15 recensioni - Richard e Piggle

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15 recensioni - Richard e Piggle
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Adamo S.M.G. (a cura di). Il compagno immaginario. Scritti psicoanalitici.
Roma: Astrolabio, 2006. Pagine 215.
Euro 18,50.
Nelle dodici tavole di creta in lingua assira, risalenti all’VIII sec. a. C. e scoperte nella seconda metà dell’Ottocento, viene narrata
una vicenda dal valore storico e poetico inestimabile, il cui nucleo originario si colloca
prima del 2000 a.C.: è l’Epopea di Gilgamesh,
re di Uruk. L’eroe semidio Gilgamesh ha una
sua controparte in Enkidu, l’uomo creato dalla dea Aruru che prese un grumo di pietra ...
e creò un uomo primordiale, Enkidu il guerriero, affinché diventasse amico di Gilgamesh
e lo allontanasse dagli eccessi cui si era abbandonato.
Da alcuni Enkidu è stato considerato il
primo esempio che conosciamo di una figura
di fantasia che si affianca o, in altri casi, si sostituisce al soggetto, figura che nei secoli attraverserà, quale tematica trasversale, l’immaginario e darà vita ad emozioni e vissuti
che spesso scrittori e artisti hanno rappresentato nelle loro opere: è il compagno immaginario o l’amico immaginario o l’angelo custode o il doppio o il gemello immaginario o il
sosia o l’eteronimo. Varie denominazioni che
rimandano a fenomeni complessi e diversificati, oggetto di studio di varie discipline: psicoanalisi, psicologia, pedagogia, psichiatria.
Il libro curato da Simonetta Adamo
informa il lettore italiano con contributi di diversa matrice psicoanalitica, specificamente
centrati sul tema del compagno immaginario.
Il discorso si snoda, nei vari contributi, attraverso diverse direttrici. Come si può definire
il fenomeno del compagno immaginario?
Appartiene ad una specifica fascia di età?
Quali istanze psichiche rappresenta? Quali
funzioni può svolgere? Come viene trattato
nella pratica clinica psicoanalitica? A livello
teorico-clinico sono fenomeni collocabili nell’area transizionale (Winnicott)? Quale il rapporto con gli Oggetti-Sé (Kohut)? Sono solo alcune delle domande relative a questo poliedrico fenomeno affrontate in questo libro che
ha il pregio di proporre anche Autori poco noti in Italia.
La scelta del titolo racchiude l’idea di
fondo della ricerca psicoanalitica e attraversa
il libro stesso: indagare lo spettro di fenomeni di cui è portatore il “compagno immaginario” lungo il continuum che parte dal considerare questo fenomeno come rappresentante di
caratteristiche creative ed evolutive del soggetto (versante non patologico) fino, all’estremo opposto, ad esprimersi come costruzione
che sostituisce la relazione con altri esseri
umani ed è investita di concretezza allucinatoria (versante patologico).
Nella illuminante e corposa Introduzione,
Simonetta Adamo, oltre a tracciare l’evoluzione
storica delle elaborazioni psicoanalitiche sull’argomento, esplicita una potenziale linea di
lettura degli scritti sull’argomento, ossia la possibilità di riflettere anche sullo sviluppo storico
del dibattito psicoanalitico attraverso le interpretazioni che di questo fenomeno si sono succedute negli anni: “Attraverso la successione
dei capitoli del libro si passa, infatti, da una serie di lavori centrati sulla conflittualità edipica
e ispirati alla teoria freudiana classica (A.
Freud, Sperling, Fraiberg, Nagera, Bach, et al.)
agli scritti di autori che si rifanno alla teoria
winnicottiana e che mettono l’accento sulle tematiche legate al narcisismo (Benson e Pryor,
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Bass, et al.). Concludono il libro alcuni capitoli,
scritti da psicoanalisti di lingua francese, nei
quali il riferimento ai costrutti teorici del narcisismo permane, ma compaiono interessanti
collegamenti con gli studi transgenerazionali.”
(pag. 9-10).
L’incipit del libro è affidato alle pagine
di Selma Fraiberg (1959) che ci presenta
Tigre Ridente, la compagna immaginaria di
una nipotina di due anni e otto mesi della famosa psicoanalista. È l’occasione per indagare gli scenari immaginari e la vita relazionale dei bambini e concludere che “il gioco immaginativo serve alla salute mentale, mantenendo i confini tra fantasia e realtà. […] Ma
non dobbiamo confondere l’uso nevrotico dell’immaginazione con quello sano: il bambino
che impiega la sua immaginazione e le creature della sua immaginazione per risolvere i
propri problemi è un bambino che lavora per
la propria salute mentale” (pag. 40).
Seguono i contributi di Sperling (1954) e
l’indagine sistematica di Nagera (1969), che
affronta le questioni fondamentali del fenomeno, studi che sono diventati un riferimento irrinunciabile nella ricerca psicoanalitica
sui compagni immaginari e che hanno anche
il merito di aver stimolato altri studi.
Gli scritti di Benson e Pryor (1973), di
Bass Wichelhaus (1983) e di Arfouilloux
(1987), pur mettendo l’accento su aspetti diversi quali la scomparsa del compagno immaginario, lo sviluppo del compagno immaginario negli adulti, la solitudine e i rapporti con il
Doppio, sono accomunati dalla ricerca e dal
confronto con la teoria winnicottiana dei fenomeni dell’area transizionale e il riferimento
all’elaborazione kohutiana degli Oggetti-Sé.
In particolare, Benson e Pryor affrontano la tematica del ruolo evolutivo dei compagni immaginari e delle interferenze esterne
che possono influire sullo sviluppo di questo
fenomeno nei bambini. Anche Bass
Wichelhaus prende in considerazione ciò che
può facilitare lo sviluppo del compagno immaginario, benché tratti della comparsa di
questo fenomeno in un adulto, e sostiene che
“il compagno immaginario proviene da, ed è il
prodotto della creatività dell’individuo” (pag.
103). In questo scritto viene anche anticipata
una tematica più approfonditamente trattata
nel contributo di Arfouilloux, ossia la possibile relazione tra la comparsa del compagno immaginario e la persona dell’analista. Bass
Wichelhaus scrive: “Harry [il compagno im-
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maginario del paziente] rappresentava l’analista. Questo nome appariva sul portone accanto al mio” (pag. 99). Arfouilloux, nel denso
articolo in cui tratta delle complesse questioni teoriche relative al narcisismo e al senso di
solitudine, conclude facendo riferimento alla
pratica clinica mettendo in risalto che
“L’analista sembra specificamente adatto a
occupare, nel transfert, questo posto del doppio immaginario, del gemello o del ‘compagno
di viaggio’, il cui destino è quello di mettersi
da parte” (pag. 123), richiamando così alcune
acute osservazioni avanzate da Ferenczi nel
Diario Clinico (1932).
Riguardo ai contributi kleiniani, scrive
la Curatrice: “È interessante rilevare che, da
parte di autori di matrice kleiniana, tale tema
non è stato ripreso, se non in tempi recenti
(Adamo, 2004), anche se si ritrovano, in vari
scritti, riferimenti sparsi alle manifestazioni
cliniche di questo fenomeno. Eppure la figura
del compagno immaginario si colloca a pieno
diritto in un filone di lavori che rivalutano il
ruolo delle difese primitive nell’assicurare la
sopravvivenza psichica, pur segnalando il rischio d’assuefazione che ne può derivare per
la personalità.” (pag. 10).
Nel contributo di Pirlot e Lefrançois
(1999) vengono avanzate ipotesi relative alla
costituzione e alla funzione del compagno immaginario. Gli Autori, infatti, sottolineano
gli aspetti legati al lutto e al non detto e sostengono la valenza narcisistica del compagno immaginario, che può servire a mascherare una perdita e a permettere la mancanza
di rappresentazione – cioè viene utilizzato
per una abolizione simbolica – della morte degli esseri amati. Sostengono anche che il compagno immaginario “possa rappresentare un
non detto o un segreto spogliato di senso”
(pag. 132).
Nel capitolo dedicato agli eteronimi
Michel Schneider (1984), attraverso l’analisi della biografia e delle opere del poeta portoghese Fernando Pessoa, si interroga sull’invenzione degli eteronimi e sulle connessioni che legano questo fenomeno al senso di
identità.
L’Appendice finale di M. Auricchio e
S.M.G. Adamo è dedicata ad una analisi dei
contributi della psicologia sul tema e risulta
estremamente utile per ricavare una serie di
assi per orientarsi in una produzione vasta e
complessa. La letteratura psicologica su questo tema, dagli anni cinquanta ad oggi, è in-
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fatti vasta e articolata sia con contributi di ricerche sperimentali sia con studi che approfondiscono i legami con gli aspetti psicopatologici.
Lorenzo Iannotta
Strozier C.B. Heinz Kohut. Biografia di
uno psicoanalista. Roma: Astrolabio,
2005. Pagine 486. Euro 42,00.
Heinz Kohut (1913-1981), è stata la figura di maggior rilievo nella psicoanalisi post-freudiana degli ultimi anni del novecento.
Egli è stato infatti il creatore di un movimento psicoanalitico, la psicologia psicoanalitica
del sé, che ha interamente trasformato la psicoanalisi classica in un nuovo sistema teorico,
che fornisce una nuova metapsicologia basata su diversi principi epistemologici, un modello innovativo della mente, dello sviluppo
infantile, della psicopatologia e della tecnica
psicoanalitica.
È stato necessario che fosse un analista
all’interno della psicoanalisi freudiana a
rifondare un progetto che eliminasse le scorie
ma recuperasse la validità degli insights clinici freudiani. L’essenza del contributo di
Kohut, infatti, è quello di aver trovato una
strada per abbandonare la teoria delle pulsioni ma mantenere una psicologia del profondo
che sottolinea l’importanza dell’empatia e
della centralità del sé in salute e malattia. Le
esperienze cliniche di Kohut mal si collocavano nella psicoanalisi creata da Freud. Il suo
compito era dunque quello di trovare lo spazio per le nuove comprensioni cliniche cambiando la teorizzazione di base. Kohut ha trasformato il modo in cui concettualizziamo il
narcisismo, gli «oggetti», la sessualità e la sessualizzazione, l’aggressività e la rabbia, i sogni, e la relazione tra la psicoanalisi e le altre
scienze umane. Un compito che ha restituito
alla psicoanalisi nuova vitalità e possibilità di
dialogo con altri ambiti scientifici.
Kohut è la figura di riferimento delle varie espressioni della self psychology: della teoria intersoggettiva, della cosiddetta psicoanalisi relazionale, e della psicoanalisi «postmoderna». Si può affermare che molto del dibattito attuale sul significato psicologico di tematiche quali i fenomeni dissociativi, le personalità multiple, i traumi infantili, deve molto
della sua comprensione più profonda al lavoro
di Kohut. Inoltre molti teologi, filosofi, storici
e umanisti hanno incorporato le idee di Kohut
nei loro scritti, spesso senza conoscerne la fonte. Kohut, in definitiva, visse nella sua vita e
formulò nel suo lavoro le problematiche fondamentali del mondo contemporaneo.
La pubblicazione in italiano della biografia di Kohut di Charles Strozier (2001)1 costituisce un contributo prezioso alla comprensione dell’opera dell’analista di Chicago.
Charles B. Strozier, amico personale e seguace di Kohut, è storico e psicoanalista, e dunque la sua biografia è al contempo la storia di
un uomo e la storia della psicoanalisi.
La sua specialità di tracciare il ritratto
psicologico di uomini che hanno avuto una rilevanza storica (è autore anche di un importante studio su Abraham Lincoln, Lincoln’s
Quest for Union: A Psychological Portrait)
riesce a far comprendere il perché e il come
Kohut sia diventato lo psicoanalista più influente dell’ultima metà del secolo scorso.
Strozier conobbe Kohut alla fine della
sua vita, un uomo da lui definito come «sconfinatamente interessante», complesso, appassionato, coraggioso, creativo, ma anche pieno
di contraddizioni e di confusione. Per scriverne la biografia ha impiegato molti anni, avvalendosi non solo della sua conoscenza diretta,
ma anche del materiale fornitogli da numerose interviste con tutti coloro che conobbero a
fondo l’analista di Chicago. Il risultato è
un’appassionata e appassionante biografia
che ha ricevuto il premio Goethe 2005 per il
miglior studio nel campo della psicoanalisi.
Strozier cerca di cogliere la complessità
dell’uomo evitando le idealizzazioni e sollevando affascinanti domande sul rapporto tra
la personalità di Kohut e l’argomento che era
al centro del suo interesse, il narcisismo sano
e patologico. La cura, la musica, il coraggio, la
religione, l’arte, il carisma, la rabbia e la morte sono alcuni dei temi kohutiani che compaiono in questa biografia, assieme all’ambivalenza sessuale di Kohut, e alla sua tormentata relazione con le proprie origini ebraiche, argomenti che hanno procurato a Strozier l’ostilità
della famiglia e la critica di molti seguaci.
La biografia illustra lo snodarsi della vita e dell’opera di Kohut tra Vecchio e Nuovo
Mondo, dove Kohut emigrò nel 1939. È divisa
in cinque sezioni: Vienna, Sulle orme di
Freud, Liberazione, Una teoria e un movimento, La nascita dell’eroe. Tocca dunque
tutte le fasi cruciali del «the making of a psy-
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choanalyst»(questo è il sottotitolo dell’opera
in lingua originale) in anni che sono stati i più
significativi sia per la città di Vienna che per
la città di Chicago dove Kohut visse ed esercitò la sua pratica clinica.
Come altri analisti emigrati negli USA,
Kohut si adoperò all’inizio a restaurare l’ortodossia freudiana, divenendo, a metà degli anni sessanta, presidente dell’American
Psychoanalytic Association. Dalle notizie fornite da Strozier apprendiamo come Kohut ebbe un ruolo importante nel mainstream della
psicoanalisi americana degli anni cinquanta
e sessanta del novecento, e raggiunse una autorevolezza e una leadership tale da meritarsi l’appellativo di «Mr. Psychoanalysis».
Intratteneva scambi e rapporti con le persone
più rilevanti del momento come Kurt Eissler,
Heinz Hartmann e Anna Freud. Con quest’ultima, in particolare, ebbe una fitta corrispondenza: Anna Freud lo incitava a una leadership della psicoanalisi americana che ne
rivoluzionasse l’organizzazione. Kohut però
non si sentiva un rivoluzionario e sembra
piuttosto che le parole di Anna Freud lo spinsero a tentare di rivitalizzare la psicoanalisi
americana cercando di metterne insieme le
due anime separate, quella medica, ebrea, e
quella sociale, protestante. Successivamente,
però, realizzò che il ruolo assunto nell’organizzazione psicoanalitica americana interferiva con la sua creatività, per cui si ritirò dal
ruolo ricoperto e dedicò gli ultimi anni della
sua vita interamente all’elaborazione della
Self Psychology, partendo dalla sua esperienza clinica basata sull’uso costante e rigoroso
dell’empatia, il metodo che, nel suo pensiero,
definisce la psicoanalisi.
La lezione centrale della biografia di
Strozier è che qualsiasi analista orientato psicodinamicamente studi a fondo Kohut e la
psicologia del sé, ne rimarrà inevitabilmente
influenzato anche se rigetta i postulati teorici e i principi dello sviluppo infantile tracciati da Kohut nell’ultima parte della sua vita.
La concezione dello sviluppo infantile di
Kohut si distacca dalla teorizzazione della
psicoanalisi classica e da quella di altri due
analisti che in Europa hanno costituito importanti punti di riferimento, e cioè Margaret
Mahler e Donald Winnicott. Nella visione della psicologia del sé, l’uomo vive in una matrice di oggetti-sé dalla nascita alla morte. Ha
bisogno di oggetti-sé per la sua sopravvivenza psicologica, proprio come ha bisogno di os-
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sigeno nel suo ambiente per tutta la vita per
la sua sopravvivenza fisiologica. La psicologia
del sé non vede l’essenza dello sviluppo dell’uomo in un movimento dalla dipendenza all’indipendenza, dalla fusione all’autonomia, e
nemmeno come un movimento dal non-sé al
sé. Non trascura certamente le ansietà e le
depressioni dell’uomo, nell’infanzia, nell’età
adulta e quando si trova a faccia a faccia con
la morte. E mentre non ignora l’avidità e la
lussuria dell’uomo o la sua rabbia distruttiva,
non le vede come dati primari, ma come fenomeni secondari dovuti ai disturbi nell’unità
sé/oggetto-sé. Coerentemente, non focalizza
l’attenzione sull’ansietà del bambino nei confronti dell’estraneo (Spitz), sul suo avvinghiamento a sostituti della madre non responsiva
e non disponibile (Winnicott), o sulle oscillazioni affettive e ideative che accompagnano il
suo riluttante movimento dall’esistenza simbiotica all’individualità (Mahler), come se
questi fenomeni rappresentassero configurazioni psicologiche primarie e circoscritte. Dal
punto di vista della psicologia del sé, questi
fenomeni sono secondari, e il loro senso e il loro significato divengono comprensibili soltanto quando sono visti dal punto di vista del perdurante bisogno d’oggetto-sé da parte dell’uomo in tutto l’arco della sua vita.
In contrasto con la posizione della psicologia del sé, c’è l’assunto di base di tutte le
scuole di osservazione del bambino che non
s’ispirano al punto di vista della psicologia del
sé. Tale assunto, che non viene messo in discussione e nemmeno esplicitato in quanto ritenuto ovvio, è che la vita dell’uomo dall’infanzia all’età adulta è un movimento in avanti da una posizione di impotenza, dipendenza,
e avvinghiamento pieno di vergogna, ad una
posizione di potere, indipendenza e orgogliosa autonomia. E, inoltre, in completa armonia
con il quadro tracciato in precedenza, quest’assunto ritiene ovvio che gli aspetti indesiderabili dell’essere adulti, i difetti nell’organizzazione psichica dell’adulto, devono essere
concettualizzati come manifestazioni di un
infantilismo psicologico, vale a dire come manifestazioni d’immaturità psichica dovuta al
fallimento nel fare progressi nello sviluppo, o
al ritorno di una persona spaventata allo stato di debolezza, dipendenza, e attaccamento
avvinghiante del bambino. «Il bambino di
Kohut», come qualcuno lo ha chiamato, non è
dipendente, tendente all’avvinghiamento o
debole, ma indipendente, assertivo, forte, es-
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so è psicologicamente completo per tutto il
tempo che respira l’ossigeno psicologico fornito dal contatto con oggetti-sé empaticamente
responsivi e, da questo punto di vista, per tutto il tempo in cui si sente corrisposto, esso non
è differente dall’adulto che è completo, indipendente e forte.
La novità e l’interesse della posizione
kohutiana merita dunque un approfondimento da parte di analisti dell’età adulta e infantile, e la biografia di Charles Strozier è indubbiamente un prezioso contributo in tal
senso. L’esposizione chiara e documentata di
un periodo storico così interessante per lo sviluppo della psicoanalisi e per il reciproco
scambio tra cultura europea e americana, fa
di questo libro un’opera che va oltre il confine
della psicoanalisi. Va dato merito a Franco
Paparo, che ha curato l’edizione italiana, di
aver completato con questa pubblicazione l’opera di traduzione e divulgazione del pensiero kohutiano in Italia. Tutte le opere fondamentali di Kohut sono state infatti ormai tradotte in italiano nelle edizioni di Astrolabio e
di Boringhieri.
Anna Carusi
Riferimenti bibliografici
Strozier Charles B (2001). Heinz Kohut, The
making of a Psychoanalyst. New York:
Farrer, Straus and Giraux.
1
Fonagy P., Target M. Psicopatologia evolutiva. Le teorie psicoanalitiche.
Milano: Raffaello Cortina, 2005. Pagine
474. Euro 37,50.
Questo libro fornisce una interessante
presentazione dei principali contributi che costituiscono l’intero paradigma psicoanalitico
europeo e nordamericano. Tale analisi è effettuata partendo dagli esordi del pensiero
psicoanalitico fino ad arrivare alle più recenti elaborazioni teoriche: gli autori, infatti,
presentano, attraverso un’analisi puntuale
dei diversi modelli, l’evoluzione che il pensiero psicoanalitico ha avuto nel corso del suo
sviluppo. Soprattutto enfatizzano la vitalità e
l’attualità che il modello psicoanalitico possiede nella comprensione della psicologia e
della psicopatologia evolutiva.
Il metodo con cui gli autori affrontano
l’analisi dei diversi modelli teorici consta di
una iniziale descrizione del loro pensiero, seguita da una puntuale valutazione dello stesso modello confrontato con le ricerche empiriche e neurocognitive sviluppate nel corso degli ultimi anni. L’ottica induttiva che ha caratterizzato il paradigma psicoanalitico, la
sua focalizzazione sull’analisi clinica e sul
processo di astrazione, che dalla stanza di
analisi portava alla formulazione teorica,
hanno per un lungo periodo allontanato i diversi modelli psicoanalitici da una diretta integrazione con altre discipline che proponevano studi basati sulle evidenze empiriche e
sulla confrontabilità delle ipotesi operative.
Secondo gli autori, questo scollamento è lo
spazio da recuperare nelle contemporanee
teorie psicoanalitiche, che dovrebbero porsi
come una disciplina integrativa che attinge
da differenti discipline scientifiche. I dati e le
informazioni che possono essere ricavati dalle indagini scientifiche sono utili ad elaborare teorie che spieghino coerentemente i conflitti che gli aspetti soggettivi dell’esperienza
creano alla persona nel corso dello sviluppo
adattivo e disadattivo. Tutto questo processo
di integrazione deve essere svolto facendo al
contempo tesoro delle formulazioni psicoanalitiche elaborate sino ad ora che si presentano come un insieme assai ricco di concetti che
possono descrivere il funzionamento psichico.
L’attenzione alle dinamiche inconsce dei processi mentali e alla motivazione nella spiegazione del comportamento umano, che è sempre stato il focus della teoria psicoanalitica,
dovrebbe, secondo gli autori, essere integrato
con le conoscenze delle neuroscienze cognitive. Il frutto di questa integrazione non verrebbe a sminuire, bensì a rafforzare l’importanza delle teorizzazioni psicoanalitiche. Le
diverse ricerche sottolineano che la maggior
parte dell’attività psichica avviene al di fuori
della coscienza, di cui la memoria implicita è
solo un esempio; anche tutte quelle funzioni e
quei compiti cognitivi, come la presa di decisione e il problem solving afferiscono ad
aspetti impliciti. Una prospettiva psicoanalitica, che è interessata alla comprensione dei
meccanismi intrapsichici inconsci, in questa
luce, può realmente fornire un contributo alla comprensione dei comportamenti e dello
sviluppo normale e patologico. Infatti, il postulato principale della psicoanalisi, pur differenziandosi nelle diverse scuole e modelli, è
sempre stato quello di ipotizzare che fattori
inconsci siano in grado di avere una influen-
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za determinante sulle scelte e sulle attività
dell’individuo. Si può ben immaginare quanto delle anomalie nel funzionamento inconscio possono essere determinanti e significative nell’evidenziarsi di sintomi e disturbi psicopatologici.
In questa chiave gli autori descrivono
l’alternanza di modelli sullo studio dello sviluppo psicopatologico infantile nel loro evolversi. Gli autori affrontano così la teoria delle pulsioni di Freud, passando poi per i modelli che hanno posto l’accento sulle capacità
adattive e sulle funzioni dell’Io, sino alle teorie delle relazioni oggettuali. Per queste ultime lo sviluppo del bambino è la risultante della relazione diadica con la madre e delle rappresentazioni interne delle interazioni interpersonali. Ad ogni autore viene dedicato uno
spazio descrittivo nel quale emergono i principali contributi teorici che lo hanno caratterizzato e distinto. Non vengono mai trascurate la ridefinizione storica e le interrelazioni
che ogni singolo autore ha avuto nel suo percorso teorico, con il suo contesto di riferimento e con le influenze ricevute dalle precedenti
teorie. È così possibile individuare la peculiarità di ogni differente teorizzazione e il contribuito di ogni specifico autore nel fornire degli utili tasselli nella comprensione dell’universo soggettivo. L’elemento distintivo di
questo testo non consiste solo nell’analisi e
descrizione dei modelli. L’originalità che lo
contraddistingue è caratterizzata da una attenta valutazione del singolo modello alla luce delle attuali evidenze che la ricerca empirica ha apportato in ambito evolutivo e neuropsicologico. L’”ottica socratica” adottata dagli autori prevede un rapporto dialettico tra
due poli: l’esposizione teorica da un lato, e la
ricerca empirica dall’altro. La valutazione e
la critica di ogni modello scaturiscono dall’analisi puntuale delle corrispondenze teoriche
ed empiriche. Questo processo maieutico tra
empirico e teorico consente di apprezzare
quei contributi distintivi che ogni modello
possiede e che possono essere utili e utilizzati nell’indagine e pratica clinica, soprattutto
nell’inquadrare e fornire elementi di comprensione alla psicopatologia evolutiva. Ad
ogni autore vengono cosi riconosciuti quegli
aspetti di originalità che hanno aggiunto significati nella comprensione di specifici disturbi della personalità. Gli autori, inoltre,
non mancano di mettersi in gioco essi stessi,
esponendo il loro modello teorico, frutto del-
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l’integrazione che propongono tra ricerca, teoria e pratica clinica. Il sollecito, proposto dagli autori, verso la creazione di modelli teorici, che siano cosi integrati e soprattutto aperti ad una verificabilità, non esclude l’importanza data alla teoria e a quello che può essere riconosciuto il presupposto fondamentale
della psicoanalisi: che credenze e affetti inconsci influenzino il comportamento.
Soprattutto nel momento attuale, dove il dibattito tra geni, ambiente e loro interazione è
così presente, il contributo della psicoanalisi
che pone l’accento sui processi rappresentazionali intrapsichici può aiutare a comprendere come l’interazione tra i due ambiti possa
avvenire e come questa abbia effetti nello sviluppo del bambino. “Una prospettiva psicodinamica e intrapsichica può essere d’aiuto nel
capire non solo che cosa provoca un disturbo,
ma anche quali processi influenzino il miglioramento o il peggioramento di quest’ultimo”
(p. 383). “Il fatto che specifici fattori ambientali stimolino l’espressione di un gene oppure
no, può dipendere non solo dalla natura di
questi fattori, ma anche dal modo in cui li
esperisce il bambino”(p. 383).
Rachele Mariani
Ferruta A. (a cura di). Pensare per immagini. Rivista di Psicoanalisi, Monografie.
Roma: Borla: Pagine 108. Euro 12,50.
Questo numero monografico della Rivista
di Psicoanalisi, curato da A. Ferruta, raccoglie
una serie di scritti su un argomento che è sempre più oggetto di riflessione da parte degli psicoanalisti: il pensiero prima della parola.
A.Ferro, nella sua introduzione fa riferimento ad un cambiamento in atto nella psicoanalisi, che ha esteso il proprio campo di indagine “dall’interesse per i contenuti, rimossi, scissi, impensabili, a quelle strumentazioni che consentono di dare uno statuto di pensabilità a tali contenuti” (pag. 5).
Tutti i lavori, (eccetto quello della
Vallino che si distingue per lo specifico riferimento alle fasi precoci della relazione madrebambino, colte con lo strumento della osservazione diretta partecipe), oltre ad apportare
un contributo teorico su questo tema, conducono infatti il lettore nella stanza dell’analisi
e, attraverso esemplificazioni cliniche, esplorano il continuo “travaglio”, che appartiene
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all’esperienza analitica del paziente adulto e
del suo analista, in cui è in gioco la trasformazione delle diverse dimensioni dell’essere.
Analista e paziente si incontrano su piani diversi dell’esperienza con movimenti progressivi o regressivi, con alternanza tra momenti caratterizzati dalla prevalenza delle
comunicazioni non verbali, come quelle relative a vissuti corporei, con le diverse dimensioni sensoriali, o a stati emozionali sfumati o
dirompenti, e altri in cui emergono percezioni più organizzate, immagini oniriche o comunicazioni verbali più articolate. Si rende
necessaria allora, una dinamicità dell’assetto
psichico dello psicoanalista che viene chiamato a utilizzare diversi vertici di osservazione
nella lettura del materiale analitico.
Tutti i lavori della raccolta sono ricchi di
riferimenti al pensiero di Bion, ma, afferma
ancora Ferro: “inutile dire che siamo ad un
crocevia fondamentale del pensiero psicoanalitico che entra in risonanza con alcuni dei libri più significativi comparsi in questo periodo anche in italiano, come quello di Botella
sulla figurabilità o di Daniele Quinodoz sui
pazienti eterogenei e sul come raggiungerli,
di Jean Michel Quinodoz sui sogni che voltano pagina e di Mauro Mancia sulla memoria
implicita.” (pag 8).
I lavori raccolti nella monografia danno
dunque ampio spazio alle diverse forme che
assume il pensiero dell’analista o dei pazienti, dove il “pensare per immagini” si connota
come una delle sue forme più arcaiche ma anche suggestive ed efficaci, come nel sogno o
nell’immagine cinematografica, spesso citata
nei lavori in questione, per il suo potere di attingere direttamente dall’inconscio, dando
una prima forma a contenuti impensabili.
Il lavoro di Hautmann Pensiero pellicolare e formazione del Se è estremamente ricco e complesso e richiede una più che attenta
lettura. Non si presta certo ad essere riassunto in poche righe, anche per i continui rinvii dell’autore ai suoi precedenti contributi
pubblicati sul tema a partire dal 1978.
Hautmann ripercorre i punti salienti della
concezione della mente secondo Bion e si sofferma in particolare sugli albori della formazione del Sé, in cui questo può essere inteso
come una pellicola di pensiero che, così come
la pelle, definisce l’individuo fisico rispetto all’ambiente, individua il formarsi del Sé rispetto al non Sé. Hautmann esplora le forme
arcaiche presimboliche della mente che costi-
tuiscono i precursori del pensiero simbolico.
Si tratta di elementi protomentali costituiti
da elementi beta asimbolici, precursori della
percezione, e da elementi gamma precursori
delle emozioni.
Esperienza mistica, autismo, creazione
artistica, vengono proposti da Hautmann come condizioni della mente in cui gli elementi
protomentali sono più visibili per la prevalenza di stati sensoriali, di rappresentazioni
iconiche che si presentano prima delle rappresentazioni verbali.
Anna Ferruta in Configurazioni iconiche e pensabilità rivolge l’attenzione agli stati della mente primitiva in cui prevale la ricerca di forme che consentono la pensabilità
delle emozioni. In particolare viene fatto riferimento a due tipi di configurazioni iconiche,
quella dell’“aggrapparsi” e dell’“isolarsi” cui
corrispondono altrettante situazioni cliniche
alle quali l’autrice attribuisce un carattere di
“relativa universalità”. Immagini e vissuti relativi alle due modalità dell’aggrapparsi e isolarsi, che compaiono di frequente in situazioni di estrema difesa dal pericolo, vengono
esplorati dall’autrice con interessanti riferimenti clinici e cinematografici.
L’articolo di Riefolo, Per via di immagini, offre un’ulteriore apertura di campo, introducendo, anche attraverso vignette cliniche, un raccordo tra pensiero psicoanalitico e
alcune tesi della neurobiologia nel seguire il
percorso della mente che conduce dal pittogramma all’immagine visiva, fino alla scena.
Paolo Boccara con Il cinema mentale
dell’ immaginazione parla di due modi attraverso cui i processi immaginativi si incrociano con i processi di pensiero. Il primo prevede
un movimento dalle parole verso le immagini
visive, il secondo percorre la via inversa.
Esempio più immediato di quest’ultima via è
l’esperienza dello spettatore al cinema che
trova, a partire dalle immagini del film e dal
coinvolgimento emotivo suscitato da esse,
una spinta ad incontrare il proprio inconscio
anche lì dove alcuni suoi contenuti non sono
ancora rappresentati in immagini. L’articolo
è ricco di molte esemplificazioni cliniche e di
riferimenti cinematografici.
Marco La Scala in Immagini dai confini, immagine come confine pone l’attenzione
su quelli che l’autore chiama “fenomeni di
confine”. La raffigurabilità, dunque la possibilità progressiva della mente di rappresentare per immagini e poi con pensieri e parole
Richard e Piggle, 14, 3, 2006
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le esperienze, viene proposta come funzione
che definisce i confini dell’Io. La Scala si riferisce a “…particolari senso-percezioni avvertite spesso dal paziente e connesse da una
parte all’esposizione e alla definizione del Sé,
per quanto attiene ai suoi confini, e dall’altra
alle riformulazioni dell’Io e dei suoi investimenti tra interno ed esterno, tra territori psichici e non..” (pag.75), e ancora: “… Si tratta
di più sensazioni originate da apparati diversi, che proprio originandosi danno luogo a delle immagini, oppure si saldano ad elementi
già organizzati in rappresentazioni visive e
acustiche, andando così a costituire immagini sia del sogno che della veglia. (pag 75). Il
lavoro è ricco di riferimenti al pensiero freudiano e dialoga con autori come Guillaumin,
Anzieu, Aulagnier, Gaddini, Botella.
Con la lettura del lavoro di Dina
Vallino, Comunicazioni primitive e proto-funzione alfa del neonato, come si è già accennato, il punto di osservazione del lettore si sposta dalla stanza dell’analisi e dalla relazione
Richard e Piggle, 14, 3, 2006
del paziente adulto con l’analista, ai primordi
della vita psichica. Siamo nell’area che
Winnicott definisce del ‘precoce’, in cui i vissuti corporei e psichici del bambino si incontrano con la madre che mette a sua disposizione il proprio funzionamento psichico, per
accompagnare il bambino nella crescita. I primi mesi di vita, quelli cui fa riferimento la
Vallino anche nelle sequenze tratte dai protocolli di baby observation, sono il regno del non
verbale e della iniziale fisiologica non rappresentabilità delle esperienze. L’A. mostra come il bambino sviluppi inizialmente l’esperienza di ‘lampi di pensiero’, brevi ed elementari rappresentazioni da cui scaturiscono
quelle successive e più articolate.
Pensare per Immagini è un testo breve,
ma la densità dei contenuti degli articoli che
raccoglie richiede, al contrario, impegno e costituisce sicuramente uno stimolo per approfondire ulteriormente un argomento così
attuale e ancora carico di interrogativi.
Giuliana Bruno