Il disagio dell`inciviltà - Lacan-con

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Il disagio dell`inciviltà - Lacan-con
IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ
Psicanalisi, politica, economia
ETTORE PERRELLA
Proprietà letteraria riservata
© 2012 Screenpress Edizioni - Trapani
ISBN 978-88-96571-38-5
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P. GOBETTI, La Rivoluzione Liberale
INDICE
Prologo
1. Ma che c’entra la psicanalisi con l’economia? 2. Prima del naufragio. 3. Com’è nato
questo libro. 4. Il “punto di vista economico”. 5. La pulsione. 6. Che cos’è il godimento,
in termini economici? 7. Oikonomía. 8. Divina economia. 9. Gli psicanalisti e
l’economia. 10. Il problema politico della formazione.
Parte I - La psicanalisi nell’epoca dei media
pag.
9
1. Fra due crisi
1. Gli psicanalisti e l’economia. 2. La funzione del denaro in psicanalisi. 3. Perché la
psicanalisi non è una psicoterapia. 4. Livelli d’economia. 5. Un problema molto italiano.
6. “Luigini contro contadini”. 7. Chi produce non sempre è chi guadagna. 8. Uno sguardo
d’insieme sugli “psico-” italiani. 10. Che fare?
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3. Oltre la clinica
1. Il narcisismo degli psicanalisti. 2. Punti di cecità. 3. Il sacro e il laico. 4. L’inconscio
non è un computer. 5. Dall’analisi delle dipendenze all’analisi didattica. 6. La
scommessa. 7. Una specie di rivoluzione. 8. La dipendenza dal web. 9. Che significa
“sapere”? 10. L’immagine. 11. La commedia della vita. 12. Oltre lo specchio. 13. Il
prestigio e la colpa. 14. Strutture familiari. 15. La banalità del male e il katékhon.
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2. Per una politica della psicanalisi
1. Più libertà o più incertezza? 2. “Risikoleben”. 3. 1929, 2009. 4. Lo svuotamento dei
significanti e la psicanalisi. 5. L’indifferenza degli psicanalisti. 6. I soldi sul conto corrente
non li versa mai Babbo Natale. 7. Alcune contraddizioni del capitalismo. 8. Allargare
la consapevolezza. 9. L’individualizzazione e lo spirito gregario. 10. Quale politica
della psicanalisi? 11. Perché non possiamo che essere individualisti. 12. La violenza della
formazione. 13. “Una civiltà fondata in ragione”. 14. “Le psychanalyste ne s’autorise
que de lui-même”. 15. Genitivo oggettivo.
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4. Dalla psicanalisi alla politica. Il compito
1. Passaggio. 2. La psicanalisi non è una pratica sanitaria. 3. “Psychanalyste praticien”.
4. Il primato dell’atto sul significante. 5. Il formicaio. 6. Chi compie un atto? 7. Je n’en
veux rien savoir. 8. Sì sì, no no. 9. Un contributo che la psicanalisi può dare alla
politica. 10. Una nuova emarginazione.
Parte II - Crisi economico-antropologica e rivoluzione liberale
pag.
89
1. Dalla psicanalisi all’economia. La crisi
1. Il prezzo della ricchezza. 2. La grande lotteria. 3. La bolla o il grande furto. 4.
L’economia non è una scienza naturale. 5. C’è crisi e crisi. 6. Com’è nato il neoliberismo
economico. 7. Un ottimismo inescusabile. 8. Gli psicanalisti e la moneta. 9. La psicanalisi
e la legge.
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3. Economia sociale
1. Democrazia e poliarchia. 2. Psicanalisti, ancora uno sforzo... 3. Partiti o
commissioni? 4. Quando non c’è abbastanza tempo per comprendere. 5. La società e
l’economia degli scambi. 6. 1988. 7. Fra psicanalisi ed antropologia. 8. O struttura o
mito. 9. “Il fatto che vi è una regola”. 10. La proibizione dell’incesto come regola
esogamica. 11. L’economia e il sociale. 12. Né l’illegalità né il legalismo.
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Epilogo
1. Congedo. 2. L’Italia non è stata sempre illiberale. 3. ”Ciò che è pubblico non è di
nessuno”. 4. La vanità magnifica e spettrale. 5. Noblesse oblige. 6. A chi mostrare
la strada. 7. À la guerre comme à la guerre.
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2. Che cos’è il denaro?
1. Il denaro non è la moneta. 2. Il denaro come sistema linguistico. 3. Dal baratto al dono.
4. L’economico e il sociale. 5. Af(x)=Bf(y). 6. L’economico e la vita. 7. L’economia
come scienza. 8. Che cosa vale una moneta? 9. Denaro, banconote e monete. 10. Duplicità
del denaro e dell’economia. 11. Che cosa contiene realmente il denaro? 12. Da che cosa
è garantito il denaro? 13. La povertà e la ricchezza. 14. Produrre o guadagnare. 15. La
proprietà privata come “ius”. 16. La crescita economica è sempre a spese di qualcuno. 17.
“Il paradosso della globalizzazione”. 18. Un corollario su psicanalisi ed economia.
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4. La sovranità globalizzata
1. La concentrazione della ricchezza. 2. Superare la crisi. 3. Una proposta di soluzione.
4. È possibile evitare la catastrofe? 5. Dalla crescita alla decrescita. 6. Una società
“riflessiva”. 7. Su alcuni effetti della globalizzazione. 8. A che cosa rimanere fedeli. 9.
L’adesività del potere. 10. Una politica fondata sulla partecipazione. 11. Perché un
consiglio non è un partito. 12. Utopia rivoluzionaria o indicazione pratica? 13. Verso una
nuova pratica politica. 14. Movimenti. 15. Il mondo globalizzato e la formazione. 16. Due
su tre. 17. Le due facce della globalizzazione. 18. Che cosa sono gli stati nazionali? 19.
Che cos’è, oggi, la sovranità politica? 20. Dalla politica all’etica. 21. Politica ed economia,
ovvero la sovranità usurpata. 22. Una meta che non si può non condividere.
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PROLOGO
1. Ma che c’entra la psicanalisi con l’economia? L’unione dei termini “psicanalisi”, “politica”
ed “economia” può sembrare abbastanza bizzarra da richiedere qualche parola di
commento preliminare, non tanto per il collegamento fra i primi due – sui quali, almeno nei remoti anni Settanta, s’è parlato anche troppo, come allora si poteva –,
quanto per quello con il terzo. Che relazione mai ci può essere fra la psicanalisi e l’economia? Crediamo che ce ne sia una da sempre, e che oggi – in un momento in cui una
crisi economica che dura ormai da troppo tempo mette alla prova molte delle nostre
certezze – sia importante interrogarsi su di essa.
Per farlo, in effetti, ci si deve anche chiedere che cosa differenzia il mondo in cui
viviamo oggi da quello in cui la psicanalisi è sorta ed ha prosperato. Anche la nostra
pratica attraversa attualmente, per numerosi motivi, delle difficoltà che in passato non
aveva mai incontrato. L’ipotesi che formulo in questo libro è che queste difficoltà
provengono appunto da motivi politici ed economici, che gli analisti non hanno percepito in tempo, come avrebbero dovuto fare per riuscire a ricalibrare la loro pratica
sulla nuova situazione socioculturale che si stava producendo.
Le trasformazioni politiche, economiche e culturali – queste ultime prodotte dalla
diffusione sempre più capillare dei media e degli strumenti informatici –, hanno avuto
ovunque degli effetti così profondi che il mondo d’oggi non assomiglia più quasi in
niente a quello di trent’anni fa. Questi mutamenti, iniziati lentamente negli anni Settanta, dopo la caduta del muro di Berlino (nel 1989) sono diventati evidenti a tutti. In
seguito alla globalizzazione, le città in cui viviamo hanno una popolazione molto diversa da quella d’una volta, e s’è completamente modificata la situazione economica
e culturale di quella classe media da cui è sempre provenuta la maggioranza delle persone interessate alla teoria ed alla pratica della psicanalisi. Inoltre, queste trasformazioni socioculturali hanno prodotto delle modifiche radicali delle situazioni cliniche e
soprattutto hanno finito per mettere in secondo piano o per occultare del tutto quella
che dovrebbe essere la meta fondamentale della psicanalisi, vale a dire la formazione.
Il 1989, in effetti, non è solo l’anno della fine della guerra fredda, ma è anche quello
dell’approvazione della legge italiana che istituiva un registro degli psicoterapeuti de-
IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
positato presso l’Ordine degli psicologi. Vent’anni dopo, tutto sembra dimostrare che
la psicanalisi non ha saputo (o voluto?) non farsi attrarre gradualmente nel territorio
incerto e confuso delle psicoterapie, perché non ha fatto quasi nulla per chiarire pubblicamente che, a differenziarla totalmente da queste, è appunto la prospettiva della formazione, naturalmente con la precisazione necessaria che quest’ultima, come Freud
non s’è mai stancato di ripetere, non ha e non può avere nessuna relazione con tutto
ciò che s’insegna nelle università.
2. Prima del naufragio. Il titolo di questo libro rovescia, almeno in apparenza, quello di
un noto saggio di Freud. L’inciviltà di cui parlo è quella prodotta per un verso dalla diffusione dell’informazione attraverso i mezzi di comunicazione, dall’altro dalla disastrosa
gestione della finanza, il cui conto stiamo pagando già da prima che la crisi economica
esplodesse in tutta la sua virulenza. In effetti, ciò che differenzia questa crisi economica
da quelle precedenti e che ne costituisce la gravità è il fatto che, per uscirne, non si può
semplicemente ritornare alla situazione di partenza (a quello che è stato chiamato il
finanzcapitalismo), perché proprio questa situazione la conteneva in potenza già da
vent’anni. La tesi che sostengo è che anche noi analisti stiamo pagando questo conto
perché – come molti altri – siamo in parte corresponsabili della situazione complessiva
da cui esso proviene, in quanto abbiamo partecipato troppo a lungo a quell’ignorantismo generalizzato che ormai da decenni viene diffuso dai media.
L’ignorantismo, in effetti, non è la semplice ignoranza, ma è credere di sapere perché
si è “informati”. Per essere analisti non basta citare Freud ad ogni piè sospinto. Bisogna
sapere esattamente che cosa ci viene domandato e come questa domanda, se non viene
formulata, può essere suscitata. Niente è più incivile – e più stupido – che credere che
qualche nozione rattoppata basti a tenere in vita la verità di un’esperienza. Il sapere
non è l’informazione, ma è saperla reinventare, mettendola alla prova d’interrogativi che
non valgono niente se non sono relativi a quel ch’è più essenziale per ognuno: la responsabilità che ci si assume in prima persona ogni volta che si decide come agire.
Certo, il problema della formazione è così generale che avrei forse potuto anche partire da altri campi, o da altre professioni. Ho preferito invece partire dalla mia esperienza,
sia da quella più lunga della psicanalisi, nella prima parte del libro, sia da quella, molto
più breve, della politica, nella seconda. In entrambi questi campi, in effetti, si manifesta
oggi un’urgenza della quale sarebbe estremamente opportuno che tutti coloro che vi
sono implicati ne fossero consapevoli. Su una nave che affonda, è bene trovare al più
presto una scialuppa con cui salvarsi, invece che continuare a ballare. Nel campo della
psicanalisi il rischio del naufragio mi pare totalmente evidente, non fosse che per la circostanza che il peggioramento delle condizioni economiche della classe media rischia di
far rimanere tutti gli analisti, chiusi nei loro studi, a contemplare dei divani vuoti. Nel
campo della politica, invece, il naufragio è conclamato da tutti, eccetto che dai politici,
che continuano a guidare la nave con assoluta noncuranza dell’affondamento, pur di
non perdere il posto di comando. Muoia Sansone con tutti i Filistei... L’Italia è governata da decenni da una classe politica che, in modo quasi del tutto indipendente dagli
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Prologo
schieramenti, si dimostra sempre più incapace non solo di decidere le sorti del nostro
paese, ma anche di comprendere i problemi più elementari che si pongono in modo
sempre più pressante nella vita della stragrande maggioranza dei suoi abitanti1.
3. Com’è nato questo libro. La prima parte di questo libro è la riscrittura d’un mio seminario tenuto nel 2011, mentre la seconda, che si occupa prevalentemente d’economia
e politica (o, se si vuole, d’economia politica), è stata aggiunta successivamente, a necessaria integrazione dei contenuti della prima.
A dire il vero, il fatto stesso che io abbia voluto riprendere a tenere un seminario
di psicanalisi – cosa che avevo fatto in passato, a cominciare dal 1979, e che avevo
smesso di fare dieci anni dopo, nel 1988 – merita qualche riflessione, almeno dal punto
di vista storico (non della mia storia, beninteso, che non vedo perché dovrebbe interessare a qualcuno, dal momento che non interessa troppo neppure a me, ma della storia generale degli ultimi decenni).
Nel 1979, quando iniziai a tenere il mio seminario (avevo allora ventisette anni, e
tutto l’ottimismo e l’entusiasmo che necessariamente si ricollega alla giovinezza ed all’inizio di un’esperienza viva come quella della psicanalisi), non era ancora chiaro forse
a nessuno – sicuramente non lo era a me – che era già iniziato quel processo di modifica
dell’economia e della politica mondiali che ha lentamente portato alla globalizzazione.
Certo, i motivi per cui allora avevo deciso di tenere un seminario di psicanalisi non
avevano nulla a che vedere con la politica e tanto meno con l’economia. Molto più
semplicemente, in un momento in cui la psicanalisi italiana dimostrava di non riuscire
a tenere conto dell’apporto imprescindibile dell’insegnamento di Lacan, m’era parso
necessario tentare di riconsiderare i termini della sua riflessione, non semplicemente
esponendoli (come troppi, bene o male, già facevano), ma reinserendoli da una parte
nella continuità della storia della psicanalisi, dall’altra nella lingua e nella cultura italiane.
Il fatto stesso che mi proponessi questo scopo comportava già allora che avessi
qualche consapevolezza del fatto che l’opera di Lacan – che faceva parte della grande
cultura francese, fra il surrealismo e lo strutturalismo – apparteneva già al passato,
benché ad un passato ancora recentissimo.
Una lingua, inoltre, non è solo una grammatica e un vocabolario, ma è anche un
modo di pensare. E in italiano si è sempre pensato in un modo molto diverso da
quello in cui lo si è fatto in francese (anche se le due tradizioni culturali sono sempre
state vicinissime e si sono variamente intrecciate). In particolare, mi pareva che l’esplicito riferimento di Lacan all’illuminismo avesse in Francia un’evidenza che non aveva
affatto in Italia, dal momento che la nostra cultura si è sempre fondata su presupposti
molto diversi da quelli del razionalismo cartesiano (basti pensare a Gian Battista Vico).
1
La recente formazione del governo Monti è la conseguenza, ma non il rimedio, di questa profonda
crisi della politica italiana.
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IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
Beninteso, non si trattava minimamente, per me, di un’astratta questione culturale,
ma di tenere conto della concreta responsabilità che m’ero assunto per il fatto stesso
di praticare la psicanalisi in Italia e in italiano, tanto più che alcune delle analisi che dirigevo erano diventate, nel corso del loro svolgimento, delle analisi didattiche. Questa
responsabilità, di conseguenza, non riguardava solo la mia funzione di analista nel
quadro del setting, ma anche la mia fedeltà ai principi della pratica analitica nella sua dimensione inevitabilmente pubblica2.
Nel 1988, dopo aver tenuto un seminario intitolato La città, che quindi verteva su
un tema politico, decisi di non farne altri. Lo decisi, beninteso, per motivi connessi con
la trasmissione della psicanalisi e senz’avere il minimo sospetto di altre motivazioni
storiche e politiche, che mi sarebbero divenute evidenti solo molto più tardi. Nel 1989,
in effetti – l’anno successivo all’interruzione dei miei seminari3 –, accaddero due cose
non prive d’importanza e fra le quali, allora, non vedevo nessuna relazione: fu approvata la legge 56, che istituiva l’Ordine degli psicologi e l’elenco degli psicoterapeuti, e
la caduta del Muro di Berlino che concluse i lunghi anni della guerra fredda.
Naturalmente, questi due eventi non si possono certo paragonare per importanza,
ma vedremo che la loro coincidenza cronologica non è affatto casuale come potrebbe
sembrare. In effetti, la legge 56, pur essendo stata approvata nel 1989, era in gestazione
già da alcuni anni, e l’interruzione del mio seminario non era senza relazione con i
puntini di sospensione che essa sembrava introdurre nella tradizionale libertà professionale degli psicanalisti in Italia. Anche se la psicanalisi non era più menzionata nella
versione definitiva del suo testo (proprio per escluderla dal suo oggetto4), era già
chiaro da tempo che questo problema, in Italia, incombeva su di essa e su chi la esercitava. Mi sembrò che, in quella situazione d’incertezza, fare un passo indietro, rispetto
all’insegnamento, avrebbe incoraggiato coloro che avevano seguito il mio lavoro a
farne uno in avanti, assumendosi in prima persona una responsabilità più diretta nella
trasmissione della psicanalisi. In effetti, questo accadde solo poco e male. Ed anche
il tentativo di creare in Italia un movimento di analisti, provenienti da scuole diverse,
I contenuti del mio seminario d’allora rifluirono poi in tre volumi, tutti pubblicati dalle Edizioni
Biblioteca dell’Immagine di Pordenone: Il tempo etico (1992), La formazione degli analisti e il compito della
psicanalisi (1991), Il mito di Crono. Principi di clinica psicanalitica (1993). Quest’ultimo volume è stato
integrato successivamente da altri due, usciti presso FrancoAngeli a Milano: Per una clinica delle
dipendenze (1998) e Per una clinica delle perversioni (2000). I primi tre, da tempo esauriti, sono accessibili
ora nel sito www.accademiaperlaformazione.it.
3
In seguito avrei tenuto altri seminari, in situazioni differenti e su presupposti diversi. Per
ulteriori dettagli, rimando chi volesse saperne di più all’elenco pubblicato nel mio sito:
www.web.mac.com/ettore.perrella.
4
Come risulta dalla trascrizione delle discussioni delle Commissioni che hanno stabilito il testo della
legge, facilmente accessibili nel sito delle Camere. Purtroppo, come vedremo, una recente sentenza della
Corte di Cassazione non ha tenuto in nessun conto questi documenti, ed ha equiparato la psicanalisi
alla psicoterapia.
2
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Prologo
ma con l’unico fine di contrastare l’assimilazione della psicanalisi alla psicoterapia,
ben presto si concluse con un fallimento quasi totale.
4. Il “punto di vista economico”. Se è vero che gli analisti si sono sempre occupati poco o
per niente d’economia, gli scritti di Freud, invece, lasciano largo spazio a quello che
egli chiama il punto di vista economico. Freud adotta questa espressione, nella sua
metapsicologia, tutte le volte che parla della trasformazione degli effetti psichici d’una
pulsione. La carica energetica, con la quale Freud spiega il funzionamento dell’apparato psichico, percorre sempre la strada più semplice e diretta, tanto che, anche quando questa
è ostruita, per esempio per effetto d’una rimozione, i contenuti investiti al posto del
contenuto originario rimosso sono sempre quelli più vicini, anche se spesso lo sono
solo per motivi formali o accidentali. Freud chiama questo processo di sostituzione
controinvestimento, precisando che il transfert altro non è che una delle sue modalità
e dei suoi effetti. Ciò che non è ricordato viene inconsapevolmente ripetuto, appunto
nel transfert e per transfert, proprio grazie al controinvestimento di contenuti contigui.
In effetti, le complesse vicende che impongono alle pulsioni le trasformazioni della
loro meta o la rimozione del loro supporto fantasmatico, con la produzione di quel
soddisfacimento sostitutivo in cui consiste il sintomo, non eliminano e non riducono
quantitativamente la pulsione stessa, per quanto possa mutare il suo percorso.
Tutto ciò, come si vede, è strettamente collegato con il significato della parola “economia”. Lo è soprattutto dal punto di vista di quel principio d’inerzia che Freud, anche
se non lo cita esplicitamente, trae dal campo della scienza, o più esattamente della fisica. Ora, questo principio opera appunto in termini economici, in quanto ogni corpo
mantiene il proprio stato, di stasi o di moto, indefinitamente, se una forza esterna non
produce un’accelerazione o un arresto.
Proprio da questo principio fisico Freud trae il principio del piacere, che appunto
tende a mantenere l’apparato psichico in una situazione di minimo dispendio energetico. Insomma “il piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità”, come
aveva scritto Nietzsche in Così parlò Zarathustra, riformulando in termini diversi un
principio metafisico formulato già da Spinoza, secondo il quale ogni ente – anche
quando non ne sa nulla – “vuole” permanere nel proprio essere. In Freud questa tendenza (Trieb, pulsione) si manifesta sia come volontà di permanere nella vita, evitando
il dispiacere ed il movimento che ne deriva, sia come volontà di permanere – e permanere stavolta per sempre – anche nella morte.
5. La pulsione. Ma che cos’è la pulsione, e da dove viene la sua energia? Se rispondiamo
a questa domanda dal punto di vista della sessualità, è facile dare ad essa una risposta
erronea, sovrapponendo il concetto di pulsione a quello d’istinto sessuale. Secondo
questa interpretazione, tutte le pulsioni altro non sarebbero che l’effetto d’una sorta
di programmazione del vivente, che vorrebbe permanere nella propria vita anche oltre
la morte, e per questo desidererebbe sessualmente, al solo scopo d’evitare la morte almeno in parte, grazie alla riproduzione. Ma questa interpretazione è subito corretta
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IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
dal fatto che, per Freud, la pulsione non subisce mutamenti quantitativi nemmeno
dopo il raggiungimento del godimento sessuale. Del resto nessun essere vivente può
avere un consumo d’energia uguale a zero (e proprio per questo, prima o poi, morirà).
In realtà, da un punto di vista evolutivo, non è affatto vero che i viventi hanno una
sessualità perché vogliono riprodursi, ma è vero che esistono perché hanno una sessualità, che consente loro di generare degli altri esseri viventi. Perché ce l’hanno? Da un
punto di vista evoluzionistico dobbiamo rispondere: per un caso, al quale si deve la permanenza della vita sul nostro pianeta. Certo, da un punto di vista filosofico, invece, questa risposta potrebbe non essere affatto soddisfacente. Proprio per questo Lacan diceva
di non essere evoluzionista, ma creazionista: non poteva che essere così, diceva, dal momento che è solo il significante – insomma il linguaggio – a creare delle cose dal nulla.
Anche a questo, beninteso, potremmo obiettare che nemmeno il linguaggio crea dal
nulla alcunché, se non parte da qualcosa d’esistente, non fosse che se stesso. Non è per
questo che, nel libro della Genesi, Dio Padre crea l’universo con il Logos, vale a dire con
il significante? “Dio disse: ‘Sia la luce’, e la luce fu” [Gn 1, 2]. Ma possiamo trascurare
queste problematiche davvero metafisiche, dal momento che questo libro non riguarda
i principi, ma i fini. Della psicanalisi, certo. Ma anche della politica e dell’economia.
6. Che cos’è il godimento, in termini economici? Lavorare stanca, come sappiamo tutti anche
da un celebre titolo di Cesare Pavese. Ma anche godere stanca. Eppure non è la stessa
cosa. La stanchezza prodotta dal piacere è molto diversa da quella prodotta dal lavoro
o dal dolore. Ma in che cosa consiste, in termini economici, la loro differenza? La domanda deve porsi, perché, se ci affidiamo alla semplice contabilità delle energie, come
abbiamo imparato a fare dalla fisica, la loro differenza scompare, equiparando tutto
nella stessa, mortale indistinzione: esattamente quella che Nietzsche attribuiva al moderno nichilismo.
La psicanalisi ne fa parte? Per certi aspetti senza dubbio sì. L’intera costruzione
metapsicologica freudiana rischia di non essere altro che un’applicazione facile ed indebita della neutralità scientifica – e del principio d’inerzia – anche ai fatti soggettivi.
Esisterebbe allora un’unica, ipotetica forma d’energia, che Freud chiama pulsione,
che sosterrebbe tutti gli eventi che determinano la vita d’un individuo. Ora, se così
fosse, tutte le differenze – per esempio quella fra il godimento e il dolore – sparirebbero, diventando delle semplici apparenze. La psicanalisi, se la intendessimo in questo
modo, altro non sarebbe che una variante del nichilismo scientifico. Ma appunto:
Freud ha sempre insistito sulla dualità della pulsione e, quando ha visto nella pulsione
d’autoconservazione solo un altro nome della pulsione sessuale, ha introdotto la pulsione di morte, come suo contraltare necessario.
La psicanalisi, in effetti, non è soltanto un modo per prendersi cura degli intralci
dell’azione (vale a dire dei sintomi e delle inibizioni), perché si occupa anche dell’azione in sé. E Freud si è sempre reso conto che l’assimilazione in apparenza neutra
della pulsione all’energia avrebbe completamente vanificato non solo la teoria, ma
anche la pratica della psicanalisi.
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Prologo
Della pulsione mi sono già occupato lungamente in passato5. Ma da quanto ho
detto allora qui devo riprendere solo un punto, che è assolutamente centrale per chiarire in che modo la psicanalisi può – e secondo me deve – sviluppare una propria
concezione dell’economia. Si tratta della differenza fra l’esperienza del piacere (o del
godimento) e quella del dispiacere (o del dolore). Naturalmente questa differenza, di
per sé, non necessariamente riguarda solo il punto di vista economico. Freud tende
tuttavia a raffigurare sia il piacere, sia il godimento come conseguenze d’un disturbo
pulsionale: il primo sarebbe l’effetto del ristabilimento delle cariche energetiche minime, dopo l’aumento della tensione dovuto all’eccitazione, mentre il secondo sarebbe
l’effetto di un’invasione di scariche energetiche “libere”, che disturberebbero l’equilibrio pulsionale. È evidente che Freud pensa ad un investimento minimo diffuso come
alla situazione “normale” della psiche, mentre ogni sovrainvestimento verrebbe sentito
come spiacevole: paradossalmente anche il piacere, non meno del dispiacere.
Su questo tema, tuttavia, Freud – forse perché non soddisfatto da questa spiegazione, dietro la quale, appunto, è facile intravedere il principio d’inerzia della fisica –
è tornato più volte, ed il testo in cui ci pare che si sia avvicinato di più al nucleo del
problema è l’ultimo che ha scritto, lasciandolo incompiuto: il Compendio di psicanalisi.
Solo qui, in effetti, a differenza di quanto aveva fatto prima, motiva il piacere e il dispiacere non con le “altezze in termini assoluti” delle “tensioni prodotte dagli stimoli”,
ma con il “ritmo del loro mutamento”6. Qualunque cosa intendesse Freud con questa
indicazione rapida ed abbastanza enigmatica, è certo che essa ci fa comprendere come
per lui, alla fine della sua vita, l’impostazione neutra del fattore energetico, che si ricollegava ai concetti della fisica classica – il principio d’inerzia ed il secondo principio
della termodinamica – si era rivelata incapace di spiegare dei fatti soggettivi pure assai
comuni come il piacere e il dispiacere. Il ritmo fa intervenire invece un elemento di
partecipazione corporea che non è determinato più solo da fattori quantitativi, ma
anche da schemi motori, che regolano il funzionamento del corpo. Qui davvero lo psichico e il somatico sono la stessa cosa, perché il secondo non sarebbe nulla se il corpo
non fosse dotato di quella capacità di muoversi – in definitiva di giocare – che solo
l’apparato psichico gli consente d’acquisire e di perfezionare.
Il godimento, allora, a questo punto non è più semplicemente il ritorno ad una situazione di bassa eccitazione, ma è piuttosto l’aumento stesso dell’eccitazione, in quanto
viene percepito non come un disturbo, ma come un aumento progressivo della vitalità
dell’organismo. È l’accelerazione progressiva del movimento a provocare quella sorta
d’approssimazione del piacere al limite del tollerabile che poi porta all’orgasmo. Ma
l’orgasmo che cos’è, se non una sorta di proiezione – non solo letterale – del corpo
fuori da se stesso, vale a dire oltre il limite che pure lo costituisce nella sua “naturale”
5
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Nella seconda parte (§§ 111-71) del mio Il mito di Crono cit.
Cfr. ibid. § 161.
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IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
unità? Comunque venga miticamente spiegato questo superamento, è certo che, nel
godimento in quanto tale, si assiste ad una sorta di transustanziazione del somatico, che
può essere intesa anche come un accrescersi – e non come uno spreco – di quell’energia
che ne fa un corpo vivente.
Ma questo accrescimento è soltanto illusorio, perché in realtà l’energia si limita a
raccogliersi, o è un accrescimento reale, vale a dire una creazione dal nulla d’energia?
È evidente che, se fosse vera la seconda ipotesi, perderebbe di validità il secondo principio della termodinamica, secondo il quale ogni trasformazione d’energia implica
una perdita. Se così fosse, allora, basterebbe godere per diventare dei.
Certo, può sembrare eccessivo evocare gli dei. Ma, per capire che invece non lo è
affatto, basta ricordare che la parola “economia”, prima d’avere il suo significato attuale, ne ha avuti altri, che spesso sono stati assai prossimi non solo alla metafisica,
ma anche alla teologia. Riassumerli brevemente può non essere inutile a chiarire di che
cosa parliamo in questo libro.
7. Oikonomía. La parola greca oikonomía – dalla quale deriva la parola italiana – designava in principio l’amministrazione d’una casa (oikos), intesa non solo come abitazione,
ma anche come centro di produzione (soprattutto agricola). In seguito, il significato di
questa parola s’allargò, fino ad includere l’amministrazione d’una città o d’una popolazione (Aristotele, Politica), o addirittura l’amministrazione divina dell’universo (come
in San Paolo ed Origene). In tutto questo, con ogni evidenza, l’aspetto “monetario”
dell’amministrazione – del nómos – della “casa” è abbastanza secondario.
Un dialogo di Senofonte7 – la prima opera che abbia nel titolo un riferimento all’economia – inizia dalla domanda, che Socrate pone al suo interlocutore, Critobulo,
se l’oikonomía può considerarsi una scienza (epistéme) “come la medicina, l’arte del fabbro e la carpenteria”. La domanda, come si vede, è molto simile a quelle che si trovano
nei dialoghi di Platone, ma è chiaro che il paragone non è con la scienza nel senso più
rigoroso ed astratto del termine, ma con la scienza applicata ad un impiego pratico.
Certo, qui si tratta dell’amministrazione della “casa”, ma in questa rientrano immediatamente tutte le proprietà, ivi compreso il denaro. E lo scopo pratico di questa scienza
è definito fin dall’inizio del dialogo: far aumentare (auxein) i beni di chiunque.
Tuttavia le ricchezze (khrémata), per Socrate, sono dei beni per chi le possiede solo
se sa come utilizzarli, perché altrimenti possono essere fonte di molti problemi. A
questo punto Critobulo chiede se questo vale anche per il denaro, e naturalmente Socrate replica che anch’esso può essere fonte di molti problemi. Del resto il concetto
che Socrate si fa dell’economia è immediatamente subordinato ad una considerazione
etica. In effetti, egli si dice più ricco di Critobulo, pur possedendo un centesimo dei
suoi beni, proprio perché non è vincolato agli obblighi sociali e politici cui l’altro non
7
Senofonte, L’amministrazione della casa (Economico), Marsilio, Venezia, 1988.
16
Prologo
può sottrarsi. In definitiva, la principale fonte di guadagno, per Socrate – che fa l’esempio del re di Persia Ciro, che coltivava con le proprie mani i suoi giardini – è l’agricoltura, mentre il matrimonio è l’esperienza in cui più immediatamente è in questione
l’amministrazione della casa. Perciò è compito degli uomini istruire nel migliore dei
modi tanto la moglie, quanto i propri subordinati.
Il principio economico dell’amministrazione è, naturalmente, molto semplice: non si
può spendere di più di quello che si ha. Chi dilapida le proprie sostanze, manca di rispetto
non semplicemente per quel che ha guadagnato, ma per un patrimonio che solitamente
ha ereditato dai propri genitori. I beni d’una casa, quindi, hanno in sé qualcosa di sacro.
Una riprova di questo si ha da un’orazione che Eschine pronunciò contro Timarco,
accusandolo di due colpe, non solo strettamente collegate, ma che nel testo appaiono
come le due facce della stessa medaglia: avere sperperato i beni ereditati dal padre ed
essersi prostituito. In entrambi i modi, dice Eschine, egli ha perduto le doti morali
che sono tenuti ad avere i cittadini d’Atene se vogliono partecipare alla vita politica.
Per questo i cittadini non possono adottare dei comportamenti che invece sarebbero
perfettamente consentiti agli schiavi o ai meteci (i residenti non ateniesi). L’indegnità,
per cui Timarco non potrà più partecipare alle assemblee ed al governo della città, deriva essenzialmente dal fatto che non rispettare i beni permanenti ricevuti in dono (il
corpo e il patrimonio) comporta che si oltraggi quella nobiltà – morale e civica – che
non si può né comprare né vendere, e che viene perduta per sempre se ciò che la supporta diventa oggetto d’uno scambio economico. Chi lo compie dimostra di non essere più un libero cittadino, ma di comportarsi appunto come uno schiavo o uno
straniero.
8. Divina economia. Anche nella letteratura cristiana il significato del termine “economia” è molto lontano da quello attuale. Lo incontriamo già nella Lettera agli Efesini.
Paolo si rivolge ai cristiani che vivono nella città greca (1, 1-14), dicendo che essi sono
stati segnati, anzi più letteralmente “sigillati dallo spirito santo della promessa”, perché
“il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo” li ha eletti “in lui prima della fondazione del mondo” come figli per adozione “mediante Gesù Cristo”, “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la sua benevolenza, che propose in lui,
per economia della pienezza dei tempi [eis oikomían toû plerómatos tôn kairôn], che tutte
le cose fossero ricapitolate in Cristo”.
Si tratta d’un brano di sapore gnostico, assolutamente cruciale nella teologia cristiana, perché ha determinato in seguito l’intera concezione patristica dell’economia,
soprattutto nella tradizione greco-ortodossa, da Origene fino a Gregorio Palamas.
Nella Vulgata, in effetti, il termine oikonomía è reso con dispensatio. Dispensare originariamente significava “pesare con cura”, quindi questo verbo può tradursi anche con
“suddividere”, “distribuire”, “amministrare” ecc. In latino, come si vede, può non apparire affatto evidente che la distribuzione dei doni divini implica un’impostazione
“economica”. Per Paolo, Dio ha amministrato con accortezza – vale a dire senza sprechi e con moderazione – la manifestazione della “pienezza dei tempi”. Certo, può ap17
IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
parire strano che un Dio onnipotente preferisca essere “economo”, piuttosto che impiegare il proprio infinito potere per ottenere immediatamente quel che vuole. Dio,
in effetti, è l’unico che non è tenuto a risparmiare. E tuttavia lo fa. E questo non è affatto sorprendente come potrebbe sembrare. Nel Cristianesimo, in effetti, la salvezza
individuale non può che dipendere dalla libera scelta dell’individuo. Nessuno può essere costretto a salvarsi. L’economia divina consiste quindi semplicemente nell’aprire
la strada lungo la quale chiunque potrà liberamente decidere se e come percorrerla.
Questa strada è lunga e tortuosa, e comporta mille possibilità differenti di scegliere fra
il bene e il male. Infatti, se così non fosse, non ci sarebbe nessuna salvezza, perché non
si ha nessun merito quando si fa solo quel che si è costretti a fare. Non è quindi affatto
un paradosso che la salvezza dipenda dalla possibilità di non conseguirla e che proprio
per questo anche Dio usi dei criteri “economici” nel manifestarsi.
L’immagine più radicale di ciò che stiamo dicendo si ha in un testo dell’Antico Testamento: il Libro di Giobbe. Qui Dio concede al Demonio la possibilità di tentare il
giusto Giobbe in tutti i modi che vorrà, e sappiamo che, in seguito a questa concessione, Giobbe perderà non solo i suoi beni materiali, ma anche i figli. Ciò nonostante,
trova la forza di non supporre che questa lunga serie di sciagure dipenda da una colpa,
e proprio questo consentirà a lui – e a Dio – di “vincere la scommessa” con il male.
Come la teologia cristiana ha sempre insistito nel dire, il male non è che il frutto
d’una preferenza per il non essere piuttosto che per l’essere. Il male, in altri termini,
è un bene mancato, e non il contrario del bene. Proprio per questo, come dirà Agostino, il peccato stesso altro non è che un’occasione per salvarsi.
L’“economia della pienezza dei tempi” è in primo luogo l’economia della pienezza
delle occasioni [tôn kairôn] di salvezza. E questa economia è nella sua pienezza solo
grazie all’incarnazione della Parola divina in Colui che è – con la sua morte e resurrezione – la pienezza [pléroma] della promessa. L’incarnazione s’è prodotta una volta sola,
e nel modo meno appariscente: “Il mio regno non è di questo mondo”, risponde Cristo
a Pilato, che gli chiede se è lui il re dei Giudei [Gv 18, 36]. Sta a ciascuno decidere se
credere o non credere, e proprio di questo parla Paolo agli abitanti di Efeso. Se il Figlio
di Dio non morisse come un malfattore, in quella che Paolo stesso chiama “la follia
della croce” [1 Cor 1, 18, 23], semplicemente nessuno sarebbe libero di credere. Gli
atti di Dio, di conseguenza, non sono mai dimostrativi nemmeno della sua esistenza.
Dio non può essere che un Deus absconditus. E proprio in questo consiste la sua “economia”: il merito della fede è sempre del fedele, e mai di Dio, tanto che neppure
Cristo riesce a compiere miracoli, se le persone che lo circondano non credono [Mt
13, 53-8]. È proprio perché gl’interventi di Dio nella storia sono sempre non evidenti
che, nel Cristianesimo, la scelta giusta non è mai, semplicemente, quella prescritta
dalla legge, dal momento che, come i farisei, si può rispettarla nei minimi dettagli, eppure essere peccatori.
Inoltre, non vi è solo un’economia di Dio nei confronti degli uomini, perché ce n’è
anche una dei credenti nei confronti di chi non lo è. Il principio dell’economia è sempre lo stesso: compiere il proprio atto sempre appoggiandosi su ciò che l’altro può
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Prologo
aspettarsi, e nel modo meno appariscente possibile (“quando fai l’elemosina, la tua
mano sinistra ignori ciò che fa la tua destra” [Mt 6, 3]).
Come si vede, nel Cristianesimo il concetto d’economia, pur avendo acquisito un
peso infinitamente superiore a quello che aveva nel mondo greco, è ancora lo stesso:
ottenere il massimo a partire da quello che si ha. Tuttavia l’economia, che nel mondo
greco era in primo luogo una scienza, adesso è divenuta una virtù. Ma i suoi confini
ed il suo modo di procedere non sono affatto cambiati.
9. Gli psicanalisti e l’economia. Tutto questo ha qualcosa a che fare con la psicanalisi da
una parte e con l’attuale situazione economica dall’altra? È molto facile rispondere subito che da molto tempo l’economia assomiglia ben poco a una virtù. E da quando il
capitalismo ha trovato nella produzione industriale il suo principale campo d’applicazione nessuno pensa che, per migliorare la propria situazione finanziaria, basti amministrare quello che ci regala la natura. Nel capitalismo, invece, per poter guadagnare,
occorre spendere, investendo. Anzi si può guadagnare molto, come nella finanza, semplicemente prestando del denaro a qualcun altro.
Veniamo ora alla psicanalisi, anzi agli psicanalisti. Nel loro lavoro il denaro ha una
funzione evidente. Tuttavia questo non ha mai dato loro una precisa percezione di che
cos’è l’economia nel nostro tempo. In effetti, nella psicanalisi il denaro interviene soltanto nella sua materialità, come moneta. Ora, la moneta ha oggi un’importanza molto
ridotta nell’economia, dal momento che la quasi totalità della ricchezza complessiva
del pianeta è ormai costituita da denaro virtuale, che esiste solamente nei files delle banche. Curiosamente, mentre sembrano molto attaccati al loro portafogli, gli analisti
continuano però ad essere molto incuranti, anzi felicemente inconsapevoli, di quali
sono oggi gli strumenti effettivi dell’economia e della finanza.
Da che cosa dipende questa ingenuità, che io stesso ho condiviso per anni? A prima
vista, direi, da alcuni antichi privilegi. Gli analisti ne avevano parecchi: quello d’essere
pochi, quello d’essere mediamente molto colti, ed infine quello che proveniva loro
dal fatto che li si cercava solo per affrontare dei problemi che nessuno considera nemmeno, se non ha la possibilità, appunto economica, di farlo. Oggi tutto questo, anche
per l’impoverimento progressivo della classe media, inizia a non essere più ovvio come
lo era un tempo, e questo comporterà una trasformazione della psicanalisi, che sarà
sempre più costretta a confrontarsi con il lavoro nel pubblico e nelle istituzioni.
Ma questo non vuol dire che gli analisti dovranno semplicemente adeguarsi alla
nuova situazione. Se facessero questo, perderebbero ogni contatto con i presupposti
etici del loro lavoro, e con il fatto che la psicanalisi, come Freud e tutti gli altri grandi
teorici della psicanalisi hanno sempre sottolineato, prima ancora di servire per superare
delle nevrosi, serve a formare degli psicanalisti. Ed è su questo punto, vale a dire sulle
condizioni in cui, in una società dell’informazione, sarà ancora possibile mantenere
vive delle pratiche di formazione, che essi dovrebbero concentrare la loro riflessione
e la loro attività, come in realtà, negli ultimi decenni, o hanno fatto troppo poco o non
hanno fatto per nulla.
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IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ - Psicanalisi, politica, economia
10. Il problema politico della formazione. Che la psicanalisi intera non possa essere intesa all’interno dei termini della fisica e dell’economia classiche si comprende molto bene dal
fatto che il compito della sua pratica non è mai stato di compiere una semplice riparazione
terapeutica del sintomo inteso come disturbo. Al contrario, per Freud, un sintomo è sempre l’espressione d’un desiderio, sebbene rimosso o negato. Ed un desiderio è per definizione contrario ad ogni adeguamento ad una regola e quindi ad ogni legge. Solo per
questo il desiderio ultimo, per Freud, è sempre stato il più illegale: il desiderio incestuoso.
La psicoterapia, per Freud, non è mai stata altro che una delle applicazioni possibili
della psicanalisi, resa possibile sempre e solo dagli effetti della formazione, ossia dell’incentivazione della capacità dell’individuo di decidere da sé quali desideri perseguire
e fino a che punto cercare di realizzarli. In questo, come si vede, la psicanalisi riprende,
forse senza che Freud ne fosse consapevole, l’essenziale dell’antica formazione filosofica8. In effetti, la stessa acquisizione di quella moderazione che, nel corso dell’esperienza, si tratta di raggiungere, non consiste affatto nel semplice adeguarsi ad una
regola, ma nella capacità di trasformare lo stesso adeguamento ad una regola in uno
strumento necessario per la realizzazione della propria scommessa originaria, vale a
dire del proprio desiderio fondamentale. E, beninteso, non ci stiamo più riferendo, in
questo contesto, al desiderio determinato dal fantasma, ma ad una sorta di scommessa
di partenza, che sta alla base della relazione di ciascun soggetto col suo atto, vale a dire
della sua stessa eticità. Il desiderio, in altri termini, prima ancora che desiderio d’un
oggetto, è il desiderio fondamentale che anima il vivente: quello d’espandere la propria
vitalità oltre gli stessi limiti che lo definiscono nella sua individualità. E qui non è difficile vedere che, senza saperlo, l’ebreo ateo autore dell’Avvenire di un’illusione si avvicina
moltissimo non solo alla filosofia antica, ma anche al Cristianesimo, che appunto ha
sempre definito l’eticità degli atti di chiunque non a partire dal loro adeguarsi ad una
legge – per esempio a quella mosaica –, ma nel completamento della legge, vale a dire
nella “seconda alleanza” della grazia. Solo in questa prospettiva, in effetti, la promessa
inclusa nella fede può aprire la prospettiva di quella che Gregorio Palamas – con tutta
la teologia ortodossa – chiama la partecipazione deificante9.
Il tema della formazione è sempre stato al centro non solo della psicanalisi, ma
anche, come abbiamo già accennato, della riflessione politica (almeno a partire dalla
Repubblica di Platone). Questa coincidenza non si produce di certo per una fortuita
coincidenza, ma per un motivo strutturale. Sia la psicanalisi, sia la politica, in effetti
(come anche altre pratiche, del resto), non possono dimenticare che la formazione
delle nuove generazioni fa parte del loro compito fondamentale. Anche le strutture
politiche, in effetti, sono fatte per trasmettersi.
Com’è stato mostrato, in alcuni scritti fondamentali, da Pierre Hadot.
Su questo punto rinvio alle opere di Gregorio Palamas, e in particolare a La partecipazione deificante,
in Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2003.
8
9
20
Prologo
Nel mondo moderno, la formazione individuale è stata sempre radicalmente confusa con l’istruzione, soprattutto scolastica e universitaria. È evidente che, nonostante
l’importanza di quest’ultima, non sono e non possono essere né la scuola né l’università a farsi carico della formazione individuale, sia perché i bambini, quando giungono
a scuola, sono solitamente già abbastanza determinati dall’educazione ricevuta nelle
famiglie, sia perché i programmi scolastici sono sempre fondati su concetti generali,
e perciò non tendono a rispondere ad esigenze individuali, ma a produrre delle conoscenze diffuse e, di nuovo, generali. Occorre poi non dimenticare che, nell’epoca della
diffusione dei computer, l’informatizzazione tende ovunque a sostituire la formazione,
e questo comporta necessariamente – anche nelle scuole, con l’esclusione di alcuni luoghi di formazione privilegiati – una riduzione della cultura a semplice informazione
aproblematica.
Ora, un’informazione è viva quando si crea parallelamente ad un’esperienza di formazione, non quando invece è confezionata in partenza in piccole dosi da distribuire
a delle masse ritenute – anche se a torto – sempre più indifferenziate. La formazione
degli psicanalisti, che non obbedisce a criteri universitari, ma psicanalitici, come Freud
ha spesso ripetuto, è del tutto estranea alla logica dell’istruzione generalizzata, e forse
proprio per questo assistiamo in Italia ad un tentativo d’assorbirla in una logica universitaria, con la mediazione d’un Ordine professionale come quello degli psicologi,
che niente ha a che vedere né storicamente né concettualmente con la psicanalisi.
Se questo tentativo riuscisse, nulla più resterebbe della scommessa etica in cui consiste la nostra pratica, ed un’altra imprescindibile battaglia in difesa dei principi delle
libertà individuali sarebbe perduta, ad unico vantaggio di chi ha interesse a controllare
una cultura ridotta ad un’informazione sempre più arida e vuota.
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ETTORE PERRELLA
IL DISAGIO DELL’INCIVILTÀ
PSICANALISI, POLITICA, ECONOMIA
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Riproduciamo, per gentile concessione dell’Autore, il primo capitolo,
“Fra due crisi”, della Prima parte, “La psicanalisi nell’epoca dei media”, del
libro di Ettore Perrella Il disagio dell’inciviltà, Screenpress Edizioni, collana
Academy, Trapani, 2012, pp. 27-44.
Il libro è acquistabile direttamente sul sito dell’Editore,
www.screenpress.it, e nelle principali librerie su Internet.
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Parte I
La psicanalisi nell’epoca dei media
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Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 4
1. Fra due crisi
1. Gli psicanalisti e l’economia.
Il lavoro d’un analista, dal punto di vista socio-economico, in fondo altro
non è che una professione come tutte le altre. Eppure gli analisti si sono
dimostrati sempre abbastanza indifferenti non solo alle problematiche
economiche, ma anche a quelle connesse con la gestione giuridica e politica
delle professioni. Molti di loro considerano anzi la propria pratica
completamente estranea a tutto ciò, tanto più che, nella loro esperienza, il
denaro svolge certo una funzione essenziale, ma – come vedremo fra poco –
non interviene tanto come un compenso per la loro prestazione, quanto
come una condizione dell’efficacia della relazione analitica. Questo ha
sempre prodotto un’asimmetria fra la psicanalisi e le altre professioni, ed ha
finito per confermare, agli occhi degli analisti, che non c’era nessun
problema nemmeno nella loro indifferenza per l’economia in generale.
Il fatto che essi abbiano sempre saputo quanto importante fosse per Freud
il “punto di vista economico” non modifica molto le cose, dal momento che
questa, per loro, è sempre rimasta – a torto – solo una metafora. Del resto, è
stato proprio Lacan – il meno professionistico degli psicanalisti – a
sostenere, nel suo seminario del 1978-1979 su L’atto psicanalitico, che gli
analisti sono “capaci, e capaci in modo tale da potervisi classificare, come si
dice nelle altre arti, sport o tecniche, in quanto professionisti” 1.
Inoltre, il prestigio che l’esercizio della psicanalisi ha goduto per lungo
tempo ha facilitato l’insorgere del pregiudizio secondo il quale i problemi
economici sarebbero stati, in questo campo, del tutto secondari. Questo
pregiudizio, in passato, ha fatto sì che anche gli analisti partecipassero, di
fatto, a quell’ingiustificato ottimismo che dominava in tutti i paesi
1
Seminario del 22 novembre 1967. Il seminario sull’atto, ancora inedito (a trent’anni
dalla morte di Lacan!) è stato tuttavia pubblicato da P. Valas nel sito
http://www.valas.fr/Jacques-Lacan-L-acte-Psychanalytique-1967-1968,136.
www.lacan-con-freud.it
5 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
occidentali e faceva pensare che fosse naturale, anzi scontato, che la
ricchezza di chiunque avrebbe continuato a crescere automaticamente. Solo
l’esplodere, nel 2008, della crisi che dura tuttora ha posto fine forse per
sempre a tutto questo.
Eppure gli analisti avevano anche nei decenni precedenti degli ottimi
motivi per non condividere il delirio di tanti economisti neoliberal, secondo
i quali sarebbe bastato far cadere i limiti legali che un tempo vincolavano la
finanza per produrre miracolosamente un’enorme ricchezza, di cui tutti
avrebbero goduto. Gli analisti non potevano non aver costatato più volte che
le periodiche crisi dell’economia – anche se quelle del passato erano molto
meno gravi e più brevi di quella attuale – si riflettevano immediatamente ed
automaticamente anche nelle loro entrate. In effetti, le domande d’analisi
sono sempre provenute da rappresentanti della classe media, e questo ha
sempre fatto sì che, al crescere delle difficoltà economiche, diminuisse il
numero delle sedute e delle domande d’analisi. Anche da questo punto di
vista, quindi, non c’è mai stata nessuna differenza fra la psicanalisi e tutte le
altre professioni.
Ora, se l’ingenuità economica degli analisti non produceva effetti
particolarmente significativi nelle crisi economiche periodiche, che
solitamente venivano superate in pochi mesi, non è affatto detto che lo
stesso valga nella crisi attuale, che non solo dura già da anni, ma sembra
non derivare solo da un problema economico-finanziario, ma anche da un
problema politico e civile. Ne consegue che gli effetti di questa crisi,
intrecciandosi con i profondi mutamenti economico-sociali che si stanno
producendo ormai da tre decenni, potrebbero essere nefasti non solo sulle
finanze degli psicanalisti, ma anche sul futuro della psicanalisi stessa.
La psicanalisi, in effetti, è una pratica così poco diffusa che la situazione
economica di chi la esercita non ha alcun riflesso su nessuna economia. Ma
siccome la psicanalisi è forse, fra tutte le professioni liberali, quella che in
modo più deciso è caratterizzata dal fatto di non obbedire ai criteri
generalizzanti di tutte le altre, oltre ad essere quella che più direttamente si
occupa della formazione individuale, siamo costretti ad interrogarci sulla
relazione che essa ha con l’economia, perché farlo riguarda immediatamente
il problema della relazione tra l’economia e la formazione. E quest’ultimo
problema riguarda non solo gli analisti, ma davvero chiunque.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 6
2. La funzione del denaro in psicanalisi.
Come dicevamo, e contrariamente a quanto si continua forse ancora a
credere, i clienti degli studi psicanalitici non sono affatto i ricchi, ma dei
componenti della classe media. Fra i clienti di Freud, per esempio, solo
l’Uomo dei Lupi era davvero ricco, ma smise presto d’esserlo, in seguito
agli espropri promossi dalla rivoluzione russa, tanto che allora fu lo stesso
Freud a promuovere fra i propri colleghi una colletta che lo aiutasse ad
affrontare la sua seconda analisi (e questo finì per produrre dei sintomi
nuovi ed abbastanza preoccupanti).
Il fatto è che non si paga un analista semplicemente per dargli un
compenso della sua competenza (se di questo si trattasse, non ci sarebbe
nessuna differenza fra pagare la parcella d’un avvocato e pagare una
seduta), ma per sottolineare che, a fare l’analisi, è l’analizzante, anche se
con il necessario supporto dell’atto o dell’interpretazione dell’analista.
Quest’ultimo, insomma, viene pagato non tanto in compenso del proprio
operato, quanto per svincolare l’analizzante da ogni legame immaginario
che lo legherebbe all’analista, nel caso che questi operasse senza
pagamento, quindi per un amore che l’analizzante, in questo caso, sarebbe
autorizzato a supporgli. Chi paga un avvocato o un ingegnere lo fa proprio
per ricompensarli del tempo che dedicano alla soluzione del problema che è
stato loro affidato e per la competenza con cui lo affrontano. Di fatti, nulla
impedisce a un avvocato o a un ingegnere, se lo vogliono, di lavorare
gratuitamente per un proprio cliente.
Nulla di tutto questo avviene invece con la psicanalisi, dove l’analista
non fa assolutamente niente al posto dell’analizzante. Proprio per questo,
come ricorda Lacan, questo niente deve costare solitamente abbastanza caro
da consentire all’analizzante di comprendere molto chiaramente di non
ricevere dal suo analista altro che questo “niente”. Solo che la parola
francese rien (“niente”) proviene dalla parola latina res, “cosa”. Quindi il
“niente” di cui stiamo parlando è per l’appunto non solanto qualcosa, ma
una cosa del tutto determinante ed essenziale: l’ascolto, vale a dire una
posizione nei confronti dell’altro che anche l’analizzante, gradualmente,
finirà per acquisire almeno nei confronti di se stesso.
È appunto per la funzione di questo importantissimo “niente” che la
psicanalisi è sempre, molto prima che una cura, una pratica formativa. Ed è
ancora a causa di questo “niente” che la psicanalisi non può essere inclusa
senza ulteriori specificazioni nel novero delle professioni (soprattutto di
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7 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
quelle sanitarie). Essa è senza dubbio una professione, dal punto di vista
giuridico o fiscale, ma non lo è affatto per il modo in cui si svolge la sua
pratica. La pratica della psicanalisi altro non è che l’articolazione graduale
della relazione che lega l’analizzante al suo psicanalista e vice versa. Il
pagamento è infatti, prima che un compenso economico, una componente
del transfert, e di conseguenza uno strumento dell’analisi.
Tuttavia la relazione fra l’analista e l’analizzante non è sullo stesso piano
di quella fra l’analizzante e l’analista. Certo, in un certo senso questo vale
anche per qualunque professione. Anche la relazione fra un avvocato e il
suo cliente non è sullo stesso piano di quella fra il cliente e l’avvocato: il
cliente si serve del professionista per la sua competenza, e lo compensa per
il tempo che gli dedica, mentre il secondo fornisce al cliente un determinato
servizio e viene compensato economicamente per questo. Ciò non
impedisce però che l’avvocato e il suo cliente possano essere anche amici, o
parenti, o legati da altri vincoli simmetrici, mentre questo non è possibile
con la psicanalisi, perché una relazione già costituita fra loro impedirebbe
che si formasse quella necessaria a svolgere l’analisi, vale a dire il transfert.
La relazione fra analista ed analizzante non può sussistere prima dell’inizio
dell’analisi proprio perché questo impedirebbe al transfert di costituirsi
liberamente a partire dal fantasma del secondo. Perciò la relazione fra i due
non può e non deve mai essere simmetrica. Ed è qui che la funzione del
pagamento è determinante, perché il pagamento dimostra chiaramente –
vale a dire in termini simbolici – l’asimmetria della relazione analitica.
Questo significa che il transfert non può essere considerato solo dal punto
di vista economico, né dall’analista né dall’analizzante (anche se
quest’ultimo, a differenza dal primo, può non saperne nulla). È noto che le
regole della psicanalisi impongono ad entrambi un’astinenza che non è solo
sessuale e che dipende dalla necessità di preservare l’asimmetria della loro
relazione, vale a dire la differenza dei punti d’enunciazione delle loro
parole. Quest’astinenza non è riferita solo alla sessualità, ma esclude, per
esempio, che essi possano collaborare ad imprese economiche comuni, al di
fuori dall’analisi. L’analizzante parla da una posizione che non è e non può
essere assimilata a quella dell’analista e vice versa, tanto che, quando
un’equivalenza di questo genere inizia a prodursi, bisogna che entrambi
prendano atto che l’analisi sta per terminare.
Il pagamento costituisce quindi, dicevamo, una conferma simbolica di
quest’asimmetria. Non siamo, quindi, dalla parte dell’economia, almeno se
assumiamo la psicanalisi per quel che è – cioè se l’assumiamo a parte
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 8
subiecti –, mentre ci siamo senza dubbio se l’assumiamo – a parte obiecti –
semplicemente come una professione. L’analista accompagna l’analizzante
nel suo percorso, e non solo non impone nessun itinerario, ma – per non
uscire dalla metafora – non fornisce neppure i mezzi di trasporto. È proprio
per sottolineare tutto questo che la cifra che viene fissata per ciascuna
seduta dev’essere abbastanza alta da incidere sui bilanci dell’analizzante. Si
decide di fare un’analisi se e solo se questa è l’unica via d’uscita da un
problema per il quale non se ne vede nessun’altra. Farne una implica un
investimento primario, del quale l’investimento economico è solo un aspetto
necessario, sia dal punto di vista simbolico, sia per la sua funzione nella
pratica. E proprio questo rende particolarmente disagevole il lavoro
dell’analisi per le persone molto ricche, che non a caso, di solito,
preferiscono rivolgersi a cliniche psichiatriche di lusso piuttosto che
affrontare le mille fatiche, incertezze e diversioni che imporrebbe loro la
situazione analitica.
Certo, ora mi sto riferendo schematicamente ad una situazione “classica”
dell’analisi, e ci sarebbero alcune eccezioni importanti in alcune sue
varianti, che si rendono necessarie in determinate posizioni cliniche. Ciò che
vale con la psicanalisi classica non vale, per esempio, per la psicanalisi dei
bambini, o per le psicosi e le dipendenze (situazioni in cui si privilegiano
non a caso degli interventi istituzionali). Ma queste eccezioni non
comportano nessuna differenza strutturale, perché nel primo caso non si è
ancora costituito il valore simbolico del denaro, mentre le varianti del
setting destinate a particolari patologie utilizzano i concetti della psicanalisi
in contesti diversi da quello dell’analisi classica, nei quali il transfert con
l’analista non può e non deve divenire uno strumento primario del lavoro.
Per questo nulla esclude che un analista, con degli psicotici o con dei
dipendenti, possa venire compensato da un’istituzione, e non dal soggetto (e
in questi casi lo statuto economico del suo compenso non differisce in
niente da quello di qualunque altra professione).
Naturalmente il fatto che il denaro abbia un valore simbolico,
nell’analisi, non esclude certo che poi, sia per l’analizzante, sia per
l’analista, ne abbia anche uno pratico molto evidente (altrimenti non sarebbe
denaro). Ma è appunto questo aspetto pratico che gli analisti tendono spesso
a sottovalutare o a non vedere, e questo spiega di solito il loro scarso
interesse per le problematiche economiche, soprattutto quando guadagnano
abbastanza da vivere agiatamente.
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9 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
Del resto un analista deve lavorare moltissimo, se vuole mantenere la
propria posizione nel sociale (e quindi, per dirlo banalmente, avere una
clientela), non solo nelle sedute, ma anche prima e dopo, per esempio
insegnando, scrivendo e pubblicando. Tuttavia non è pagato per questo. È
come dire: lavora gratuitamente, fuori dalle sedute, ed invece, al loro
interno, è pagato per fare qualcosa che non è, propriamente, un lavoro... In
altri termini, non è pagato, come chiunque altro, per avere un compenso
dell’alienazione che gl’impone il suo lavoro, o per il sacrificio che gli è
stato necessario per imparare il suo mestiere. Studia perché questo
l’appassiona, e l’alienazione inevitabile anche in analisi, nei lunghi tempi
della parola vuota, è più che compensata dal piacere che suscitano in lui i
momenti di verità che si producono nel corso dell’esperienza. Un analista,
insomma, da questo punto di vista, è più simile ad un artista che a un
professionista.
Deriva un po’ anche da questo quell’“odore di zolfo” che la psicanalisi
ha sempre – cito di nuovo Freud – e che fa sì che la figura professionale
dell’analista sia sempre prossima a quella, socialmente assai poco
rassicurante, dello stregone o dell’imbroglione. E perciò – cito Lacan,
stavolta –, quando egli cede sulla propria relazione all’eticità del suo atto,
c’est sans retour: si smette d’essere un analista, per divenire realmente un
imbroglione.
Da tutto questo si deduceva un tempo che un analista affermato avesse,
solitamente, delle entrate abbastanza cospicue, e solitamente lo si deduceva
a ragione. Era un lavoratore le cui esigenze erano del tutto estranee alle
rivendicazioni non solo di tutti i dipendenti, ma anche degli stessi
professionisti. Ma oggi tutto questo vale ancora? E, se sì, fino a che punto?
3. Perché la psicanalisi non è una psicoterapia.
Il rischio che, non solo in Italia, oggi sta correndo la psicanalisi, d’essere
assimilata al campo incerto delle psicoterapie, non muta le condizioni di
partenza e di efficacia che abbiamo schematicamente riassunto. Se questa
assimulazione avvenisse anche nella pratica, e non solo dal punto di vista
giuridico, vale a dire se gli psicanalisti rinunciassero al primato della
prospettiva formativa all’interno della propria esperienza, a finire non
sarebbero gl’incontri fra l’analista (a questo punto divenuto uno
psicoterapeuta come qualunque altro) e la sua clientela, ma la psicanalisi
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 10
stessa, perché quelle sedute nulla avrebbero più a che vedere con i principi
etici e pratici a suo tempo stabiliti da Freud e trasmessi poi a tutti i suoi
allievi diretti e indiretti per un secolo.
Certo, ci si potrebbe chiedere perché mai dovrebbe avvenire questo.
Un’analisi didattica non potrebbe forse continuare ad essere possibile con le
persone giuridicamente abilitate a farne una? Gli analizzanti laureati in
psicologia o in medicina potrebbero continuare a formarsi, inscrivendosi ad
un corso quadriennale destinato agli psicoterapeuti, e così diventerebbero…
che cosa? Psicoterapeuti con orientamento analitico? Ma uno psicanalista
non è mai stato questo. La psicoterapia può essere un effetto della
psicanalisi, non il suo scopo. E l’efficacia della situazione analitica, come
abbiamo visto, dipende dall’assunzione da parte dell’analizzante d’una
capacità d’ascolto che è quella dell’analista, anche quando non pensa affatto
di potere o di volere svolgere mai questa funzione. Allora come si può
subordinare uno sbocco formativo che dev’essere disponibile per tutti coloro
che fanno un’analisi al conseguimento d’un titolo universitario, per
conseguire il quale occorrono circa dieci anni?
A quanto abbiamo appena detto si potrebbe obiettare che già prima
dell’approvazione della legge 56 del 1989 alcune associazioni psicanalitiche
ben note, come quelle che aderivano all’International psychoanalytic
Association, già prevedevano, fondandosi proprio sui titoli di studio, una
selezione preliminare di quanti erano ammessi a fare un’analisi didattica. A
questa obiezione dobbiamo rispondere con chiarazza: l’accettazione di
questa impostazione non nega la verità di quanto abbiamo detto, che si
fonda sulla tradizione della psicanalisi al tempo di Freud e per i lunghi anni
in cui Lacan ha tenuto il suo seminario; dimostra invece che l’Ipa, quando
accettava queste condizioni d’ammissione ad un’analisi didattica, già
contraddiceva lo spirito e l’essenza della tradizione freudiana alla quale,
pure, diceva di voler rimanere fedele. Nessuno può essere ammesso ad
un’analisi didattica, come se questa fosse diversa da un’analisi “solo”
terapeutica. L’aspetto formativo non appartiene ad alcune analisi sì, e ad
altre no. Esso è del tutto indipendente dal fatto che l’analizzante pensi o non
pensi di divenire psicanalista, e tanto più che lo diventi realmente, anche
perché lo può pensare solo in maniera transitoria. Un’analisi diventa
didattica solo quando avrà prodotto, al futuro anteriore, un analista. Ma è
sempre formativa, o non è un’analisi. La formazione, in altri termini, vi è
sempre presente, e lo è in modo costitutivo, anche quando dall’esperienza
non scaturirà nessun analista.
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11 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
Ne consegue che nessuno può essere “ammesso” ad un’analisi didattica
per il semplice motivo che nessuno può prevedere in partenza se un’analisi
produrrà uno psicanalista, e neppure se ce ne sarà una. Perciò qualunque
distinzione di gradus fra psicanalisti “didatti” e psicanalisti che non lo sono
non solo è illusoria, ma contraddice clamorosamente gli stessi principi
d’efficacia della psicanalisi freudiana.
Non possiamo che concludere che sottoporre ad una legge dello Stato la
formazione degli analisti la falsifica sempre e totalmente, perché essa nulla
può o deve avere a che vedere con nessuna procedura per acquisire una
qualifica qualunque, foss’anche quella di psicanalista 2. A questo si deve
aggiungere, come un corollario, che falsificare in questo modo i dati di
realtà della formazione degli psicanalisti costituisce anche un pericoloso
precedente per la formazione in generale. E questo, come vedremo meglio
nel prossimo capitolo, nell’epoca dell’informazione può essere molto
pericoloso per tutti ed in tutte le esperienze.
Una psicoterapia si distingue dall’analisi proprio perché è una
professione. Lo è perché è definita come tale da una legge dello Stato
italiano, la quale non fa nessuna distinzione fra le varie psicoterapie (del
resto una legge come potrebbe farne una?), ma le regolamenta tutte nello
stesso modo, ignorando la differenza strutturale che distingue la psicanalisi
da tutte le psicoterapie (del resto questa legge non parla della psicanalisi, ma
solo delle psicoterapie).
Un’altra obiezione che si potrebbe fare a quanto abbiamo detto è che
anche un’analisi può risolversi in una psicoterapia. In effetti, questo capita
spesso, anzi nella maggior parte dei casi, vale a dire tutte le volte che
l’analizzante la conclude senza avere sviluppato l’idea di divenire analista.
Ma, di nuovo, questo non significa che l’aspetto formativo non sia stato
decisivo nel corso dell’esperienza, significa invece solo che la formazione,
per lui, non è andata nella direzione del divenire analista. Se invece
intervenisse in alcuni casi un’impossibilità oggettiva di divenirlo, questo
impedirebbe sempre che ci fosse della formazione, nelle analisi, perché
sovrapporrebbe sempre la formazione stessa all’acquisizione d’una capacità
giuridica, cosa che in realtà la formazione non è mai.
Naturalmente qualcuno potrebbe dire che, per esempio, il fatto che il
matrimonio sia regolamentato dalla legge non esclude che un marito ed una
2
Su questo punto rimando al mio Psicanalisi e diritto. La formazione degli analisti e
la regolamentazione giuridica delle psicoterapie, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone
1995. Questo volume è attualmente accessibile in www.accademiaperlaformazione.it e in
www.manifestoperladifesadellapsicanalisi.it.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 12
moglie possano amarsi realmente. Tuttavia la legge regolamenta il
matrimonio solo formalmente e dall’esterno, e non tenta nemmeno di
definire che cosa significa, per due coniugi, amarsi. Che cosa succederebbe
se la legge prescrivesse a tutti gli aspiranti coniugi di frequentare per dieci
anni dei corsi universitari, per imparare che significa amare? La legge 56, se
avesse realmente il significato che le è stato dato dalla Corte di Cassazione,
non sarebbe in effetti meno assurda e ridicola di questa.
Tuttavia la formulazione letterale della legge 56 è ambigua, perché
esclude la psicanalisi dall’oggetto della legge, ma senza dichiararlo, e quindi
rendendo possibili delle sentenze come quella cui ci stiamo riferendo.
Questa sentenza elimina quest’ambiguità, perché interpreta la legge
estendendo il concetto di psicoterapia anche alla psicanalisi. Si produce così
una contraddizione di fondo, che rischia d’impedire totalmente l’esistenza
della psicanalisi, in quanto trasforma realmente ogni analisi in una
psicoterapia (anche quando si tratti di analisi ritenute didattiche). In effetti,
la formazione degli analisti prevede delle modalità del tutto differenti da
quelle universitarie o parauniversitarie previste dalla legge sulle
psicoterapie, e queste ultime, diventando obbligatorie per gli analizzanti che
vogliano divenire analisti, si sovrapporrebbero a quelle effettive della loro
formazione, impedendo loro d’adottarle 3.
Le modalità di formazione degli psicanalisti sono costitutivamente
individuali, e non generali (esattamente come lo sono tutti i percorsi
realmente formativi). Ed anche lo studio della teoria psicanalitica non può
non seguire gli stessi criteri individuali che presiedono al percorso di
ciascuna analisi, se è uno studio relativo alla psicanalisi, e non un
apprendimento universitario di morte nozioni o informazioni generali.
Proprio per questo nemmeno i contenuti e le modalità dell’apprendimento
teorico della psicanalisi possono essere determinate “per legge”, come
accade invece in tutti i programmi scolastici o universitari, ivi compresi
quelli che devono avere tutti gli istituti abilitati a rilasciare il titolo di
psicoterapeuta, anche quando dicono di richiamarsi alla psicanalisi. Una
legge, in effetti, non può che avere un valore generale 4. Proprio per questo
Freud ha sempre insistito sul fatto che la psicanalisi non s’impara e non si
può imparare all’università.
3
In effetti la formazione di analisti è un processo che non è e non può essere incluso
totalmente nell’analisi, in quanto si è analisti, quando ci si è formati, non solo all’interno
della situazione analitica, ma anche fuori, vale a dire nel sociale.
4
È noto, in effetti, che anche leggi ad personam possono venire applicate a chiunque.
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13 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
Il punto è che non tutto può divenire oggetto d’una legge. Vi sono degli
ambiti sui quali non si può legiferare, perché l’esistenza stessa d’una legge
impedirebbe ciò che essa vorrebbe regolamentare. Ci sono dei temi di fronte
ai quali la legge deve arrestarsi e riconoscere l’esistenza d’un limite, che la
riguarda perché la costituisce nella sua stessa validità generale, vale a dire
nella sua legittimità. Ogni legge che superi questo limite – anche
indipendentemente dal fatto che sia o non sia costituzionale – è illegittima, e
quindi è una non-legge 5. Che invece, negli ultimi decenni, si tenda spesso a
superare questo limite, quando si legifera, è indice d’un indebolimento,
anche nella coscienza di molti politici e di molti giuristi, di quello “spirito
delle leggi” che invece dovrebbe presiedere anche alla loro formulazione
letterale. Ora, questo indebolimento non è che un altro indizio – esattamente
come la crisi dell’economia – d’un indebolimento, iniziato almeno da un
quarto di secolo, delle strutture civili della cultura, non soltanto italiana, ma
dell’intero occidente.
4. Livelli d’economia.
L’attuale crisi continua a far peggiorare le condizioni economiche di
quella classe media da cui, come dicevamo, proviene la stragrande
maggioranza della clientela degli psicanalisti. Quando le entrate
diminuiscono, devono diminuire anche le uscite, e di solito s’inizia sempre a
ridurre quelle meno essenziali. Fare un’analisi sarà certo importante, ma
mangiare ed avere il riscaldamento lo sono di più. Nella nostra cultura non
tutte le spese sono equivalenti, perché non tutti i bisogni lo sono. Non a caso
si parla spesso, in economia politica, dei bisogni primari, che sono tutti
quelli che servono per assicurare la possibilità stessa della sopravvivenza
dignitosa di qualunque individuo: il nutrimento, la salute, l’educazione ecc.
Altri bisogni – che pure, in altre prospettive, potrebbero essere ritenuti non
meno essenziali – passano in secondo piano, come tutti quelli connessi con
la necessità di vivere in modo soddisfacente e piacevole.
Beninteso, anche questo è comprensibile. Lo Stato può garantire il diritto
alla scuola ed all’assistenza sanitaria. Ma, soprattutto nei momenti di crisi,
finisce per non essere in grado di garantire più del minimo. Il lavoro è
5
Sulla legge 56, questa è la tesi, che non si può non condividere, formulata da
Giacomo Contri, La fuorilegge. La legge 56/89 o “legge Ossicini”. Il reato di leso diritto,
Siconline Edizioni, 2011, in www.sicedizioni.it.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 14
precario? Meglio che la disoccupazione. Il costo dell’istruzione pubblica è
troppo elevato? Aumentiamo il numero degli alunni nelle classi e
risparmiamo sugli stipendi da dare agl’insegnanti. Anche la cultura costa
troppo? È più importante assicurare il pareggio dei bilanci. I politici
ragionano da politici. E i confini di ciò che s’intende per politica tendono a
restringersi quando bisogna stringere la cinghia per motivi economici.
Tuttavia la distinzione fra i bisogni primari e quelli che primari non sono,
benché possa essere messa in discussione, è fondata su un innegabile
nocciolo di realtà. Ci sono delle cose essenziali che vanno garantite, mentre
ce ne sono delle altre che non possono esserlo. Per esempio: si può garantire
che un bambino sia nutrito e che vada a scuola; invece non si può garantire
che sia nutrito sempre nel modo migliore, che frequenti la scuola con
profitto e che abbia la possibilità di giocare liberamente. Si può garantire
che dei meccanismi di compensazione sociale consentano alle persone che
perdono il lavoro di sopravvivere percependo dei sussidi economici; ma non
si può garantire loro di vivere bene, serenamente, e facendo affidamento su
quei miglioramenti graduali che una volta parevano scontati, mentre adesso
non lo sono più. Socialmente questo significa una cosa molto semplice: si
può garantire la sopravvivenza dei disoccupati; ma non si può garantire
l’esistenza della classe media. A meno che, naturalmente, non mutino
completamente i criteri che presiedono alle decisioni politiche.
Con le parole “classe media”, del resto, oggi, dopo gl’innegabili e diffusi
progressi economici assicurati in tutto l’occidente dai decenni del benessere
(dal ’45 al ’75), non ci si riferisce più, come accadeva una volta, solo ai
commercianti, ai professionisti e agli insegnanti, ma ci si riferisce anche alla
maggior parte di quella che in precedenza era la classe operaia. In effetti,
negli anni del boom economico, le condizioni della maggioranza degli
operai sono migliorate fino al punto da consentire di considerarli una
componente della classe media. Proprio per questo l’attuale regresso della
classe media non riguarda solo professionisti ed insegnanti, ma anche e
soprattutto i piccoli proprietari terrieri e gli operai. Ora, i miglioramenti
economici degli anni del benessere non si sono verificati per caso, e non
accade per caso nemmeno che oggi l’intera classe media si stia sempre più
impoverendo. Sulla classe media non si fonda solo la psicanalisi, ma anche
la democrazia. Ed un regime politico realmente democratico non può non
fare di tutto, nella sfera economica, per allargare i confini della classe
media. È abbastanza evidente perché non può che essere così: i privilegiati
(gli aristocratici un tempo, adesso chi possiede dei capitali) non hanno
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15 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
bisogno della democrazia per vivere nel modo più soddisfacente (anzi di
solito è vero il contrario), ed il proletariato – quando ancora esisteva – alla
democrazia preferiva molto spesso quella che i testi marxisti chiamavano la
sua dittatura. Proprio per questo i regimi democratici sono stati sempre, fin
dall’antica Grecia, l’espressione politica dei progressi economici della
classe media.
La crisi economica manifestatasi nel 2008 (ma che in realtà già covava
da tempo) ha posto radicalmente in discussione i meccanismi dell’economia
neoliberal, senza però che essi venissero sostituiti con meccanismi
economici differenti. Con la conseguenza che la crisi attuale non ha fatto
che mettere in evidenza ciò che prima si poteva soltanto intravedere: che la
ricchezza che quella economia produceva era non solo destinata a
pochissimi, ma anche in buona parte artificiale, perché fondata più sulla
circolazione del denaro (la finanza) che sulla effettiva produzione di beni
destinati alla maggior parte della popolazione.
Ma da dove vengono allora gli enormi capitali reali (e non solo virtuali)
che negli ultimi due decenni si sono accumulati nelle mani di pochissimi?
Se non vengono dalla produzione, e non sono virtuali (vale a dire in
sostanza immaginari), non possono che provenire da coloro ai quali sono
stati sottratti. E chi sono costoro, se non – appunto – i componenti di quella
classe media che si sta sempre più impoverendo? In realtà possiamo dire che
tanto l’economia neoliberal quanto la successiva crisi economica non stanno
facendo altro che far tornare nella povertà la classe media, concentrando la
ricchezza nelle mani di pochissimi 6.
La psicanalisi è nata e si è affermata in una società nella quale alla classe
media erano affidati dei compiti culturali, civili ed economici fondamentali
e in un periodo in cui il benessere economico era abbastanza diffuso (alla
fine dell’Ottocento ed agli inizi del Novecento, quando vigeva ancora il
gold standard, e nel secondo dopoguerra, nei “trenta gloriosi”). Certo, essa
non è scomparsa nel primo dopoguerra, nonostante la pesante crisi
economica che si verificò nel 1929 e che fu superata, in effetti, solo grazie
alla seconda guerra mondiale; non è scomparsa nemmeno dopo gli anni
Settanta, nel periodo in cui il neoliberismo economico sembrava ancora in
grado d’assicurare un benessere diffuso. Tuttavia, almeno da vent’anni a
questa parte, ha iniziato a delinearsi quella tendenza alla
professionalizzazione ordinistica che oggi, almeno in Italia, sta falsificando
totalmente i presupposti etici e la pratica della psicanalisi, tanto che essa
6
Cfr. R. B. Reich, Aftershock. Il futuro dell’economia dopo la crisi, Fazi, Roma 2011.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 16
potrà sopravvivere molto difficilmente, se non si troveranno degli strumenti
giuridici adeguati per un verso a regolare meglio che nei decenni passati il
funzionamento dell’economia, per un altro – anche se i due problemi non
sono certo comparabili per gravità ed estensione – a garantire agli analisti
d’ogni tendenza la libertà d’agire al di fuori della logica corporativa imposta
dagli Ordini professionali.
5. Un problema molto italiano.
La psicanalisi, in Italia, oggi è sospesa fra due crisi, una economica ed
una giuridica, che però non vanno sovrapposte, perché sono molto diverse e
derivano da cause addirittura opposte, anche se i loro effetti sono
convergenti. La crisi economica attuale non è affatto solo italiana. Certo,
l’Italia la subisce con alcune aggravanti, la maggior parte delle quali
dipendono dall’eccesso di debito pubblico, eccesso che dipende a sua volta
da una situazione – economica e politica – solo italiana (vi ritorneremo). Ma
la crisi attuale è una crisi complessiva del capitalismo, che si trasmette a
tutto il mondo perché proviene da una difficoltà logica che l’economia
occidentale incontra nell’affrontare le conseguenze globali delle proprie
scelte.
La crisi giuridica, invece, proviene da meccanismi solo italiani, e che in
definitiva coincidono con quelli da cui si è generato il nostro debito
pubblico. In effetti, la Commissione parlamentare che mise a punto il testo
della legge 56 del 1989, pur avendo escluso la psicanalisi dal suo oggetto, lo
fece solo cancellando la parola “psicanalisi”, che faceva parte del testo del
precedente progetto di legge, ma, come abbiamo già ricordato, non specificò
in nessun modo questa esclusione 7. Eppure questa legge era stata proposta
da un deputato indipendente di sinistra, Adriano Ossicini, che, in quanto
psichiatra, non era certo privo di competenze su queste tematiche. Come si
spiega, allora, questa poca chiarezza del testo della legge?
Ben inteso, la scarsa chiarezza distingue molte delle leggi approvate dal
Parlamento italiano, che richiedono subito numerose circolari applicative:
evidentemente non si vuole che il loro significato sia del tutto chiaro, ma si
7
Essa risulta solo dalla registrazione delle discussioni delle Commissioni
parlamentari che definirono il testo della legge. Cfr. per es. l’intervento di Franca Bassi
Montanari nella seduta del 18 gennaio 1989: “La questione della formazione psicoanalitica
è assai complessa e non può certo essere risolta limitando le categorie dei laureati a coloro
che abbiano conseguito il titolo in medicina e in psicologia”.
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17 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
preferisce spesso mantenere uno spazio d’incertezza, che diviene
immediatamente uno spazio di manovra per salvaguardare gl’interessi
corporativi di qualcuno. Come dice il nostro vecchio proverbio, “fatta la
legge, trovato l’inganno”. Peccato che qualche volta l’inganno addirittura la
preceda.
Per quanto riguarda la legge 56, questi spazi di manovra servivano a
quelle associazioni psicanalitiche che furono consultate prima della sua
approvazione: le stesse che, in un primo momento, chiesero l’inclusione
della psicanalisi nell’oggetto della legge, perché avrebbero voluto servirsene
per controllare la formazione degli analisti a scapito delle altre; che
successivamente, quando s’accorsero che non sarebbero riuscite ad ottenere
questo controllo, chiesero l’esclusione della psicanalisi dall’oggetto della
legge; e che alla fine, nonostante questo, a causa della poca chiarezza del
suo testo, decisero di creare e gestire degli istituti per la formazione… di
psicoterapeuti8.
Inoltre la legge 56, dicevamo, era stata proposta da un deputato di
sinistra. La sinistra italiana, com’è noto, proviene in gran parte – se non per
quel Partito Socialista che si è completamente disperso dopo la crisi
provocata da Mani Pulite – dall’ideologia del Partito Comunista, e il
comunismo – esattamente come la politica di matrice cattolica – ha sempre
rifiutato i criteri individualistici, di matrice liberale, che riteneva a priori
espressione dei privilegi “borghesi”. Per quanto tali concetti oggi sembrino
far parte di un’epoca remota, è bene insistere sul fatto che essi sono ancora
presenti nella mentalità e nel modo di pensare di tutta la classe politica, che
è ancora quasi interamente composta da persone cresciute nella “prima
repubblica” (se non dagli stessi responsabili di allora, più o meno riciclati in
altre formazioni elettorali).
6. “Luigini contro contadini”.
Stiamo considerando qui una caratteristica che distingue nettamente
l’Italia dagli altri paesi dell’Unione Europea e che sarà opportuno precisare
ulteriormente. La legge 56, in effetti, non va certo nella direzione delle
liberalizzazioni che sono state favorite dal neoliberismo economico. Essa
8
Traggo queste informazioni da una comunicazione verbale di Pierfrancesco Galli,
che all’epoca poteva attingere a fonti dirette sulle manovre istituzionali che guidarono la
formulazione della legge 56.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 18
procede invece in senso nettamente corporativo – quindi nella direzione
contraria –, come del resto è inevitabile che accada quando si istituiscono
degli ordini professionali. Non è un caso che l’Italia non abbia mai seguito
le direttive dell’Unione Europea, che chiederebbero uno smantellamento o
almeno un alleggerimento degli ordini professionali. Ed il corporativismo –
non a caso promosso nel ventennio fascista – è sempre stato nemico per
principio d’ogni forma di liberalismo.
Tuttavia, come vedremo fra poco, le cose non sono affatto così semplici.
Il liberalismo effettivo è sempre stato nemico delle corporazioni o degli
ordini, che in definitiva altro non hanno mai fatto né possono fare che
istituire e amministrare i privilegi dei propri iscritti. Che servano a garantire
nel sociale la capacità di chi si occupa d’una determinata professione, in
effetti, è solo un pretesto per garantire solo i loro veri o presunti interessi
economici. La categoria professionale, così, diventa immediatamente una
casta (non sono solo i politici, in Italia, a costituirne una). In effetti, non c’è
nessun bisogno d’un Ordine professionale per punire gli errori o le frodi che
si producano in qualunque attività lavorativa, dal momento che esistono a
questo proposito delle leggi specifiche, che prescindono dall’esistenza di
qualunque Ordine 9.
Il legislatore, in effetti, in Italia – come forse in qualsiasi democrazia –,
non è affatto immune come si pretenderebbe dalle spinte di questo o quel
gruppo d’interesse. Ci troviamo qui di fronte ad un problema che per un
verso è molto italiano, ma per un altro è anche molto diffuso in qualunque
sistema democratico. E qui ciò che sembra allontanare l’Italia dallo spirito
del vero liberalismo finisce invece per avvicinarla molto a quello del
liberalismo falso, vale a dire ai meccanismi e ai privilegi promossi in tutto il
mondo dal neoliberismo economicio e dal finanzcapitalismo 10. Molti sono
gli strumenti per premere sul legislatore: a volte è la semplice conoscenza,
più spesso sono degli interessi economici o elettorali.
In un libro meritorio per la chiarezza delle sue analisi della situazione
economica e politica del nostro paese, vengono isolate due grandi categorie
di persone, chiamate scherzosamente, sulla scorta d’un testo di Primo Levi,
“luigini” e “contadini”. I contadini sono tutti coloro che producono. I luigini
sono invece
9
Ad esempio, un noto psicanalista italiano fu condannato per circonvenzione
d’incapace prima che la legge 56 venisse approvata, mentre oggi, vent’anni dopo, continua
a svolgere ancora la propria attività.
10
Su questo punto rimandiamo al bel libro di L. Gallino, Finanzcapitalismo. La
civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011.
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19 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
tutti quei soggetti in grado di estrarre extra-profitti illegittimi da tutte le categorie con cui
intrattengono relazioni economiche stabili. Una facoltà resa possibile dalla “cattura del
Legislatore” che si esplica attraverso la capacità dei Luigini di impedire il sorgere di
legislazioni puntuali in ambiti vitali del loro business (ad esempio nella sfera dei diritti dei
consumatori, degli azionisti e delle liberalizzazioni), di indirizzare e depotenziare la pratica
traduzione delle norme esistenti in tali ambiti (di derivazione essenzialmente comunitaria) e
di orientare culturalmente e politicamente la produzione delle norme negli altri ambiti di
loro interesse (il diritto del lavoro innanzitutto) 11.
L’influenza dei luigini, in Italia, è vastissima e nefasta in ogni ramo
dell’economia. L’esempio che ne abbiamo dato – quello dell’influenza sulle
norme parlamentari da parte di pochi gruppi d’interesse sedicenti
psicanalitici, e tutto ciò che ne è conseguito per vent’anni – è senza dubbio
molto secondario, ma non per questo è meno chiaro.
Come hanno mostrato gli autori di questo libro, che si firmano con uno
pseudonimo comune, che non a caso è quello d’un promotore dei moti
milanesi del 1848, gli effetti di questi controlli corporativi sull’economia e
sulla politica italiane sono numerosissimi e rischiano di produrre un
regresso economico e civile che potrebbe diventare irrimediabile. Le
proporzioni del problema si comprendono facilmente se si tiene conto del
fatto che i luigini non sono affatto un ristretto gruppo di “cattivi”. In Italia
chiunque può essere al tempo stesso contadino (vale a dire produttore) e
luigino (vale a dire sfruttatore), e quasi sempre può esserlo con buona
coscienza, vale a dire senza nemmeno rendersene conto. L’esempio dei
sedicenti psicanalisti che hanno prima voluto e poi utilizzato la legge 56 è
particolarmente evidente. Conosco abbastanza miei colleghi (e
psicoterapeuti di varia estrazione) per saperlo: molti di loro mascherano ai
propri stessi occhi la propria viltà morale con pretesti come la dignità delle
professioni ed il rispetto della legge, magari scrivendo questa parola con la
lettera maiuscola, come se questo cambiasse qualcosa nei dati del problema.
Gli psicoluigini – se posso inventarmi questa variazione sul tema – non solo
non sono pochi, ma sono forse la maggioranza degli psicanalisti e degli
psicoterapeuti. Tutti loro sanno benissimo che la psicanalisi non ha nulla a
che vedere con la psicoterapia, ma non fanno nulla per affermare
pubblicamente questa evidenza. È capitato perciò che degli psicanalisti che
conoscono perfettamente Freud e che sanno benissimo che la psicanalisi non
11
G. Casati, Luigini contro contadini. Il lato oscuro della questione settentrionale,
Guerini, Milano 2011, p. 100 sg.
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 20
s’impara all’università – né in corsi parauniversitari per psicoterapeuti –,
siccome però dirigono questo o quell’istituto per la formazione dei secondi,
quando è stato chiesto loro di firmare il Manifesto per la difesa della
psicanalisi, dopo un’attenta lettura hanno dato la classica risposta da
commedia all’italiana: “È vero, non lo firmo”.
Peccato che questa commedia all’italiana, infinitamente più estesa del
campo delle pratiche “psico-”, sta travolgendo non solo la psicanalisi, ma
anche l’economia del nostro paese, come vedremo meglio nel seguito della
nostra esposizione.
7. Chi produce non sempre è chi guadagna.
L’analisi compiuta dal libro di Gabrio Casati è molto illuminante sui dati
più generali e preoccupanti della crisi politica e sociale del nostro paese. Si
parte da una considerazione degli squilibri produttivi fra tre regioni che
producono quasi tutti gli attivi economici (Lombardia, Veneto ed EmiliaRomagna), e tutte le altre (anche del Nord) che invece ne traggono dei
vantaggi non sempre, anzi quasi mai ben amministrati. Naturalmente qui
non possiamo soffermarci su questo punto (che pure è essenziale, perché
consentirebbe di reimpostare in termini realistici le problematiche che sono
state, negli ultimi anni, monopolizzate dalla Lega Nord). Ciò che ci pare più
importante nel libro di Casati è che esso ci consente di risalire dalla
descrizione dello squilibrio economico fra due parti del nostro paese allo
squilibrio fra due componenti dell’intera società italiana: coloro che
producono e quanti ne traggono indebitamente un’utilità consentita, sia
legalmente sia illegalmente, dal funzionamento di molteplici meccanismi
d’interesse e dalla capacità d’influire sul Legislatore. I luigini sono
quel mondo immediatamente comprensibile ai più, costituito da rendite, albi professionali,
attività concesse su licenza: quel mondo che prospera nelle pieghe opache di una
legislazione che non ha mai definitivamente dismesso i suoi tratti corporativi medievali12.
Ma i luigini, dicevamo, non sono una sparuta minoranza, sono invece
un’intera categoria sociale, anzi
12
Ibid., p. 127.
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21 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
un popolo privo di capacità di autorappresentazione […] ma obiettivamente unito da un
interesse comune: salvare i loro extra-profitti e mantenere i Contadini nella condizione di
unica classe pagatrice 13.
Il loro numero molto elevato dipende in effetti da una rete vastissima di
complicità e d’interessi, a volte intrecciati anche con quelli della criminalità.
In uno schema del funzionamento dell’economia del nostro paese, i luigini
influenzano lo Stato (il palazzo) perché continui a vessare i contadini con
tasse, balzelli e leggi che opprimono tutte le iniziative individuali,
servendosi per questo della complicità per un verso degli assistiti, per un
altro delle mafie 14.
Il quadro che possiamio trarre da questa descrizione – assolutamente
sconfortante, ma anche assolutamente realistico – dà adito a poche speranze,
a meno che non sorga un nuovo “partito dei Contadini” 15, che sia in grado di
governare il paese con uno spirito produttivo, invece di salvaguardare i
privilegi di tutti gli assistiti.
Questi ultimi, ben inteso, non sono soltanto i pensionati, ma tutti coloro
che vengono protetti da misure legislative corporative o dagl’interessi del
sottobosco politico. Il numero enorme dei luigini dipende in effetti proprio
dall’estensione d’un antico e complesso sistema di protezione dei gruppi
d’interesse. Si tratta, dicevamo, d’un sistema molto italiano, nel senso
peggiore della nostra tradizione, che potremmo far risalire al privilegio
guicciardiniano del “particulare” 16. Il “particulare” – si badi bene – si
sviluppa a danno sia della generalità economico-sociale del paese, sia degli
individui. E questo non è meno vero anche quando gli stessi soggetti si
comportano in alcune situazioni da contadini ed in altre da luigini.
8. Uno sguardo d’insieme sugli “psico-” italiani.
Chi sono, individualmente e socialmente, gli operatori “psico-” italiani,
vale a dire gli psicologi, gli psicoterapeuti, gli psicanalisti e in parte, forse,
anche gli psichiatri? Nella stragrande maggioranza essi provengono tutti
dalla classe media e sono animati da sempre, vale a dire dal fatidico
13
Ibid., p. 128.
Ibid., p. 131.
15
Ibid., p. 141 sgg.
16
Su questo punto insiste R. De Monticelli, La questione morale, Cortina, Milano
2010, p. 25 sgg.
14
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 22
momento della scelta del loro lavoro, da ottime intenzioni: insomma
vogliono subordinare le proprie attività all’ottenimento di risultati utili
anche per gli altri. Non a caso un tempo – negli anni Settanta – le Facoltà di
psicologia erano forse quelle più animate da studenti che sventolavano degli
ideali rivoluzionari (i cui risultati oggi si vedono nel fatto che la maggior
parte di loro è diventata fautrice dell’ordine, in tutti i sensi del termine).
Questo non vuol dire però che essi vedessero (o vedano) chiaramente la
distinzione strutturale – direi addirittura trascendentale – che separa la
formazione, che è sempre individuale, dall’acquisizione d’una capacità
professionale, che invece obbedisce sempre e necessariamente a criteri
generalizzanti. Questa distinzione, in effetti, è del tutto celata, nella cultura
italiana, da una parte dalle sue radici cattoliche, dall’altra dall’influenza del
marxismo, che hanno sempre visto nell’individualismo una colpa
imperdonabile 17. Ciò che ne risulta, alla fine, è appunto il privilegio del
“particulare”, vale a dire la difesa degl’interessi corporativi.
Le facoltà di psicologia, sotto la protezione di un’impostazione sedicente
scientifica delle problematiche soggettive, hanno finito così per ospitare e
sviluppare al proprio interno questi antichi pregiudizi culturali italiani. Che
si pretenda di occuparsi degli individui in modo non individuale, perché
farlo sarebbe ritenuto individualistico, è uno dei non pochi paradossi
originari da cui si sono sviluppate le contraddizioni che oggi affligono
l’intero campo “psico-”. La psicologia sorse come un terreno di studio che si
occupava di quanto è umano, troppo umano, ma che voleva farlo ricorrendo
(o almeno pretendendo di ricorrere) ad un riferimento scientifico che
avrebbe dovuto impedire ogni scivolamento nell’individualismo… Di tutto
questo, oggi, ben inteso, fra gli psicologi non è rimasto nient’altro che
l’incertezza sul proprio ruolo e sul proprio compito: incertezza che non
poteva che venire immediatamente sovracompensata o con gli stendardi del
successo (possibilità aperta solo ai pochi che divenivano analisti o docenti
universitari) o con quelli d’una scientificità solo rappezzata, perché pensata
sempre senz’alcun riferimento ad una qualunque concezione dell’eticità.
Non lo dico per aumentare i nemici che ho già fra gli psicologi. Infatti,
come si potrebbe rimproverare loro tutto questo, visto che gli altri – ivi
compresi gli analisti – solitamente non hanno fatto molto meglio di loro?
Fu in definitiva per questo paradosso originario che la proposta di creare
un Ordine degli psicologi, vent’anni fa, accese molti entusiasmi fra gli
“psico-”. Ecco finalmente un’istituzione che avrebbe difeso i loro interessi
17
Cfr. ibid., p. 54 sgg.
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23 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
professionali e rappresentato socialmente l’importanza del loro lavoro!
Proprio per questo l’Ordine s’è subito fatto un punto d’onore d’operare non
solo, come fanno tutti gli Ordini professionali, per raccogliere sostanziosi
contributi economici da parte dei loro iscritti (dai quali deriveranno delle
pensioni da fame), ma anche d’attaccare senza tregua e denunciare tutti
coloro che, per praticare altre forme d’intervento psicologico senza avere il
patentino dell’Ordine come psicoterapeuti, potevano essere accusati
d’esercizio abusivo della professione.
D’esercizio abusivo di quale professione? La scienza, qui, ha ben pochi
contributi da dare. È ben difficile dire, da un punto di vista scientifico, che
cosa distingue la pratica d’uno psicologo da quella d’uno psicoterapeuta, da
quella d’uno psicanalista, o da quella di chiunque possa, semplicemente
parlando con qualcun altro, dargli eventualmente un aiuto a comprendere
qualcosa che lo riguarda (o magari anche ad impedirgli di comprenderlo).
Nell’elenco potremmo mettere praticamente chiunque: un insegnante e un
medico, un avvocato e un prete, un guaritore e un cartomante: tutti loro, in
realtà, più o meno sistematicamente, o almeno di tanto in tanto, operano
proprio come fanno gli psicologi, vale a dire, semplicemente, parlando.
Ma non è la stessa cosa, si dirà. Certo, non è la stessa cosa: ma la
differenza fra tutte queste pratiche diverse, ed anche fra ciascuna pratica e
se stessa, non dipende da niente che sia attribuibile dimostrativamente ed a
priori a degli elementi oggettivi e misurabili con programmi ed esami. Ciò
che accade quando due individui parlano non può essere previsto per legge,
e neppure in base ad un titolo universitario o parauniversitario. Certo, si
suppone che qualcuno acquisisca delle competenze, all’università, o
frequentando questo o quell’istituto. Ma all’atto pratico – vale a dire quando
si compie effettivamente un atto – questo non garantisce niente per nessuno.
Dobbiamo insistere su questo punto: neppure il fatto d’essere un noto
psicanalista garantisce a nessuno che lo sarà sempre, neppure nelle sedute
che conduce. Non solo perché si possono compiere errori – questo può
accadere in qualunque lavoro, e di per sé non dimostra nulla –, ma perché
compiere un atto analitico – o psicoterapeutico, ammesso che ne esista uno
– dipende da mille condizioni, fra le quali quella decisiva è una sola: essere
nella giusta posizione perché questo accada. Ora, questa posizione è etica, e
quindi non può essere prevista né deontologicamente, né moralmente, né
legalmente.
La deontologia, certo, esiste, come esiste la legge, ed altro non è che una
serie di regole di comportamento che hanno, come tutte le regole morali,
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 24
esattamente la stessa funzione della legge. E la legge, da quando esiste, non
ha mai prescritto quello che si deve fare, perché s’è sempre limitata ad
impedire – o almeno a tentare di farlo, minacciando delle sanzioni – quello
che non si deve fare.
È vero che questo sano ed antico principio giuridico sembra sempre più
dimenticato nell’attuale pratica dei parlamenti democratici, che tendono
sempre di più a confondere le acque, proprio perché diventano per infinite
convenienze – elettorali, se non immediatamente economiche – lo strumento
di questo o quel gruppo d’interesse. Ma questo non è un principio politico o
giuridico, è anzi il contrario d’ogni principio giuridico o politico. Non basta
che una certa disposizione venga approvata dalle camere d’un paese
qualunque perché ciò che ne risulta sia davvero una legge, se ciò che questa
enuncia non è legittimo, per il fatto d’essere eticamente fondato nello
“spirito delle leggi”, vale a dire nel diritto. Esistono oggetti sui quali nessun
legislatore può legiferare, dicevamo, perché, quand’anche lo facesse, la
legge che produrrebbe non deciderebbe nulla, anzi distruggerebbe il proprio
oggetto. Non si può prescrivere per legge che significa amare, o soccorrere,
aiutare, insegnare e formare.
Per dire quel che penso, quando si accetta che una norma, per il solo fatto
d’essere stata approvata da un parlamento, sia davvero una legge, si è sulla
buona strada per giungere al peggiore dei totalitarismi: quello delle
maggioranze sulle minoranze (pericolo che, com’è noto, era stato
perfettamente individuato da Tocqueville come il rischio più grave delle
democrazie). Capita così che in alcuni interventi firmati da responsabili
dell’Ordine degli psicologi a proposito della laicità della psicanalisi la legge
sia considerata sempre come identica alla Legge, senza neppure sospettare
che questa posizione farisaica altro non può essere che la migliore via
d’accesso al fondamentalismo più pericoloso: quello inconsapevole.
Con tutto ciò né la psicanalisi, né le psicoterapie, né la psicologia
dovrebbero avere nulla a che vedere. Invece capita che l’Ordine degli
psicologi inviti quanti sappiano che qualcuno “esercita illegalmente” la
professione di psicoterapeuta a denunciarlo senza pensarci due volte, anche
se il suo è un lavoro che, come la psicanalisi, non ha nessuna relazione con
la psicoterapia. Ebbene, se vogliamo essere coerenti, tutti i cittadini italiani
potrebbero essere denunciati per “esercizio abusivo” della professione di
psicologo, perché tutti, almeno un poco e di tanto in tanto, semplicemente,
quando parlano, fanno il loro stesso mestiere.
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25 | Ettore Perrella, Il disagio dell’inciviltà
Certo, avere una laurea o un titolo professionale presuppone che si
abbiano delle precise informazioni su ciò di cui si tratta nella pratica in
questione. Ma qui le informazioni non garantiscono niente, se non fanno
parte d’una formazione che non si conclude né con la laurea, né con il
conseguimento d’un titolo di specializzazione, né con l’iscrizione ad un
Ordine. Una formazione effettiva non può che essere continua. E non è certo
rendendo obbligatori dei corsi d’aggiornamento che si risolve un problema
che è esistito da sempre in ogni attività professionale (anzi in ogni arte
liberale, come si diceva una volta).
Presupporre che invece sia possibile divenire psicoterapeuta con un corso
parauniversitario, vale a dire superando un esame (ma di che cosa?),
significa affermare con una falsa legge ed una deontologia di raccatto un
criterio ingannevole perché pseudoscientifico. Con il risultato che tutti gli
“psico-” del mondo, quando sono diventati, come paladini d’un Ordine, dei
luigini, si trovano immediatamente in contraddizione non solo con la propria
posizione etica, ma anche con i principi della propria professione legalmente
autorizzata.
Sequitur che gli psico-per-legge, ogni volta che si trovano ad operare in
nome dell’Ordine, invece che della verità, cioè degli individui, altro non
fanno che contribuire a produrre quegli stessi guasti simbolici e sociali dai
quali scaturiscono i disagi di cui dicono di volersi prendere cura. Tutti
coloro che, dopo aver letto il Manifesto prima ricordato, hanno dato la
risposta da commedia all’italiana, “è vero, non firmo”, non sono solo
personaggi da commedia. Sono esattamente gli stessi che – per ignoranza, o
interesse, o semplicemente per stupidità informatizzata –, stanno
sommergendo il nostro bel paese sotto uno strato sempre più spesso ed
uniforme di miseria morale, che non potrà non divenire molto presto anche
la loro – e purtroppo anche nostra – miseria economica.
10. Che fare?
Come uscire da tutto questo? Rispondere a questa domanda non è affatto
facile. Né gli analisti né tutti gli altri psico- potranno fare molto, se non
sceglieranno di mettere le proprie pratiche alla prova della loro verità, che
non può mai essere garantita per legge. Lo spirito prussiano con cui molti di
loro affermano che le regole per divenire psicoterapeuti devono essere
seguite “perché sono la legge” può fare sorridere, perché nulla è meno
Parte I- La psicanalisi nell’epoca dei media- Fra due crisi | 26
prussiano della psicoterapia, di qualunque colore, e dell’amore del
“particulare”. Decidere d’essere onesti con se stessi costa, perché bisogna
decidere di smettere di pensare d’essere luigini, quando in realtà non
facciamo altro che farci spennare il didietro come tutti i contadini. Questo ci
toglie una consolazione, ma è poco danno, dal momento ch’è falsa. Quindi è
meglio rinunciarvi, e rimboccarsi le maniche, mettendoci al lavoro, per
salvare il salvabile, anche per le generazioni di domani.
Ora, per fare questo, è assolutamente indispensabile – non soltanto in
Italia, ma dovunque – inventare un altro modo di fare politica. Perché
finalmente la legge si limiti a valere per quello su cui vale, e non invada la
vita quotidiana di nessuno. Perché si smetta, in nome della democrazia,
d’opprimere tutti gl’individui sotto il peso di regole che nessuno, anche
volendolo, riuscirebbe a rispettare. Perché continuare su questa strada ci
porta per un verso ad un sempre maggiore impoverimento economico, per
un altro sempre più lontano da quanto di più nobile ci è stato trasmesso da
tremila anni di storia: dalla libertà dei greci e dal diritto dei latini, dalla
morale cristiana e dalla ragione filosofica; ci porta in primo luogo a sprecare
la nostra esistenza – l’unica che abbiamo – a lottare contro noi stessi, per
impedirci di fare quello che, in principio, tutti pensavamo che fosse
entusiasmante e giusto fare.
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