Fonti storiche sui veleni - Liceo Orazio Classi Colorate

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Fonti storiche sui veleni - Liceo Orazio Classi Colorate
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Anno scolastico 2015-2016
Liceo ginnasio statale Orazio
Classe IV ginnasio sezione H
Area tematica 5 – Lo studio delle lingue classiche in relazione all’ambito giuridico-politico
Percorso su un tema di approfondimento multidisciplinare
per la quarta classe ginnasiale
L’uso dei veleni nella realtà storica
e nella letteratura
e la repressione del veneficio nella legislazione
penale antica e moderna
FONTI STORICHE SUI VELENI
DALL’ANTICHITÀ FINO AI NOSTRI GIORNI
(Testi raccolti da Mario Carini)
Indice delle fonti storiche
1. I progressi nello studio dei veleni (tratto da: Thomas T. Noguchi in collaborazione con
Joseph DiMona, La parola al Coroner, trad. di Paola Frezza, Rizzoli, Milano 1986, pp. 100102)
2. Intervista a Marcella Fierro e Alphonse Polis medici legali americani ed esperti di
tossicologia (tratto da: Scegli il tuo veleno. Dodici storie tossiche, in “National Geographic
Italia”, all’indirizzo:
http://www.nationalgeographic.it/scienza/2010/04/07/news/pick_your_poison_12_toxic_tale
s-3507/)
3. Come uccidere con il veleno (tratto da: Vittorino Andreoli, Voglia di ammazzare, Rizzoli
editore, Milano 20062, pp. 90-93)
4. La matrigna avvelenatrice (tratto da: Antifonte, Per avvelenamento contro la matrigna,
parr. 5-23, trad. di Mario Marzi, in Oratori attici minori, vol. II, a cura di Mario Marzi e
Simonetta Feraboli, UTET, Torino 2000, rist., pp. 77-85)
5. La morte di Socrate (tratto da: Platone, Fedone 116a-118a, trad. di Gino Giardini, in
Platone, Tutte le opere, vol. I, Newton & Compton editori, Roma 1997, pp. 255-259)
6. La morte di Alessandro Magno (tratto da: Mario Attilio Levi, Alessandro Magno, Rusconi
Libri, Milano 1994, pp. 404-407 e 415-417)
7. I serpenti di Annibale (tratto da: Cornelio Nepote, Annibale, parr. 10-11, trad. di Carlo
Vitali, in Id., Vite dei massimi condottieri, Rizzoli, Milano 1986, pp. 319-323)
8. La morte di Cleopatra (tratto da: Plutarco, Vite parallele, Antonio 85-86, trad. di Rita
Scuderi, Rizzoli, Milano 1989, pp. 477-479)
9. Locusta l’avvelenatrice di Roma (tratto da: Massimo Melani, Locusta, una serial killer ai
tempi di Nerone, in TOTALITÀ.it Magazine online di cultura e politica, indirizzo:
http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=2312&categoria=1&sezione=&rubrica=)
10. Il presunto avvelenamento di Mozart (tratto da: Massimo Centini, Salieri uccise Mozart?,
in M. Centini, Misteri d’Italia, Newton Compton editori, Roma 2006, pp. 200-203)
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11. Napoleone morì avvelenato? (tratto da: L’imperatore in esilio, in Enigmi della storia,
Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1993, pp.126-128)
12. La morte di Napoleone (tratto da: Thomas T. Noguchi in collaborazione con Joseph
DiMona, La parola al Coroner, trad. di Paola Frezza, Rizzoli, Milano 1986, pp. 161-166)
13. La notte di Rasputin (tratto da: Paolo dalla Zonca, Rasputin: l’allucinante notte
dell’assassinio, in “Storia Illustrata”, agosto/settembre N. 8/9, 1996, pp. 68-75)
14. Il suicidio di Marilyn Monroe (tratto da: Luca Fioretti, Marilyn giallo a Los Angeles, in
“Storia Illustrata”, n. 2, febbraio 1996, pp. 6-13)
15. Il caffè di Gaspare Pisciotta / 1 (tratto da: Sandro Provvisionato, Misteri d’Italia, Laterza,
Roma-Bari 1993, pp. 22-26)
16. Il caffè di Gaspare Pisciotta / 2 (tratto da: Carlo Lucarelli, Nuovi misteri d’Italia, Edizione
Mondolibri su lic. Einaudi, Milano 2006, pp. 22-24)
17. Un caffè al cianuro per Michele Sindona (tratto da: Gianni Simoni – Luciano Turone, Il
caffè di Sindona, Edizione Mondolibri su lic. Garzanti, Milano 2010, pp. 78-87)
18. Il caso Litvinenko (tratto da: Wikipedia, testo leggibile all’indirizzo:
https://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Val%27terovi%C4%8D_Litvinenko)
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FONTI STORICHE
Brano n. 1
I progressi nello studio dei veleni
(tratto da: Thomas T. Noguchi in collaborazione con Joseph DiMona,
La parola al Coroner, trad. di Paola Frezza, Rizzoli, Milano 1986, pp. 100-102)
Per secoli il veleno è stata una delle armi preferite dagli assassini, tra cui i famosi Borgia. E tra i
veleni, il preferito era l’ossido arsenioso, una polvere bianca incolore e insapore. I sintomi di
avvelenamento erano uguali a quelli del colera e di altre malattie diffuse all’epoca.
Per combattere gli omicidii da avvelenamento, nel 1813 nacque una nuova scienza grazie a
Mathieu Orfila, che a noi è noto come il padre della tossicologia. Orfila, uno spagnolo trapiantato a
Parigi, condusse numerosi esperimenti con l’arsenico sugli animali per scoprire in che modo
l’arsenico circolasse nel corpo e in quali organi interni si depositasse.
Ma talvolta era impossibile rintracciarlo, sembrava svanire. Orfila non aveva i mezzi per trovare
questo arsenico invisibile finché un inglese di nome James Marsh fece un esperimento. Mescolò
dell’arsenico con acido solforico, creando così un gas idrogenato che conteneva particelle di
arsenico. Marsh diede fuoco a questo gas mentre usciva dall’imboccatura di una provetta al di sopra
della quale aveva posto un piatto. Il deposito nero che si creava sul piatto era arsenico puro. Quando
inserì nella provetta dei tessuti in cui l’arsenico era rimasto invisibile, questo si rivelò chiaramente;
da allora in poi la tossicologia riuscì a individuare la presenza di arsenico nel corpo delle vittime di
avvelenamenti.
L’arsenico è un veleno che contiene metallo. Più difficili da individuare sono quei veleni ricavati
da vegetali e da piante esotiche i quali, avendo come base chimica prevalentemente degli alcali,
furono denominati alcaloidi. Tali alcaloidi sono stati isolati uno dopo l’altro: morfina, nicotina,
stricnina, caffeina e migliaia di altri. Gli alcaloidi agiscono sul sistema nervoso; fino all’inizio del
1800 gli scienziati non erano in grado di trovarne alcuna traccia nel corpo degli avvelenati. Ma,
quando cominciarono a sperimentare questi veleni i tossicologi dell’epoca li misero a contatto con
vari reagenti e notarono che ognuno assumeva una colorazione diversa. In seguito i tossicologi
scoprirono che, mettendone dei cristalli sul fuoco, la maggior parte dei veleni alcaloidi aveva un
punto di liquefazione diverso. In questo modo fu possibile individuarne la presenza nei cadaveri.
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Col passare del tempo, gli sforzi per individuare gli alcaloidi furono sempre più intensi perché nel
frattempo i tossicologi facevano ricerche non solo sui veleni usati negli omicidii, ma anche sugli
alcaloidi sintetici che l’industria farmaceutica cominciava a produrre per curare o alleviare i sintomi
di varie malattie, dall’insonnia all’emicrania. Purtroppo, se ingeriti in quantità eccessiva, essi
potevano essere usati per suicidarsi o provocare morti accidentali. Poi, nel 1906, un medico russo,
Isvelt, riferì che versando dei coloranti su una colonnina di gesso, ciascuno si fermava a un livello
diverso. Chiamò la sua scoperta cromatografia, che in greco significa scrittura con il colore. Ben
presto la sua scoperta venne utilizzata dai tossicologi come mezzo per identificare gli alcaloidi
mettendoli a contatto con reagenti che producevano certi colori. In seguito, per identificare questi
veleni mortali si ricorse ai raggi ultravioletti e ultimamente a congegni elettronici.
Una bella signora, amica del professor Adolf Baezer, nel 1864 diede il nome a un composto
chimico che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti. Essa si chiamava Barbara e la
sostanza era l’acido barbiturico.
Oggi, a più di un secolo di distanza, il numero di morti inspiegate per ogni genere di cause
continua ad aumentare vertiginosamente e noi medici legali siamo impegnati in una dura lotta per il
progresso. Le grandi scoperte scientifiche fatte dai pionieri della nostra disciplina ne hanno stabilito
i principî fondamentali e hanno portato alla nascita di complicati congegni creati sulla base di tali
principi. Ma la guerra continua e nelle pagine che seguono descriverò varie tappe di questa guerra,
morti che sono rimaste misteriose e delitti in cui astuti assassini sono rimasti sconosciuti finché la
medicina legale non ha analizzato le prove e quindi fornito delle risposte.
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Brano n. 2
Intervista a Marcella Fierro e Alphonse Polis
medici legali americani ed esperti di tossicologia
(tratto da: Scegli il tuo veleno. Dodici storie tossiche, in “National Geographic Italia”, all’indirizzo:
http://www.nationalgeographic.it/scienza/2010/04/07/news/pick_your_poison_12_toxic_tales-3507/)
All'obitorio con Al e Marcella
Marcella Fierro è capo esaminatore medico presso il Commonwealth della Virginia, e docente
presso il Dipartimento di medicina legale della Commonwealth University School of Medicine di
Richmond. Supervisiona le indagini mediche attorno alle morti violente, sospette e innaturali che
hanno luogo in Virginia, e ha ispirato il personaggio Kay Scarpetta dei gialli di Patricia Cornwell.
Alphonse Poklis è direttore di tossicologia e docente di patologia, chimica, medicina forense,
farmacologia e tossicologia presso la Virginia Commonwealth University. Lavora con Fierro per
analizzare le prove mediche nei casi di omicidio e testimonia come esperto in tribunale.
Cos'è che fa scattare l'allarme? Da cosa si capisce quando si ha a che fare con un caso di
omicidio per avvelenamento?
MF: Ci sono un paio di segnali. Se qualcuno assume una dose eccessiva di qualcosa di tossico, ci si
aspetta una classica serie di sintomi che anche uno specializzando della prima ora saprebbe
notare. Con l'avvelenamento cronico, quando cioè le tossine vengono assunte lentamente e in
maniera continuativa, è invece più facile sbagliare la diagnosi. Un caso recente aveva a che fare
con dell'antigelo nel Gatorade. Un comune segnale di allarme potrebbe essere una ricca cartella
clinica. Ad esempio, si prospettano un sacco di tranelli per il tirocinante che ha a che fare con
strani sintomi o mal di stomaco. La vittima non si sente bene, ha un dolore diffuso e generico.
Naturalmente, col tempo i classici segni di avvelenamento si fanno riconoscere: il paziente non
mangia, perde peso, appare ogni giorno più squilibrato mentalmente. Sembrerebbe una malattia
qualunque, ma non lo è.
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A che punto entrate in gioco voi?
MF: Esaminiamo i corpi di persone morte all'improvviso, inaspettatamente, in maniera violenta, o
per la cui morte c'è un'accusa di omicidio. Se abbiamo il corpo prima che sia interrato, lo
esaminiamo. Spesso però ci vuole del tempo prima che spunti un capo d'accusa o che qualcuno gli
dia credito. Magari un familiare della vittima ha un movente: dissenso circa una proprietà,
un'eredità, una nuova moglie, un figlio che non ha ricevuto un buon trattamento. Tutte cose che
mettono in moto una serie di eventi. Il corpo dovrà quindi essere riesumato.
E poi, come procedete?
MF: Prelevo molti campioni di tessuto in fase di autopsia: cuore, fegato, polmoni, cervello, milza,
capelli, unghie. Il sangue ti dice quello che stava succedendo nel corpo al momento della morte.
L'umore vitreo dell'occhio è utilissimo. E' pulito, nessuna fermentazione né contaminazione
batterica. Al ed io lavoriamo assieme. Quali veleni sono candidati? Che cosa è meglio raccogliere?
C'è bisogno di una strategia. Vorremmo sapere a quale veleno avrebbe accesso l'imputato. Se è un
agricoltore cerchiamo fra i suoi attrezzi del mestiere, per esempio pesticidi o erbicidi. Dobbiamo
sapere in che direzione stiamo andando; è facile restare a corto di tessuti e campioni di sangue
prima di restare a corto di test da fare.
Allora la tecnologia che utilizzate per rilevare il veleno in un cadavere dev'essere piuttosto
avanzata.
AP: Molto. Io la chiamo lo zero relativo. Negli anni '60 ci volevano 25 ml di sangue per rilevare la
morfina. Oggi ce ne basta 1 ml. In termini di sensibilità, dai microgrammi siamo passati ai
nanogrammi, ossia da parti per miliardo a parti per trilione con la spettrometria di massa. Con la
ricerca si può trovare qualsiasi cosa. Naturalmente ci sono sostanze più evidenti di altre. Per
esempio puoi sentire l'odore del cianuro nel momento stesso in cui apri un corpo per fargli
l'autopsia. Il cianuro fa effetto molto rapidamente, come si vede nei film quando catturano una spia
e quella morde la capsula e muore. È soffocamento chimico; il cianuro colpisce i mitocondri nelle
cellule e ogni cellula è così privata dell'ossigeno. Si muore in fretta, drammaticamente, con
violenza.
Esiste un profilo personale tipo dell'avvelenatore?
AP: L'avvelenatore cerca di agire con discrezione, al contrario di chi spara, strangola o stupra.
Conosco uno psicologo forense che chiama gli avvelenatori "assassini custode". Spesso si tratta di
una vicenda familiare; si svolge nel giro di mesi o nel giro di un anno. Il fautore si prende cura
della sua vittima e la guarda morire. Il veleno è l'arma del controllo per certi individui furtivi e
privi di coscienza, che non provano pena né rimorso. Fanno paura, sono manipolatori e se non
fosse per le prove stenteremmo a credere che si possa fare una cosa simile.
MF: Al vede l'avvelenatore come un controllore. Come uno scaltro psicopatico che saprebbe
mentire anche a Cristo in croce e tu gli crederesti. Ne conosco solo due che si dichiararono
colpevoli.
E un caso che ti è rimasto impresso?
MF: C'era un tizio all'ospedale dell'Università della Virginia. Veniva continuamente ricoverato per
strani disturbi gastrointestinali. I medici si arrovellavano senza riuscire a capire di cosa potesse
trattarsi. Quando stava meglio, sua moglie veniva a trovarlo in ospedale e gli portava del budino
alla banana. Poi qualcuno decise di fargli i test di tossicità per i metalli pesanti. Ma lui fu dimesso
prima che uscissero i risultati: arsenico in quantità spropositate. Ma quando li videro fu già troppo
tardi. La moglie fu soprannominata Arsenico Budin.
Con quanti casi di sospetto omicidio per avvelenamento avete a che fare in un anno?
AP: Per essere sincero, relativamente pochi. Non è davvero nell'indole del killer americano. Se sei
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americano e vuoi uccidere qualcuno, gli spari a sangue freddo. Un vero uomo non sta a gingillarsi.
Nella cultura americana tutto viene risolto in mezz'ora; perciò non si perde tempo a pianificare,
andare a cercare il veleno e ragionare sul come somministrarlo. Si agisce e basta.
Tu sei l'esperto; se dovessi scrivere la formula del veleno perfetto per un omicidio, che
ingredienti avrebbe?
AP: Un paio di idee le avrei, ma non ho intenzione di condividerle.
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Brano n. 3
Come uccidere con il veleno
(tratto da: Vittorino Andreoli, Voglia di ammazzare,
Rizzoli editore, Milano 20062, pp. 90-93)
Uccidere con il veleno: consiste nell’introdurre nell’organismo della vittima una sostanza che
interferendo con i processi vitali produce la morte, con una rapidità che dipende dal tipo di veleno e
dalla quantità.
I veleni possono essere di origine animale, vegetale, o di sintesi chimica. I serpenti non possono
vincere con la forza un predatore di grossa taglia, ma possono avvelenarlo: basta un morso. Il
veleno secreto da ghiandole situate nel cavo orale, viene a contatto della ferita e assorbito.
Oltre che nei serpenti, i veleni sono presenti negli aracnidi, nelle tarantole. I alcuni casi si può
uccidere portando nell’ambiente in cui vive la vittima l’animale che produce quel veleno e attacca
l’uomo.
Tra i prodotti di sintesi il più noto è il cianuro. Può essere nascosto in un alimento o sciolto
nell’acqua. È chimicamente acido cianidrico (HCN), detto anche acido prussico, noto fin dal 1782:
inibisce i processi ossidativi della cellula.
L’avvelenato da cianuro si riconosce per un alito tipico da mandorle amare e per il colore rosso
vinoso delle mucose. È presente in natura in alcuni semi e in certi miriapodi, ma attualmente è un
prodotto industriale di basso costo usato come insetticida in agricoltura e per la disinfezione degli
ambienti.
Un altro veleno è la stricnina. Si estrae dalla noce vomica, ma oggi lo si ottiene per sintesi di
laboratorio. È un alcaloide. A piccolissime dosi stimola l’attività cardiaca e il sistema nervoso
centrale, ma non lo si è mai usato in medicina perché la dose terapeutica è troppo vicina a quella
letale.
La distinzione tra farmaco e tossico non dipende solo dalla struttura chimica della sostanza, bensì
dalla dose che agirà indifferentemente a seconda della via di assunzione (bocca o iniezione venosa):
ognuna ha una propria modalità di assorbimento e distribuzione nell’organismo.
Farmaci-veleno tipici sono i barbiturici. Usati in terapia come tranquillanti e soprattutto per la
cura dell’epilessia. Basta modificare la dose per far sì che l’effetto terapeutico divenga mortale a
seguito di una sedazione che giunge al blocco del centro respiratorio. Il primo a essere stato
scoperto, il Veronal (acido dietil-barbiturico) è una polvere bianca poco solubile in acqua (a
differenza dell’Evipal e dell’Hexobarbital). A seconda della dose, i barbiturici inducono prima
depressione e rallentamento di tutte le attività dell’uomo, quindi danno sonnolenza e sonno di varia
profondità fino al coma. Alcuni, come il Penthotal, sono iniettabili e possono causare rapidamente
la morte, preceduta da uno stato di agitazione e convulsione.
Considerazioni analoghe si possono fare per i morfinici, pur appartenendo a una diversa categoria
farmacologica. Includono morfina ed eroina, sostanze d’abuso di cui è nota la capacità di indurre
dipendenza e tolleranza: con il protrarsi dell’uso è necessario assumere una dose progressivamente
maggiore per ottenere gli effetti che prima si avevano a dosi inferiori. In genere con 10 milligrammi
di morfina si può portare a morte un uomo, ma un soggetto dipendente ne può sopportare 500. Si
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definisce overdose la quantità di una sostanza che supera la capacità di tolleranza dell’organismo,
tale, dunque, da uccidere. Un veleno tipico per il crimine è il curaro. Una sostanza inoffensiva se
assunta per bocca e molto tossica se iniettata, a risottolineare l’importanza della via di
somministrazione. Il curaro era usato dalle popolazioni dell’Amazzonia: lo spalmavano sulle frecce.
Si ottiene da piante dei generi Strychnos e Chondrodendron. L’elemento attivo è la D-Tubocurarina
che risulta rapidamente mortale per blocco della meccanica respiratoria. Si assiste al torace che
progressivamente si ferma con una ingravescente fame d’aria. Si sono sintetizzati molti composti
simil-curatrici per l’anestesia.
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Brano n. 4
La matrigna avvelenatrice1
(tratto da: Antifonte, Per avvelenamento contro la matrigna, parr. 5-23, trad. di Mario Marzi, in
Oratori attici minori, vol. II, a cura di Mario Marzi e Simonetta Feraboli, UTET, Torino 2000, rist., pp. 77-85)
Personalmente mi chiedo con meraviglia quale intenzione mai abbia spinto mio fratello a
schierarsi contro di me, e se crede che la pietà stia nel non abbandonare sua madre. Secondo me, è
un’empietà ben più grave trascurare la vendetta del morto, soprattutto perché egli fu la vittima
involontaria di un piano criminoso, mentre ella lo uccise volontariamente con premeditazione. E
non vorrà affermare di saper bene che sua madre non uccise nostro padre; perché, quando aveva la
possibilità di sapere con certezza mediante la tortura degli schiavi, non ha voluto;2 quando, invece, i
mezzi d’informazione non potevano dare alcun risultato, allora sì che s’è mostrato pieno di zelo. Ma
questo zelo avrebbe dovuto mostrarlo a fare appunto ciò che anch’io gl’intimavo di fare, perché
fosse lecito appurare come in realtà si svolsero i fatti. Se gli schiavi non avessero confessato, egli
potrebbe difendersi con piena cognizione e tenermi testa validamente, e sua madre sarebbe stata
scagionata dall’accusa. Ma poiché non ha voluto fornire la prova dei fatti, come gli è dato sapere
ciò di cui ha rifiutato d’informarsi? Come è dunque verosimile, o giudici, che egli sappia ciò di cui
non ha acquistato la verità? Che cosa mai vuole rispondermi in sua difesa? Egli sapeva bene che la
tortura degli schiavi rendeva impossibile a sua madre salvarsi, mentre pensava che nel sottrarli alla
tortura stesse per lei la salvezza; immaginavo che con questo rifiuto i fatti sarebbero stati cancellati.
Come dunque avrà prestato lealmente il giuramento contraddittorio, se pretende di sapere bene, lui
che non volle informarsi con certezza, mentre io proponevo di ricorrere, per andare a fondo della
questione, al mezzo quanto mai imparziale della tortura? Da una parte proposi d’interrogare con la
tortura i loro schiavi, i quali sapevano che già prima questa donna, loro madre, aveva attentato alla
vita di nostro padre con veleni, che egli l’aveva còlta in flagrante e che ella, pur non negando, aveva
asserito che stava somministrandogli non veleni per farlo morire ma filtri amorosi. Perciò dunque
proposi di sottoporli a tale interrogatorio, dopo avere scritto su una tavoletta le mie accuse contro
questa donna; e che fossero essi stessi a procedere alla tortura in mia presenza, perché gli schiavi
Il presente brano di Antifonte (480-410 a. Cr.), oratore e uomo politico ateniese, è tratto dall’orazione Per
avvelenamento contro la matrigna. Antifonte aveva denunciato la matrigna come colpevole dell’improvvisa morte del
padre e di un suo amico, Filòneo. Secondo Antifonte la matrigna, che aveva vecchi rancori con suo padre, per
sbarazzarsi di lui col veleno, aveva convinto la concubina di Filòneo, amico e vicino di casa, a somministrare all’uomo
una pozione, spacciandola per un filtro d’amore. La concubina fece bere la pozione venefica al padre di Antifonte e allo
stesso suo compagno, Filòneo, dal quale era in procinto di essere venduta ad un postribolo, e il veleno provocò la morte
di entrambi. Il giudizio avviene davanti al tribunale dell’Areòpago. La matrigna, presunta avvelenatrice, è rappresentata
e difesa nel processo dal figlio maggiore, il fratellastro di Antifonte.
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Era d’uso nel caso di omicidio interrogare gli schiavi della vittima o del sospettato per far loro confessare il delitto.
Naturalmente una confessione resa sotto tortura agli occhi di noi moderni non ha alcun valore, ma per gli antichi
costituiva una prova sufficiente. Per Antifonte, il fatto che il fratellastro si sia rifiutato di sottoporre a tortura gli schiavi
di casa costituisce una prova valida della colpevolezza della madre e della connivenza di suo figlio (sorta di
argumentum ex silentio).
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non fossero costretti a rispondere alle domande poste da me (mi bastava che si ricorresse al
questionario scritto; e questo appunto dovrebbe costituire per me una legittima presunzione che
perseguo l’assassino di mio padre in modo imparziale e giusto); se poi gli schiavi avessero negato o
le loro dichiarazioni non avessero concordato, la tortura li avrebbe costretti a denunziare i fatti:
grazie ad essa anche chi era deciso a mentire avrebbe denunziato la verità. Eppure, lo so bene, se
costoro fossero venuti da me, non appena furono informati che perseguivo l’assassino di mio padre,
con l’offerta di consegnarmi gli schiavi che erano in loro possesso, ed io li avessi rifiutati,
invocherebbero questa come la più forte presunzione a favore della loro innocenza. Ora, sono io che
prima ho offerto di procedere in persona alla tortura, e poi li ho invitati a torturarli essi stessi in vece
mia; quindi è logico, penso, che analogamente questa valga a mio favore come presunzione della
loro colpevolezza. Sì, se costoro avessero offerto di consegnare gli schiavi per la tortura ed io avessi
rifiutato, questa sarebbe una presunzione in loro favore. Dunque lo stesso criterio si applichi anche
a me, dato che io ero pronto ad accettare una prova del fatto, ma essi non hanno voluto fornirmela.
Mi sembra strano che cerchino di commuovervi con preghiere a non condannarli, mentre non hanno
voluto farsi giudici di sé stessi consegnando i loro schiavi per la tortura. A questo proposito,
dunque, non c’è dubbio che essi miravano ad evitare l’accertamento dei fatti: sapevano che il
crimine sarebbe apparso opera loro, sicché vollero lasciarlo avvolto dal silenzio e non investigato.
Ma non così farete voi, signori, lo so ben io: voi lo porterete alla luce.
Basta, dunque, di ciò; ora cercherò di esporvi i fatti nella loro verità. La giustizia mi sia guida.
La nostra casa aveva un appartamento al piano di sopra, che era occupato da Filòneo, gran
galantuomo e amico di nostro padre, ogni volta che soggiornava in città. Questo Filòneo aveva una
concubina, che si accingeva a collocare in un bordello. Dunque la madre di mio fratello strinse
amicizia con lei. Venuta a sapere del torto che stava per subire da Filòneo, la manda a chiamare e,
quando giunse, le disse che anche lei aveva dei torti da rimproverare a nostro padre: ora se voleva
darle ascolto, era in grado di ridestare l’amore di Filòneo per lei, come per sé quello di mio padre.
L’idea, diceva, l’aveva avuta lei, ma all’altra spettava l’esecuzione.
Le chiese se era disposta a prestarle il suo aiuto e quella promise subito, immagino. In seguito
capitò che Filòneo celebrasse al Pireo un sacrificio in onore di Zeus Ctèsio, quando mio padre stava
per imbarcarsi per Nasso. Dunque a Filòneo parve un’ottima occasione, facendo un solo viaggio, sia
accompagnare al Pirèo mio padre che era suo amico, sia, dopo avere sacrificato, invitarlo a pranzo.
La concubina di Filòneo lo seguiva per aiutarlo nei preparativi del sacrificio. Quando furono al
Pirèo, egli, naturalmente, compì il sacrificio. E dopo che ebbe offerto le vittime, allora la donna si
domandava come somministrare loro la pozione, se prima o dopo il pranzo. Al termine di queste
riflessioni decise che era meglio somministrarla dopo il pranzo, conformandosi nel contempo ai
suggerimenti della Clitennestra,3 madre di costui. Sarebbe troppo lungo per me riferire e per voi
ascoltare gli altri particolari del pranzo, ma cercherò di esporvi il più brevemente possibile il resto,
come cioè fu somministrato il veleno. Dopo che ebbero pranzato, com’era naturale, visto che uno
dei due offriva un sacrificio a Zeus Ctèsio e ospitava un amico, e l’altro stava per imbarcarsi e
pranzava presso un compagno, facevano libagioni e spargevano incenso sull’altare, per propiziarsi il
favore divino. La concubina di Filòneo, che versava loro il vino delle libagioni, mentre innalzavano
preghiere – preghiere che mai si sarebbero compiute, signori –, vi mescolò il veleno. E credendo di
fare una cosa intelligente ne dà di più a Filòneo – forse immaginava che, quanto più avesse
aumentato la dose, tanto più sarebbe stata amata da lui: non sapeva ancora di essere stata ingannata
dalla mia matrigna e se ne accorse solo a disastro avvenuto –; a mio padre invece ne versò di meno.
E quelli, dopo aver libato prendendo in mano la coppa assassina, bevvero per l’ultima volta. Filòneo
muore fulminato all’istante, nostro padre cade in un’infermità per la quale dopo venti giorni morì.
In seguito a ciò l’ausiliaria ha il salario che si meritava, pur non avendo nessuna colpa – dopo essere
stata messa alla ruota fu consegnata al boia – e la vera colpevole, che premeditò e compì il delitto,
lo avrà, se voi e gli dèi lo vorrete.
Appellativo mitico con cui Antifonte indica l’assassina di suo marito. Clitennestra, con la complicità del cugino e
amante Egisto, aveva ucciso il marito Agamennone, che era appena ritornato in patria dalla guerra di Troia.
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Ora considerate quanto la mia preghiera vuol essere più giusta di quella di mio fratello. Io
v’invito a vendicare una volta per sempre il morto che è stato vittima di un crimine; lui non vi
chiederà alcuna soddisfazione per il morto, che pur merita di trovare presso di voi pietà, aiuto,
vendetta, per essergli stata tolta la vita in modo empio ed ignominioso prima del termine destinato
per mano di chi meno avrebbe dovuto; e invece vi rivolgerà a favore dell’assassina preghiere inique,
sacrileghe, che non possono essere esaudite ed ascoltate né dagli dèi né da voi, pregandovi di non
punire un delitto che ella stessa non poté persuadersi a non commettere. Ma voi non siete i difensori
degli assassini, bensì di coloro che furono vittime di un omicidio premeditato,4 specialmente
quando ne sono autori quelli per opera dei quali meno sarebbero dovuti morire. Ora dipende da voi
pronunziare un giusto verdetto: fatelo. Mio fratello vi pregherà a favore di sua madre, che vive ed
ha ucciso mio padre sconsideratamente ed empiamente, perché non subisca, caso mai gli riesca di
persuadervi, il castigo del suo delitto; io, da parte mia, a nome di mio padre morto, vi prego che in
ogni modo lo subisca. Quanto a voi, è proprio perché i colpevoli siano puniti, che avete ricevuto la
funzione e il nome di giudici.
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Brano n. 5
La morte di Socrate
(tratto da: Platone, Fedone 116a-118a, trad. di Gino Giardini,
in Platone, Tutte le opere, vol. I, Newton & Compton editori, Roma 1997, pp. 255-259)
Dette queste cose, egli si alzò per passare in un’altra camera a lavarsi: Critone lo seguì e ci invitò
a rimanere. E noi di fermammo a discutere tra di noi su quanto era stato detto e a riconsiderarlo di
nuovo, e insieme meditavamo sulla sventura che ci era capitata, quanto era grande, ben consapevoli
che avremmo dovuto trascorrere il resto della nostra vita da orfani, essendo stati privati come di un
padre. [116b] Come si fu lavato e furono condotti da lui i suoi figli, ne aveva due piccoli e uno un
po’ più grande, e giunsero anche le sue donne di casa, egli alla presenza di Critone si intrattenne con
loro e fatte le raccomandazioni che voleva, invitò le donne e i figli ad andarsene, e se ne tornò da
noi. Si era ormai vicini al tramonto del sole. Si era fermato parecchio tempo in quella stanza.
Rientrato così, dopo essersi lavato, sedette; ma, in seguito non disse più molte cose; giunse a quel
punto il messo degli Undici e stando in piedi difronte a lui disse [116c]: «O Socrate, io non dovrò
certo dolermi dite come ho a dolermi degli altri che si adirano e imprecano contro di me quando
vengo a dire loro che devono prendere il veleno per ordine degli arconti. Ma tu, come in altro modo
ho potuto capire in questo tempo, sei l’uomo più generoso, più calmo e migliore di tutti quelli che
mai sono capitati qui e, soprattutto ora, io so bene che tu non te la prendi con me, perché conosci
bene i veri responsabili, ma con loro. Tu conosci ormai quello che sono venuto ad annunciarti:
[116d] addio, cerca di sopportare meglio che si può questa tua sorte». E scoppiando a piangere voltò
le spalle e se ne andò.
E Socrate seguendolo con lo sguardo: «Addio anche a te», disse. «Farò come tu dici». E intanto
volgendosi a noi: «Che bontà d’uomo», disse. «Per tutto il tempo trascorso qui veniva a trovarmi e
talvolta si intratteneva a conversare: era un uomo di eccellenti qualità ed ora come mi piange
schiettamente. Ma orsù, Critone, diamogli retta. Si porti il veleno se è già stato tritato. Se no,
l’uomo lo pesti pure».
[116e] E Critone disse: «Ma il sole, o Socrate, io penso, indugia ancora sui monti e non è ancora
tramontato. E so anche che altri bevono assai più tardi, dopo che è stato loro ordinato, dopo aver
mangiato e bevuto a volontà, alcuni, dopo essersi intrattenuti a piacere anche con le persone che
desiderano. Non avere fretta dunque; c’è ancora tempo».
4
Si riferisce ai membri dell’Areòpago, l’antico tribunale competente a giudicare i casi di omicidio premeditato.
9
E Socrate: «È naturale», rispose, «che quelli che tu dici facciano così: sono convinti d’averci a
guadagnare facendo in questo modo. Ma io naturalmente non farò così, perché [117a] penso di non
avere null’altro da guadagnare, bevendo un po’ più tardi il veleno se non di attirarmi il ridicolo con
le mie stesse mani, attaccandomi così alla vita e tentando di risparmiarla quando ormai non è più
nulla: dammi ascolto, dunque», disse, «e non fare diversamente».
Critone, uditolo, fece cenno a un servo che gli stava accanto; ed il servo uscì e, facendo passare
un po’ di tempo, tornò conducendo quello che doveva somministrare il veleno, e lo portava già
tritato in una coppa. E Socrate, vedendolo, disse: «Bene, brav’uomo, tu che di queste cose sei
pratico, che bisogna fare?»
«Nient’altro», rispose, «che camminare un po’ intorno dopo aver bevuto, finché non
sopraggiunga [117b] una pesantezza nelle tue gambe, poi sdraiarsi. Così farà il suo effetto da sé». E
intanto porgeva la tazza a Socrate.
E egli la prese e in tutta serenità, o Echecrate, senza dare un fremito e senza mutare il colore della
pelle o l’espressione del volto, ma guardando l’uomo dal sotto in su, come soleva, col suo sguardo
da toro: «Che dici, domandò, di questa bevanda se ne può libare a qualche divinità? È possibile o
no?»
«Noi ne pestiamo», rispose, «solo quel tanto che riteniamo sufficiente a bere».
[117e] «Capisco», ribatté, «ma invocare gli dei, perché il passaggio di qui a quella volta avvenga
felicemente, è certo possibile e occorre farlo. E queste preghiere io faccio, e avvenga così». E così
dicendo, accostata la tazza alla bocca, con molta speditezza e serenità, trangugiò fino in fondo. E i
più di noi che fino a quel punto eravamo stati capaci, in qualche modo, a trattenerci dal piangere,
come lo vedemmo bere e dopo aver bevuto, non lo fummo più: ed anche a me le lacrime, a violenza
di me stesso, cadevano a fiotti, tanto che ricopertomi il volto piangevo me stesso, non lui, ma la mia
sorte, [117d] poiché venivo privato di un tale amico. E Critone, ancora prima di me, poiché non era
capace di frenare le lacrime, stava per uscire. E Apollodoro, che ancora nel tempo precedente non
aveva cessato di piangere, allora diede in un pianto dirotto, e tanto gemeva e singhiozzava che non
ci fu nessuno tra i presenti a cui non spezzò il cuore, tranne lo stesso Socrate.
Ed egli: «Ma che fate», disse, «siete pure strani! E io che ho fatto allontanare le donne per
nessun’altra ragione [117e] perché non avessero a esagerare in questo. E ho anche sentito dire che
bisogna chiudere la vita tra parole di buon augurio. State calmi, dunque e abbiate coraggio».
E noi, all’udirlo, ne provammo ritegno e ci trattenemmo dal piangere. Egli invece camminò per
un po’: poi, quando disse che le gambe gli si appesantivano si sdraiò supino, così infatti gli
consigliava l’uomo, e, proprio lui, quello che gli aveva dato il veleno, toccandolo di tanto in tanto
gli esaminava i piedi e le gambe e, ad un tratto, premendolo forte su un piede, gli domandò se
sentiva, [118a] ed egli rispose di no. E dopo gli toccò le gambe. E così venendo su ci mostrava
come egli si raffreddava e si irrigidiva. Egli tuttavia continuava a toccarlo e ci disse che quando il
freddo fosse arrivato al cuore, se ne sarebbe morto.
E a lui, ormai, le parti intorno al basso ventre si erano fatte di gelo, allorché si scoprì, si era infatti
ricoperto, e fu l’ultima volta che si udì la sua voce: «O Critone», disse, «siamo ancora in debito di
un gallo ad Asclepio. Dateglielo e non dimenticatevene».
«Va bene», rispose Critone, «ma guarda se hai qualcos’altro da dire».
A questa domanda egli non rispose più, ma passato un po’ di tempo, si mosse e l’uomo lo scoprì:
egli aveva ancora lo sguardo fisso. Vedendolo Critone gli chiuse la bocca e gli occhi.
Questa, Echecrate, fu la fine del nostro amico, uomo, possiamo ben dirlo, fra tutti quelli che
abbiamo conosciuto, il migliore, anzi, senza confronto il più saggio e il più giusto.
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Brano n. 6
La morte di Alessandro Magno
(tratto da: Mario Attilio Levi, Alessandro Magno,
10
Rusconi Libri, Milano 1994, pp. 404-407 e 415-417)
Nell’inverno 324-323 Alessandro condusse il consueto tipo di operazioni, che noi chiameremmo
“di polizia”, per esercitare pressioni e assicurarsi la sottomissione di popolazioni della Babilonia
settentrionale, a Care, a Lambana, e alla sinistra del Tigri, contro i Celoni (ove esistevano
insediamenti di coloni eubei o beoti) nella Sittacene e contro i Cossei, che furono sconfitti e
sottomessi in quaranta giorni.
Alessandro si fermò nella regione della Bagistrana, particolarmente ricca di vegetazione e di
allevamenti di cavalli, cui era molto interessato, data l’importanza che per lui aveva sempre avuta la
cavalleria. Mentre svolgeva così le sue funzioni di re nelle regioni attorno alla Babilonia, nuovi
gravi movimenti si stavano preparando in Grecia, quelli che – solo dopo la morte di Alessandro –
dovevano portare alla guerra lamiaca. Leonnato, da Atene, stava raccogliendo i mercenari di
Alessandro congedati e sbandati in Asia, e, con un servizio di trasporti che faceva la spola fra le
coste anatoliche e il Peloponneso, li riportava in patria, dove si trovavano senza lavoro e senza
stabilità sociale, ma spesso in rapporto con notabili civili e militari del ceto di governo persiano, che
Alessandro aveva allontanati dal potere ma che disponevano ancora di denaro, di seguito e di
abilità.
La guerra in Asia era totalmente finita, e fu organizzata una solenne celebrazione delle vittorie e
della nuova monarchia asiatica ed egiziana, con cerimonie del tipo usuale in Asia, con la solenne
udienza processionale di delegati dei sovrani indipendenti d’Asia, dei Cartaginesi e di tutta l’Africa
settentrionale, dalle città e dai popoli greci, dalla Macedonia e dall’Illiria e da tutte le colonie
greche, nel bacino del Mediterraneo.
Essendo collegate con l’esaltazione di Efestione, grazie alla quale il defunto e Alessandro
dovevano comparire come nuovi Dioscuri, le celebrazioni apparivano abbastanza chiaramente come
la preparazione di ciò che maggiormente Macedoni e Greci temevano, e che ormai doveva essere
previsto come imminente, cioè l’arrivo di Alessandro in Grecia e in Macedonia come qualcuno
molto superiore a un semplice tiranno o dinasta, come un eroe evergete, salvatore e benefattore
degli uomini, fulmine di guerra e protettore della pace. Le notizie, che ci vengono da Luciano, sugli
onori a Efestione dicono che veniva onorato come «dio páredros» (cioè “partecipante”) e
alexikakós (cioè che “tiene lontani i mali”), chiara indicazione che coinvolgeva in una qualifica,
eroica più che divina, anche Alessandro.
Nella successiva stagione primaverile del 323 a.C. Alessandro si occupava ancora del problema
della via delle Indie, cioè delle comunicazioni necessarie ai grandi traffici mercantili. Sembra che
pensasse di compiere una delle consuete spedizioni per assicurarsi la sottomissione delle
popolazioni, la sicurezza della navigazione e degli approdi dal lato dell’Arabia, per non avere
sorprese sulla riva occidentale del golfo Persico, e volle anche percorrere il canale Pallacopa che,
scorrendo parallelo all’Eufrate, era per Babilonia lo sbocco sul mare.
In quel tempo, in maggio, giunse dalla Macedonia un figlio di Antipatro, Iolla, che portava
segretamente, chiuso in uno scrigno ricavato da uno zoccolo di mulo, un potente veleno,
probabilmente arsenico allo stato nativo, ricavato dalla galena argentifera delle miniere macedoni
ed empiricamente riconosciuto come altamente tossico, con il quale Alessandro fu avvelenato e
morì il 29 maggio del 323 avanti Cristo. È però possibile che la morte non sia stata subito
annunciata, o che l’avvelenamento sia stato lento. Esiste una tradizione sull’avvelenamento, anche
se dalla maggior parte degli autori si è voluta accreditare la tradizione della morte per malattia,
poiché, per ragioni ovvie, volendone fare un essere eroico, sovrumano, non si poteva ammettere che
fosse stato assassinato, ma doveva essere morto di una malattia descritta con i sintomi della malaria
perniciosa, e quindi di morte naturale.
L’uccisione di Alessandro per una congiura originata in Macedonia era la logica e prevedibile
conseguenza di un conflitto progressivamente aggravatosi, che lo divideva in modo drammatico
dalla nobiltà macedone, la quale si era considerata tradita, sfruttata e spodestata da Alessandro, il
quale si era conquistate due corone con il valore e il sangue dei Macedoni e ora voleva togliere loro
11
quei diritti sovrani di autogoverno che da anni Alessandro accettava, anzi subiva, con indubbia
cattiva volontà. Nel conflitto, dopo tante vittime, l’ultima tragica parola era toccata ai Macedoni.
NOTA DEL PROFESSOR ANTONIO PECILE
SULLE CARATTERISTICHE TOSSICOLOGICHE
DELL’ANIDRIDE ARSENIOSA
Innanzitutto va detto che la tossicità dei composti di arsenico è nota dalla più lontana antichità.
C’è ragione per pensare che fosse noto che l’arsenico, un minerale solido color grigio acciaio con
riflessi lucenti metallici molto friabile, di odore leggermente agliaceo, tendesse facilmente a
trasformarsi (ossidarsi) all’aria umida dando origine in superficie ad una patina bianca (anidride
arseniosa) che assume caratteristiche di elevata tossicità. Tale polvere bianca costituita da anidride
arseniosa (spesso ancora designata con i nomi impropri di arsenico, arsenico bianco) è il più
importante dei composti arsenicali sia dal punto di vista chimico come dal punto di vista
tossicologico. La polvere bianca che corrisponde all’anidride arseniosa assomiglia alla farina, allo
zucchero vanigliato, si scioglie in liquidi acquosi con molta lentezza: nell’ambito di tali liquidi può
restare a lungo in superficie allo stato similgranulare aggregandosi spesso in grumi che si
agglutinano. Detta polvere è inodore ed ha un sapore leggermente aspro.
È difficile dire quali siano le dosi tossiche di anidride arseniosa che possano venir assorbite senza
dare reazioni quasi immediate (es., vomito, diarrea) e che possano condurre a morte in un tempo
variabile. Ma a titolo indicativo si può dire che nell’uomo adulto dosi da 40 a 60 mg provocano la
comparsa di fenomeni tossici leggeri e dosi da 100 a 120 mg danno sintomatologia grave e morte in
tempi variabili. Si tratta come si vede di dosi molto basse e pertanto credo che possa esser stato
facile ai supposti avvelenatori di Alessandro mascherare il sapore di piccole quantità di arsenico
inserendolo nelle vivande o nel vino così come ogni agricoltore sapeva di poter fare quando
preparava bocconi venefici per liberarsi di comuni roditori (l’anidride arseniosa è stata un tipico
derattizzante tanto che vien chiamata anche mort aux rats).
Per quanto concerne la possibilità che una dose piccola mascherata nei cibi o nel vino potesse
essere apparentemente non riconosciuta come responsabile di una sintomatologia riconducibile
francamente al tossico, va detto che dosi ripetute possono determinare la comparsa di una sindrome
che simula una affezione ad andamento cronico che si aggrava lentamente e progressivamente
sembrando conseguenza di una eziologica infettiva anziché tossica. Il medico stesso che non pensa
ad una possibilità tossica potrebbe essere tratto in inganno.
Si può pertanto concludere che un avvelenamento da arsenico con dosi ripetute può portare a
morte progressivamente e simulando una malattia di tipo infettivo. Poiché il caso eventuale di
avvelenamento di Alessandro Magno sarebbe intervenuto in un tempo piuttosto breve (10-15 giorni)
è probabile che l’avvelenamento potesse restar mascherato perché la sintomatologia non è stata
correttamente interpretata o rilevata. Avrebbe dovuto trattarsi di una forma di avvelenamento
subacuto detto «a ricaduta». Tale forma, assai frequente, compare per dosi del tossico ciascheduna
non mortale ma ripetuta.
Dopo una sintomatologia varia di disturbi gastrointestinali di tipo capriccioso si dovrebbe avere
avuto, dopo l’ultima assunzione di tossico, una sintomatologia con vomito accompagnato da
bruciori e crampi gastrici (ben attribuibile all’eccesso di vino eventualmente assunto durante un
banchetto). Il malato in stato di malessere generale avrebbe dovuto avere fenomeni diarroici
ripetuti, a crisi, e per la rapida disidratazione avrebbe dovuto avere una sete imperiosa, cefalea, stato
ansioso, eccetera.
Generalmente (e questo riveste particolare interesse) si produce una remissione verso il secondo
o terzo giorno: il vomito e la diarrea diminuiscono e possono anche scomparire; il malato sembra
riposato, le cefalee diminuiscono, si può avere addirittura un certo grado di euforia; sembra che
l’ammalato guarisca. Si tratta tuttavia di un miglioramento apparente perché dal quarto al quinto
giorno la situazione ridiventa grave e peggiora poi rapidamente. La morte – di solito per sincope
cardiaca – può intervenire entro il sesto giorno ma può talvolta intervenire anche tardivamente, tra il
12
dodicesimo ed il quindicesimo giorno, soprattutto se la precocità e l’abbondanza del vomito e della
diarrea – fenomeno iniziale – avessero permesso l’eliminazione di una notevole quantità di tossico.
È importante ricordare che in fase terminale la temperatura si eleva, il malato è obnubilato e
delirante.
Questa forma «a ricaduta», assai frequente nel rilievo clinico, è, a mio avviso, la possibilità di
avvelenamento con arsenico che più potrebbe interessare uno storico nel riesame delle ipotesi sulle
non molto chiare cause della morte di Alessandro Magno.
ANTONIO PECILE
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Brano n. 7
I serpenti di Annibale
(tratto da: Cornelio Nepote, Annibale, parr. 10-11, trad. di Carlo Vitali,
in Id., Vite dei massimi condottieri, Rizzoli, Milano 1986, pp. 319-323)
10 Gabbati così i Cretesi, conservate tutte le sue ricchezze, il Cartaginese (scil. Annibale) si
recò nel Ponto, presso il re Prusia.5 E anche mentre stava con lui, conservò le stesse disposizioni di
spirito verso l’Italia, e non si dava altra pena che di metterne in efficienza l’esercito e di aizzarlo
contro i Romani; e, visto che disponeva di troppo poche forze, cercava di amicargli altri re e di
alleargli nazioni bellicose.
Affatto contrario a Prusia era invece Eumene, re di Pergamo, fedelissimo alleato dei Romani, e
tra i due correvano ostilità in terra e in mare;6 ma l’alleanza romana dava a Eumene una netta
superiorità in entrambi i campi. Tanto più quindi Annibale desiderava di schiacciarlo: sbarazzatosi
di lui, pensava, tutto gli sarebbe stato più facile. E per cercare di ucciderlo ideò questo stratagemma.
Le due flotte pochi giorni dopo dovevano impegnarsi a fondo; ma quella di Prusia era
notevolmente inferiore per numero di navi. Bisognava dunque far uso dell’astuzia nel
combattimento per sopperire a quella inferiorità. Fece raccogliere la maggior quantità possibile di
serpenti velenosi vivi, e li fece rinchiudere in vasi di coccio. Quando ne ebbe una ingente quantità,
nel giorno stesso in cui doveva aver luogo la battaglia navale convoca gli equipaggi e dà loro
l’ordine di far impeto tutti quanti contro la nave di Eumene, limitandosi per le altre ad una azione
difensiva che sarebbe loro riuscita facile con quella quantità di serpenti. Quanto poi al modo di
sapere su quale nave era imbarcato il re, egli stesso l’avrebbe procurato: promesse di grandi premi
furono infine date per la cattura o per l’uccisione del re.
11
Fatte queste raccomandazioni ai combattenti, Annibale condusse fuori la sua flotta, e
altrettanto fece l’avversario. Già erano in posizione di combattimento, quando Annibale, prima del
segnale di attacco, per far capire ai suoi dove si trovasse Eumene, mandò con una barca un
messaggero che teneva in mano la verga degli araldi. Questi, giunto in prossimità delle navi
nemiche, mostrò una lettera dicendo che cercava del re. Venne subito condotto da Eumene, nella
convinzione generale che il messaggio contenesse una richiesta di pace.
L’araldo, palesata in tal modo ai suoi la nave ammiraglia, se ne ritornò là donde era partito.
Eumene però, aperta la lettera, non vi trovò che frasi di scherno; né seppe darsene una ragione;
tuttavia non esitò a dare il segnale della battaglia. Al primo scontro i Bitini, come aveva comandato
Annibale, si diressero in massa all’attacco della nave di Eumene, il quale, non potendolo sostenere,
cercò salvezza nella fuga; e non l’avrebbe trovata, se non avesse potuto rifugiarsi nella sua base
navale che era sul lido poco distante. Le altre navi del re di Pergamo, però, già stavano stringendo
5
6
Prusia era re della Bitinia.
Il conflitto tra Prusia ed Eumene è del 184 a. Cr.
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da presso le avversarie, quando incominciò su di esse il getto dei vasi di coccio sopra accennati. Il
lancio di quella sorta di proiettili dapprima suscitò il riso dei combattenti che non riuscivano a
capirne lo scopo. Ma quando videro le loro navi infestate da serpenti, sorpresi e atterriti, non
sapendo quale fosse il pericolo da evitare maggiormente, voltarono la poppa e si rifugiarono nelle
loro basi. Così Annibale con il suo accorgimento vinse l’armata dei Pergameni; né fu quella l’unica
volta; spesso ancora, sempre per la propria abilità, respinse i nemici in combattimenti terrestri.
Dal sito: Bergamo Post
Indirizzo: http://www.bergamopost.it/pensare-positivo/la-sicilia-ha-un-nuovo-tesoro-il-boa-dellesabbie-il-serpente-piu-raro/
La Sicilia ha un nuovo tesoro
Il rarissimo Boa delle Sabbie
7 gennaio 2016
Che la Sicilia sia una terra ricca di tesori, è cosa nota. Recentemente alcuni ricercatori ne hanno
trovato un altro, che forse non piacerà a tutti, ma ha esaltato il mondo scientifico e ha anche
ottenuto spazio in molti giornali del mondo (in Italia un po’ meno purtroppo). Un team di zoologi
guidato da Gianni Insacco, direttore scientifico del Museo di Storia Naturale di Comiso, ha reso
noto attraverso un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Acta Herpetologica di aver scoperto,
nei pressi di Licata (provincia di Agrigento), 6 esemplari di Eryx jaculus, meglio noto come Boa
delle Sabbie. Tre erano purtroppo morti, mentre gli altri tre sono stati catturati dai ricercatori, che
hanno così potuto studiarli e analizzarli, prima di liberarli nuovamente nell’area in cui li avevano
trovati.
Un serpente rarissimo. La scoperta ha dell’incredibile perché il Boa delle Sabbie è considerato uno
dei serpenti più rari in Europa, dove sarebbe presente solo in alcune zone dei Balcani del Sud e in
Grecia. Ma anche nel mondo gli esemplari sono assai rari, e tutti compresi nel Nord Africa e in
Medio Oriente. Nel nostro Paese questo serpente era ritenuto estinto sin dall’era Terziaria e non
era inserito nella fauna italiana. Ciò nonostante diverse segnalazioni ne attestavano la presenza in
Sicilia sin dagli anni ’30 del Novecento. Nessuno zoologo, però, aveva mai avuto la fortuna di
trovarne un esemplare. Gianni Insacco, coadiuvato nella ricerca da Filippo Spadola dell’Università
veterinaria di Messina e da Salvatore Russotto e Dino Scaravelli dell’Università di Bologna, è
entusiasta: «È una scoperta importantissima. Si tratta della prima segnalazione a livello italiano di
una specie che nel nostro Paese si riteneva estinta. Eryx jaculus è una delle specie di serpenti più
rare in Europa e rappresenta l’unica specie Boa del Continente».
Il team di ricerca ipotizza che questa rarissima specie di serpente sia presente in Sicilia da secoli e
secoli, ma che non sia mai stata scoperta a causa delle sue abitudini: animale notturno, il Boa delle
Sabbie, come dice il suo stesso nome, tende a passare la maggior parte della giornata nascosto
sotto terra. Inoltre, a differenza di altri serpenti, è molto sfuggente. Praticamente innocuo per
l’uomo, raggiunge al massimo gli 80 cm di lunghezza, ma di media non supera il mezzo metro.
Nell’articolo pubblicato su Acta Herpetologica, Insacco e il suo team illustrano la presenza di una
popolazione stabile e riproduttiva di boa delle sabbie nel Sud della Sicilia, in un’area che si estende
per circa 40 chilometri quadrati nella pianura alluvionale nota come “la Piana”, vicino al fiume
Salso. Una zona storicamente molto importante, visto che fu teatro di due grandi battaglie nella
colonia di Imera, la prima intorno al 405 a.C. e la seconda nel 310 a.C.
Un po’ di storia. Questo riferimento storico è fondamentale per capire la storia di questa specie:
all’epoca la Sicilia era una colonia greca e furono proprio i Greci a importare i Boa della Sabbie in
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Sicilia. Insacco, intervistato dall’Ansa, spiega: «I Greci erano soliti impiegare serpenti come
proiettili da gettare sulle navi avversarie prima dell’assalto, per creare scompiglio e paura. In
genere usavano vipere private del veleno o, in alternativa, specie simili a quella, come appunto il
Boa delle Sabbie». Prima dello sbarco in Sicilia della popolazione greca, dunque, gli zoologi
escludono che serpenti di questo tipo fossero presenti. Sempre i Greci utilizzavano i Boa delle
Sabbie anche per rituali religiosi e per questo erano animali molto rispettati e allevati con grande
attenzione. Non è escluso che, all’epoca del loro dominio siciliano, la presenza di Boa delle Sabbie
fosse massiccia.
Dotato di un capo corto e di un corpo piuttosto tozzo, il Boa delle Sabbie termina con una coda
conica e poco lunga. Gli occhi sono piccoli, con una pupilla ellittica. È rivestito di squame piccole
lucide e carenate, mentre la colorazione è grigiastra o bruna, con macchie scure sparse; il ventre è
biancastro o giallastro chiaro. Si nutre principalmente di piccoli e medi roditori, ma gli esemplari
più giovani predano anche lucertole. Oggi, sebbene siano serpenti molto rari, sono una specie
richiesta dagli amanti dei rettili, ma anche tra le più costose. Gli esperti ne sconsigliano
l’allevamento ai neofiti: data la sua natura sfuggente e la sua forma particolare, è particolarmente
predisposto alla fuga e riesce a passare praticamente in ogni anfratto. A causarne l’estinzione in
diverse parti del mondo è stata la stupida e infondata credenza che avveleni le acque dove si
abbevera e per questo è stato ucciso senza pietà nell’arco dei secoli.
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Brano n. 8
La morte di Cleopatra
(tratto da: Plutarco, Vite parallele, Antonio 85-86,
trad. di Rita Scuderi, Rizzoli, Milano 1989, pp. 477-479)
Con tali lamenti, incoronò di fiori e abbracciò la tomba; poi ordinò che le si preparasse un bagno.
Dopo essersi lavata ed essersi messa a tavola, consumò un pasto sontuoso. Intanto arrivò un uomo
dalla campagna con un cesto; quando le guardie gli chiesero che cosa contenesse, egli lo
scoperchiò, tolse le foglie e mostrò che il recipiente era pieno di fichi. Poiché le guardie
ammirarono la bellezza e la grossezza dei frutti, e quello, sorridendo, li esortò a prenderne, essi,
senza diffidenza, lo invitarono a portarli dentro. Dopo il pranzo Cleopatra prese una tavoletta, che
aveva scritto e sigillato, e la mandò a Cesare: poi fece uscire tutti gli altri, eccetto le due donne che
aveva sempre tenuto con sé, e chiuse le porte. Cesare, come aprì la tavoletta e vi trovò preghiere e
lamenti di lei, che gli chiedeva d’essere sepolta con Antonio, subito comprese l’accaduto. E in un
primo momento ebbe lo slancio di soccorrerla personalmente, poi si contentò di mandare in fretta
altri ad indagare. Il dramma si era svolto rapidamente. Infatti gli inviati, giunti sul posto di corsa,
videro che le guardie non si erano accorte di niente, ma, aperta la porta, la trovarono morta, sdraiata
su un letto d’oro, abbigliata coi suoi ornamenti regali. Delle due donne quella chiamata Ira stava
morendo ai suoi piedi, mentre l’altra, Carmione, ormai barcollante e con la testa appesantita,
accomodava il diadema sul capo della regina. A uno che, adirato, le disse: «Bella azione,
Carmione!», ella rispose: «Bellissima certo, e degna di una discendente di re tanto grandi». Furono
le sue ultime parole e cadde lì, presso il letto.
Si racconta che l’aspide fu portato con quei fichi, nascosto sotto le foglie: Cleopatra infatti aveva
ordinato così, in modo che il serpente l’attaccasse senza che lei se ne accorgesse; ma quando tolse i
fichi, lo vide e disse: «Era qui dunque». E, denudato il braccio, l’offrì al morso dell’aspide. Altri
dicono che l’aspide fosse custodito in un orcio e che quando Cleopatra lo provocò e lo irritò con un
fuso d’oro, saltò fuori e le si attaccò a un braccio. Ma nessuno conosce la verità; c’è anche una terza
versione, cioè che Cleopatra tenesse del veleno in uno spillone cavo nascosto fra i capelli. Eppure
sul suo corpo non apparve alcuna macchia né altro segno di veleno. Certo il serpente non fu visto
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dentro la stanza, ma ci fu chi asserì d’aver notato una sua traccia dalla parte del mare, dove
guardavano le finestre della camera; altri sostengono che sul braccio di Cleopatra furono osservate
due punture leggere e pressoché impercettibili. Sembra che anche Cesare abbia prestato fede a
questa versione. Infatti al trionfo fu portata una statua di Cleopatra, con un aspide attaccato. Ciò è
quanto si dice su questi avvenimenti. Cesare, sebbene contrariato per la morte della donna, ne
ammirò la nobiltà e ordinò che il suo copro fosse sepolto insieme con Antonio, in modo sontuoso e
regale. Per suo ordine anche le due ancelle ebbero onorata sepoltura. Cleopatra morì a trentanove
anni, dopo aver regnato per ventidue anni e aver governato con Antonio per più di quattordici.
Alcuni sostengono che Antonio avesse compiuto cinquantasei anni, altri cinquantatré. Le statue di
quest’ultimo furono abbattute, mentre quelle di Cleopatra rimasero al loro posto, perché uno dei
suoi amici, Archibio, diede a Cesare duemila talenti, affinché non subissero la stessa sorte di quelle
di Antonio.
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Brano n. 9
Locusta l’avvelenatrice di Roma
(tratto da: Massimo Melani, Locusta, una serial killer ai tempi di Nerone,
in TOTALITÀ.it Magazine online di cultura e politica,
indirizzo: http://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=2312&categoria=1&sezione=&rubrica=)
Locusta nasce in Gallia durante il primo secolo.
Vivendo in campagna, imparerà a conoscere le proprietà delle piante, sia quelle benefiche che le più
dannose.
La storia narra che ogni giorno provasse su se stessa un nuovo veleno così da diventarne immune.
Le sue vittime, però, non ebbero mai tale cautela.
Diventerà una schiava di Roma, ma la cosa non la toccherà molto, perché proprio nella Città Eterna
riuscirà a costruire la sua fortuna, in quanto la conoscenza delle piante ed erbe era, allora, molto
apprezzata. La sua specialità era la trasformazione in polvere di queste piante, prevalentemente a
base di arsenico, ma era solita usare, anche, funghi velenosi, cicuta, giusquiamo e altre piante.
Quando volevano sbarazzarsi di un rivale politico o raccogliere un’eredità, i Romani avevano come
unico contatto Locusta, anche perché il suo lavoro era così perfetto che i decessi sembravano tutti
causati da morte naturale.
La stessa Messalina, per sbarazzarsi di Tito, l'amante di cui si era stancata, si rivolse a Locusta.
Agrippina, l’ultima moglie dell'imperatore Claudio, decise di utilizzarla per sbarazzarsi del vecchio
marito.
L’Imperatrice ebbe a incontrarsi segretamente con Locusta, dopo che un’amica le disse
dell’esistenza di tale donna, per discutere il modo con cui uccidere Claudio. Locusta, intanto, era
stata condannata come assassina avvelenatrice, così Agrippina, per tornaconto personale, le offrì
salva la vita se avesse accolto la sua richiesta. La donna, ovviamente, non batté ciglio: oramai, non
aveva più niente da perdere. Il giorno dopo consegnò una scatola piena di polvere bianca
all’Imperatrice. Le garantì che sarebbe stato sufficiente metterne una piccola dose nel cibo della
persona che voleva uccidere, e che quest’ultima sarebbe spirata nell’arco di mezza giornata.
Sapendo che la vittima era molto amante dei funghi, preparò un miscuglio simile ai miceti, ma
mortale.
Così l'imperatore ingerì il veleno per ben due volte. Infatti, come se non fosse abbastanza, Locusta
le somministrò anche della coloquintide, un’erba, che accelera gli effetti del veleno, e impregnò con
la stessa la piuma con la quale l'imperatore era solito farsi venire lo stimolo del vomito quando
aveva mangiato troppo.
Il 12 ottobre 54, dopo aver fatto bere molto vino al marito, Agrippina personalmente gli servì il
piatto coi funghi.
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Mentre mangiavano, incoraggiò Claudio a testare quello più grande.
Fiducioso si avventò su di esso. Dopo sei ore dall’ingestione iniziò ad agonizzare, andando in coma
e morendo poco dopo.
Per tutto il tempo Agrippina non smise un attimo di preoccuparsi del marito, interessandosi alle
motivazioni dell’agonia di Claudio.
Locusta, così, ebbe ancora un nuovo periodo fortunato: la morte dell'imperatore, infatti, non fu
l'ultimo ordine che ricevette dalla famiglia imperiale.
Il successore fu Nerone, figlio dell'imperatrice, e mentre Locusta era chiusa in una segreta del
palazzo, Nerone aveva in mente di eliminare Britannico, il figlio di Claudio, un ragazzo che
compiva 14 anni proprio quel giorno.
Per questo Nerone ebbe bisogno di Locusta.
Il nuovo imperatore, senza indugi, gli offrì la libertà se avesse portato a termine il compito affidato.
L'avvelenatrice assassina si mise subito d'accordo con il mandante, e riuscì non solo a risolvere la
sua disperata situazione di prigioniera, ma allo stesso tempo divenne una donna molto utile e
rispettata.
Splendidamente ospitata nel palazzo, nei quartieri personali dell'imperatore, fece un primo tentativo
per trovare il veleno appropriato al caso. Per un eccesso di prudenza, così da assicurarsi che non
sembrasse un delitto, il primo tentativo non produsse i risultati sperati, causando solo diarrea al
giovane. Nerone, venuto a sapere dell’errore di Locusta, scatenò la sua furia, schiaffeggiando e
minacciando di morte la stessa nel caso avesse fallito ancora.
Per essere sicura di non sbagliare per la seconda volta, sperimentò prima il veleno su una capra.
L'animale morì dopo 5 ore, ma a Nerone sembrava troppo lunga quell’attesa.
Cosicché, Locusta, ebbe a preparare per la terza volta la sua sostanza letale testandola su un maiale,
che spirò più rapidamente, come ambito dall’Imperatore.
Poco dopo, Locusta puntò direttamente su Britannico.
Successe tutto durante un banchetto, quando Nerone offrì del vino al giovane.
Anche se venne prima testato da un assaggiatore di veleno, quel liquido risultò essere troppo caldo e
dovette essere raffreddato con dell’acqua. L’arsenico e la sardonia erano proprio intrisi in quella
brocca d'acqua.
Durante il banchetto Britannico, cominciò a soffrire di terribili convulsioni. Nerone, impassibile,
minimizzò dicendo che era una delle solite crisi epilettiche, e lo trasportò personalmente fuori dalla
stanza.
Nessuno dei presenti osò esprimere ad alta voce i loro sospetti in merito all’accadimento, ma molti
pensarono subito a un avvelenamento.
Ore dopo, il 14enne morì e fu sepolto la stessa notte. Il suo corpo, fu bruciato e sotterrato a Campo
di Marte, senza pompa magna e senza dissimulare la fretta di quell’azione.
Dione e Tacito diranno nei loro scritti che “in quel momento una pioggia violenta cadde
evidenziando la furia degli dei”.
Nerone ricoprì Locusta di onori e parole grandiose, le donò una preziosa terra e le permise di aprire
una scuola per insegnare i segreti delle piante. I veleni, da allora, vennero testati sugli animali, e
talvolta sui criminali condannati a morte, nella nuova dimora dell’assassina, in un bel quartiere
vicino al Palatino, dove vivevano molti cittadini potenti che iniziarono a frequentare la sua
abitazione in cerca di un rimedio. Le loro richieste erano abbastanza di routine.
Locusta si coricava presto la sera, salvo quando veniva visita da qualche amante anonimo, e la
mattina portava a spasso i cani, che comprava di frequente perché utilizzati nello sperimentare i
veleni assieme a certuni schiavi ormai vecchi e malridotti.
Tacito dirà che “l'imperatore era così affezionato a lei, che per paura di perderla, metterà vicino alla
sua casa degli uomini che la sorveglieranno affinché non le succeda niente”.
Ma dopo la caduta di Nerone, finì anche la fortuna di Locusta, poiché Galba suo successore, nel
mese di gennaio del 69, l’accusò di 400 omicidi.
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La punizione fu certamente ritenuta da tutti più che stravagante: secondo il filosofo di scuola
platonica Apuleio, il nuovo imperatore ordinò che fosse legata e violata pubblicamente da una
giraffa ammaestrata, per essere, dopo, lasciata in pasto ai leoni.
Locusta era diventata il primo assassino seriale documentato dalla storia.
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Brano n. 10
Il presunto avvelenamento di Mozart
(tratto da: Massimo Centini, Salieri uccise Mozart?,
in M. Centini, Misteri d’Italia, Newton Compton editori, Roma 2006, pp. 200-203)
Antonio Salieri (1750-1825) musicista oscurato dalla fama di Wolfgang Amadeus Mozart (17561791) e ingiustamente incolpato di essere l’assassino di quel musicista verso il quale,
probabilmente, un po’ di gelosia dovette nutrirla, è un personaggio circondato da un’aura colma di
inquietudine.
Certo che se Mozart fu effettivamente una persona come Milos Forman ha descritto nel suo film,
indubbiamente fu abbastanza facile essere un po’ seccati da quel genio, sregolato e dissacrante. Ma
la psicostoria non serve a nessuno, diviene utopia, viaggio nell’immaginario: come quasi certamente
immaginario fu l’omicidio imputato dagli storici più recenti al povero Salieri.
A Legnago (Verona), dove nacque, Salieri compì i primi studi musicali sotto la guida del fratello
Francesco, che fu allievo di Giuseppe Tartini: poi fu tutto un crescendo e a vent’anni stupì
Christoph Willibald Gluck, allora potente e, a detta dei biografi, non facile all’emozione.
Ebbe scritture importanti, che lo portarono alla Scala; ma il primo grande successo fu le
Danaides rappresentata a Parigi nel 1784.
La sua attività fu contrassegnata da una produzione notevole; continuò a scrivere melodrammi,
opere buffe, musica religiosa e ad insegnare; fu tra i fondatori del conservatorio di Vienna ed ebbe
discepoli importanti, ad esempio Beethoven, List, Schubert. Fu testimone dell’ascesa e del genio di
Mozart, con il qual ei rapporti furono forse dominati dall’ipocrisia, come molti biografi hanno
narrato: ma la verità non la sapremo mai.
Quando il grande Wolfgang morì nel 1791, nella più cupa povertà e in un’atmosfera di
inquietudine come nell’inquietudine era vissuto, andò sedimentandosi quell’humus che avrebbe in
seguito alimentato il sospetto che dietro a quella morte ci fosse un omicidio.
Omicidio per gelosia della gloria e della fama? Assolutamente no, poiché Salieri, a Vienna,
godeva di ben maggiore fama di quanta ne avesse raccolta Mozart: se di gelosia si vuol parlare forse
questa è da ricercare nella genialità del grande Amadeus, insuperabile, unica.
Certamente, dicono gli esperti, nelle pagine di Salieri non si trova mai un capolavoro assoluto, se
pur vi sono delle opere significative e artisticamente pregevoli. Era un musicista che conosceva il
suo mestiere, che godeva di notevole credito tra gli altri musicisti e tra gli intenditori, ma nella sua
vasta produzione operistica, strumentale e sacra il vero genio non c’è. C’è talento e mestiere, ma
tutto si ferma qui.
I posteri non gli hanno sempre voluto bene: forse non gli hanno perdonato di essere solo un
normale maestro dotato di normali qualità. Niente di più. In molte guide all’ascolto e all’educazione
alla musica classica il suo nome non figura; nelle discografie consigliate ai neofiti Salieri non
appare quasi mai.
Il genio di Mozart continua ad offuscarlo ancora oggi e, oltre la sua musica, ci sono giunti pochi
altri documenti sul suo lavoro; sappiamo che trascorse gli ultimi anni con gravi problemi di salute,
che lo minarono anche sul piano psichico. Morì a settantacinque anni colpito da vari lutti familiari,
tra cui la morte dell’unico figlio; si spense dimenticato con il suo segreto, con le sue angosce, senza
genio, dicono freddamente i biografi, che se non hanno voluto salvare la sua arte, spesso non hanno
fatto nulla per salvare la sua anima.
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Va obiettivamente osservato che, nel XIX e XX secolo, sono stati numerosi gli studi diretti a
cercare una spiegazione per la morte di Mozart. Solo nel secolo precedente all’attuale, sono stati
scritti un’ottantina di libri sull’argomento!!!
Secondo le più recenti teorie, Mozart, con un comportamento analogo a quello del suo Don
Giovanni, avrebbe contratto la sifilide (la tesi non è comunque accettata da tutti gli studiosi) in
occasione di una delle sue numerose «donnesche imprese». Per cercare di combattere la malattia, il
musicista fece ricorso ad un farmaco a base di mercurio consigliatogli dal diplomatico olandese,
barone Gottfried von Swieten, che aveva ricevuto la ricetta in eredità dal padre Gerhard, medico
personale dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Con questo particolare medicamento il clinico
sarebbe riuscito a salvare la vita a circa cinquemila persone affette dal “mal francese”…
Il problema per Mozart fu la sua incapacità di gestire l’uso di quel farmaco: fece infatti un largo
uso di quel “Liquor mercurialis Swietenii”, con un conseguente avvelenamento da mercurio che in
breve lo condusse alla tomba.
Uno studioso tedesco, Ludwug Koeppen, sostiene che il giorno stesso in cui Amadeus morì
(dicembre 1791), al suo capezzale giunse il barone olandese che diede ordine di seppellire il
musicista nella fossa comune del cimitero viennese di St. Marker, con un semplice funerale di
“terza classe”. Soprattutto fece in modo che non venisse effettuato alcun esame sul cadavere
alterando quelle che erano le procedure del tempo.
Il giorno successivo, von Swieten avrebbe comunicato la morte di Mozart all’imperatore
Leopoldo I, il quale allontanò il barone dai suoi incarichi istituzionali. In questo modo la Vienna
ufficiale cercò di soffocare lo scandalo offuscando le cause della morte di quel genio della musica,
la cui figura poteva, allora, essere rovinata dalla sifilide, una patologia che aveva la prerogativa di
contrassegnare il grande Amadeus con toni non proprio consoni al suo ruolo.
Koeppen, che alla morte di Mozart ha dedicato un approfondito studio (Mozarts Tod), sostiene la
complicità da parte dei medici che visitarono il musicista nelle settimane precedenti il suo trapasso.
Nessuno stilò un referto medico in cui fosse indicata la natura della malattia; inoltre non venne
stabilito il trasferimento in ospedale dell’ammalato, come in realtà la prassi avrebbe richiesto.
La leggenda vuole che uno dei becchini incaricati del seppellimento ritornò nel cimitero e
recuperò il teschio del musicista, oggi custodito presso la Fondazione Mozart di Salisburgo. È
possibile che gli scienziati, prima o poi, effettuino una comparazione tra il DNA del teschio e quello
di alcuni parenti di Wolfgang Amadeus: una prova destinata forse a fare un po’ di luce sulla
tormentata esistenza del grande musicista. Una prima sommaria analisi del teschio ha posto in
evidenza i segni di una frattura in via di guarigione sulla regione temporo-parietale sinistra e
l’impronta, sulla superficie interna, di un coagulo di sangue, causato da un ematoma.
Recentemente a Berlino è stato rinvenuto un ritratto ad olio (80 x 62 centimetri) di Mozart
eseguito nel 1790 dal pittore Johann Georg Edlinger secondo i canoni dell’epoca: il soggetto appare
con volto luminoso e grassoccio. Raffigura un uomo elegante, con gli occhi un po’ ipertiroidei e
appesantiti da borse. Quasi certamente si tratta dell’ultimo ritratto del musicista; le somiglianze e le
connessioni con il ritratto di Mozart, anonimo, conservato nel Civico Museo Musicale di Bologna,
sono sorprendenti.
Tentando di ricostruire il quadro clinico del musicista, per avere qualche maggiore indicazione
che possa contribuire a chiarire le cause della sua morte, ricordiamo che nel 1765 Mozart, all’Aja,
fu colpito da una malattia febbrile che lo condusse a ricevere l’Estrema Unzione; in breve però si
riprese. Alcuni medici sono propensi ad individuare in quella malattia una «febbre tifoidea». Due
anni dopo contrasse il vaiolo e successivamente subì ripetuti attacchi reumatici e tonsillari.
Sappiamo che, quando si spense, non venne effettuata l’autopsia e il primo tentativo di diagnosi
risale a 114 anni dopo. La mancanza di informazioni precise ha determinato molte ipotesi, svariate e
fantasiose. Oltre a quella che vedrebbe nella fine di Mozart gli effetti dell’avvelenamento da
mercurio.
Il registro mortuario fa riferimento ad una non meglio indicata «febbre miliare»…
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Sulla base delle notizie documentarie, «si può ipotizzare che Mozart sia deceduto per
un’infezione streptococcica, con una conseguente sindrome di Schonlein-Henoch e un’insufficienza
renale da glomerulonefrite; l’ipertensione, provocata dall’infezione renale, potrebbe anche aver
provocato un’emorragia cerebrale, e la morte, sopravvenuta in ultimo per broncopolmonite,
potrebbe essere stata accelerata anche dai salassi praticati (è stato stabilito che negli ultimi dodici
giorni di vita a Mozart furono prelevati da due a tre litri di sangue)». (F. Grilletto – E. Cardesi – R.
Boano – E. Fulcheri, Il Vaso di Pandora. Paleopatologia: un percorso tra scienza, storia e leggenda, Torino 2004, pag. 34.)
In sostanza, anche se vi fu un parziale avvelenamento da Mercurio, si deve comunque constatare
che non vi fu alcun coinvolgimento del maestro Salieri, tra i pochi al funerale di Mozart.
Eppure contro di lui si sono accaniti biografi e narratori; anche i registi hanno le loro colpe. Milos
Forman struttura la genesi del suo bel film sul tema dell’avvelenamento da parte di Salieri.
Nell’incipit del film, il musicista veneto, ormai anziano, in manicomio e in preda ai sensi di colpa,
confida ad un prete il suo crimine.
L’ipotesi dell’avvelenamento da parte del maestro italiano, affermato musicista e “colpevole” di
essere vissuto all’ombra di un genio, è al centro di Mozart e Salieri dello scrittore russo Aleksandr
Puskin (1799-1837) e musicato in Scene drammatiche da Rimskij Korsakov.
Anche il teatro ha sposato questa tesi: nell’Amadeus di Peter Shaffer, il povero Salieri, travolto
dall’invidia per quel grande musicista che non sarà mai in grado di superare, decise di dargli la
morte. Non farà però i conti con la memoria: quella legata ai geni continua oltre la vita. Spesso per
sempre.
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Brano n. 11
Napoleone morì avvelenato?
(tratto da: L’imperatore in esilio, in Enigmi della storia,
Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1993, pp.126-128)
Sir Hudson Lowe giunse a Sant’Elena il 14 aprile 1816. Nella sua veste di governatore dell’isola
egli era, in pratica, il carceriere di Napoleone. Noto per la sua indecisione e i frequenti sbalzi
d’umore, Lowe era stato descritto dal suo ex comandante come «privo di educazione e di giudizio
[…] stupido […] sospettoso e geloso». Napoleone provò un’antipatia immediata per lui, che a suo
dire, aveva «una faccia da canaglia».
Da parte sua, Lowe sembrava terrorizzato al pensiero che l’illustre prigioniero potesse fuggire,
per cui impose rigide limitazioni alla libertà di Napoleone, selezionando i visitatori, censurando la
posta e i giornali; apportò anche tagli alle spese destinate al mantenimento di Longwood House 7.
Durante un burrascoso incontro, Napoleone disse a Lowe che era un giustiziere, al che costui
rispose che doveva sottostare agli ordini. «E così, se vi ordinassero di uccidermi, obbedireste?» gli
chiese Napoleone. «Gli inglesi non sono degli assassini» gli rispose irato il governatore. Da quel
giorno i due non si incontrarono più e comunicarono solo attraverso intermediari.
Il fedele Bertrand8, prendendo le difese di Napoleone, così scriveva al governatore: «Volete
uccidere l’imperatore? Se persistete nella vostra condotta, vorrà dire che la risposta è affermativa e,
purtroppo, raggiungerete lo scopo dopo qualche mese di agonia». Bertrand si riferiva alle restrizioni
imposte ai movimenti di Napoleone sull’isola, ma nelle sue parole si celava anche un’accusa più
grave.
La residenza di Napoleone sull’isola di Sant’Elena: una villa di 23 stanze, luogo inospitale, dai muri ricoperti di muffa
e infestato dai topi.
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Conte e maresciallo di Francia, aveva seguito Napoleone nell’esilio di Sant’Elena.
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Napoleone era sempre più convinto di essere vittima di un lento avvelenamento e parlò dei suoi
timori a Barry O’Meara, il medico irlandese che lo aveva in cura da quando avevano lasciato
l’Inghilterra. La gotta gli impediva di fare esercizio; aveva sempre freddo, ma la luce del sole gli
provocava l’emicrania; le gengive erano infiammate e sanguinavano al minimo tocco.
Lowe, evidentemente, riusciva a ingannare gli emissari delle potenze europee sul peggioramento
della salute del prigioniero e quando si accorse, nel luglio 1818, che il medico inviava messaggi
segreti in Inghilterra, lo licenziò. Tornato in patria, O’Meara riferì che il governatore gli aveva
parlato del beneficio che l’Europa avrebbe tratto dalla morte di Napoleone.
Il 15 agosto 1819 Napoleone compì cinquant’anni, ma non vi furono festeggiamenti a Longwood
House. La sua cerchia si era ristretta e fra coloro che se n’erano andati vi era la moglie di
Montholon9, partita per l’Europa con i tre figli, l’ultima dei quali, una femmina di nome Napoléone,
era nata sull’isola e si vociferava che fosse figlia dell’ex imperatore. L’illustre esule era diventato
grasso, flaccido ed era depresso. Si attendeva di morire presto, come aveva confidato a Marchand10.
Un anno dopo la partenza di O’Meara, Napoleone era stato affidato alle cure di un altro medico,
il giovane còrso Francesco Antommarchi, arrivato nell’isola il 19 settembre in compagnia di due
sacerdoti e un cuoco, mandati da Roma dallo zio dell’imperatore, il cardinale Fesch. Napoleone
riferì ad Antommarchi che suo padre era morto di cancro e gli chiese se la malattia era ereditaria. Il
medico cercò di tranquillizzarlo e gli consigliò di fare del giardinaggio; la salute di Napoleone
sembrò temporaneamente migliorare.
Il 19 luglio 1820 Antommarchi annotò nel suo diario che Napoleone manifestava «brividi,
febbre, mal di testa, nausea, tosse secca e vomito di bile». Con questi sintomi ebbe inizio la malattia
che doveva portarlo alla morte dieci mesi dopo. Il peggioramento delle sue condizioni fu descritto
nelle memorie di Marchand, pubblicate nel 1955 e studiate da Sven Forshufvud.
Confrontando la testimonianza di Marchand con le altre, il dentista svedese fu in grado di
tracciare il decorso della malattia terminale di Napoleone nei minimi particolari, mettendo in luce
alcune nuove, sorprendenti pezze d’appoggio alla sua ipotesi di avvelenamento. Fra marzo e
maggio del 1820, a Napoleone fu somministrato tartaro emetico (che ne avrebbe indebolito lo
stomaco), orzata (una bevanda aromatizzata con mandorle amare) e abbondanti dosi di calomelano
(una sostanza che reagisce negativamente alle mandorle amare). Dovette trattarsi, secondo
Furshufvud, di una preparazione alla somministrazione dell’arsenico, «il classico sistema di
avvelenamento […] poiché uccide la vittima indebolita senza lasciare tracce».
Nelle sue ultime volontà, Napoleone aveva chiesto che, prima della sepoltura a Sant’Elena, il suo
cuore fosse prelevato e mandato alla moglie Maria Luisa, e che ciocche di capelli fossero distribuite
ad alcuni prescelti. Lowe non acconsentì alla prima richiesta, ma lasciò che ciuffi di capelli
finissero, come ricordo, in varie mani e, fra le altre, in quelle di Louis Marchand. Forshufvud
ottenne alcuni capelli della reliquia appartenuta a Marchand, i quali, sottoposti ad analisi nel 1960,
rivelarono la presenza di «quantità relativamente elevate di arsenico» nel corpo di Napoleone
anteriormente alla morte.
A Forshufvud occorsero altri 14 anni per identificare l’assassino nel conte di Montholon, il quale,
secondo lui, aveva agito per conto dei Borboni. A Longwood House, a Napoleone veniva servito
regolarmente un vino sudafricano, importato in botti e imbottigliato sull’isola; solo lui beveva quel
vino. Montholon teneva sotto chiave il vino destinato all’ex imperatore, offrendogliene mezza
bottiglia a pasto. Le sole due volte in cui, per errore, anche ad altri fu servito quel vino, si
verificarono malori.
Nel 1840, con la fine dei Borboni, la Francia inviò a Sant’Elena una delegazione con il compito
di esumare la salma di Napoleone per farla seppellire a Parigi. La maggior parte dei superstiti
dell’entourage napoleonico a Sant’Elena era presente all’apertura della bara, ma non il conte di
Montholon.
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Generale francese, compagno d’esilio dell’ex imperatore.
Il cameriere di Napoleone.
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Costui aveva sperperato il lascito avuto da Napoleone e nel 1840 era finito al servizio di Luigi
Napoleone, nipote dell’ex imperatore, il quale, in seguito, avrebbe regnato con il nome di
Napoleone III. Se Montholon fosse stato presente all’apertura della bara avrebbe avuto motivo di
grande stupore: sotto gli abiti ridotti a brandelli, il corpo era ben conservato. L’arsenico, soprattutto
se somministrato regolarmente e a lungo, preserva dalla putrefazione.
Ricerche più recenti hanno sollevato altre ipotesi sulla morte di Napoleone, che non sarebbe stato
avvelenato da una persona, ma dalle esalazioni tossiche, a base di arsenico, sprigionate da un
pigmento, il «verde di Scheele», usato per colorare la carta da parati che rivestiva i muri umidi della
stanza dell’ex imperatore a Longwood House.
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Brano n. 12
La morte di Napoleone
(tratto da: Thomas T. Noguchi in collaborazione con Joseph DiMona,
La parola al Coroner, trad. di Paola Frezza, Rizzoli, Milano 1986, pp. 161-166)
1.
Sant’Elena è un puntolino di terra che si trova nell’Oceano Atlantico a 1750 miglia dal
Sudafrica, a 1800 miglia dal Sudamerica e, quel che più importava agli inglesi, a 4000 miglia dalla
Gran Bretagna. Qui, nel 1815 fu mandato in esilio Napoleone Bonaparte, l’odiato rivale
dell’Inghilterra, le cui grandi armate avevano per anni dominato l’Europa.
Già una volta esiliato su un’isola più vicina alla terraferma, Napoleone era riuscito a fuggire per
mettere insieme un esercito che aveva sparso il terrore in Europa. In una delle battaglie più
importanti della storia, fu sconfitto a Waterloo dal Duca di Wellington e questa volta l’Inghilterra
non volle correre rischi. Sant’Elena era forse il luogo più remoto dal mondo civile, un’isoletta
piuttosto bella, verde e collinosa, ma afflitta da un clima tremendo in cui si alternavano periodi
estremamente caldi a momenti di burrasca durante i quali un vento gelido sferzava gli alberi
piegandoli fino a terra e dilaniava le sottili pareti di legno delle abitazioni dell’isola.
L’Imperatore esiliato approdò qui il 17 ottobre 1815 con un seguito di fedeli servitori e tre exufficiali del suo esercito, il conte Charles-Tristan de Montholon, il Generale Henry-Gratien
Bertrand e il Conte Emmanuel de Las Cases. Napoleone ispirava tanta devozione che questi tre
uomini scelsero volontariamente di vivere in esilio su quest’isola dimenticata da Dio per essere
vicini al loro capo prigioniero.
Fu inviata una guarnigione britannica di tremila uomini sull’isola (larga solo undici chilometri e
lunga diciassette) per evitare che Napoleone potesse fuggire. Sotto il controllo quasi paranoico del
Governatore Hudson Lowe, essi osservavano ogni mossa di Napoleone mentre Lowe continuava a
imporre nuove e più severe restrizioni al pericoloso prigioniero.
Nel 1821 Napoleone si ammalò e non se ne conoscevano le cause. Aveva solo cinquantun anni,
non era dimagrito, anzi in realtà era AUMENTATO di peso. E tuttavia lamentava di sentirsi debole
e di avere gonfiore alle caviglie. Il 5 maggio di quell’anno morì e fu solo alla lettura del testamento
che si scoprì che, due mesi prima di morire, aveva scritto le seguenti parole: «Muoio prima del mio
tempo, ucciso dall’oligarchia britannica e DAL SUO MERCENARIO ASSASSINO».
L’autopsia sul cadavere fu eseguita con l’ex-imperatore sdraiato nudo su un tavolo da biliardo
nella casa di Longwood dov’era morto. I medici riscontrarono una grossa ulcera benigna nello
stomaco e una dilatazione del fegato: nessuna delle due poteva essere stata la causa della morte,
anche se la scoperta dell’ulcera indusse a pensare che fosse morto di cancro. Ma le terribili parole
contenute nel testamento suggerivano un’altra causa: l’assassinio.
Ma in che modo era stato compiuto il delitto? Durante l’autopsia non fu trovato veleno nello
stomaco, e non c’era traccia di violenza fisica. Infatti durante la malattia Napoleone era stato
costantemente assistito dai suoi fanatici seguaci.
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La verità non sarebbe mai emersa se il leale cameriere di Napoleone, Louis Marchand, non
avesse tagliato i capelli dell’imperatore per regalarne ciocche ai membri della sua famiglia e agli
amici dei vecchi tempi. Quelle ciocche sono state conservate e, centocinquant’anni dopo, un piccolo
ciuffo di capelli ha fornito una soluzione al mistero con l’aiuto della medicina legale moderna.
2. Sten Forshufvud, un biondo svedese alto e snello, era un devoto ammiratore di Napoleone e la
sua casa di Göteborg era piena di ritratti, busti e statue dell’Imperatore. Nel 1955 Furshufvud lesse
le memorie di Louis Marchand che raccontavano in forma di diario gli ultimi giorni di Napoleone.
Secondo Marchand, il piccolo Imperatore durante la malattia aveva alternato momenti di torpore a
insonnia, aveva i piedi gonfi ed era tanto debole che si lamentava così: «Le gambe non mi reggono
più». Poi, proprio gli ultimi giorni, gli era stato somministrato del tartaro emetico, e del calomelano
e una «massiccia» dose di quest’ultimo (dieci grammi) gli provocò perdita di coscienza e infine la
morte.
La sequenza che condusse alla morte era tipica del lento avvelenamento da arsenico: questa fu la
deduzione di Furshufvud alla lettura del diario di Marchand. I sintomi di tale avvelenamento
c’erano tutti: sonnolenza alternata a insonnia, gonfiore ai piedi, affaticamento generale fegato
ingrossato. Furshufvud riteneva che non fosse stato sospettato un avvelenamento perché l’arsenico
era stato somministrato in piccole dosi per un lungo periodo di tempo e l’ingestione di tartaro
emetico e di calomelano negli ultimi giorni l’aveva reso irreperibile nello stomaco.
Dai suoi studi Forshufvud sapeva che l’arsenico ha una particolare proprietà: è indistruttibile.
Quindi, se si fosse potuto esaminare il cadavere di Napoleone, se ne sarebbero potute scoprire
eventuali tracce. Ma l’Imperatore era stato sepolto a Parigi con tutti gli onori, in un monumento
funebre visitato ogni anno da milioni di turisti, e Forshufvud capì che non avrebbe mai avuto la
possibilità di dimostrare la sua teoria. Ma a quel punto venne a sapere delle ciocche di capelli;
rintracciò un discendente di un uomo appartenente al seguito di Napoleone a Sant’Elena e riuscì ad
averne un ciuffo per esaminarlo.
3. L’indagine sulla misteriosa morte di Napoleone è una dimostrazione esemplare di medicina
legale moderna all’opera. Nel 1962 gli scienziati disponevano di macchinari in grado di bombardare
di radiazioni un oggetto per determinarne i componenti. Forshufvud inviò un capello che era
riuscito a procurarsi a un medico legale di Glasgow, Hamilton Smith. Nel suo laboratorio lo
scozzese pesò quest’unico capello e lo chiuse ermeticamente ermeticamente in un contenitore di
polietilene. Poi irradiò per ventiquattr’ore sia il capello che una soluzione standard di arsenico.
Scoprì che il capello conteneva 10,38 microgrammi di arsenico per grammo, circa tredici volte la
quantità normale che è di 0,8 parti per milione.
Stimolato da questa scoperta, Forshufvud partì per Glasgow per conferire con Smith. Coloro che
non credevano alla teoria dell’avvelenamento, disse Forshufvud, avrebbero sostenuto che l’arsenico
fosse venuto in qualche modo dall’esterno, dall’ambiente circostante e non che fosse stato ingerito
come veleno. C’era un sistema per scoprire se l’arsenico era stato ingerito?
Smith sorrise. Pochi mesi prima, raccontò, ciò sarebbe stato impossibile perché il suo
apparecchio a raggi X non era in grado di analizzare differenti SEZIONI di un capello, ma solo
l’intero capello. Ma lui aveva appena acquistato un macchinario tecnologicamente più raffinato che
era in grado di farlo.
Forshufvud chiese per quale ragione fosse tanto importante l’analisi della SEZIONE e Smith gli
rispose così: «Se l’arsenico è stato assorbito dall’ambiente esterno, l’analisi del capello dimostra
una presenza COSTANTE di arsenico in tutta la sua lunghezza. Se invece l’arsenico è stato ingerito
in periodi successivi, il capello mostra VALORI MASSIMI E MINIMI di arsenico in ogni
sezione». Inoltre dato che i capelli crescono a un ritmo di circa 3,5 millimetri al giorno, Smith poté
calcolare l’intervallo tra i valori massimi.
Smith fece 140 analisi su un nuovo campione di capelli che Forshufvud aveva ottenuto da una
ciocca che era appartenuta a uno dei valletti di Napoleone, Jean-Abraham Noverraz. Le analisi per
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sezione dimostrarono che l’arsenico non proveniva dall’esterno dato che la quantità di esso non era
costante, infatti andava da un minimo di 1,86 a un massimo di 51,2.
Forshufvud e Smith resero note le loro scoperte su un giornale scientifico inglese, «Nature», il 14
ottobre 1961. In questo modo sembrava che l’Imperatore Napoleone fosse stato assassinato e il
mondo rimase affascinato dall’operato del medico legale che aveva usato macchine moderne per
svelare un omicidio avvenuto più di un secolo e mezzo prima.
Ma nel mondo accademico un’azione provoca sempre una reazione e alcuni scienziati si misero
di impegno per confutare la teoria di Forshufvud e Smith. Questi scienziati ritenevano che
l’arsenico fosse penetrato nei capelli di Napoleone per via naturale dall’esterno, e nell’ultimo
periodo degli anni Settanta fecero una scoperta altrettanto significativa dell’analisi di Forshufvud e
Smith sui capelli di Napoleone. Per quanto possa sembrare incredibile, si trattava della tappezzeria
da camera dell’Imperatore.
Il culmine dei loro sforzi, l’esposizione della carta da parati davanti a un macchinario che attiva i
neutroni, fu pubblicato sulla rivista «Nature» nel 1982. Il «New York Times», con un po’ di ironia,
pubblicò un articolo di fondo sul dibattito scientifico intitolandolo «Arsenico e il Vecchio
Napoleone»:
Due scienziati britannici notano che il verde smeraldo della tappezzeria ottocentesca è stato prodotto con un
pigmento di arsenico-rame che un fungo avrebbe potuto trasformare nel mortale vapore di arsenico. Avendo scoperto
dei ritagli della tappezzeria di Napoleone a Sant’Elena in un vecchio album di famiglia, essi sostengono che essa
contiene abbastanza arsenico da provocare un malessere, ma non la morte. «Non è il caso di tirar fuori teorie di
cospirazioni per spiegare l’arsenico trovato nei capelli», concludono con un tocco di sdegno.
Il «Times» proseguiva dicendo che il primo sostenitore della teoria dell’avvelenamento, Sten
Forshufvud non solo contestava accanitamente le scoperte degli scienziati britannici, ma riteneva la
loro teoria «tirata per i capelli».
Le terribili parole scritte da Napoleone nel testamento rivelano che LUI non riteneva l’argomento
tanto divertente; pensava che lo stessero assassinando, ma ovviamente non sapeva in che modo,
altrimenti lo avrebbe impedito.
A quell’epoca l’arsenico era il veleno preferito dagli assassini e nei capelli di Napoleone ERA
presente in quantità sospetta. Ma si trattava di un assassinio o di un semplice fatto accidentale?
Forse non lo sapremo mai, ma un amico col quale parlavo di questo enigma mi ha ricordato le
ultime parole di Oscar Wilde sul letto di morte in una squallida pensione di Parigi:
O quella tappezzeria va via oppure vado via io.
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Brano n. 13
La notte di Rasputin
(tratto da: Paolo dalla Zonca, Rasputin: l’allucinante notte dell’assassinio,
in “Storia Illustrata”, agosto/settembre N. 8/9, 1996, pp. 68-75)
Pietroburgo, capitale dell’impero russo. È il 16 dicembre 1916. Poco prima di mezzanotte,
un’auto si ferma sotto la casa di Grigorij Efimovic Rasputin, il monaco siberiano intimo dello zar di
tutte le Russie Nicola II e della zarina Alexandra. Il principe Feliks Yusupov e il dottor Stanislao
Lazovert, travestito da autista, vanno a prendere lo staretz (sant’uomo) Rasputin, che il principe ha
invitato a casa propria per presentarlo alla moglie, la bellissima Irina. Finita la visita, ha promesso il
principe, si recheranno insieme dagli tzigani per una notte di piaceri. Rasputin è solo, la sua più
accesa estimatrice, Anna Vyrubova, dama di compagnia della zarina, lo ha appena lasciato, dopo
averlo avvertito che qualcuno trama contro di lui. Anche il ministro degli interni Protopopov, una
sua creatura, gli ha telefonato per lo stesso motivo. Ma Rasputin non crede a loro. Yusupov bussa
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alla porta di Rasputin, il quale, senza sospettare nulla, ha fatto allontanare i poliziotti che giorno e
notte vegliano su di lui, sia per spiarlo sia per proteggerlo. I due si recano a palazzo Yusupov.
Introdotto nella camera sotterranea che il principe ha fatto arredare a festa, Rasputin chiede della
principessa Irina. Dal piano di sopra giunge la musica di “Yankee Doodle”. Feliks gli risponde che
la moglie è con alcuni amici: scenderà presto. Ma di sopra ci sono gli altri congiurati, l’ignara Irina
è in Crimea. Inizia il drammatico balletto di morte architettato dai congiurati. Il principe offre al
monaco alcuni pasticcini, ma, nervoso, gli avvicina il vassoio di quelli non avvelenati. Rasputin ne
mangia voracemente due, tre, prima che Yusupov riesca a mettergli davanti quelli avvelenati.
Rasputin si ingozza anche di quelli. Intanto parla, commentando le minacce che gli sono state
riferite. Passano i minuti. Yusupov è agitato: il cianuro avrebbe già dovuto fare effetto. Che fare? Il
principe offre del vino a Rasputin, ma nell’agitazione sbaglia il bicchiere. Rasputin beve d’un fiato,
poi chiede del madera, il suo vino preferito. Yusupov fa per cambiare bicchiere, ma il monaco, con
la sua voce imperiosa, lo blocca: va benissimo quello già usato. Yusupov è confuso, prende il
bicchiere, lo riempie ma, nell’atto di porgerlo al monaco, se lo lascia sfuggire di mano. Lesto, ne
prende uno di quelli con il veleno. Il monaco beve d’un fiato il madera avvelenato, poi tossisce, si
passa un dito intorno al colletto, si alza, comincia a passeggiare su e giù, accigliato. Minuti
interminabili, per Yusupov. Rasputin chiede dell’altro madera. Torna a sedere. Ora osserva
Yusupov con uno sguardo strano. Il principe si accorge che lo staretz sta cercando di ipnotizzarlo.
Per fortuna lo sguardo id Rasputin si appanna. Poco dopo il monaco chiede al principe di cantargli
alcune canzoni siberiane che ama tanto. Yusupov prende la chitarra e intona uno, due, tre motivi.
Gli sembra che Rasputin si assopisca, ma ogni volta il monaco rialza la testa e gli chiede di suonare
ancora.
Di sopra gli altri congiurati non sanno più come comportarsi: temono il peggio. Yusupov lascia
Rasputin con una scusa e li raggiunge. Dopo alcuni minuti concitati, Yusupov si fa dare da Dimitri
Pavlovic, giovane ufficiale, granduca e nipote dello zar Nicola II, la pistola. Torna dabbasso. Il
“mostro” è assopito. Avverte la presenza di Yusupov, che, sorpreso, si sente chiedere un altro
bicchiere di vino. Beve. Si alza in piedi, gonfia il petto, sbuffa. Sembra star bene. Chiede di andare
dagli tzigani, tanto Irina non si vede. Yusupov si decide e, con voce grave, dice a Rasputin:
«Grigorij Efimovic, fareste bene a guardare una croce e a recitare una preghiera». Sul volto dello
staretz compare un’espressione di meraviglia. Uno sparo in pieno petto. Rasputin stramazza al
suolo. Gli altri congiurati scendono lungo la scala a chiocciola: Rasputin è a terra, gli occhi chiusi,
tutto il corpo che freme negli spasmi dell’agonia, poi finalmente, l’immobilità. Dimitri e il deputato
Purishkevic lo spostano, il capitano Sukhotin raccoglie il cappotto e il berretto della vittima,
indossando i quali dovrà ingannare i poliziotti che certo li noteranno. Il piano prevede il ritorno del
capitano, travestito, verso la casa di Rasputin sull’auto guidata da Dimitri. Un’altra macchina è
pronta, con essa si porterà il cadavere all’isola Petrovski per farlo sparire nel fiume.
Yusupov è agitato, torna a vedere il corpo, il polso è fermo, lo prende per le spalle, lo scuote, lo
scuote, lo lascia cadere a terra. Fa per andarsene, ma sente un gelo alla nuca. Si gira. L’occhio
sinistro di Rasputin si spalanca, poi il destro. Di colpo, Rasputin si alza in piedi, si getta sul principe
e gli serra le mani alla gola, la bocca schiumante bava e sangue! Il principe si divincola, Rasputin
fugge su per la scala a chiocciola. «Purishkevic! – urla Yusupov – È ancora vivo!»
Una porta sbatte. Lo inseguono in giardino, Purishkevic dietro, il principe fa il giro da fuori, gira
da fuori, gira intorno al palazzo, verso il cancello del giardino. Quattro spari. Yusupov apre il
cancello, si precipita dentro. Il deputato, con la pistola fumante in mano, fissa lo staretz che si
contorce su un mucchio di neve; ora è immobile. Sembra morto davvero. Accorrono due servitori e
un poliziotto. Racconta loro che è stato ucciso un cane. Si riesce ad allontanare il poliziotto, ma il
principe viene chiamato al posto di polizia.
Al ritorno, Feliks torna al mucchio di neve. Ha in mano un rompitesta. Si getta sul cadavere e
inizia a colpirlo alla cieca, urlando. È uno scempio. Purishkevic e i due servitori fermano a stento il
principe, che sviene. Ritorna l’auto di Dimitri.
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I congiurati caricano il corpo di Rasputin sull’auto e poi, trasportando il macabro fardello sulla
crosta di ghiaccio che ricopre la Neva, trovano una crepa e lo fanno scivolare nell’acqua. Poi
fuggono. Il cadavere verrà trovato pochi giorni dopo: l’autopsia rivela che i polmoni di Rasputin
sono pieni d’acqua. Lo staretz, quindi, è annegato: era ancora vivo quando è stato gettato nel fiume.
Chi era Rasputin? Nato in Siberia nel 1870, nella regione di Tobolsk. Figlio di Efim, un
carrettiere e contadino del villaggio Pokrovskoje, si diffonde la sua fama di santo a partire da un
incidente con il fratello Misha. Caduti in acqua, i due ragazzi si ammalano. Misha muore, Grigorij,
dopo un mese e mezzo di coma, guarisce in seguito, si dice, a un’apparizione della Beata Vergine
che gli impone di guarire e di predicare l’amore tra gli uomini. Da allora il giovane contadino,
dotato di una forza impressionante, inizia la vita di molti santoni siberiani, che, tra un
pellegrinaggio e l’altro, si occupano della campagna e delle cose del mondo. Grigorij si sposa con
una contadina di un villaggio vicino, che gli dà un figlio e due figlie, che tramanderanno i racconti
agiografici sul padre. Percorrendo a piedi la Russia orientale fino al monastero del Monte Athos in
Grecia, Rasputin si guadagna la fama di santo e di guaritore, certificata nel 1904 dal vescovo del
suo distretto. Nello stesso anno è invitato a Pietroburgo per studiare nel prestigioso seminario della
cattedrale del santo granduca Aleksandr Nevskij. Suoi tutori sono il vescovo Ermogene, precettore
dei figli dello zar, e il monaco Iliodoro, esponente di un certo integralismo religioso. Lo
introducono a corte sperando che egli, contrario alla guerra, contrasti il partito degli interventisti che
aveva portato l’impero al disastro del conflitto russo-giapponese (1904-5) e alle repressioni del
movimento operaio del 1905.
Il suo successo è clamoroso. A lui e alle sue doti viene attribuito il merito della guarigione dello
zarevic Alekseij, quinto e unico figlio maschio della coppia imperiale, emofiliaco. La zarina
Alexandra ne diventa la più accesa sostenitrice. La personalità magnetica di Rasputin e la sua
prorompente vitalità fanno di lui l’arbitro delle intricate decisioni di corte. Le sue critiche nei
confronti dell’intervento russo nella prima guerra mondiale e il potere di nomina e di dimissioni,
che gli vengono dall’intimità con la famiglia imperiale, gli alienano le simpatie di molti membri del
governo, della Duma (il parlamento) e della stessa aristocrazia, le cui nobildonne passano con una
certa frequenza nel letto del vigoroso monaco amatore. Da qui nasce il complotto per ucciderlo. La
classe dirigente russa, incapace di riconoscere in se stessa la causa della propria decadenza e dei
disastri del suo esercito, massacrato nella Russia occidentale e nell’Ucraina dalle truppe di
Guglielmo II di Germania, cerca in lui un capro espiatorio. Il granduca Dimitri, membro della
famiglia imperiale, il principe Yusupov, esponente dell’aristocrazia più snob, Vladimir
Mitrofanovic Purishkevic e il capitano Sukhotin, un militare del quale si perde traccia dopo
l’omicidio, rappresentano la nobiltà, la classe politica, la borghesia e l’esercito.
L’omicidio di Rasputin è l’ultimo sussulto di un mondo avviato verso la catastrofe. La
Rivoluzione sovietica che esploderà l’anno successivo, 1917, non lascerà la minima traccia di quel
mondo. Eppure Grigorij Efimovic Rasputin l’aveva previsto: aveva consigliato lo zar di non
muovere guerra alla Germania, pena la distruzione della dinastia e dell’impero.
Se lo sarà ricordato, Nicola II, di fronte al plotone di esecuzione bolscevico di Ekaterinburg,
all’alba del 17 luglio 1918?
Il veleno non funzionò
Perché il cianuro di potassio non ebbe effetti mortali? Tra le ipotesi più accreditate sul mancato
effetto letale del veleno è stata avanzata quella secondo cui l’abbuffata di pasticcini potrebbe aver
creato nello stomaco di Rasputin una sorta di barriera che avrebbe impedito al veleno di entrare
nella circolazione sanguigna. Pare, infatti, che la presenza nello stomaco di grandi quantità di
carboidrati (zucchero, amido, cellulosa), possa bloccare l’assunzione nell’organismo del micidiale
sale di potassio, principio attivo del cianuro.
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Brano n. 14
Marilyn Monroe
Il suicidio di Marilyn Monroe
(tratto da: Luca Fioretti, Marilyn giallo a Los Angeles,
in “Storia Illustrata”, n. 2, febbraio 1996, pp. 6-13)
È una notte tranquilla e afosa, quella del 5 agosto 1962, per il sergente Jack Clemmons, capo
della stazione di polizia di Los Angeles Ovest, almeno fino a quando, alle 4 e 20 di mattina, non
riceve una telefonata. Dall’altro capo del filo una voce di donna, apparentemente calma, gli
comunica: «Marilyn Monroe è morta, si è suicidata».
Dieci minuti più tardi è al 12305 di Fifth Helena Drive. Nella sua camera, il corpo di Marylin
giace sul letto. Nuda, la faccia in giù, solo un lenzuolo le copre le gambe. Sul comodino, una
boccetta vuota di Nembutal e 10 capsule da 500 milligrammi di idrato di cloralio. La stanza è
stranamente affollata. Il sergente Clemmons chiede i documenti: c’è Ralph Greeson, l’analista
dell’attrice; c’è Hyman Engelberg, il medico personale e fino a qualche istante prima c’era anche
Milton Rudin, produttore della Twentieth Century Fox. Due stanze più in là, il poliziotto trova
Eunice Murray, la governante, intenta in un’occupazione molto strana, per le 4 e mezzo di mattina:
sta facendo il bucato. Un particolare che al momento appare senza importanza, ma che risulterà
determinante per scoprire le cause della morte dell’attrice.
«A che ora avete trovato il corpo?», chiede alla governante. «A mezzanotte». «E perché avete
aspettato quasi cinque ore per chiamare la polizia?». Eunice Murray non sa cosa rispondere. Lo fa il
dottor Greeson: «Prima di poter informare qualcuno, dovevamo chiedere il permesso all’ufficio
pubblicità della Fox». Intanto la notizia si diffonde e all’esterno si accalcano i primi giornalisti.
Eunice Murray insiste con la tesi del suicidio. Ma l’agente Robert E. Byron scriverà sul rapporto
ufficiale: «Non ci sono biglietti d’addio. E la versione della Murray è vaga e poco convincente».
Cosa racconta, infatti, la governante? Si era svegliata dopo mezzanotte, aveva visto la luce accesa
nella camera da letto di Marylin e, avendo trovato la porta chiusa a chiave, era uscita nel giardino.
Da lì aveva visto il corpo senza vita dell’attrice; si era spaventata e aveva chiamato il dottor
Greeson. Questi era entrato in camera dal giardino, rompendo la vetrata con un attizzatoio, e aveva
aperto la porta dall’interno, per permetterle di entrare. Per il poliziotto, questa teoria fa acqua:
innanzitutto, con la porta chiusa, la governante non poteva vedere la luce della camera; poi, dal
giardino non si poteva osservare l’interno perché Marilyn dormiva con le pesanti tende alle finestre
completamente tirate che non lasciavano passare il più piccolo spiraglio di luce. La verità? La porta
non era chiusa a chiave. Ma, in quegli istanti concitati, nessuno si chiede perché la governante stia
mentendo. Alle 5.30 il corpo di Marilyn viene trasportato alla camera mortuaria del Westwood
Village e alle 10.30 il coroner Thomas Noguchi ordina l’autopsia. Due gironi dopo, il referto
numero 81128 contenente la perizia tossicologica arriva sul tavolo del sostituto procuratore John
Miner. L’ipotesi è “overdose da barbiturici”. Più sotto, si parla di “probabile suicidio”.
Ma il magistrato ha dei dubbi, vuole rispondere a una domanda-chiave: «Che motivo aveva
Marilyn di suicidarsi?». Della diva, Miner sa quello che scrivevano i giornali. Sa dell’infanzia in
orfanotrofio, di un’adolescenza insicura e senza amici, soprannominata nel quartiere “Signorina
Mmm”, a causa di una tendenza alla balbuzie che si sarebbe portata dietro tutta la vita. Ha letto
della modella in cerca di successo che guadagna 75 dollari alla settimana come comparsa e che
confessa agli amici che «per mangiare, devo andare sul Boulevard. Faccio quello che faccio, poi il
cliente mi paga il pranzo o la cena». Scopre della donna che, arrivata al successo, è sempre più
sperduta, ma è anche capace di non lavorare per due anni, fino a quando non le offrono un copione
decente. La donnina svampita fa pressioni per permettere a Ella Fitzgerald di cantare al Mocambo,
un locale in cui, negli anni cinquanta, i neri non potevano esibirsi.
Una personalità complessa, a più facce, una carriera limitata dalle difficoltà di mantenere
amicizie durature, dalla paura di essere messa da parte, dall’ossessione di voler accontentare tutti.
Una donna che si affida all’analisi e ai farmaci per liberarsi da sensi di colpa che si porta dietro
dall’infanzia, acuiti dall’incapacità di dare un erede al suo terzo marito, Arthur Miller. Due aborti
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spontanei, uno dietro l’altro, minano tra il 1958 e il 1960 il suo stato mentale. Una Monroe che
parla di se stessa in terza persona. Allo scrittore Truman Capote, che le chiede cosa sta facendo,
immobile davanti a uno specchio, risponde: «La sto guardando». Marilyn guarda Marilyn, la donna
guarda la diva e non si riconosce più.
Il sostituto procuratore indaga anche sul rapporto tra l’attrice e Ralph Greeson, il suo analista, un
personaggio strano, che la rende sempre più dipendente dalle droghe e dall’analisi. Immagina il
dramma di una diva che viene licenziata pochi giorni prima della fine delle riprese di “Something’s
got to give”. Finalmente Miner arriva agli ultimi giorni di vita, ai primi di agosto e ritrova una
Marilyn che confida agli amici: «Ho 36 anni, l’età non mi preoccupa. Il futuro è qui per me, e devo
sfruttarlo». Poi, analizza le ultime due telefonate. Alle 22.30 la Monroe chiama Joe Di Maggio
Junior, il figlio del secondo marito. È allegra, ha voglia di parlare; lo tiene al telefono dieci minuti,
raccontandogli i progetti per i successivi film, che vuole produrre lei stessa. Dopo mezz’ora è Peter
Lawford, cognato del presidente John F. Kennedye amico dell’attrice, che la chiama per invitarla
a una festa, ma Marilyn farfuglia parole senza senso e riesce solo a dire: «Dì ciao a Pat, dì ciao al
presidente, dì ciao anche a te». Lawford è l’ultima persona a sentire la voce di Marilyn. Di lì a
mezz’ora, l’attrice muore. Aveva da poco compiuto i 36 anni.
John Miner si convince che non è stato suicidio e l’autopsia confermerà questa impressione. Nel
sangue della Monroe vengono trovati 8 milligrammi di idrato di cloralio e di Nembutal; in più nel
fegato ne risultano altri 13. Questo vuol dire che i farmaci sono stati metabolizzati: Marilyn è
vissuta molte ore dopo averli ingeriti, quindi l’ipotesi del suicidio non regge e non c’è traccia
neppure di iniezioni. L’unico modo per scoprire come sono stati somministrati è attraverso
l’autopsia ma il magistrato – e il perché resta un mistero – ha rivelato i risultati dell’esame
necroscopico solo nel 1992: «[….] il colon presentava una congestione e una colorazione violacea,
una condizione che si verifica per enteroclisma». In altre parole, l’idrato di cloralio fu assunto
dall’attrice per via rettale. Ma chi praticò a Marilyn Monroe quella dose letale?
L’ipotesi più seria è quella dell’incidente. I fatti, più o meno, potrebbero essersi svolti così: il
dottor Engelberg, all’insaputa di Greeson, somministra alla mattina del Nembutal. L’analista, nel
pomeriggio, trova Marilyn irritabile e scontrosa e così dà disposizioni alla governante perché le
faccia, prima di coricarsi, un enteroclisma sedativo a base di idrato di cloralio. Fu questa miscela a
uccidere Marilyn. Terapeuta e governante cercarono di coprire le loro responsabilità, inventando la
storia della porta chiusa a chiave. Questo spiega, ha sostenuto Miner nelle sue recenti dichiarazioni,
«perché Eunice stava facendo il bucato alle 4 di mattina: doveva cancellare dalla biancheria della
Monroe tutte le tracce del suo tragico errore. Una volta entrato in coma irreversibile, il corpo di
Marilyn aveva sicuramente espulso l’enteroclisma e con il bucato Eunice stava distruggendo delle
prove».
Da quella sera di agosto sono passati ormai 34 anni, ma l’interesse, spesso morboso, sulla vita e
sulla morte della diva non diminuisce. Lo dimostrano le decine di biografie scritte sull’attrice e le
teorie più disparate formulate sulla sua fine contraddistinte però da un elemento comune: il
coinvolgimento della famiglia più amata e al tempo stesso più odiata d’America, i Kennedy.
Mandanti-esecutori dell’omicidio o vittime di un complotto? Nella ridda di ipotesi, l’unico dato
certo è che Marilyn è stata l’amante di John F. Kennedy per una notte. Si è parlato anche id una
love story con Robert Kennedy fratello del presidente e ministro della Giustizia. Scaricata da John,
la diva si sarebbe infatti gettata nelle braccia del più romantico Bob e alcuni biografi sostengono
che Marilyn, nell’aprile 1962, aspettasse da lui un figlio. Da quella gravidanza, desiderata
dall’attrice ma temuta dal clan Kennedy per l’inevitabile scandalo, sarebbe nato il dramma. A
questo punto, alcuni sostengono che la diva, abbandonata dall’amante, si sia uccisa, altri che fu lo
stesso Robert Kennedy a soffocarla con un cuscino. L’autopsia venne poi falsificata per sviare i
sospetti dal ministro della Giustizia.
Ma c’è un’altra versione, quella del delitto voluto dalla mafia per colpire i Kennedy. Nel libro
“Double cross” (Doppio gioco), Sam e Chuck Giancana, fratello e nipote del boss omonimo di
Cosa Nostra, rivelano che fu la “piovra” a uccidere Marilyn per punire Bob Kennedy, colpevole di
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avere promosso un’azione senza precedenti contro il crimine organizzato. «Lanotte fra il 4 e il 5
agosto 1962 Bob Kennedy se n’era appena andato dalla stanza da letto di Marilyn, – scrivono –
quando i killer entrarono in casa, la legarono e l’imbavagliarono, poi le somministrarono una
supposta di Nembutal, un potente sonnifero che la uccise. Un lavoro pulito, fatto ci guanti e senza
iniezioni. Nessuna traccia sul corpo.» In questo modo Giancana sperava che la polizia trovasse le
tracce della visita di Bob Kennedy e lo coinvolgesse nello scandalo. Ma l’FBI di J. Edgar Hoover
fece sparire ogni prova compromettente. La carriera di Bob Kennedy fu salva. Fino a sei anni dopo,
quando si trovò un modo, ben più tragico, di bloccarla.11
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Brano n. 15
Il caffè di Gaspare Pisciotta / 1
(tratto da: Sandro Provvisionato, Misteri d’Italia,
Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 22-26)
«Di certo si sa solo che Giuliano è morto»
A tenere ormai in vita «Turiddu»12 sono soltanto i mille segreti di cui il bandito è depositario.
Segreti che Salvatore Giuliano non sa però come gestire. Per contrastare un possibile successo del
colonnello dei carabinieri Luca, l’ex capo dell’Ispettorato Ciro Verdiani, pur esautorato, è disposto
a tutto. Intanto nel lasciare la Sicilia porta con sé l’intero archivio, migliaia di documenti, sul «caso
Giuliano» con i nomi di tutti i confidenti, costringendo Luca a ripartire da zero. Verdiani e Luca
hanno infatti lo stesso obiettivo: entrare in possesso di un ipotetico, ma probabile, memoriale che il
bandito avrebbe potuto scrivere. In quel memoriale potrebbero esserci i nomi dei politici con cui
Giuliano è venuto in contatto, per i quali ha lavorato, per i quali è arrivato perfino a compiere una
strage come quella di Portella.13 Non è escluso che fra quei nomi vi siano personaggi importanti
della politica italiana, democristiani di spicco, magari proprio uomini di governo. Segreti scomodi e
pericolosi per un paese il cui organo esecutivo, grazie a De Gasperi, si è da poco liberato
dell’ingombrate presenza dei comunisti e dei socialisti. Non c’è che dire: Giuliano vivo è un
elemento destabilizzante per il sistema politico dominante. Morto lo sarebbe ugualmente se non
fossero fatte sparire in fretta le sue carte. Ammesso che ce ne siano. Ma non è quello il momento
per correre dei rischi.
Il cerchio ormai si stringe intorno al bandito e ai pochi resti della sua banda. Giuliano si è
rifugiato a Castelvetrano, un comune del trapanese, in casa dell’avvocato Gregorio De Maria, sotto
la completa tutela di Ignazio miceli, capo della mafia di Monreale. È grazie a quest’ultimo che
«Turiddu» ha iniziato un lungo carteggio con Verdiani il quale gli promette l’espatrio in cambio di
un memoriale nel quale il bandito si addossi tutti i delitti commessi scagionando i politici. Verdiani
e Giuliano si scambiano missive piene di affetto e arrivano perfino a incontrarsi la notte di Natale
del 1949: brindano e mangiano panettone con i mafiosi della zona. Ma il colonnello Luca è riuscito
astutamente, e sempre grazie alla complicità di elementi della mafia, ad agganciare il braccio destro
di Giuliano, «Aspanu», cioè Gaspare Pisciotta. Gli ha fatto capire che il suo tradimento lo
renderebbe un eroe agli occhi del paese e gli ha anche consegnato una lettera di encomio, una sorta
11
Il senatore Robert F. Kennedy, durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, venne assassinato il
6 giugno 1968 in un hotel di Los Angeles.
12
Nomignolo dialettale di Salvatore Giuliano, il famoso bandito che insanguinò la Sicilia nel dopoguerra, ingaggiando
una guerra con lo Stato in nome del separatismo.
13
A Portella della Ginestra, località presso Palermo, il 1° maggio 1947 avvenne una strage di manifestanti che si erano
riuniti in quel luogo per la festa dei lavoratori: i banditi di Salvatore Giuliano fecero fuoco sulla folla inerme, uccidendo
undici persone e ferendone molte altre. Di quella strage Giuliano fu soltanto l’esecutore, i mandanti rimasero e
rimangono ancora oscuri.
29
di lasciapassare, firmata dal ministro dell’Interno Scelba, ovviamente apocrifa. La trappola sta per
scattare. Mentre Verdiani avvisa Giuliano che Pisciotta lo ha tradito, misteriosamente il bandito
riceve in casa De Maria lo stesso «Aspanu» che il 5 luglio 1950 lo uccide con un colpo di pistola.
Ma gli intrighi, questa volta dei carabinieri, non sono ancora finiti. Per magnificare il risultato
raggiunto e coprire del tutto il determinante aiuto ricevuto dagli uomini di Cosa nostra, il colonnello
Luca incarica il capitano Antonio Perenze di inscenare la morte di Giuliano come se fosse avvenuta
durante uno scontro a fuoco con militari dell’Arma. Una messinscena che, come accadrà anche in
futuro, allestita in maniera rozza e approssimativa, verrà subito smascherata grazie allo scoop di un
giornalista del settimanale «L’Europeo», Tommaso Besozzi, probabilmente messo sulla buona pista
dallo stesso Verdiani.
Luca e Perenze, promossi al grado superiore, appoggiati dallo stesso ministro Scelba, saranno
costretti ad ammettere il tradimento di Pisciotta, ma anche di fronte all’evidenza, confermeranno la
versione ufficiale dello scontro mortale bandito-carabinieri. Al processo per la strage di Portella
della Ginestra verrà fuori anche che Salvatore Giuliano si era addirittura incontrato con un alto
magistrato di Palermo, il procuratore generale presso la Corte d’appello Emanuele Pili. E così,
davanti al tribunale di Viterbo Gaspare Pisciotta avrà buon gioco nel gridare: «Siamo tutti una cosa,
mafia, banditi e polizia: come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Come aveva previsto il superboss Calogero Vizzini, senza la piena collaborazione di Cosa nostra
nulla avrebbe potuto lo Stato contro il banditismo. Tra i mafiosi che consegnarono «Turiddu» ai
carabinieri c’era anche Paolino Bontate, padre di Stefano. Quest’ultimo sarebbe diventato un
importante capo della moderna mafia siciliana dedita al traffico della droga. La sua uccisione
segnerà la definitiva esplosione della guerra di mafia degli anni Ottanta che porterà ai vertici
dell’organizzazione criminale Salvatore Riina, re dei Corleonesi. Per mesi sia Verdiani che Luca
continueranno invano a cercare il memoriale Giuliano. Ma la mina vagante ormai è un’altra.
«Chiudetegli la bocca»: Pisciotta avvelenato
Anche Gaspare Pisciotta, in un primo momento protetto dagli uomini del CFRB che gli
permettono persino di andare in giro vestito da carabiniere, verrà in seguito abbandonato a se stesso.
Dopo essere stato ospite nell’appartamento palermitano del capitano Perenze, «Aspanu» troverà
rifugio nello scantinato della sua casa di Montelepre, ma, nella solita logica della rivalità tra i corpi
dello Stato, sarà arrestato dalla polizia.
Al processo per la strage di Portella, Pisciotta comincia a parlare: dei rapporti tra Giuliano, il
questore Marzano e i capi dell’Ispettorato Messana e Verdiani, ma soprattutto della strage, i cui
mandanti sarebbero l’ex vicesegretario della Dc e futuro ministro Bernardo Mattarella e i deputati
monarchici Gianfranco Alliata di Monreale,14 che ritroveremo molti anni dopo nelle liste della
loggia segreta P2, e Leone Tommaso Marchesano. Poi si contraddice, minaccia, fa sapere che lui sa
molto di più. Cerca di imbastire qualche rozzo ricatto. E diventa pericoloso.
Condannato all’ergastolo il 3 maggio del 1952 nel processo di primo grado, dal carcere
dell’Ucciardone15 Pisciotta non smette di lanciare avvertimenti. La mattina del 9 febbraio 1954,
bevendo un caffè, Gaspare Pisciotta muore fra atroci spasimi. Pochi giorni prima aveva avuto un
colloquio con il sostituto procuratore di Palermo Pietro Scaglione, che sarà ucciso dalla mafia sette
anni dopo, a cui aveva annunciato sconvolgenti rivelazioni sulle complicità politiche, anche di
livello governativo, nella strage di Portella. L’incontro, guarda caso, non era stato verbalizzato per
l’assenza del cancelliere e Scaglione l’indomani avrebbe dovuto ascoltare nuovamente Pisciotta.
Chi ha avvelenato «Aspanu»? Il padre con cui divideva la cella e che gli aveva preparato il caffè,
una guardia carceraria oppure il mafioso Filippo Riolo, fattosi arrestare per una sciocchezza poco
dopo l’ingresso di Pisciotta nel carcere palermitano? E dov’era nascosta la stricnina che gli ha
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15
In realtà, di Montereale.
Il penitenziario di Palermo.
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spaccato il cuore? Non lo sapremo mai. E soprattutto resterà un altro mistero da chi partì l’ordine di
eliminare il braccio destro di Salvatore Giuliano, il traditore «Aspanu», detto «Chiaravalle», morto
bevendo un caffè. Proprio come accadrà, 32 anni dopo, al finanziere Michele Sindona, altro
depositario di terribili segreti politici.
Con la morte di Pisciotta cala il sipario sul «caso Giuliano». Ma la scena rimarrà negli anni
sempre quella: oscure manovre, stragi, versioni ufficiali spesso smentite da inchieste giornalistiche,
viscidi rapporti tra organizzazioni criminali e corpi dello Stato, testimoni assassinati e ancora le
solite trame depistanti. Senza contare che grazie al prezioso ruolo giocato nella vicenda, la mafia si
assicurerà almeno un ventennio di impunità. Con l’«affare Giuliano» in fondo siamo solo
all’infanzia dei misteri d’Italia.
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Brano n. 16
Il caffè di Gaspare Pisciotta / 2
(tratto da: Carlo Lucarelli, Nuovi misteri d’Italia,
Edizione Mondolibri su lic. Einaudi, Milano 2006, pp. 22-24)
Il processo per la strage di Portella della Ginestra si tiene a Viterbo nel 1952.
Durante il processo, Pisciotta parla. Dice frasi inquietanti come «siamo un corpo solo, banditi,
mafia e polizia!», poi indica come mandanti della strage di Portella i deputati monarchici
Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso,16 oltre a parlare di
coperture dell’onorevole democristiano Bernardo Mattarella. Ma sono affermazioni contraddittorie,
e il processo a questi deputati verrà archiviato in istruttoria dal tribunale di Palermo.
Il processo di Viterbo alla banda Giuliano si conclude il 3 maggio con dodici ergastoli, quasi tutti
confermati dalla sentenza d’appello.
Dice alcune cose, la sentenza. Dice: «Si può sicuramente affermare che tra la mafia e Giuliano vi
fu un legame costante determinato da una convergenza di interessi di cui il capo bandito fu
portatore». E per quanto riguarda la strage di Portella della Ginestra, dice: «È chiaro che la spinta
fondamentale al delitto va sempre cercata nell’interesse a fermare la penetrazione comunista nelle
campagne per conservare le vecchie strutture agrarie, interesse che era proprio anche di altri».
Nonostante questo, per la sentenza il movente non fu politico. Dal momento che non si può
affermare che tutte le persone presenti a Portella per la festa del Primo maggio fossero lì per motivi
politici, quella riunione può essere considerata una festa campestre. E quindi sparare ai contadini,
secondo la sentenza, non fu un atto politico.
Per cui, nessun mandante da cercare. Caso chiuso.
Anche Pisciotta viene condannato all’ergastolo. Si sente tradito, non erano questi i patti.
Annuncia che dirà tutto quello che sa al processo d’appello, e intanto si mette a scrivere. Quattordici
quaderni pieni di appunti.
Ai primi di febbraio riceve il sostituto procuratore Pietro Scaglione, che ascolta a lungo il
bandito. Ma è un colloquio informale, Scaglione non s'è portato dietro il cancelliere e promette di
tornare dopo pochi giorni, per verbalizzare.
Non farà in tempo.
9 febbraio 1954, cella numero 4 del carcere dell’Ucciardone di Palermo. Ore 6,30 del mattino.
Gaspare Pisciotta si sveglia, chiacchiera col padre, con cui divide la cella, e con la guardia che è
venuta a svegliarlo. Poi prende una dose di Vidalin, un medicinale molto amaro che gli è stato
prescritto il giorno prima per combattere la tubercolosi. E il caffè, secondo un rito consolidato.
16
In realtà Cusumano Geloso.
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Due tazze sotto i beccucci della caffettiera, quella di sinistra per sé e quella di destra per il padre,
versandone un po’ in una tazza di latta, perché il padre ne vuole meno. Chiede alla guardia se ne
vuole un po’, ma la guardia rifiuta.
All’improvviso, Pisciotta si sente male.
Prima ancora che arrivi l’infermiere, nella cella di Gaspare Pisciotta ci sono alcuni amici. Sono
alcuni componenti della banda Giuliano, e anche quel Giuseppe Marotta che era a casa De Maria
quando il bandito venne ucciso. Prendono la bottiglia del Vidalin e la conservano in cella, per
restituirla più tardi.
Nel frattempo, in infermeria Gaspare Pisciotta muore.
Avvelenato dal caffè, con la stricnina, dirà la versione ufficiale.
Ma è vero?
Non è così facile bere un caffè con quella dose di stricnina, perché diventa amarissimo. Forse è
più facile bere una medicina già amara di per sé.
Il professor Casarrubea.17 Dice: «Perché le indagini si sono orientate sul caffè e non sul medicinale? Perché le
indagini condotte sulla stricnina nel caffè conducevano a colpevolizzare il padre, che era detenuto in cella con lui. Le
indagini sul medicinale, invece, avrebbero condotto a circuiti molto più ampi. Pisciotta aveva delle relazioni con quasi
tutti i personaggi dell’Ucciardone presenti in quel momento lì».
E così se ne va anche Pisciotta.
Però ci sono ancora i quattordici quaderni di appunti. Il memoriale di Pisciotta, che avrebbe reso
noto in appello.
No, sono spariti anche quelli.
Non si trovano più.
Qui finisce la storia del bandito Giuliano, che verrà raccontata dai cantastorie di tutta la Sicilia e
anche da un bellissimo e ben documentato film di Francesco Rosi del 1961.
Una strana storia. Fatta di stragi, depistaggi e connivenze. Di bugie. E anche di uno strano uso del
terrore che già nei primi anni della Repubblica assomiglia a qualcosa che vedremo più avanti.
Si chiamerà «strategia della tensione», e avrà molti brutti esempi.
Ma quella è un’altra storia.
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Brano n. 17
Un caffè al cianuro per Michele Sindona
(tratto da: Gianni Simoni – Luciano Turone, Il caffè di Sindona,
Edizione Mondolibri su lic. Garzanti, Milano 2010, pp. 78-87)
La colazione del 20 marzo 1986
Il comportamento tenuto da Michele Sindona18 il mattino del 20 marzo è senza dubbio anomalo.
Infatti, secondo gli agenti di custodia, Sindona aveva l’abitudine di consumare prima il tè con il
latte e poi il caffè, restando sempre seduto al tavolino della sua cella.
Giuseppe Casarrubea, presidente dell’Associazione vittime Portella della Ginestra.
Michele Sindona, banchiere italo-americano famoso negli anni Settanta (salutato da Giulio Andreotti come “il
salvatore della lira”), condannato ripetutamente negli Stati Uniti per frode e appropriazione indebita e in Italia
all’ergastolo quale mandante dell’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca
Privata Italiana (la banca di Sindona), morì improvvisamente nel supercarcere di Voghera dopo aver bevuto una tazzina
di caffè contenente cianuro di sodio, il 20 marzo 1986, due giorni dopo aver ricevuto la condanna all’ergastolo. La sua
morte presenta ancora parecchi lati oscuri, anche se gli inquirenti hanno abbracciato la tesi del suicidio.
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Il mattino del 20 marzo, invece, Michele Sindona, dopo aver preparato personalmente la propria
colazione, si recò subito in bagno, portando con sé il bicchiere di plastica in cui aveva versato il
caffè e ingerendolo fuori dalla vista dei tre agenti che stazionavano nel locale antistante la cella.
Nel bagno, per ragioni che si possono intuire, non era stata installata alcuna telecamera, anche se
gli agenti potevano vedere all’interno attraverso uno spioncino. È dunque importante stabilire
quanto tempo Sindona si sia trattenuto nel bagno fuori dalla sorveglianza dei tre agenti.
In quel momento, l’agente Ribbisi stava annotando le proprie osservazioni sull’apposito registro,
osservato dai colleghi Camboni e Boi che vi assistevano per la prima volta.
La testimonianza dell’agente Boi – ripetuta in tre diverse circostanze – è assai significativa.
Al direttore del carcere Boi ha dichiarato: «Ho visto il detenuto che prendeva il bicchiere del
caffè e si recava in bagno, ne riusciva subito dopo e iniziava a lamentarsi».
Alla Commissione amministrativa d’inchiesta riferì: «Vi è rimasto per pochissimo tempo, forse
dieci o quindici secondi».
E infine al magistrato inquirente, il 26 marzo 1986: «Io stavo accanto al tavolo nell’atrio
antistante la cella e vidi Sindona recarsi in bagno col bicchiere del caffè in mano. Non vidi Sindona
bere, neppure parzialmente, il caffè nella cella. Presumo che lo abbia fatto nel bagno quando uscì
dalla mia vista perché, come ho già detto, trovai il bicchiere praticamente vuoto appoggiato sul lato
del lavandino. Dal momento in cui vidi Sindona andare col bicchiere in bagno al momento in cui lo
vidi uscire (periodo nel quale presi la decisione di andare a guardare dallo spioncino e la eseguii
parzialmente seguendo il percorso da me segnato nello schizzo fatto nel corso della deposizione)
passarono a mio avviso dieci o venti secondi. Per tale periodo Sindona rimase fuori dalla mia vista.
Dopo che Sindona entrò nel bagno, e prima che lo andassi a vedere, mi posi la domanda del perché
non usciva e, postami questa domanda, mi alzai per andare a vedere».
Nel susseguirsi delle dichiarazioni è evidente una lieve ma sintomatica dilatazione dei tempi: è
ovvio che l’agente dovesse sostenere di avere adempiuto al proprio compito con la massima
diligenza. Tale interesse è pressante nel momento in cui l’agente risponde al proprio diretto
superiore, si attenua davanti alla Commissione e viene nella sostanza abbandonato di fronte
all’autorità giudiziaria, quando il testimone privilegia il rispetto della verità dei fatti.
Particolarmente significativo, al di là delle quantificazioni temporali che hanno pur sempre un
carattere di soggettività, è l’ultimo passo della deposizione resa al magistrato: Boi, pur avendo visto
chiaramente Sindona recarsi nel bagno con il bicchiere del caffè che non aveva ancora bevuto,
decide di intervenire solo dopo essersi chiesto perché non usciva dal bagno.
Cosa possiamo dedurre da questa testimonianza?
Prima l’agente vide Sindona entrare in bagno con il bicchiere del caffè; dopo aver annotato
mentalmente questo comportamento, si accorse che Sindona si tratteneva nel bagno per un tempo
superiore a quello che era lecito attendersi; solo a quel punto l’agente decise di intervenire,
allontanandosi dal tavolo per recarsi a guardare dallo spioncino, compiendo un percorso di ottodieci metri che lo portò a incrociare il detenuto che usciva dal bagno.
È facile ipotizzare che Sindona si sia trattenuto in bagno per più di venti secondi: un intervallo di
tempo sufficiente a ingerire il contenuto del bicchiere di caffè, e probabilmente sufficiente a
effettuare anche altre operazioni.
L’inquirente effettuò una sorta di indagine «a campione» per valutare i tempi di una normale
permanenza in bagno di Michele Sindona, prima che uno degli agenti di sorveglianza intervenisse
per un controllo:
«Noi andavamo a vedere dallo spioncino quando tardava un po’. Voglio dire quando ci stava ad esempio più di un
minuto o due. Allora poiché eravamo sempre in tre uno si alzava e andava a vedere» (agente Santilli);
«Ci si andava se tardava più di quel tanto» (agente Cabras);
«Direi dopo un minuto» (agente Fancellu);
«Noi andavamo a vedere dallo spioncino quando lui stava in bagno più di quello che ci si poteva aspettare. Allora
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uno diceva all’altro: vai un po’ a dare un’occhiata» (agente Congiu).
Queste dichiarazioni vennero rese da agenti estranei alla vicenda del 20 marzo; del resto, il fatto
che gli agenti attendessero un minuto e forse più prima di controllare dipende dalla comprensibile
discrezione in un momento così legato all’intimità della persona.
Del resto, è ovvio che il controllo visivo veniva effettuato solo quando l’assenza del detenuto era
ritenuta anomala.
L’indagine non è riuscita a stabilire se, nell’occasione, Sindona abbia fatto uso dello sciacquone
del gabinetto. Né Ribbisi, né Camboni hanno avuto precisi ricordi, mentre Boi parrebbe escluderlo:
le sue dichiarazioni sembrano tuttavia il risultato di un ragionamento a posteriori. «Confermo»,
dichiarò infatti il 5 aprile 1986, «di non aver sentito il rumore dello sciacquone del gabinetto. Lo
dico anche perché penso che in caso contrario questo particolare me lo sarei ricordato.»
L’agente Boi era giunto la sera precedente dalla scuola di Monastir e quello era il suo primo
servizio: non poteva dunque sapere quale fosse il rumore di uno sciacquone udibile dall’esterno,
con la porta del bagno chiusa.
L’inquirente effettuò in proposito un sopralluogo-esperimento: il rumore dello sciacquone era
sordo e molto attutito; lo si poteva percepire dal locale antistante la cella solo se vi si prestava una
particolare attenzione.
Ma perché Sindona, contrariamente alle sue abitudini, andò a bersi il caffè nel bagno? Se avesse
dovuto semplicemente soddisfare un bisogno corporale, non avrebbe portato con sé il caffè che, è
bene ribadirlo, beveva sempre al termine della colazione.
È quindi lecito supporre che il mattino del 20 marzo Michele Sindona tenne il comportamento
anomalo descritto dagli agenti di custodia per effettuare anche un’altra operazione, oltre a bere il
caffè, fuori dalla vista degli agenti addetti alla sua sorveglianza.
È inoltre certo che Sindona ingerì il caffè subito prima di rientrare in cella, come emerge dalle
dichiarazioni degli agenti: dalla bocca del detenuto, appena sdraiatosi sul letto, affiorava una specie
di «schiumetta nerastra» che a loro sembrò caffè, forse un residuo dell’ultimo sorso, non del tutto
ingerito o parzialmente rigurgitato.
Le risultanze chimico-tossicologiche
Per valutare la posizione del personale della casa circondariale di Voghera è indispensabile
considerare anche le risultanze delle indagini chimico-tossicologiche condotte dal collegio peritale
dell’Università di Pavia, presieduto dal professor Fornari.
Il primo elemento da valutare è il rapporto tra l’avvelenamento da cianuro, che provocò la morte
di Sindona, e il caffè, che aveva bevuto qualche minuto dopo le otto del 20 marzo.
Dalle indagini tossicologiche è emerso che nel residuo di caffè trovato nel bicchiere di plastica
che Sindona aveva abbandonato sul bordo del lavabo era contenuto cianuro di sodio.
Negli altri reperti analizzati dai periti, compresi il latte e il tè, non è stata trovata alcuna traccia di
cianuro.
Una seconda circostanza sulla quale vale la pena di soffermarsi sono le analisi condotte sul
thermos.
Si è già accennato al fatto che il thermos (come gli altri contenitori) era stato subito risciacquato,
non appena gli agenti del turno smontante avevano riportato allo spaccio il cestello della colazione.
Nel corso di uno dei primi sopralluoghi effettuati presso la casa circondariale, si era tuttavia
ugualmente provveduto, ai fini di una più completa documentazione, al sequestro del thermos, che
si trovava, in posizione orizzontale, ancora nel cassetto del bancone dove era stato riposto la mattina
del 20 marzo.
Anche il thermos, per mero scrupolo, venne consegnato ai periti. Contrariamente a ogni
aspettativa, nel contenitore i periti trovarono un residuo di liquido «simil-caffeico», pari a 0,5 ml, a
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reazione debolmente basica ed emanante sentore di muffa. Insomma, il thermos era stato
risciacquato secondo la prassi normale, che prevedeva una pulizia sommaria, destinata a essere
completata con maggior accuratezza (acqua calda e getto di vapore) il mattino successivo. Le
indagini chimico-tossicologiche hanno peraltro confermato che il residuo di caffè trovato nel
thermos era assolutamente genuino.
Se il cianuro non era nel caffè, avrebbe potuto arrivare con lo zucchero. Nel corso del
sopralluogo effettuato già il 20 marzo, le bustine di zucchero non furono trovate, anche se Sindona
aveva sicuramente zuccherato sia il caffè, sia il tè con il latte: in entrambe le bevande le analisi
riscontrarono infatti un’abbondante presenza di saccarosio.
Forse Sindona si era disfatto delle bustine gettandole nella tazza del gabinetto. Tuttavia, la loro
mancanza poteva giustificare il sospetto di un avvelenamento da parte di altri.
Anche questa ipotesi venne sottoposta a un attento vaglio critico.
Per sostenerla, si sarebbe dovuto ipotizzare che almeno uno degli agenti addetti alla preparazione
della colazione, in possesso di una bustina perfettamente uguale a quelle dello spaccio, ma
preconfezionata con l’aggiunta di cianuro, avesse messo la bustina avvelenata tra quelle prelevate
dalla dotazione comune. Tuttavia, per realizzare una sostituzione di questo genere sarebbe stata
necessaria la complicità tra almeno uno degli agenti in servizio al bar e almeno uno degli agenti che
entrarono nella cella. Tale possibilità, già di per sé abbastanza remota, venne comunque scartata per
una serie di considerazioni di tipo logico.
In primo luogo era molto improbabile l’ipotesi di un coinvolgimento di più persone in
un’operazione con un tale grado di rischio. Inoltre, la sottrazione delle bustine avrebbe subito
concentrato i sospetti sul personale del bar: proprio il mancato ritrovamento delle bustine vuote
sarebbe stato un indizio nei confronti di individui facilmente identificabili.
I mandanti di un piano criminoso così sofisticato non avrebbero certamente lasciato scoperto
l’anello debole della catena, soprattutto perché la cosa avrebbe potuto essere condotta in ben altro
modo.
Proviamo a seguire l’ipotesi: un agente dello spaccio mette nel cestello una bustina venefica al
posto di una di quelle del bar; un altro agente, suo complice, approfittando del trambusto e del fatto
che tutti gli occhi sono puntati su Sindona, che giace rantolante sul letto, sottrae tutte le bustine
vuote dalla cella. La condotta più logica non è certo la sottrazione pura e semplice (e di per sé
sospetta) delle bustine; sarebbe stato più sensato sostituire le bustine originarie con altre vuote del
tutto innocue (un’operazione che certo non sarebbe stata più complessa della sottrazione pura e
semplice e che avrebbe costituito il perfetto omologo della precedente sostituzione della bustina
piena).
Oltretutto la scelta degli agenti del turno di guardia era avvenuta, come di consueto, all’ultimo
momento, sottraendo il brigadiere Bucci e gli agenti Ghisu, Ribbisi, Camboni e Boi alla loro
destinazione nota e assegnandoli, senza che loro stessi potessero saperlo in precedenza, al V
reparto.
Appariva pertanto evidente, anche sotto questo profilo, l’impossibilità di un accordo tra gli
addetti allo spaccio e uno o più degli agenti addetti al turno, a meno che non si volesse ipotizzare
una «congiura» di cui facesse parte un numero indeterminato di soggetti (più realisticamente
l’intero organico del personale di custodia presente, ivi compresi gli agenti, come Boi e Camboni,
arrivati la sera precedente da Monastir). Tutti i «congiurati» dei vari turni di guardia avrebbero
dovuto essere al corrente dell’iniziativa programmata per quel mattino al bar, pronti a intervenire se
la scelta per il turno al V reparto fosse caduta su uno di loro.
Una possibilità che, per ovvie ragioni, non venne presa in considerazione.
Molto più probabilmente, era stato lo stesso Sindona a disfarsi delle bustine, in bagno.
La cella di Sindona non disponeva di un cestino per i rifiuti (mentre ve ne erano nel locale
antistante) ed era abitudine del detenuto consegnare alle guardie il materiale di cui voleva disfarsi.
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Dalle deposizioni raccolte tra numerosi agenti, è emerso che con le bustine usate il detenuto non
osservava abitudini precise e solo qualche volta le consegnava agli agenti perché le gettassero nei
cestini per i rifiuti.
Già il 20 marzo i carabinieri di Voghera, dopo avere fotografato i cestini, ne sequestrarono tutto il
contenuto, repertandolo e affidandolo ai periti che, dopo averlo analizzato, lo consegnarono al
magistrato inquirente il 25 marzo.
Nei cestini vennero trovati una copia dell’intervento difensivo di Sindona, letto in aula prima che
la Corte d’Assise si ritirasse, alcuni giorni prima, in camera di consiglio; alcuni appunti manoscritti
di varia natura; frammenti di giornali e la minuta di due lettere scritte il 19 marzo al figlio Marco e
al difensore di parte civile. Venne anche ricostruita una domanda che Sindona aveva presentato alla
direzione del carcere, con la quale si chiedeva, sempre il 19 marzo, che alcune urgenti lettere
venissero ritirate prima che smontasse il turno alle sedici e che venissero perentoriamente spedite lo
stesso giorno 19.
Nei cestini erano quindi contenuti i rifiuti cartacei di cui Sindona si era disfatto nei giorni
precedenti e, certamente, il 19 marzo.
Se pertanto l’abitudine di Sindona fosse stata quella di consegnare sempre agli agenti le bustine
di zucchero vuote, nei cestini si sarebbero dovute trovare quantomeno quelle usate nei giorni
precedenti e sicuramente quelle del 19 marzo. Non essendo invece state reperite tali bustine vi era la
prova oggettiva che in proposito Sindona seguiva consuetudini diverse, a volte restituendole agli
agenti di sorveglianza, altre volte disfacendosene in diversa maniera.
Ovviamente è possibile fare anche un’altra ipotesi: Sindona non gettò le bustine nel water
«innocentemente», ma proprio per contribuire a creare una situazione sospetta.
Il cianuro che finì nel caffè di Sindona non arrivò dunque con la colazione di quel mattino.
Ancora sui risultati della perizia chimico-tossicologica
La perizia concluse quindi che «sussistevano dati che facevano propendere per la tesi di un
evento suicidiario a fronte di quello di un veneficio». Insomma, Sindona si era suicidato.
Un altro decisivo elemento a sostegno della tesi del suicidio venne da un esperimento condotto
dai periti, che provarono a sciogliere del cianuro di sodio nel caffè. Gli effetti, diversamente da
quanto avviene con la stricnina, sono infatti sorprendenti. A questo proposito i periti precisarono:
Va tenuto presente che, come abbiamo sperimentato, il cianuro disciolto nel caffè caldo, in dosi afferenti a quelle
pertinenti al caso in oggetto, imprime allo stesso un odore particolare che avrebbe reso la bevanda stessa sgradevole e
sospetta. Consideriamo, e questo nostro pensiero vale anche per il sapore, che il caffè non viene sorbito in un sorso
unico […] ma viene sorseggiato con pause tra un’assunzione e l’altra. È allora ben difficilmente pensabile che una
persona vigile, resasi conto di un così alterato e sgradevole cimento delle proprie papille gustative e dei propri
recettori olfattivi, continui a sorseggiare una sostanza indubbiamente disgustosa. Per ciò che si riferisce al sapore, va
poi aggiunto anche il non trascurabile effetto causticante dei sali alcalini del cianuro. Il senso di costrizione dolorosa
delle fauci e di bruciore avrebbe indotto chiunque a desistere dall’ingerire una bevanda così spiacevole.
Va sottolineato che la dose di caffè destinata a Sindona e da questi bevuta non era quella usuale
di un «espresso» o di un caffè «lungo»: era quella necessaria per fare un vero caffè «all’americana»;
la temperatura interna del thermos era elevata e il caffè venne bevuto per primo: dunque, sia per la
quantità sia per il calore, poteva essere sorbito solo in un certo numero di sorsate.
L’inevitabile conclusione è che Michele Sindona abbia volontariamente bevuto il caffè
avvelenato; e che l’abbia fatto fino in fondo, nonostante l’odore e il sapore assai sgradevoli, che
avrebbero indotto chiunque a fermarsi dopo il sorso iniziale, se non prima.
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Brano n. 18
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Il caso Litvinenko
(tratto da: Wikipedia, testo leggibile all’indirizzo:
https://it.wikipedia.org/wiki/Aleksandr_Val%27terovi%C4%8D_Litvinenko)
Aleksandr Val'terovič Litvinenko, in cirillico Александр Вальтерович Литвиненко
(Voronež, 4 dicembre 1962[1] – Londra, 23 novembre 2006), è stato un agente dei servizi segreti
russi e successivamente un dissidente.
Biografia
Arruolatosi nell'armata rossa per seguire le orme del padre e divenuto sottotenente viene notato dai
reclutatori del KGB e successivamente assegnato al Terzo direttorato, che si occupava dell'Analisi e
soppressione delle attività delle organizzazioni criminali, dopo il 1991 ad una unità di controterrorismo e successivamente nel FSB.[2] Litvinenko accusò pubblicamente i suoi superiori di aver
organizzato un piano per assassinare il milionario Boris Abramovič Berezovskij, il quale verrà
trovato morto nella sua residenza nei pressi di Londra in circostanze non chiarite il 23 marzo 2013,
in apparenza per un suicidio.
Litvinenko venne accusato di aver maltrattato un arrestato durante un interrogatorio; venne mostrata
una videocassetta dove si vedeva un militare che picchiava un uomo seduto, Litvinenko riuscì a
rintracciare il video originale e dimostrò di non essere lui l'uomo che picchiava. Venne comunque
imprigionato per otto mesi in attesa del processo e successivamente rilasciato per insufficienza di
prove[2]. Litvinenko assunse una posizione molto critica nei confronti del potere russo, in particolare
verso il presidente Vladimir Putin. Non sentendosi più al sicuro in Russia decise di andare in esilio.
Pensò di andare in Italia, dove viveva suo fratello Maxim, ma il suo ex capo, generale Anatoly
Trofimov, glielo sconsigliò in quanto a suo dire l'Italia, insieme alla Germania, era il paese più
infiltrato dal KGB (secondo l'europarlamentare Gerard Batten, Trofimov citò Romano Prodi come
esempio, dicendo che era un "loro uomo"[3]). Litvinenko trovò asilo nel Regno Unito, dove ottenne
lo status di rifugiato politico.
Nel 2002 pubblicò un libro (Blowing up Russia: Terror From Within), finanziato da Berezovskij, in
cui accusava gli agenti del FSB di essere i veri responsabili della serie di attentati esplosivi occorsi
in Russia tra l'agosto e il settembre del 1999 e che fecero più di trecento vittime[4]. Gli attentati,
ufficialmente attribuiti ai separatisti ceceni, sarebbero stati realizzati per giustificare la ripresa delle
operazioni militari russe in Cecenia (vedi Seconda guerra cecena). In un suo libro successivo (Gang
from Lubyanka) Litvinenko accusò Putin di esserne il mandante.
Le accuse a Romano Prodi
La rivelazione di Batten
L'europarlamentare Gerard Batten denunciò il 3 aprile 2006 al Parlamento Europeo che a
Litvinenko era stato riferito dal generale Anatolij Vasil'evič Trofimov che Romano Prodi era un our
man (in italiano: il nostro uomo), ovvero un agente del KGB in Italia, e che Litvinenko stesso aveva
dato questa informazione all'italiano Mario Scaramella. Nel suo intervento, Batten non disse se
aveva ricevuto le informazioni direttamente da Litvinenko[5][6]. Lo stesso generale Trofimov era
stato assassinato insieme alla moglie con raffiche di mitra[7].
La BBC sostenne nel suo programma Panorama di essere entrata in possesso di un documento,
classificato come "segretissimo" dal Governo italiano, in cui Litvinenko accusa Romano Prodi di
essere un amico del KGB[8][9][10]. Nella stessa puntata di Panorama Scaramella sostiene di aver
appreso da "fonti qualificate", incluso lo stesso Litvinenko, che alcuni funzionari ("officers")
a Mosca consideravano Prodi "un loro uomo, un uomo del KGB".
Versione de la Repubblica
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Tuttavia, secondo quanto riporta la Repubblica, in un'intervista a Litvinenko rilasciata quasi due
anni prima e uscita pochi giorni dopo la sua morte, lo stesso affermò di non aver mai sentito parlare
di Prodi e di non avere nessuna prova su di lui[11].
Vi sono alcune incongruenze temporali a favore della tesi della manipolazione dell'intervista: ad
esempio, nell'intervista Litvinenko si dice colpito perché su il Giornale di Berlusconi era apparso un
articolo che lo citava, mentre l'articolo in questione apparirà solo nel 2006[12].
In un'intervista (sempre a la Repubblica) Oleg Gordievskij conferma invece che Litvinenko riferì a
Scaramella quanto aveva appreso su Prodi da Trofimov. Gordievskij sostiene però che riferì "una
circostanza non vera" e che "Aleksandr, per ragioni legate alle continue difficoltà economiche,
avesse alla fine deciso di dire a Scaramella quel che Scaramella voleva sentirsi dire"[13].
Gordiensky smentì l'intervista, definendola fabbricata al 90%[14] e anche successivamente in
un'intervista a Paolo e Sabina Guzzanti[15] confermando più volte la versione diffusa da Guzzanti[16].
Gordiensky disse che Litvinenko era "un uomo assolutamente onesto, poverissimo e che non si è
mai venduto a nessuno", e riferendosi all'intervista de la Repubblica: "È stata forzata oltre ogni
limite [...] Il resto dell'intervista è stata una vera montatura, un gonfiaggio. Mi facevano le
domande e mi davano anche le risposte"[17].
La morte
Il 23 novembre 2006 Litvinenko è morto a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio210, un isotopo radioattivo del polonio, in circostanze poco chiare. Tracce di polonio sono state
individuate in diversi locali nei quali Litvinenko si trovava prima del ricovero, in particolare
nel sushi bar Itsu di Piccadilly, dove aveva pranzato insieme a Scaramella (ma non dove Litvinenko
sedette con Scaramella, bensì dove si era precedentemente intrattenuto con gli ex agenti del KGB
Andrei Lugovoi e Dimitri Kovtun[8]).
In realtà Scaramella non toccò cibo, e sia per questo, sia perché era apparso agitato ed ansioso,
Litvinenko inizialmente sospettò proprio che Scaramella lo avesse avvelenato[18]. In realtà, stando a
quanto afferma il senatore Paolo Guzzanti in un'intervista, Scaramella era arrivato a Londra sia
perché Igor Ponomariov gli aveva detto di avere importanti ulteriori notizie da dargli sia per parlare
con Litvinenko delle minacce contenute negli ultimi rapporti di Evgenij Limarev, figlio di Lev
Limarev, un generale maggiore dell'Svr, capo degli agenti illegali dell'intelligence sovietica.
Tuttavia Igor Ponomariov la sera prima era morto al teatro in modo misterioso. L'ambasciata russa a
Londra aveva fatto prelevare immediatamente la salma, vietando l'autopsia avvalendosi dei diritti
diplomatici e spedendo il cadavere a Mosca, dove fu immediatamente cremato[19].
Prima di morire, Litvinenko ha accusato pubblicamente il presidente russo Vladimir Putin di essere
il responsabile del suo avvelenamento e il mandante dell'omicidio della giornalista Anna
Politkovskaja. In un articolo scritto da Litvinenko stesso nel luglio, e pubblicato online su
Zakayev's Chechenpress, lo ha accusato di pedofilia, dichiarando anche che Putin, nel periodo in cui
fu dirigente dell'FSB poco prima di divenire presidente, rovistò negli archivi e approfittò della sua
posizione per distruggere il materiale compromettente per la propria immagine
Nei giorni seguenti alla morte del dissidente russo, avvenuta a Londra, altre persone sono state
ricoverate per aver accusato sintomi d'avvelenamento per esposizione a radiazioni. Oltre 300
persone si sono rivolte alla Health Protection Agency (HPA, Agenzia per la protezione della salute)
britannica, dopo che questo ente aveva lanciato un appello a tutti coloro che potevano essersi trovati
nei due locali - il sushi bar Itsu, nei pressi di Piccadilly Circus e il Pine Bar del Millennium Hotel a
Grosvenor Square - frequentati da Litvinenko prima di sentirsi male e in cui potrebbe essere stato
avvelenato.
Tracce di polonio sono state trovate anche su due aerei della British Airways e il servizio sanitario
britannico ha richiesto ai 33000 passeggeri che hanno utilizzato quei velivoli nell'ultimo mese di
presentarsi per un controllo[18].
Sulla morte del dissidente russo in esilio è stato scritto e prodotto da Andrej Nekrasov un
documentario dal titolo Rebellion: The Litvinenko Case (2007).
38
Note
1. (RU) Val'ter Litvinenko, Вальтер Литвиненко: «Сегодня моему сыну исполнилось бы
44» in SIA Chechenpress, 4 dicembre 2006. (archiviato dall'url originale il 29 maggio 2010).
2. ^ a b Guzzanti, 2009, pp. 155-160, 172-182.
3. ^ Guzzanti, 2009, p. 184.
4. ^ Enrico Piovesana, Attentati di Mosca, l'ombra dei servizi, Peace Reporter, 1º aprile
2010. URL consultato il 14 novembre 2013.
5. ^ (EN) Partito per l'Indipendenza del Regno Unito, Gerard Batten in the European
Parliament su YouTube, 15 maggio 2006.
6. ^ Gerard Batten, Interventi di un minuto su questioni di rilevanza politica, 3 aprile 2006.
7. ^ (EN) Slain Russian officer's wife dies in BBC News, 11 aprile 2005.
8. ^ a b (EN) Multiple attempts' on Litvinenko in BBC News, 22 gennaio 2007.
9. ^ (EN) How to poison a spy in BBC News, 22 gennaio 2007.
10. ^ (EN) Panorama video "How to poison a spy" (this content can only be viewed by users
inside the UK), 22 gennaio 2007.
11. ^ E Litvinenko raccontò "Volevano sapere di Prodi" in la Repubblica, 26 novembre
2006. URL consultato il 2 giugno 2008. Intervista a Aleksandr Litvinenko, effettuata quasi
due anni prima ed uscita dopo la sua morte su "La Repubblica" il 26 novembre 2006.
12. ^ Guzzanti, 2009, p. 273.
13. ^ L'ex spia del Kgb su Scaramella "Un bugiardo, voleva rovinare Prodi" in la Repubblica, 7
dicembre 2006. URL consultato il 6 giugno 2008.
14. ^ Gabriele Paradisi- Periodista di la verdad!'
15. ^ StaffGuzzanti, Intervista ad Oleg Gordievski 1-6 su YouTube, 10 novembre 2008.
16. ^ Rivoluzione Italiana - Il blog di Paolo Guzzanti » ARCHIVIO AUDIO E VIDEO,
paologuzzanti.it.
17. ^ Paolo Guzzanti, "Così l’ex Urss elimina i nemici" in Il Giornale, 22 dicembre 2006.
18. ^ a b Tracce di polonio su due aerei British Airways Un amico della spia uccisa accusa
Scaramella in la Repubblica (Roma), 29 novembre 2006.
19. ^ StaffGuzzanti, Sabina Guzzanti intervista Paolo Guzzanti (4ª parte) suYouTube, 10
novembre 2008.
20. ^ (EN) Alexander Litvinenko, The Kremlin Pedophile in SIA Chechenpress, 5 luglio
2006. (archiviato dall'url originale il 9 luglio 2006).
21. ^ Putin Pedofilo?, segni-del-tempo.splinder.com. (archiviato dall'url originale il 7 luglio
2009).
Bibliografia
Aleksandr Litvinenko, Perché mi hanno ucciso, a cura di Luca Salvatori e Marina Litvinenko,
AIEP, 2008
Gabriele Paradisi, Periodista, di la verdad! Controinchiesta sulla Commissione Mitrokhin, il caso
Litvinenko e la repubblica della disinformazione. Giraldi, 2009
Paolo Guzzanti, Il mio agente Sasha. La Russia di Putin e l'Italia di Berlusconi ai tempi della
seconda guerra fredda, Aliberti editore, 2009.
Steve LeVine, Il labirinto di Putin. Spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia, traduzione di
Enrico Monier, collana Inchieste (n. 1), il Sirente, Fagnano Alto, 2010
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