mai vista un`alba così

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mai vista un`alba così
MAI VISTA UN’ALBA COSÌ
DI
FRANCESCO CANDELARI
I vigili del fuoco dovettero lavorare tutta la notte nel disperato tentativo di estrarre il piccolo
Simone dalle lamiere contorte e fumanti dell’utilitaria: un improvviso colpo di sonno del
padre era stato di certo la funesta causa del tremendo incidente nel quale tutta la sua
famiglia aveva trovato la morte. Entrambi i genitori erano deceduti in conseguenza
dell’impatto, seguiti pochi minuti dopo dalla piccola Milena. La bambina, di soli undici mesi,
legata al seggiolino, era passata dal sonno alla morte senza neppure accorgersene.
Simone invece si era salvato contro ogni statistica previsione.
Quando i soccorritori riuscirono a rintracciare, grazie a una provvidenziale segnalazione, il
luogo dell’incidente, non si aspettavano di trovare in mezzo a quel groviglio di lamiere
qualcuno ancora vivo. Il respiro era impercettibile; il cuore pulsava debolmente arrancando
dentro una cassa toracica fracassata; entrambi i femori erano fratturati in più punti.
Nonostante le gravi ferite il piccolo sopravvisse. Dopo un lungo ricovero ospedaliero,
seguito da una lenta e dolorosa riabilitazione, Simone venne affidato alla zia Clelia, sorella
del padre, e a suo marito. Gli zii erano due anaffettivi cinquantenni, disamorati della vita. Il
fatto di non essere riusciti ad avere figli alimentava in loro una smisurata invidia per quella
famiglia, sino ad allora tanto felice e fortunata. Accettarono malvolentieri l’affidamento del
bambino da parte del tribunale, più per timore delle critiche dei conoscenti che per
compassione nei confronti di Simone, che intuì presto la loro ostilità. Il bambino aveva da
poco compiuto otto anni quando, per motivi a dir poco futili, subì le prime percosse da
parte dello zio alcolizzato e violento. Col passare del tempo le vessazioni psicologiche
della zia e le aggressioni fisiche dello zio divennero sempre più frequenti, mentre il piccolo,
incapace per natura di ribellione, si rinchiuse in se stesso. Durante la mattina la
frequentazione della scuola lo sottraeva alla crudeltà dei parenti, ma i pomeriggi
rappresentavano un’interminabile agonia, poiché Simone rimaneva in casa da solo fino a
sera inoltrata.
La villetta, come le sparute altre della zona, era dotata di una piccola cantina che però da
tempo i due coniugi avevano rinunciato a utilizzare.
Il grosso e giovane ratto serpeggiava tranquillo insieme ad alcuni suoi simili nel
rassicurante buio di quel vecchio scantinato. Era giunto lì dopo aver faticosamente
percorso un dimenticato lungo tunnel sotterraneo dell’intricata rete fognaria cittadina, forse
costretto dalla fame, o più probabilmente spinto dalla curiosità. Aveva occhi piccoli, neri e
scintillanti, ed era dotato di un eccellente olfatto e di un ottimo senso del gusto, con il
quale riusciva a intuire anche la più piccola presenza di eventuali veleni. Correva e
s’arrampicava con l’agilità di uno scoiattolo; la sua abilità nel nuotare lo rendeva capace di
attraversare i fiumi e di sopravvivere nei mefitici e melmosi corsi d’acqua fognari. La
migliore arma a sua disposizione erano i micidiali denti giallastri, i cui incisivi apparivano
lunghi, affilati e sporgenti.
Quando Simone aprì all’improvviso la porta che sorgeva alla fine di una decina di
scricchiolanti gradini, tutti i ratti si diedero alla fuga, sparpagliandosi e nascondendosi tra
le intercapedini di alcune assi parzialmente schiodate. Solo il grosso ratto si attardò e non
fece in tempo, rimanendo intrappolato e costretto contro la parete di un angusto angolo. Il
bambino lo vide e intuì il suo terrore: il ratto lo fissava con occhi minacciosi e il pelo irto,
umido e tremolante.
Vinto dalla curiosità, il piccolo si accovacciò, sporgendo di poco la testa in avanti nel goffo
tentativo di poterlo meglio osservare. A quel punto il ratto digrignò rabbiosamente i denti
aguzzi, pronto a sferrare il micidiale attacco che gli avrebbe potuto salvare la vita e aprire
una via di fuga.
-Come ti chiami?- gli chiese Simone a bassa voce, mentre sul suo volto andava
dipingendosi un innocente e raggiante sorriso. –Io mi chiamo Simone. Sono contento che
tu non sia fuggito come tutti gli altri. Da quando mamma e papà vivono in cielo, io abito qui
con i miei zii, ma loro sono sempre arrabbiati e mi trattano male. Mamma mi diceva
sempre che si fa l’abitudine a tutto, e io mi sono abituato alle urla della zia e alle
sculacciate di zio Tommaso. Però la cosa che mi pesa di più è rimanere sempre da solo,
soprattutto il pomeriggio. Qui intorno non ci sono bambini della mia età e io mi annoio
mortalmente.
Simone tirò fuori dalla tasca una piccola tavoletta di cioccolato al latte, vistosamente
deformata a causa del calore del suo corpo. La scartò con accurata lentezza e la porse al
topo, il quale schiacciò ulteriormente il proprio corpo contro la fredda parete. Gliela spinse
fin sotto il naso facendogliela annusare; il ratto, forse spinto da una fame non più
sopportabile, strappò letteralmente la tavoletta dalle dita del bambino, con un’invidiabile
precisione chirurgica. Dopo averla divorata in pochi morsi, smise di tremare e Simone ne
approfittò per accarezzargli delicatamente la testolina.
-Ti voglio chiamare Tommy. Il mio Tommy. E d’ora in poi resteremo insieme per sempre.
Il piccolo gli protese le braccia e il grosso ratto, contro ogni istintiva regola di
sopravvivenza, gli saltò addosso accucciandosi tra le pieghe del morbido maglione di lana.
I giorni passavano veloci e la loro amicizia si consolidava sempre più. Tommy aspettava
ogni pomeriggio nel buio scantinato l’arrivo del bambino, il quale non mancava mai di
portargli qualcosa di gustoso da mangiare. Quando calava il sole, uscivano quasi sempre
per giocare nel grande giardino alberato dietro casa. Difficile immaginare un bambino e un
grosso topo di fogna giocare insieme ma, contro ogni regola naturale, i due erano divenuti
inseparabili. Una sera, subito dopo il tramonto, successe una cosa davvero strana: la terra
cominciò a tremare, prima in modo impercettibile, poi con un’intensità crescente. Il cielo
venne illuminato da una forte luce bianca che strappò via con violenza il rassicurante velo
notturno. Poi, da dietro la casa, spuntò un oggetto infuocato, enorme e altissimo nel cielo,
la cui scia fumosa e rossastra andava allungandosi per decine e decine di chilometri.
Simone si sedette sugli scalini della porta sul retro e insieme al piccolo amico osservò
incuriosito il bolide passare sopra le loro teste. Non potevano sapere né immaginare che si
trattava di un gigantesco meteorite, dallo spaventoso diametro di almeno quindici
chilometri, pesante migliaia di tonnellate.
Il mastodontico sasso spaziale di dura roccia e metallo fuso sfilò davanti ai loro occhi
increduli mantenendo una traiettoria rettilinea e avanzando nel cielo con una esasperante
lentezza, effetto della distanza e dell’attrito atmosferico. Il passaggio venne annunciato da
un boato sordo e ovattato, accompagnato da forti vibrazioni che sconquassarono tutto ciò
che sorgeva nelle immediate vicinanze del suo mortale percorso. La folle corsa terminò
oltre l’orizzonte visibile, dietro le basse colline incornicianti il paese. Il rumore si affievolì
fino a sparire; il buio tornò ad avvolgere case e strade e un opprimente silenzio piombò
tutt’attorno. Quell’innaturale quiete durò solo per pochi secondi. L’oscurità della notte
venne nuovamente squarciata dal bagliore accecante di mille soli, come se tutti gli astri del
firmamento avessero deciso di accendersi contemporaneamente oltre quell’anonimo
panorama montano, per dare il via all’atto conclusivo di un apocalittico spettacolo
pirotecnico, che avrebbe sancito la fine della razza umana e della maggior parte delle
specie animali e vegetali viventi sulla superficie terrestre.
Forse il ratto si sarebbe anche potuto salvare gettandosi tra gli stretti spazi di quelle
vecchie assi di legno, per poi scomparire nei protettivi meandri del sottosuolo. Con molte
probabilità qualcuno della sua specie avrebbe di certo potuto sopravvivere, riemergendo
successivamente dalle profondità della terra, per colonizzare e dominare un pianeta ridotto
in cenere. I futuri abitanti della Terra avrebbero per lungo tempo camminato a quattro
zampe, zigzagando lestamente tra le rovine di una civiltà che con ostinata arroganza si
riteneva indistruttibile.
Ma Tommy non lo fece. Non scappò. I suoi simili sarebbero forse sopravvissuti, ma non
lui, che rimase lì, saldamente aggrappato al suo piccolo amico, mentre il fronte dell’onda
d’urto avanzava alla terrificante velocità di oltre milleottocento chilometri orari. I due piccoli
amici continuarono a rimanere seduti e immobili sugli scalini di legno consunti dal tempo.
Era impossibile distogliere lo sguardo da quel meraviglioso scenario apocalittico, il cui
atroce significato sfuggiva alla loro innocente ragione. Si udiva soltanto un cupo e lontano
ululato, mentre il cielo s’illuminava di inquietanti bagliori arancioni che andavano
facendosi, di secondo in secondo, sempre più intensi e diffusi. Gli occhi del ratto, neri,
luccicanti e profondi come due pozzi senza più fondo, riflettevano in modo sinistro
l’avanzare dell’onda che inesorabilmente fagocitava con vorace appetito secoli di storia e
d’evoluzione. Mai più città, mai più ponti, strade o campi coltivati, mai più dimostrazioni
dell’umano ingegno, mai più uomini. Solo terra bruciata, calcinata dai milioni di gradi
prodotti dal terrificante impatto. All’orizzonte andava delineandosi l’alba prodotta da un
sole alieno, un astro maligno, divoratore di mondi, forse generato dall’immanente volontà
di un essere superiore, che aveva per qualche motivo deciso di puntare il suo dito
accusatore contro quell’insignificante terzo pianeta ruotante attorno un’anonima stella
solitaria.
-Sai Tommy: stanotte ho sognato mamma e papà- disse Simone, con disarmante
innocenza stringendoselo a sé – Papà mi sorrideva e la mamma mi ha detto che oggi
sarebbero venuti a prendermi all’uscita della scuola. Però non sono venuti; li ho aspettati a
lungo, poi la zia si è seccata e mi ha trascinato via. Forse verranno più tardi. Tu che ne
pensi? Hanno sempre mantenuto le promesse, quindi verranno di sicuro!
Tommy lo osservò per qualche istante, come se avesse intuito perfettamente il disagio del
suo piccolo amico. Poi tornò ad appoggiare la grigia testolina al suo petto, avvinghiando la
lunga coda carnosa all’esile polsicino.
Adesso il cielo appariva di uno splendente rosso rubino, ma talmente intenso e acceso da
rendere
impossibile
un’osservazione
prolungata.
La
sovrapressione
prodotta
dall’esplosione continuava a spianare, come un mortale rullo compressore, tutto ciò che le
sbarrava il cammino e, mentre si avvicinava alla casa, la suo tetra eco distruttiva
aumentava costantemente, trasformandosi nel boato assordante di mille uragani.
All’orizzonte andò profilandosi il fronte dell’onda, la cui terrificante cresta di plasma
incandescente s’innalzava per decine e decine di chilometri. Le tegole del tetto vennero
risucchiate via dal forte vento e tutti gli alberi del giardino presero fuoco, iniziando a
bruciare quasi contemporaneamente per effetto dell’induzione termica che precedeva di
poco il totale annientamento.
L’onda d’urto piovve loro addosso come un rapace affamato. Simone, tenendo sempre
stretto a sé il grosso ratto, pochi istanti prima della fine si alzò in piedi e, sollevando il
braccio, indicò il punto in cui la luminosità era più accecante. –Guarda, Tommy- disse
insistendo faticosamente con il dito in quella direzione. –Mi sembra di vederli. Hanno
mantenuto la promessa e stanno venendo a prendermi, ma non ti preoccupare: loro sono
tanto buoni e non ci separeranno mai. Tu verrai a casa insieme a noi. Sei contento?
Avvolto dalle fiamme, mentre il suo esile braccio ancora teso si frantumava a causa del
tremendo calore, un ultimo pensiero razionale attraversò la mente del piccolo Simone
quando ormai il mondo circostante andava disgregandosi in atomi: “Sai una cosa,
Tommy? Non ho mai visto in vita mia un’alba più bella di questa”.