta, ma il termine più marcato è l’alterato genuflessioncella (in corrispondenza formale con il flauticello delle Rime), che rimpicciolisce l’uomo più che l’azione. Il contrasto fra un Metastasio docile servitore e un Alfieri inflessibile oppositore del dispotismo presenta al tempo stesso un risvolto caratteriale e uno ideologico, entrambi storicamente determinati. Mentre l’epistolario metastasiano è percorso da inviti alla moderazione e a un saggio adattamento alle vicende umane (« L’arte, anzi l’obbligo nostro, è di adattarci alle vicende umane, persuasi della temeraria pretensione di adattar quelle a noi »)47, la rigida intransigenza di Alfieri vede nel compromesso un quale narra l’episodio dopo aver letto le Confessions e dopo aver stabilito in cuor suo di costruire se stesso come un anti-Rousseau o per lo meno di accentuare i tratti antirousseauiani del personaggio di sé ». 44 Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 12. 45 Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 7. 46 Cfr. Emilio Bigi, « Giudizio e passione nello stile della “Vita” alfieriana », in Id., Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Milano, Cisalpino-La Goliardica, 1986, p. 1-21. 47 Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. IV, 1043. Cfr. anche vol. III, 88 (« Onde converrà accomodarsi al mondo, giacché non si può accomodare il mondo a noi »), 146 (« Persuaso di non poter accomodar il mondo a me, procuro d’accomodar me al mondo »), 246 (« In questa come nella maggior parte delle costumanze civili io credo impresa meno difficile l’accomodar me alla moltitudine che quella di disingannarla »), 338 (« Dopo aver molto filosofato, io trovo impossibile d’accomodare a me le vicende del mondo. Onde procuro d’accomodar me stesso al corso di quelle »), vol. IV, 1015 (« [...] e ve ne 12 attentato all’integrità dell’individuo. Nelle tragedie, non a caso, sono i tiranni a consigliare alle loro vittime una pieghevole remissione48, e nel trattato Del principe e delle lettere, Alfieri vagheggia nei seguenti termini la figura dell’oratore di una futura repubblica : Così gli oratori non intenderanno a laudar la potenza, ma la sola virtù ; non al persuadere i principi a giustizia e a clemenza, ma al persuadere i popoli a cercare con più stabilità nelle sole leggi la prima, e a non abbisognar mai di quest’ultima : non al convincere e dimostrare agli uomini con ampollosità di parole, e con sottigliezza di tortuosi argomenti, che la virtù nell’adattarsi ai tempi consiste, ma al dimostrare che ella veramente consiste nel riadattare i tempi a virtù49. Il rifiuto dell’adattamento è espresso in termini perentori, come anche avviene nell’autobiografia (basti ricordare l’episodio del confino in camera durato per più di tre mesi nell’anno 1764 : « Io mi ostinai sempre più a non voler mai domandare d’esser liberato, e così arrabbiando e persistendo, credo che vi sarei marcito, ma non piegatomi mai »)50 e prefigura un nuovo modello di intellettuale, che sostituisce alla pacata saggezza improntata a una mediocritas oraziana51 un carattere indomito ed estremo, tormentato da un’irrequietudine già romantica 52. Nello scarto generazionale che separa Metastasio, nato nel 1698, da Alfieri, nato nel 1749, si consuma infatti la fase più costruttiva del secolo dei Lumi e tramontano alcuni dei miti che avevano contribuito ad alimentare l’ottimismo illuminista. Metastasio, che si colloca all’inizio del movimento, serviste, giacché l’arte di accomodare a noi le vicende umane non è concessa a’ mortali, per istrumento dell’altra, che insegna ad accomodare a quelle noi stessi »), vol. V, 2277 (« Non essendovi scienza al mondo che c’insegni ad obbligar le vicende umane ad adattarsi a noi, non ci rimane altro rifugio se non se studiar l’arte di adattar noi medesimi al corso di quelle : arte difficile ma gloriosa per chi la possiede e che non si propone un impossibile »). 48 Cfr., per esempio, Merope, cit., I, 2, v. 150-151 (Polifonte : – « [...] Tu dunque ai tempi / Adatta te stessa omai [...] ») ; La congiura de’ Pazzi, cit., II, 3, v. 185-187 (Lorenzo : – « Va’ ; se il figlio ti cal, seguilo : ai tempi / Fa’ ch’ei meglio si adatti ; e a ciò gli giova / Coll’esemplo tuo stesso. [...] ») ; Agide, a cura di Raffaele De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, I, 3, v. 245-249 (Anfare : – « [...] Assai tu puoi, / D’Agide madre, entro a Spartani petti, / E sovr’Agide più : quelli (a me il credi) / Al cessar dai tumulti, e questo or traggi, / Per poco almeno, all’adattarsi ai tempi »). 49 Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 8. 50 Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., II, 8. 51 Sulla sfortuna di Orazio a partire dalla seconda metà del Settecento cfr. Arnaldo Di Benedetto, « Il declino della fortuna di Orazio nel Settecento : Orazio in Alfieri », in Id., Le passioni e il limite. Un’interpretazione di Vittorio Alfieri. Nuova edizione riveduta e accresciuta, Napoli, Liguori, 1994, p. 173-198. 52 Cfr. Marco Cerruti, « Dalla “sociabilité” illuministica al mito del poeta solitario. La Musa saturnina », in Guido Santato (a cura di), Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo, Genève. Droz, 2003, p. 95-109. 13 in un’epoca che Binni aveva definito « arcadico-razionalistica »53, nonostante le profonde incomprensioni che lo allontanano dai philosophes, partecipa allo slancio riformatore del suo secolo, di cui condivide a suo modo gli interessi sociali (« Io credo e sostengo che “Non meritò di nascere / Chi vive sol per sé” »)54, laddove Alfieri assiste piuttosto alla fase declinante del pensiero illuminista e vive tutta l’inquietudine che si accompagna alla denuncia dei limiti della ragione e alla delusione per il fallimento degli ideali progressisti che aveva condiviso negli anni giovanili. È il caso, per esempio, dell’atteggiamento verso la religione ; se nel suo epistolario Metastasio depreca la battaglia illuminista contro i dogmi cristiani e il potere clericale, e ribadisce a più riprese la propria ortodossia, tanto da dichiarare di non credere « infallibile se non il papa quando pronuncia ex cathedra »55, per Alfieri invece « un popolo, che crede potervi essere un uomo, che rappresenti immediatamente Dio ; un uomo, che non possa errar mai ; egli è certamente un popolo stupido »56, oltre che maggiormente propenso a subire il giogo tirannico, per alcuni aspetti analogo all’autoritarismo religioso e, peraltro, da quest’ultimo approvato e sorretto : Un popolo, che crede nella infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo papa nelle religiose57. L’anticlericalismo che permea il giovanile trattato Della tirannide, intriso di umori voltairiani, si smorza però nelle opere mature del poeta, che rinnega il suo passato « filogallo » e rivaluta la funzione sociale della religione, di cui prende le difese nella satira L’Antireligioneria58, senza rinunciare per questo al proprio ateismo. Resta invece immutato l’atteggiamento antitirannico, che comporta la condanna di ogni sistema politico esposto all’arbitrio assolutistico del sovrano e un conseguente scetticismo nei confronti del dispotismo illuminato, a cui Metastasio – al servizio di una 53 Walter Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1968 (1963), p. XVII. Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. IV, 1006 ; vol. V, 2042. 55 Ibid., vol. III, 246. 56 Vittorio Alfieri, Della tirannide, in Id., Scritti politici e morali, vol. I, cit., I, 8. 57 Ibid. 58 Cfr. a proposito Guido Santato, Alfieri e Voltaire. Dall’imitazione alla contestazione, Firenze, Olschki, 1988 e Id., Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani, Modena, Mucchi, 1999. 54 14 delle corti europee allora più all’avanguardia nell’accoglimento delle proposte illuministe – aveva invece prestato una sincera adesione. D’altronde, le recenti indagini critiche sull’opera del poeta cesareo mirano a rettificare le accuse di evasione rivolte al suo melodramma, per valorizzarne l’impegno sia nell’orchestrazione del consenso attorno al sovrano, sia nella proposizione di contenuti pedagogici volti a definire un modello complesso di regalità, basato sulla clemenza e sul contenimento delle passioni59. Di fatto, il progetto di cooperazione degli intellettuali con i principi, scaturito dall’esigenza di incidere concretamente sulla realtà, comincia presto a rivelare le sue difficoltà intrinseche, come dimostra l’esito piuttosto deludente del viaggio in Russia compiuto da Diderot nel 1773, al fine di orientare la politica di Caterina II ; e non a caso, dopo l’esperienza di Metastasio, la posizione del poeta all’interno del palazzo imperiale diventa più controversa e conflittuale, per cui sono significative le vicende dei suoi successori a Vienna, Giovanni Battista Casti e Lorenzo Da Ponte, entrambi costretti ad abbandonare l’incarico presso la corte. La diversa concezione della sovranità costituisce il discrimine ideologico fondamentale fra Metastasio e Alfieri, che esprimono pareri profondamente divergenti anche nei testi non teatrali, e a volte non letterari. Riguardo al mecenatismo, per esempio, alla fiducia di Metastasio, secondo cui « i principi hanno un lume che noi non abbiamo, e scuoprono meriti dove noi non sapressimo vederne »60, si oppone il disincanto di Alfieri, convinto invece del fatto che « il principe, per naturale sua indole, pende sempre maggiormente per i mediocri »61. Mentre poi il poeta cesareo si mostra propenso ad assolvere dall’accusa dell’uccisione del coniuge la zarina Caterina II, che per i suoi interessi culturali e per i rapporti intrattenuti con i philosophes incarna forse nella maniera più compiuta l’immagine del sovrano illuminato (« Si dice morto d’una colica nefritica, emorroidale ; ma a primo colpo tutto il mondo ne accuserà la regnante. Pensando peraltro giustamente io non lo posso credere »)62, la condanna di Alfieri della 59 Cfr. in particolare Elena Sala Di Felice e Rossana Caira Lumetti (a cura di), Il melodramma di Pietro Metastasio : la poesia, la musica, la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, Atti del convegno di studi Roma, dicembre 1998, Roma, Aracne, 2001. 60 Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 176. 61 Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 5. 62 Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. VI, 1273. 15 « Clitennestra filosofessa », « giustamente tacciata del più orrendo delitto »63, si associa alla critica del suo operato politico. Del tutto antitetica, come si può immaginare, è anche la valutazione di Machiavelli, in quanto la nota ammirazione di Alfieri per « quel nostro divino ingegno »64, che svela gli arcani del potere, contrasta con l’opinione di Metastasio, che gli attribuisce la responsabilità del degrado morale della politica : Nel corto raziocinio degli uomini malvagi ha sempre prevaluto l’utile all’onesto come se fossero separabili ; ma dopo che il segretario fiorentino ha sollevato il vizio alla categoria delle scienze, cotesto non men falso che reo principio, quasi che da lui giustificato, è divenuto la dottrina arcana de’ gabinetti65. Forti delle diverse concezioni ideologiche che si traducono in diverse esperienze di vita, per cui l’incarico a corte di Metastasio si oppone alla « spiemontizzazione » di Alfieri – vale a dire alla sottrazione agli obblighi di suddito piemontese attraverso la rinuncia ai beni aviti –, i due autori propongono nelle rispettive opere una raffigurazione simmetricamente inversa delle prerogative regali, in quanto ai monarchi esemplari di Metastasio, quali Tito e Adriano, si contrappongono le figure di Alfieri attinte al comune patrimonio classico ma di segno opposto, quali Creonte e Nerone. Il sovrano metastasiano, tollerante e benevolo, esercita una regalità dai forti connotati paterni66, laddove il tiranno alfieriano presenta un’indole corrotta dal potere, che gli fa violare persino i vincoli di sangue. A tal proposito è indicativo l’esito opposto che i due autori conferiscono a un intrigo simile, l’amore del figlio verso la sposa del padre-sovrano, rispettivamente nell’Antigono e nel Filippo : l’ira di Filippo, prima grande archetipo tirannico del teatro alfieriano, conduce alla morte dei due giovani protagonisti, per quanto responsabili di un amore votato alla rinuncia, e contrasta con il perdono finale di Antigono, il quale – commosso dalla devozione del figlio Demetrio, accorso in suo aiuto nonostante l’esilio cui egli lo aveva condannato in un primo tempo –, finisce con il cedergli « volontario il combattuto possesso di Berenice »67. 63 Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, cit., III, 9. Vittorio Alfieri, Della tirannide, cit., II, 8. 65 Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 588. 66 Cfr., per esempio, le parole di Artaserse in Pietro Metastasio, Artaserse, III, 8, v. 1458-1459 : « A voi, popoli, io m’offro / Non men padre che re [...] ». 67 Pietro Metastasio, Antigono, argomento. 64 16 Il lieto fine del melodramma risponde alle istanze consolatorie della giustizia poetica, corrispettivo artistico del dispotismo illuminato, mentre la catastrofe della tragedia mira a conseguire « non l’appagamento dello spettatore, ma la sua insoddisfazione di fronte alla realtà come di fronte alla finzione »68. In entrambi i casi il teatro tende a un prolungamento nella realtà, come si evince anche dalla licenza che Metastasio appone alla sua opera, svelandone la simbologia politica, volta a stabilire una specularità fra la vicenda rappresentata e il modello monarchico : l’amore di Antigono per il figlio leale rispecchia quello del sovrano per i suoi sudditi, che a loro volta lo ricambiano con la stessa dedizione di Demetrio (v. 1159-1163, « [...] Non son ristretti / I tuoi paterni affetti / Fra i confini del sangue ; hanno i tuoi regni / Tutti il lor padre in te ; per te ciascuno / Ha di Demetrio il cor [...] »), instaurando un patto basato rispettivamente su fedeltà e clemenza (v. 1163-1165, « [...] La fede altrui / E la clemenza tua sono a vicenda / E cagione ed effetto [...] »). Ne risulta la coincidenza perfetta delle figure del monarca e del padre (v. 1174-1175, « [...] in dolce error confondono / Sempre col padre il re »). Come si può arguire dalla trama dell’Antigono, il modello regale elaborato da Metastasio si fonda sulla rinuncia del sovrano, che sacrifica la propria felicità personale per il bene dei figli/sudditi. Tale è il messaggio proposto da numerosi melodrammi, che trova un’enunciazione diretta nelle parole di Adriano : « [...] Ah ! si cominci / Su’ propri affetti a esercitar l’impero »69. Al contrario, nelle tragedie di Alfieri il potere assoluto coincide per l’appunto con l’esplicazione sfrenata delle voglie del despota, che agisce secondo il proprio arbitrio, come dichiara Creonte nell’Antigone : « [...] Al poter mio, / Altro confin che il voler mio non veggio »70 ; e come emerge nella stessa definizione di principe che Alfieri propone nel suo secondo trattato : « Colui, che può ciò che vuole, e vuole ciò che più gli piace ; nè del suo operare rende ragione a persona ; nè v’è chi dal suo potere il diparta, nè chi al suo potere e volere vaglia ad opporsi »71. Senza inoltrarsi oltre in un confronto puntuale delle due drammaturgie, che richiederebbe uno sviluppo molto più ampio, ci limiteremo a presentare il diverso impiego di una stessa ripresa letteraria, utile a confermare l’esame condotto finora. 68 Enrico Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, p. 210. Pietro Metastasio, Adriano in Siria, I, 1, v. 92-93. 70 Vittorio Alfieri, Antigone, cit., III, 1, v. 55-56. 71 Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., I, 2. 69 17 Nel melodramma metastasiano La clemenza di Tito, rappresentato per la prima volta nel 1734, la finzione teatrale sembra precorrere la descrizione della realtà : in un passo dell’opera infatti il poeta inscena l’intervento benefico dell’imperatore in favore delle vittime di una catastrofe naturale, l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Il riferimento è alle parole pronunciate da Tito durante il suo primo ingresso in scena, estremamente importanti al fine della caratterizzazione del personaggio grazie alla loro posizione di rilievo ; rifiutando la costruzione di un tempio a lui dedicato che lo parificherebbe agli dèi, l’imperatore chiede che i tesori offerti per erigere l’edificio siano invece destinati alle vittime del vulcano : Quegli offerti tesori Non ricuso però : cambiarne solo L’uso pretendo. Udite. Oltre l’usato Terribile il Vesevo ardenti fiumi Dalle fauci eruttò ; scosse le rupi, Riempié d ruine I campi intorno e le città vicine. Le desolate genti Fuggendo van ; ma la miseria opprime Quei che al fuoco avanzar. Serva quell’oro Di tanti afflitti a riparar lo scempio. Questo, o Romani, è fabbricarmi il tempio72. Nel 1755 si verifica il terribile terremoto di Lisbona, che ha forti ripercussioni sul pensiero illuminista e lascia numerosi echi nella produzione contemporanea ; in quell’occasione, Metastasio indirizza una lettera al caro « gemello », il cantante Carlo Broschi allora residente a Madrid, in cui manifesta il proprio sconcerto per l’episodio ed elogia al tempo stesso l’intervento della corona : Io ho provato nel mio interno tutto lo sconvolgimento dell’infelice Lisbona. Che orrore ! che flagello ! che miseria ! Povera umanità ! Fra tanti motivi d’afflizione io rifletto per consolarmi al largo campo che la Provvidenza ha aperto al vostro adorabile sovrano di spiegar le grandi e ammirabili disposizioni del regio suo cuore. Ciò ch’egli ha fatto e sta facendo in questa fatale circostanza parrebbe immaginazione poetica, s’io l’attribuissi al mio Tito o al mio Alessandro. Queste sono azioni, caro gemello, che onorano tutta l’umanità73. Il raffronto con i melodrammi è svolto esplicitamente da Metastasio, che attribuisce al sovrano spagnolo una funzione di soccorso esercitata con un’efficacia e una dedizione 72 73 Pietro Metastasio, La clemenza di Tito, I, 5, v. 216-227. Pietro Metastasio, Lettere, cit., vol. III, 902. 18 che fanno addirittura impallidire il modello poetico. La stessa convinzione riemerge in seguito per episodi meno drammatici, come testimoniano le lettere del 7 marzo 1778 a Tommaso Filipponi e del 2 agosto 1779 a Giuseppe Azzoni. In quest’ultima, che ha per oggetto un’« ostinatissima siccità e l’orribile scoppio del nostro magazzino di polvere », il poeta descrive il coraggioso intervento dell’imperatore Giuseppe II 74, mentre nella precedente si sofferma su un’inondazione del Danubio : La furiosa inondazione del Danubio, mercé la paterna carità del nostro augustissimo, che ha soccorso col senno e con la mano gl’infelici abitanti de’ sobborghi inondati, non ha prodotto quei tragici effetti che si sono giustamente temuti : onde il male è stato infinitamente minore dello spavento, che tuttavia non ci abbandona75. Nel brano il resoconto dell’operato del sovrano si avvale di un’illustre citazione : la ripresa dei versi incipitari della Gerusalemme liberata, riferiti a Goffredo di Buglione (I, 1, 3, « Molto egli oprò co’l senno e con la mano »), quasi a suggerire un’equivalenza fra Giuseppe II e l’eroe tassiano. Nel trattato Del principe e delle lettere, Alfieri, come si è visto, auspica l’instaurazione di una repubblica futura che promuova il risorgimento delle lettere e definisce il nuovo ruolo dei letterati, fra cui il poeta epico : Quindi allora il veramente epico poeta, che in sublimi versi una impresa veramente sublime piglierà a descrivere, sceglierà certamente piuttosto di cantare la liberazione di Roma da Bruto, che quella di Gerusalemme da Goffredo76. La celebrazione di Goffredo, nella prospettiva alfieriana, è una scelta imposta a Tasso dagli obblighi cortigiani, che gli impediscono di cimentarsi in un’opera di autentico valore politico, come la vicenda di Bruto. Quasi a voler rimediare all’ingiusta sostituzione di soggetto, nel trattato Della tirannide il poeta sembra « correggere » il testo tassiano : mettendo polemicamente a confronto la ferocia dei dispotismi antichi con la moderazione delle monarchie contemporanee, osserva che « difficilmente può 74 Ibid., vol. V, 2249 : « Ed il nostro adorabile augustissimo ha dimostrato in questa occasione tutta la grandezza dell’umano suo, tenero e paterno cuore. Si è immediatamente inoltrato fra le ruine nulla curando il suo rischio, animando tutti con l’autorità, con l’esortazione, con le preghiere, coi doni, e molto più con l’esempio, a soccorrere i miserabili che potevano ancora essere assistiti, e con tal premura ed affetto che ha mosso tutti i presenti ad un pianto universale di tenerezza e d’ammirazione ». 75 Ibid., vol. IV, 1650. 76 V. Alfieri, Del principe e delle lettere, cit., III, 8. 19 nascere ai tempi nostri un Nerone », ma che « assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto, e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno »77. La citazione della Gerusalemme è ancora una volta di immediata evidenza : Bruto si sostituisce all’eroe del Tasso in un sincretismo letterario che assimila e riscrive il modello, conferendo al personaggio alfieriano la statura imponente dell’epica. Metastasio e Alfieri ricorrono dunque al paradigma epico, sintesi suprema delle virtù del leader, per applicarlo l’uno a una raffigurazione idealizzata del sovrano, l’altro all’eroe libertario (si tratti esso di Lucio Giunio Bruto, responsabile della cacciata dei Tarquini, o del cesaricida Marco), protagonisti delle rispettive opere teatrali. Le istanze ideologiche che permeano la scrittura dei due autori animano in entrambi i casi un universo poetico di estrema coerenza interna, che adatta gli strumenti espressivi alla resa di un’opposta concezione drammaturgica. La distanza del teatro metastasiano rispetto alla tragedia di Alfieri si lega strutturalmente all’evoluzione del contesto storico e culturale che attraversa la seconda metà del Settecento, culminando nella Rivoluzione francese. Non a caso, per De Sanctis Metastasio rimane « l’ultimo poeta della vecchia letteratura »78, ancorato a una società in declino, laddove Alfieri rappresenta « l’uomo nuovo, che si pone in atto di sfida in mezzo a’ contemporanei »79. Il passaggio di consegne tra i due autori si può idealmente collocare nel 1782, anno in cui alla recita simbolica del Requiem per Metastasio, morto a 84 anni, succede quella del Te Deum per Alfieri, che in seguito al trionfo romano dell’Antigone80, la prima opera messa in scena dopo l’esperimento della Cleopatra, viene salutato come Sofocle italico presso quella stessa Accademia dell’Arcadia di cui Metastasio era stato il massimo esponente. 77 V. Alfieri, Della tirannide, cit., I, 9. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1962 (1912), vol. 2, p. 321. 79 Ibid., p. 370. 80 Cfr. Ezio Raimondi, « Un teatro terribile : Roma 1782 », in Id., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, il Mulino, 1985, p. 17-64. 78 20