M. VALENTI, Il patrimonio archeologico sommerso del

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M. VALENTI, Il patrimonio archeologico sommerso del
IL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO SOMMERSO DEL TERRITORIO SENESE.
ESPERIENZE E SPERIMENTAZIONI DEI PRIMI ANNI ’90 NELL’ATTIVITÀ DI RICERCA DEL
DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI DELL’UNIVERSITÀ DI SIENA
1. Il progetto Laboratorio: finalità ed aspetti metodologici
Il Laboratorio di cartografia archeologica attivo nel Dipartimento di Archeologia
dell’Università di Siena svolge la propria attività sul comprensorio territoriale senese (1).
Nato da una sinergia con l’Ufficio Cultura della Provincia di Siena, si propone come
esempio di rapporto istituzionale correttamente impostato. Con l’intento di censire e
comprendere il patrimonio archeologico in ambito rurale, è stato possibile trovare una
perfetta corrispondenza d’interessi tra esigenze proprie della ricerca sperimentale
applicata ed esigenze di tipo amministrativo. L’identità di vedute ha dato luogo ad un
progetto di catastazione del sommerso, al cui interno detengono pari valore
quantificazione delle presenze archeologiche ed elaborazione di informazioni
scientifiche, dove trovano spazio la sperimentazione di nuove tecniche di indagine e di
documentazione.
Nel complesso l’attività in corso, improntata su ricognizioni di superficie in aree
campione e fotointerpretazione aerea per i terreni boschivi, si fonda sul convincimento
che la redazione di carte archeologiche non ammette separazione dalla dimensione
diacronica; non crediamo cioè a realtà territoriali storiche, per le quali si auspicano stadi
di preservazione e valorizzazione adeguati, svuotate del significato di agenti una volta
attivi nell’evoluzione della rete insediativa. In altre parole, siti archeologici e sintesi
storica rappresentano strumenti di conoscenza soggetti ad un processo di reciproca
retroazione direttamente proporzionale all’evolversi della ricerca. Comprendere le
caratteristiche della risorsa archeologica significa pertanto costruire fonti la cui struttura
permetta di individuare le tendenze storiche dell’insediamento; la modellizazione di
queste si pone come condizione imprescindibile per ipotizzare nuove aree a rischio
archeologico e tipologia relativa alle stratificazioni eventualmente localizzabili.
La ricerca ha avuto inizio sulla parte settentrionale del comprensorio, in
precedenza mai sottoposta a indagini estensive, mettendo a confronto quelle aree
giudicate generalmente marginali ed a basso tasso archeologico (il Chianti senese) con
aree dotate di maggiori informazioni ma solo per limitati periodi storici, in particolare
quello etrusco (la Val d’Elsa); recentemente, riprendendo il lavoro svolto nei primi anni
ottanta all’interno del progetto Montarrenti (2), si è dato avvio allo studio del territorio
centro-meridionale (Val di Merse) prevedendo già da questo anno una prima estensione
delle indagini (Val d’Arbia). In ognuna delle zone è stata attuata la stessa impostazione
metodologica: composizione di un’ipotesi aprioristica -> redazione di un questionario di
ricerca aperto -> verifica pratica -> elaborazione di nuovi dati; un’articolazione in steps
conoscitivi diversificati con finalità di affinare il dato e trasformarlo in informazione
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scientifica; in pratica un multy-stages fieldwork basato su costruzione ed applicazione di
modelli durante ognuna delle fasi di ricerca: rappresentando idealmente il dato reale lo
usiamo come mezzo di conoscenza e strumento di narrazione.
Adottiamo e realizziamo modelli iconici in sede di progettazione dell’indagine
costruendo cartografia tematica e schematica nella quale materializzare la complessità
della fenomenologia presente; in sede conclusiva presentando cartografia archeologica e
cartografie diacroniche legate all’evoluzione della rete insediativa. Usiamo modelli
storici nell’ipotizzare le organizzazioni spaziali succedutesi e modelli analogici
restituendole sotto forma di rappresentazioni puntiformi sia nella fase di inquadramento
dei dati noti sia nella presentazione dei risultati ottenuti tramite indagine sul campo.
Creiamo modelli simbolici individuando mediante formule matematiche e descrittive la
varietà delle forme di emergenza in superficie ed indicando le stime inerenti la “quantità”
di archeologia presente, il tasso di depauperamento cui è andato soggetto il potenziale
iniziale, l’ipotetico popolamento della zona.
2. Potenziale archeologico territoriale e processi post-deposizionali
Per raggiungere una buona attendibilità nella comprensione del potenziale
archeologico e delle tendenze ad esso legate nonché nella ricostruzione delle diverse
scelte insediative di fronte ad uno stesso sfondo territoriale, rivestono un ruolo
fondamentale i criteri adottati nell’interpretazione dei resti in superficie. Riuscire a
produrre informazioni metodologicamente uniformate per gli aspetti abduttivi ha
significato comprendere i condizionamenti causati dai processi post-deposizionali ed
eliminare la soggettività del ricercatore; cioè chiarire come la destinazione e la
lavorazione odierna dei terreni condizionano quantitativamente e qualitativamente la resa
archeologica.
(a) Utilizzazione del suolo e resa archeologica
L’utilizzazione del suolo ed i tipi di azione ad essa legati si dimostrano fattori
decisivi sulla archeologia che riusciamo a censire. Le stime effettuate durante le
esplorazioni sul Chianti senese all’interno di campioni estesi per quasi 70 kmq,
evidenziano una decisa prevalenza di rinvenimenti sui seminativi (53,62%), percentuali
più ridotte sulle superfici destinate a coltura stabile (24,67%) e minime in corrispondenza
di vegetazione boschiva (4,28%) (3). Le cause sono palesemente da individuare sui tipi di
azione che il terreno subisce in rapporto alle colture praticate.
Controllando le vicende relative ad alcuni rinvenimenti noti da segnalazioni datate
alla metà degli anni settanta e ripetendo per quattro anni ricognizioni su un campione di
circa 20 kmq, abbiamo inoltre calcolato le percentuali legate al depauperamento dei
depositi ed osservato le vicende stagionali delle presenze di materiale in superficie. È
stato così possibile individuare sia i condizionamenti cui è sottoposta la visibilità di
tracce archeologiche, di conseguenza impostare adeguate ed opportune strategie di
ricerca e di raccolta, sia calcolare la risorsa archeologica dell’intero territorio.
In questo secondo caso, i valori sono stati ottenuti individuando l’ammontare dei
siti archeologici potenzialmente presenti, quello dei siti probabilmente scomparsi e
realizzando la differenza tra le due stesse stime. Abbiamo preso in considerazione la
media dei rinvenimenti per kmq campionato, in relazione alle diverse utilizzazioni del
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suolo (seminativo, coltura stabile, bosco); i valori, moltiplicati per l’estensione delle
colture all’interno dei quattro habitat paesaggistici, hanno fornito una stima sul numero
dei siti archeologici potenzialmente presenti sul terreno (nel calcolo non sono comunque
compresi i materiali sporadici). Sono stati poi presi in esame la media dei siti
archeologici andati probabilmente perduti in relazione alle diverse utilizzazioni del suolo;
si sono decurtati, dall’ammontare delle presenze potenziali, valori del 40% (seminativi),
del 30% (coltura stabile), del 20% (bosco). Nel complesso il Chianti senese prospetta la
possibile presenza di depositi archeologici intorno ad un numero di 900 ed un possibile
depauperamento intorno alle 300 unità. Dalle operazioni effettuate si osserva quindi che
il realistico potenziale archeologico in nuce può essere stimato in una cifra di circa 600
presenze e quindi un decremento di 1/3 non più recuperabile.
La distribuzione generale dei depositi archeologici indizio di componenti
insediative rivela una decisa predilezione per le sommità collinari e, in parte, per le
posizioni di versante. Nonostante il condizionamento che i limiti oggettivi della ricerca
possono esercitare sulla resa archeologica accertabile da zona a zona, risulta comunque
inequivocabile il ruolo rivestito dalla collina nel processo di controllo del territorio e
delle sue risorse. Le percentuali stesse dei rinvenimenti per ognuna delle categorie
paesaggistiche nelle quali il grado di visibilità media risulta buono, mostra valori
decisamente inferiori, a confermare l’assoluta preminenza dei rilievi collinari. Esistono
comunque fattori che influenzano la materializzazione di valori così schiaccianti.
Innanzitutto la grande estensione spaziale del paesaggio collinare; in secondo luogo la
sua vocazione agricola alla quale consegue una destinazione dei terreni per oltre il 50% a
seminativo e per poco meno del 30% a coltura stabile: i due tipi d’uso del suolo cui si
legano le percentuali maggiori di rinvenimento, rispettivamente il 54% ed il 25%. Tutto
ciò non ridimensiona però la tendenza che trova le proprie origini nella presenza di
terreni decisamente fertili ed attraversati da un numero molto alto di corsi d’acqua di
piccola e media portata.
L’articolazione delle presenze archeologiche, considerando ancora
sincronicamente i dati, mostra come la singola abitazione rappresenti la forma insediativa
più diffusa. Decisamente minore l’ammontare delle altre componenti, tra le quali
spiccano le zone caratterizzate dalla presenza di materiali sporadici per le quali è
possibile parlare tanto di uso dei terreni per scopo agricolo (cioè concimazione; questo
soprattutto per il medioevo) quanto di depositi andati ormai distrutti; qualunque sia la
percentuale relazionabile alle due possibili interpretazioni, siamo comunque di fronte ad
un vero e proprio “rumore di fondo” che conferma senza dubbio la larga diffusione
dell’insediamento per case sparse.
I disegni economici e politici, le caratteristiche culturali e l’ideologia correlati alle
organizzazioni societarie succedutesi, hanno dato origine ad una rete insediativa nella
quale l’entità villaggio rivestiva scarsa importanza: anche di fronte ad insediamento
accentrato, l’estenzione dello spazio materialmente occupato si rivela esiguo e connotato
da poche abitazioni. La regione risulta quindi caratterizzata da un uso della terra
eminentemente sotto forma di poderi contadini con “luoghi centrali”, cui riferirsi, spesso
lontani, anch’essi isolati ma ad occupare posizioni strategiche (nodi stradali importanti o
vicinanze alla città).
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(b) Modelli di decodificazione delle emergenze in superficie
Per collocare i resti di superficie in categorie interpretative abbiamo deciso di
redigere repertori casistici al cui interno individuare gruppi di tendenze omogenee in
relazione a due variabili: osservazione statistica di dimensioni e componenti della
concentrazione. Abbiamo cioè tentato di trasformare una serie di eventi apparentemente
casuali in manifestazioni regolari; di costruire un codice di appartenenza relativo a fonti
archeologiche che si presentano non come tracce, indizi o segni ma come tracce di tracce,
indizi di indizi, segni di segni, contesti archeologici dei quali si colgono solo alcune
componenti selezionate dal tipo di azione cui è sottoposto il terreno. Il risultato ottenuto
mostra una scala dimensionale di strutture caratterizzate da diverso grado di complessità;
che rappresentano categorie interpretative e quindi modelli da impiegare ai fini della
nostra conoscenza oggettuale. Modelli che sono ipotetici poiché lavoriamo su
un’immagine depauperata e soggetta a processi selettivi ma la cui aleatorietà viene ridotta
osservando le regolarità delle manifestazioni archeologiche di superficie; che si basano su
induzione (composizione di categorie statistiche) e deduzione (le classi di edifici o
strutture potenzialmente presenti sul territorio ed a cui rifarsi per collocare le diverse
categorie concretizzate) (4).
Obiezioni e perplessità concernenti l’automaticità del rapporto emergenzasottosuolo (il dato di superficie è preciso indizio della stratificazione? Conseguentemente
i modelli proposti si reggono su basi interpretative solide?) sono mitigabili attraverso
un’attenta osservazione della disposizione dei reperti mobili in superficie e piccole
verifiche pratiche (dal sondaggio allo scavo stratigrafico). Ciò non significa che i
materiali in luce sono sempre e rigorosamente testimonianza esatta, per posizione e
dimensioni, della struttura localizzata; esistono invece delle situazioni nelle quali è
possibile tale convergenza:
– abbondanza di materiale edilizio che compone forme più o meno regolari; è un
effetto prodotto dalle arature che intaccano gli strati di crollo. La grande mole di materiali
e la loro disposizione in superficie inficiano l’ipotesi di uno spostamento dell’emergenza
dal punto originale di affioramento;
– pietre disposte in più allineamenti ed a comporre una forma geometrica più o
meno regolare; in questo caso le arature hanno incontrato tratti di mura;
– fittili in buono stato di conservazione; in genere reperti tratti in superficie da
lungo tempo mostrano rotture molto erose e fluitate dovute a ripetute esposizioni
all’aperto ed al loro continuo spostamento;
– terreno fortemente annerito che si distingue da quello circostante; si tratta di
arature che hanno intaccato i battuti di vita o lo spazio di frequentazione circostante la
struttura abitativa;
– terreno con colorazione giallo scuro che si distingue da quello circostante e zolle
molto dure con piccole pietre o frammenti di laterizio infissi; le arature hanno intaccato il
disfacimento e gli elevati superstiti di una struttura con muri in terra;
– di fronte a terreni pietrosi per geolgia, il deposito si colloca su uno spazio dove le
pietre stesse sono assenti o, se presenti, in scarso numero, di dimensioni maggiori degli
affioramenti naturali e quindi attribuibili ad elevati.
Alcune verifiche pratiche tramite rimozione delle zolle di aratura hanno rafforzato
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la nostra convinzione sulla correttezza del metodo impostato; in ognuno dei cinque casi
osservati sono stati sempre incontrati strati di crollo. Alle stesse conclusioni ci ha
condotto lo scavo effettuato in località S. Quirico e Pace (comune di Castelnuovo
Berardenga) dove, indagando due delle tre zone che restituivano materiali mobili, sono
stati portati ulteriori elementi a conferma dell’esistenza di precisi indicatori attestanti
corrispondenza tra superficie e sottosuolo; inoltre si è potuto iniziare a misurare il reale
spessore delle categorie interpretative costruite, del rapporto tra dimensioni della
concentrazione e dimensioni della struttura conservata. L’intervento ha rivelato la
presenza di due diverse forme abitative ascrivibili in cronologie nettamente separate. Il
primo caso (I sec. d.C.), relativo ad un’abitazione ad un solo vano, con muri in pietra non
lavorata dallo spessore di 1 m circa, conci di grandi dimensioni in ognuno dei quattro
angoli, pianta rettangolare di 10 m x 7 m, pavimento sotto forma di battuto in terra e
porta aperta sul lato nord-ovest racchiusa internamente da un cordolo di pietre in linea
trasversale (con funzione probabile di arginare le acque piovane); il tetto, in laterizi, era
sorretto da un palo centrale fermato con pietre a rincalzo; il focolare, formato da un
cerchio di pietre posto in coincidenza del muro sud; lo spazio interno mostra misure pari
a 7 m. x 5 m.; l’esempio assume validità anche per il secolo successivo, non risultando di
fatto nella manifestazione di superficie differenze con quest’ultimo periodo. Anche in
questo esempio le misure da noi proposte sulla base delle presenze di superficie (ancora
9 m x 7 m in media) sono decisamente molto simili se non quasi coincidenti.
Molto più interessante la seconda abitazione, tanto per le caratteristiche strutturali
quanto per il periodo storico in cui si colloca (primo alto medioevo); l’indagine ha
rivelato la presenza di una casa ad un unico vano, realizzata in terra pressata per le mura
con spessore pari a circa 80 cm (il disfacimento degli elevati ha portato a dimensioni
leggermente diverse per ognuna delle componenti perimetrali), copertura laterizia con
tetto ad un unico spiovente e pietre appiattite appoggiate sopra con funzione di ventose,
pianta rettangolare con misure di 4,40 m x 3,40 m, spazio abitativo effettivo di 3 m x 2,60
m, pavimentazione sotto forma di battuto, porta aperta sul lato sud-est, focolare cinto da
pietre ed appoggiato sul muro nord-est. Nella prima fase la casa presentava esternamente
al lato est una fossa di scarico o per rifiuti contenente ossa, scorie di fusione, materiale
edilizio e ceramica; nell’ultima fase tale fossa risultava colmata e sullo stesso
riempimento veniva impiantata una tettoia probabilmente in paglia sorretta da quattro
grandi pali. Per tale eventualità non siamo in grado di proporre un confronto con esempi
di superficie poiché altre abitazioni, ridatate a questo periodo in seguito a confronti con i
materiali ceramici di scavo, presentano caratteristiche strutturali diverse; non tanto per il
materiale edilizio impiegato (ipotizzata la terra in ognuna delle emergenze) quanto per
articolazione, ovvero per una serie di infrastrutture di supporto più complessa.
3. Modelli insediativi tra tardoantico ed alto medioevo
Il problema maggiore nello studio dell’insediamento sul territorio senese tra età
tardoantica ed alto medioevo risiede nell’assenza quasi totale di rinvenimenti corredati da
datazioni puntuali e da chiare presentazioni della cultura materiale rinvenuta. L’interesse
della ricerca si è concentrato sino ad oggi su altri periodi storici, generalizzando in
categorie di scarso significato e di larga fascia i contesti ascrivibili in tali cronologie. È
quindi molto difficile creare un modello aprioristico da verificare e sviluppare ed anche
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nei casi in cui ciò si rende possibile esistono comunque grosse lacune; disponiamo di
poche informazioni limitatamente a ville romane frequentate sino alla prima età
tardoantica ed alcune oreficerie di VI-VII secolo decontestualizzate, talvolta conservate
in musei toscani. Inoltre non esiste una gamma di fossili guida diversi dagli indicatori
comunemente accettati (le ultime sigillate, i contenitori da trasporto) che renda possibile
l’individuazione di stratificazioni databili con maggiore precisione.
(a) Costruzione di sequenze tipologiche nella ceramica comune
Il nodo essenziale da sciogliere per comprendere le vicende della campagna in
questa fase è pertanto la costruzione di una tipologia incentrata sulla ceramica più diffusa,
quella d’uso comune. Nel corso delle indagini sul Chianti senese ci siamo trovati di
fronte ad un numero notevole di rinvenimenti apparentemente non databili ma connotati
da una forte presenza di ceramiche in buono stato di conservazione che rimandavano ad
una tradizione produttiva di tipo romano: recipienti da fuoco acromi ad impasto grezzo e
da mensa ad impasto depurato con ingobbiatura di colore rosso sulle superfici interne e
esterne. La necessità di inquadrare cronologicamente le restituzioni di superficie ci ha
portato ad approfondire lo studio di tali materiali sia a tavolino, sia effettuando un saggio
di scavo su uno dei depositi considerati in migliore stato di conservazione (5). È stato
così possibile realizzare una tipologia ceramica compresa tra IV secolo d.C. e VI-VII
secolo d.C., di riconoscere nelle ceramiche da mensa con ingobbiatura rossa un vero e
proprio fossile guida per la datazione delle fasi insediative tra tardoantico ed
altomedioevo.
La classe in questione, tranne poche eccezioni, non ha sinora ricevuto
un’adeguata attenzione da parte degli archeologi né si è tentata una sua tipologizzazione.
Essendo una recente acquisizione il suo carattere di produzione ben definita e peculiare
(scavi di Fiesole e di Villa Clelia) (6), viene definita in più modi: ceramica verniciata,
ceramica verniciata di rosso, ceramica a vernice rossa tarda ecc.; in questa sede
preferiamo chiamarla ceramica ingobbiata di rosso. Si tratta di recipienti essenzialmente
da mensa, soprattutto forme aperte, connotati da impasti depurati, molto farinosi e teneri,
coperti da un’ingobbiatura di colore rosso (talvolta con tonalità bluastre causate da
cotture eccessive) che spesso, per la porosità stessa degli impasti, si conserva solo
parzialmente. Alcuni esemplari (in particolare i grandi piatti da portata e le brocche)
possono presentare una coperta parziale e distribuita in superficie a formare motivi
decorativi a carattere geometrico (si vedano al riguardo alcuni degli esemplari di Fiesole
e Lucca) (7); questi ultimi, codificati sotto la definizione di ceramica dipinta tarda, non
mostrano comunque differenze per quanto riguarda forme ed impasti. Per la zona senese
(come a Fiesole) (8), pur non avendo effettuato analisi su campioni d’impasto, si
conferma quindi che i prodotti con copertura uniforme e quelli con decorazioni sembrano
uscire dalle medesime officine. In questa sezione le due ceramiche sono quindi
accumunate; tale scelta, oltre che sulla convinzione di trovarci di fronte ad un’unica
classe, si basa anche su motivi di opportunità: spesso gli esemplari in giacitura assumono
lo stesso aspetto (ingobbio deperito = impossibilità di riconoscere con sicurezza quali
forme erano decorate e quali ingobbiate uniformemente).
Pur diffusa sull’intero centro nord della penisola (rinvenuta a Roselle (9), Fiesole
e Firenze-Piazza della Signoria, zona di Asciano (10), Lucca e suo entroterra (11),
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Volterra (12), Pistoia (13), Siena e Chianti senese (14), Emilia Romagna (15), Ostia e
Luni (16) esistono chiari indizi per individuare peculiarità regionali e spesso subregionali all’interno delle diverse produzioni di ceramica ingobbiata di rosso. Filo di
congiungimento sembra comunque soprattutto la costante ripetizione e rielaborazione di
archetipi in sigillata africana D per quanto riguarda le forme aperte ma non si escludono
comunque forme estrapolate da modelli in sigillata microasiatica ed in sigillata adriatica.
Nel Senese si osservano soprattutto bacini emisferici con labbro rientrante tipo Hayes 50,
61, 61A, 84, 99, 99A; ciotole/coperchi con orlo introflesso tipo Hayes 61B, Lamboglia
55A; con orlo estroflesso tipo Hayes 192, Lamboglia 22; piatti con tesa tipo Hayes 73,
Lamboglia 51, 51A; grandi ciotole listellate tipo Hayes 91C e Hayes100.
Si tratta di una produzione, probabilmente comparsa nel corso del I-II sec. d.C.,
che a partire dal IV-V secolo ha iniziato a proporsi quasi esclusivamente come imitazione
di manufatti d’importazione. La sua peculiarità risiede nella continua riproposizione, per
almeno i due secoli successivi, dei medesimi tipi affiancandoli alle nuove forme imitate e
rielaborate. Siamo di fronte ad un campionario stabilizzato che viene incrementato
continuamente da nuove componenti nelle quali, talvolta, sono raccolti elementi
appartenenti a più archetipi. Esempi in tal senso sono i grandi piatti imitanti la forma
Hayes 73 con decorazione sulla tesa resa da cerchi dentellati incisi a rotella (17), che
lascia intravedere una cronologia di metà V secolo (18), ma rinvenuta comunque in
associazione ad imitazioni della forma Hayes 91C, datata tra primo trentennio del VIinizio VII secolo e della forma Hayes 99C, VI-VII secolo; le grandi forme aperte con
decorazione su fondo tipo ramo di palma racchiuso entro rettangolo, che pare imitare il
motivo 62 della ceramica narbonense, databile tra primo ventennio ed i successivi
cinquant’anni del V secolo o le losanghe, probabilmente imitanti lo stampo 42 (stile D)
della sigillata africana datato tra la seconda metà del V-inizi VI secolo. Si osservano
comunque nette differenziazioni tra le produzioni qui presentate ed il resto della Toscana,
anche se affinità più sensibili sono comunque riscontrabili con le restituzioni del vicino
complesso urbano di Fiesole, con alcuni reperti individuati a Lucca città e chiaramente
con i pochi frammenti restituiti dallo scavo di S. Maria della Scala a Siena (Tavv. 1-5).
La ceramica da fuoco si caratterizza per la presenza massiccia di olle per lo più
ovoidali caratterizzate da fondo piano, apode, con forte spessore. Le decorazioni in
parete, tracciate a punta, si profilano essenzialmente in motivi sinusoidali o ad onde
raccolti in fasce talvolta intrecciati con barrette radiali trasversali, a bande orizzontali
disposte parallelamente; altre presenze sono riconducibili alle tacche di forma
rettangolare, quasi delle stampigliature, soprattutto sulla parte bassa dei recipienti e
riscontrati in altri contesti tardoantichi ed altomedievali della penisola. Differenziazioni
sono osservabili quindi nella foggia delle parti superiori dei recipienti che danno luogo a
sette grandi gruppi (che contrassegnamo con lettere progressive) ascrivibili in un ambito
cronologico compreso tra IV e VII secolo.
Gruppo A – olle con bordo nastriforme; distinti sei tipi:
A1 (con spigolo inferiore netto all’esterno, orlo arrotondato rivolto verso l’alto)
sembra entrare in uso verso la prima metà del V secolo raggiungendo metà VI-VII secolo
(Tav. 6 nn. 1-2);
A2 (con spigolo inferiore netto all’esterno, orlo arrotondato pronunciato all’interno)
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sembra entrare in uso verso la prima metà del V secolo raggiungendo metà VI-VII secolo
(Tav. 6 nn. 3-4);
A3 (bordo molto allungato, orlo arrotondato quasi sempre ingrossato) attestato alla
fine V-VI secolo (Tav. 6 nn. 5-6);
A4 (bordo molto allungato e marcato all’attacco con la spalla, orlo arrotondato;
forme di forte spessore) databile per tutto il V-inizi VI secolo (Tavv. 6 n. 7, 7 n. 1);
A5 (bordo molto allungato ed ingrossato, orlo arrotondato; forme di forte spessore)
in uso soprattutto tra VI-VII secolo (Tav. 7 nn. 2-3);
A6 (bordo assottigliato e svasato, orlo arrotondato) databile tra VI-VII secolo (Tav.
7 nn. 4, 6).
Gruppo B – forme con breve bordo svasato, orlo arrotondato pronunciato
internamente; sembra entrare in circolazione verso la fine V ed è tipico soprattutto del VI
secolo (Tav. 7 nn. 5, 8).
Gruppo C – breve bordo introflesso, orlo arrotondato; diffuso nel V e VI secolo
(Tavv. 7 n. 7, 8 n. 1).
Gruppo D – breve bordo verticale, orlo piatto; databile soprattutto al V secolo (Tav.
8 nn. 3-4).
Gruppo E – breve bordo estroflesso, orlo appuntito; fine V-VI secolo (Tav. 8 nn. 2,
6).
Gruppo F – bordo estroflesso, orlo obliquo appiattito; tra VI-VII secolo (Tav. 8 nn.
5, 8).
Gruppo G – lungo bordo svasato, breve orlo estroflesso e ribattuto; V secolo (Tav.
8 nn. 7, 9).
Gruppo H – con labbro pendulo; caratteristico del VI-VII secolo (Tav. 8 nn. 10-11).
Gruppo I – bordo dritto od appena estroflesso, orlo piatto superiormente; V-VI
secolo (Tav. 9 nn. 1-2).
Gruppo L – con bordo estroflesso ed orlo arrotondato piatto superiormente; distinti
tre tipi:
L1, tipo in uso tra la metà/fine IV-V e per il VI-VII secolo (Tav. 9 nn. 3-4);
L2 (con bordo schiacciato internamente all’attacco con la spalla, orlo arrotondato
piatto superiormente, pareti interamente decorate) caratteristico di V-VI secolo (Tav. 9 n.
5);
L3, caratteristico di V-VI secolo.
Gruppo M – bordo estroflesso, orlo arrotondato; VI secolo (Tav. 9 nn. 6-7).
Gruppo N – bordo estroflesso, orlo appena arrotondato; V-VI secolo (Tav. 9 nn. 89).
(b) III-V secolo: modelli di gestione latifondistica
La rete insediativa di età tardoantica mostra una chiara ripartizione del territorio
in rigide fasce di sfruttamento. Il sistema del latifondo dà luogo a strutture variamente
dimensionate, cioè ville, fattorie e case sparse, che attestano moduli produttivi
diversificati, legati a precise aree paesaggistiche. Nell’insieme si riconosce l’esistenza di
un modello insediativo che definiamo “uso gerarchico dello spazio”.
Le ville, dove i materiali ceramici più antichi indicano un termine post quem di I
secolo d.C., sono complessi rurali di lunga durata collocati ad una distanza massima di
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15-20 km dal centro urbano; si dispongono in spazi abbastanza prossimi tra loro ad
occupare appiattite sommità basso collinari molto allungate, con quote comprese tra i
190-240 m slm, sempre nei pressi di una rete idrografica di media portata. Le strutture
mostrano nella maggiore parte dei casi dimensioni comprese tra 30 m x 30 m e solo in
due esempi una netta ripartizione zona padronale (con annesso edificio termale)-zona
destinata ad alloggi servile; si tratta quasi di aziende non molto estese che gestiscono
proprietà spesso contigue e commercializzano il surplus dei prodotti sul mercato urbano.
Le strutture tipo fattoria (presenti solo sul Chianti), collocate quasi con frequenza
regolare sui terreni di media e medio alta collina, sono indizio di una diversa forma di
sfruttamento della campagna. Rappresentano il fulcro di proprietà terriere mediamente
estese, forse circoscritte in un raggio massimo di 3 km in ogni loro punto cardinale
almeno sin dagli inizi III secolo d.C., organizzate in forme che ricordano molto da vicino
i rapporti di tipo mezzadrile. All’interno dei piccoli latifondi la coltivazione della terra è
svolta da famiglie contadine (coloni e servi quasi coloni) che occupano poderi, posti a
distanza minima di 625 m in linea d’aria e media pari a 1,250 Km dalle fattorie. Le loro
abitazioni sono sempre edificate in pietra e copertura laterizia, si presentano come singola
casa per il 64% oppure casa con annesso funzionale a conserva ed immagazzinaggio,
occupano per il 95% posizioni di sommità a quota media di 296 m slm. La cultura
materiale in essi rinvenuta mostra un consumo alimentare di animali da cortile, corredi
domestici composti da falci, picconi a doppio taglio e coltelli in ferro, oggetti in vetro
talvolta decorato, ceramiche acrome da cucina, ceramiche da mensa verniciate
parzialmente o in toto con colore rosso, dolia; contrariamente ai grandi complessi, sono
quasi sempre assenti forme in sigillata africana ed anfore; tracce di forni fusori nel 44%
delle emergenze sono interpretabili come indizio di una tendenza all’autosufficienza.
Le fattorie fungono, all’interno del proprio territorio, da central places cui fanno
riferimento gli stessi poderi contadini in relazione ai rapporti instaurati tra proprietario (o
chi per lui) ed agricoltori. È molto probabile che una quota della produzione venga di
fatto trasferita alla fattoria e da questa nuovamente in direzione della città. Non sappiamo
comunque con sicurezza se le fattorie stesse rappresentino organi periferici collegati a
ville (che gestiscono in tale forma i terreni più lontani) oppure abbiano una loro
autonomia. Nella prima eventualità i central places diverrebbero le ville mentre le
fattorie centri di raccordo nello sfruttamento del latifondo e smistamento delle derrate
agricole verso l’unità di appartenenza.
In corrispondenza delle zone più distanti dalla città gli abbandoni hanno inizio
alla fine del III-inizi IV secolo d.C. protraendosi per oltre un cinquantennio (19); si
verifica una fase di assestamento di cui sono testimonianza quelle aziende (il 68%) che
continuano ad essere frequentate per il pieno V secolo d.C. decadendo solo verso la fine
del secolo stesso. Questi anni possono essere indicati come termine ante quem di un
modello gestionale della terra ancora legata al mondo romano.
(c) VI-metà VII secolo: un modello di passaggio
Con gli abbandoni si verifica il passaggio ad un periodo di breve durata
caratterizzato da scarsa demografia e da una rete insediativa di case sparse simili sia per i
caratteri strutturali delle abitazioni sia per la cultura materiale rinvenuta; la popolazione
risulta apparentemente uniforme sotto l’aspetto economico e, essendo assenti organismi
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gerarchicamente egemoni, anche per quello sociale. I bassi indici di popolamento
conseguono al venire meno di forme insediative legate ai diversi modelli di sfruttamento
del suolo di origine tardoantica. Il decadimento del latifondo ed una mutata
organizzazione statale nella quale non si amministrano più le campagne lasciano posto ad
una popolazione rurale che, da semplice strumento di produzione soggetto a rapporti
personali di vario titolo e ad obblighi fiscali, si trasforma probabilmente in una massa
slegata da vincoli; si distribuisce all’interno di una rete insediativa a compartimenti stagni
(limitate zone di popolamento alternate ad estese zone coperte da bosco ed incolto),
composta di strutture abitative distribuite a maglie larghe e frequentate da nuclei
monofamiliari, sia che si rintraccino costruzioni ex novo sia che si riconosca il riuso di
ambienti interni a ville. Nel secondo caso è evidente un restringimento degli ambienti
vissuti; non si tratta di una comunità bensì un numero ridotto di individui (singoli nuclei
familiari) che si insediano in ambienti della pars urbana (20).
Le case si dispongono essenzialmente in aree di media collina, andando ad
occupare le sommità di rilievi ed i tratti iniziali di pendii posti a quote medie intorno ai
260 m. slm. per le zone ad est, sui 300-350 m. slm. per quelle più settentrionali; ulteriori
tracce di frequentazione sono inoltre rilevabili in habitat di passaggio tra alta collina-inizi
altura ma non abbiamo potuto verificarne la reale portata; prediletti i terreni non acidi,
scarsamente pietrosi e facilmente coltivabili, mai distanti da fonti di approvvigionamento
idrico. Prosegue lo sfruttamento delle medesime aree, si continua cioè a vivere sui suoli
di massima resa agricola spostando però le strutture materiali dell’abitazione a breve
distanza dagli spazi di localizzazione tardoantichi: vengono raggiunte sempre posizioni
sommitali. L’elemento di novità si profila quindi nella riconquista dei terreni più
innalzati; vista la prossimità dei corsi d’acqua alle emergenze rinvenute, è plausibile
proporre come una delle cause principali della risalita il verificarsi di fenomeni di
impaludamento delle superfici pianeggianti.
Le attività produttive sono imperniate su agricoltura e allevamento come attestano
gli attrezzi in ferro e l’estesa presenza di ceramica da conserva rinvenuti in località
Poggio al Tesoro (Castelnuovo Berardenga), la grande quantità di ossa combuste e le
tracce interpretate come ricovero per animali nello scavo di S. Quirico e Pace
(Castelnuovo Berardenga); la constatazione di numerose scorie di fusione pertinenti a
minerali ferrosi nella maggior parte dei siti rinvenuti sul Chianti senese, il conforto della
struttura riconosciuta da scavo, prospettano nuovamente la ricerca di una dipendenza
dall’esterno marcatamente ridotta. Dal punto di vista economico non si può però parlare
di completo regime autarchico; circolano ancora corredi ceramici orientati verso il gusto
di una committenza locale, prodotti artigianali (come gli orecchini a poliedro provenienti
dalle vicinanze di Gaiole e la fibbia zoomorfa rinvenuta nei pressi di S. Marcellino)
minerali ferrosi da trattare. Un’economia di mercato, pur con caratteristiche sub-regionali
continua a sussistere.
La metà VI-inizi VII secolo rappresenta la fase di interfaccia tra mondo tardo
romano ed una riorganizzazione della campagna che avrà pienamente inizio solo un
secolo più tardi; si tratta di una nuova realtà locale caratterizzata da un modello
insediativo che definiamo “caotico”: occupazione della terra non pianificata dai disegni
di una organizzazione economico-fondiaria ma uno sfruttamento disordinato e dettato
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dalle necessità dei singoli individui. La sua conclusione può essere individuata intorno
alla metà del VII secolo.
(d) Seconda metà VII-VIII secolo: dalla casa sparsa al villaggio
È il passaggio ad un nuovo modello insediativo e socio-economico nel quale gli
edifici religiosi assurgono al ruolo di uno dei primi poli di aggregazione della
popolazione rurale ed ai quali si affiancheranno iniziative di carattere prettamente laicosignorile da lì a poco, verso la fine del secolo stesso. Non a caso le chiese cominciano a
sorgere nei pressi delle zone che mostrano la presenza di abitazioni di periodo caotico;
chiaro risulta l’esempio Colonna del Grillo (Castelnuovo Berardenga) dove, in località
Sestano, viene consacrata la chiesa di S. Simpliciano nell’anno 679 ad opera di Vitaliano
vescovo di Siena; ancora in località S. Marcellino (Gaiole in Chianti), in posizione
centrale rispetto alle abitazioni rurali, esiste una chiesa, eretta facendo uso di materiale di
recupero proveniente dalla villa tardoantica almeno sin dal 654. Ulteriore testimonianza
in tal senso può essere letta nella celebre controversia tra i vescovi di Arezzo e Siena per
la potestà su alcune chiese e pievi del territorio senese alla metà del VII secolo. Allo
stesso modo, i primi interventi sulla campagna di esponenti della nobiltà di origine
longobarda datano all’anno 678 (restauro dell’oracolo di S. Ansano a Dofana –
Castelnuovo Berardenga, da parte dei gastaldi senesi Willerat e Zotto suo figlio) ed
all’anno 700 (Willerat costruisce all’interno della stessa chiesa due altaria fatti poi
consacrare da Magno vescovo di Siena).
La nuova riconversione delle aree rurali nell’orbita di poteri ben definiti, a parere
nostro, va collocata in tale periodo contemporaneamente al ritrovato interesse della chiesa
e l’avvento di organismi fondiari, filiazione della classe laica dominante. Tali interventi
segnano pienamente l’inizio dell’alto medioevo; producono mutamenti nella conduzione
della campagna facendo nascere piccoli insediamenti accentrati abitati e resi produttivi
nella maggior parte dei casi da popolazione servile. Dal punto di vista delle vicende
insediative l’alto medioevo ha inizio quindi con il passaggio dall’abitato sparso al
villaggio che sembra verificarsi proprio negli anni tra metà VII-inizi VIII secolo.
I primi risultati del recente scavo di Poggio Imperiale (Poggibonsi) stanno
mostrando indizi probanti, seppure preliminari, del modello proposto. La frequentazione
più antica della collina è testimoniata da una capanna che restituisce materiali ceramici
ascrivibili tra VII-VIII secolo e da un’area cimiteriale in fase (21), molto probabilmente
spie di un villaggio che il proseguimento dello scavo rivelerà nella sua completezza (22);
non a caso quest’ultimo si colloca nei pressi della chiesa di Galognano (Poggibonsi),
databile almeno dalla fine del VI-metà VII secolo (23), che si pone al centro di una zona
occupata da nuclei insediativi coevi o di poco successivi (24).
(e) IX secolo: villaggi come “aziende” agricole
La trasformazione dell’insediamento da sparso ad accentrato (e la scomparsa
definitiva del primo) conseguente ad un controllo pilotato degli spazi produttivi
ammassando popolazione, sono confermati anche dai due documenti più antichi inseriti
nella raccolta del Cartulario della Berardenga, datati alla metà del IX secolo (25). Le
carte attestano quattro comunità di villaggio che si estendono su aree occupate da poche
abitazioni mentre non si riscontrano tracce di case isolate. Mostrano inoltre una
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specializzazione delle attività rurali ripartita per villaggi, segno di una gestione
centralizzata della produzione ormai avviata e di insediamenti che devono essere
considerati, forse adottando un termine eccessivo, vere e proprie aziende. La villa di
Campi è legata esclusivamente a manovalanza servile specializzata nell’allevamento e
non c’è traccia di terra coltivata (26); la vicina Septiminula doveva il suo aspetto
accentrato alla contiguità di poderi contadini destinati alla coltivazione dei seminativi e
della vite integrando con le risorse dell’incolto (27); anche Caspreno mostra una
specializzazione delle attività nella pastorizia e nell’allevamento (28). Si cita inoltre un
casalis di Sestano, la cui descrizione propone elementi di puntello alla presunta origine
della rete insediativa altomedievale per nuclei accentrati negli anni intorno alla metà del
VII secolo, presentandoci gli effetti dell’azione coagulante della chiesa di S. Simpliciano
un secolo più tardi (29). Una seconda conferma proveniente dai pochi elementi proposti
riguarda le caratteristiche degli spazi scelti: continuano ad essere frequentati i terreni di
bassa e media collina mentre i rilievi montuosi non sono ancora oggetto di sfruttamento.
4. L’incastellamento nel Chianti e nella Val d’Elsa
Pur di fronte ad un vuoto quasi totale di informazioni collocabili tra VIII e IX
secolo, possiamo realisticamente pensare ad un incremento della popolazione rurale
verificatosi in questo periodo. È infatti dalla fine del X secolo che, complice una
maggiore quantità di documenti scritti e testimonianze archeologiche, si osserva una rete
insediativa estesa sino a lambire le aree di altura (30), articolata in piccoli nuclei
accentrati ed aperti, suddivisi in mansi, ai quali si affiancano castelli.
(a) Le fasi
La zona settentrionale del Senese mostra quattro fasi di incastellamento.
1 – Seconda metà del X secolo; sembra interessare soprattutto il territorio della Val
d’Elsa ed in particolare gli spazi compresi tra gli attuali confini comunali di Poggibonsi
(31), Colle (32), S. Gimignano (33); le zone di Casole e Monteriggioni mostrano invece
attestazioni sporadiche (34). Per il Chianti senese le presenze di castelli sono meno
frequenti (35), con l’eccezione del territorio di Castellina (36) (forse Gaiole) (37) che, per
contiguità geografica e vicende storiche in parte intrecciate con la Val d’Elsa stessa,
mostra la medesima tendenza.
2 – Prima metà dell’XI secolo protraendosi, in alcuni casi, nei primi due decenni
della seconda metà. Il processo stavolta è invertito; interessa scarsamente la Val d’Elsa
(38) ed investe soprattutto il Chianti (39), con la sola eccezione del territorio di Radda
(40).
3 – Tra i primi decenni del XII secolo e gli inizi della seconda metà; interessa in
eguale misura ambedue le zone (41); il processo si attarda in alcuni casi sino ai primi anni
del XIII secolo (42).
4 – Tra XIV-XV secolo; investe solo alcune località sparse nelle due aree (43). È
strettamente collegata alla creazione di nuovi insediamenti fortificati per iniziativa delle
comunità di villaggio e soprattutto per volontà di città dominanti (in particolare Siena e
Firenze) che pongono così le proprie fortezze a difesa e controllo interno del territorio
rurale. Processo destinato a coinvolgere anche alcuni edifici religiosi (44) e soprattutto la
maggior parte dei castelli esistenti attraverso una trasformazione delle strutture
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proporzionata alle nuove funzionalità dei fortilizi (45).
(b) Caratteri della formazione
I castelli edificati tra la metà del X secolo e gli inizi del XII secolo, quindi
appartenenti al periodo dell’incastellamento vero e proprio, hanno sicuramente un
minimo comune denominatore nel rappresentare residenze signorili (46), mentre risulta
più complesso individuarne la formazione.
Le fonti scritte danno un’immagine di strutture sorte per lo più ex novo,
materializzando un modello d’incastellamento di tipo “toubertiano”: nella prima fase su
ventisette insediamenti incastellati solo sei rivelano una fortificazione di centri
preesistenti (47); nella seconda fase su trentadue unità almeno tredici (48); nella terza
fase su trentotto un numero di cinque (49). Complessivamente, su novantasette castelli
attestati solo ventiquattro risultano in precedenza nuclei insediativi aperti o
concentrazioni di proprietà (una percentuale del 25% circa).
Lo scarso numero di documenti relativi a questo periodo nonché la casualità delle
testimonianze (donazioni, cessioni di diritti o di proprietà ecc.) condizionano verso una
conclusione simile. Forse le ventiquattro attestazioni sono invece spia di un processo più
generalizzato che solo l’assenza di documentazione archivistica sistematica non rivela
nella sua pienezza. Già C. Wickham, riflettendo sulle modalità d’incastellamento tra le
zone di Gaiole e Radda, ha proposto un ribaltamento del modello in castello curtense
(50): strutture originate per volontà signorile procedendo alla fortificazione di curtes o di
concentrazioni di proprietà fondiarie già esistenti (51). Alcuni esempi di migliore lettura,
mostrano chiari indizi di tale processo. Vertine (Gaiole in Chianti) nel 1049 è centro di
una curtis descritta “in modo tale che avrebbe senso solo se il luogo su cui sorge il
castello fosse stato già da prima il centro dell’azienda” (52).
Mandriole e Cerrogrosso (Castelnuovo Berardenga) propongono un’articolazione
simile a Vertine, risultando chiaramente impiantati sul nucleo centrale di preesistenti
aziende curtensi. Così, nel 1064 viene descritto un castello e “curte et monte et poio de
Cerrogrosso et ecclesia Sancti Michaelis Archangeli posita infra ipso poio” (53); una
carta coeva presenta “casis, sortis, donnicatis, massaritiis, terris, vineis, silvis, rivis tam in
vocabulo Cerrogrosso quam in Colle Pauli et inter fine fosato de Ombrone et fosato
Talcino” (54); nel 1067 “donnicato ipsius sancte ecclesie et cimiterio cum sis (sic) terris,
ortis, vineis, pratis, pascuis” (55) per il 1065 veniamo a conoscenza di “terra et silva de la
fosa de poio usque in Ombrone” (56). Da queste indicazioni risulta che il castello si
dislocava su due rilievi collinari nei pressi della confluenza tra Ombrone e fosso Calceno;
sul minore dei due sorgeva la chiesa di S. Michele Arcangelo mentre sul più alto
dovevano disporsi gli edifici signorili (centro materiale della curtis più antica);
comprendeva entro il suo circuito alcune strutture abitative ed era circondato da un
fossato oltre al quale si estendevano terre coltivate ed aree boschive, poderi condotti da
massari e poderi con produzione dominicale (massaricio e appezzamenti relativi al
dominico della curtis preesistente); la chiesa stessa godeva dell’uso di terre messe a
coltura e legata ad un cimitero probabilmente nelle sue immediate vicinanze.
Il caso di Valcortese porta conferme archeologiche all’ipotesi. Castello citato sin
dagli inizi dell’XI secolo (57), era una delle principali residenze dei conti della
Berardenga ed ebbe particolare rilievo nella zona tra XII-XIII secolo. Oggi è
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un’emergenza monumentale in completo disfacimento, immersa nella vegetazione
boschiva, composta dai ruderi di una possente torre in filaretto con breve risega alla base
e da tratti delle mura castellane in filaretto che sono inglobate in un vicino podere
recentemente ristrutturato. Ai piedi della collina sulla quale si collocano tali resti sono
stati rinvenuti depositi stratigrafici relativi ad un borgo posto immediatamente fuori dalle
mura del castello; borgo attestato dalle fonti archivistiche sin dal terzo quarto del XII
secolo (58), testimoniato dalla presenza di una costruzione di forma quadrata in filaretto
di pietra regolarmente messo in opera e di taglio sufficientemente curato, da sezioni
occasionali distanziate tra loro che mostrano chiare stratigrafie relative a crolli di
abitazioni in pietra con copertura laterizia. Mentre le sezioni poste sul versante est hanno
restituito corredi ceramici ascrivibili tra fine XIII-inizi XIV secolo (59), quelle ad ovest e
sud restituiscono invece dotazioni domestiche pre-maiolica databili tra fine X-inizi XI
secolo e laterizi da copertura identici (per impasti e per caratteristiche formali) a quelli
rinvenuti in un altro sito con cronologia simile (60). Queste ultime evidenze, distanti
circa 80 m. dal castello ed esterne al circuito murario, attestano indubbiamente che
Collelungo/Valcortese nasce dalla fortificazione di spazi facenti parte di un più ampio
nucleo aperto preesistente (61).
(c) Strutture materiali
Il castello di Sesta (Castelnuovo Berardenga) mostra con chiarezza gli effetti
dell’opera di rifortificazione tre-quattrocentesca. Il complesso, posto in zona di altura a
quota 608 m. slm., presenta un corpo principale, attualmente adibito a residenza, una
torre posta in direzione nord ovest, e tratti parziali del circuito murario. Le tracce più
antiche del castello sono visibili in connessione alla torre; quest’ultima, cadente e
staccata dal corpo principale, presenta una pianta rettangolare, murature in filaretto di
pietra con corsi regolari alternati a corsi di zeppe e pietre angolari caratterizzate da una
messa in opera alternata regolarmente in conci di fascia – conci di testa con superfici a
rilievo a costituire una sorta di bugnatura; probabilmente ascrivibile al XII secolo.
L’edificio principale risulta invece composto da due diversi corpi; una struttura più antica
le cui tracce si riconoscono largamente sulla parte ovest del fabbricato, con muratura in
un regolare filaretto di pietra forse da ascrivere tra XII e XIII secolo; da una struttura
forse di poco posteriore che ad essa si appoggia, con muratura connotata dalla messa in
opera di più corsi murari con pietre di testa alternati ad altrettanti corsi con pietre di
fascia; dalla realizzazione di un elevato con forte base scarpata, murature meno curate
delle precedenti e da ascrivere al XV secolo; un’ultima fase visibile nella costruzione di
un basso bastione difensivo con archibugere da collocare tra XV-XVI secolo. La struttura
ad est presenta i resti di una seconda torre interna alla casa attuale, con murature simili
alla prima fase dell’edificio ad ovest e da ascrivere tra XII-XIII secolo mentre i corpi di
fabbrica restanti all’ultima fase edilizia che ha investito il castello, quella di XV-XVI
secolo. Anche il circuito murario è da relazionare alla fase tardo rinascimentale.
Le ristrutturazioni (talvolta vere e proprie ricostruzioni) effettuate tra trecento e
quattrocento, unite agli interventi moderni, non permettono dunque di cogliere
completamente le differenze materiali esistenti tra i complessi delle quattro fasi
individuate. Alla tipologia dei castelli più antichi crediamo comunque di potere
ricondurre tre rinvenimenti effettuati sul Chianti. Due di essi (62), in corrispondenza di
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alte colline coperte da vegetazione boschiva e con quote intorno ai 500 m. slm., mostrano
i resti di allineamenti di pietre di medie dimensioni che delimitano una zona circolare dal
diametro di circa 65-70 mq. e materiali ceramici ascrivibili tra fine X-XII secolo. Il terzo,
effettuato invece a quote più basse ed intorno ai 250 m. slm. (63), occupa due colline
sequenziali coperte da vegetazione boschiva ma sezionate in più punti, soprattutto in
corrispondenza dei versanti, da una strada vicinale e da interventi recenti di altro genere.
Tanto le due sommità collinari quanto le sezioni occasionali mostrano la presenza di
stratificazioni; le prime rivelano tracce di muri e depositi di crollo molto estesi; le
seconde una stratigrafia indizio di molteplici strutture, nella fattispecie abitazioni con
elevati in terra mista a poche pietre (primo strato di crollo), copertura in laterizio
(secondo strato di crollo), livello di vita sotto forma di battuto in terra con resti ceramici e
di pasto (terzo strato). Sono riconoscibili con sicurezza almeno tre abitazioni, mentre una
piccola parte della sezione, dalla quale fuoriescono scorie di fusione da minerali ferrosi,
lascia facilmente ipotizzare la presenza di una bottega artigiana o simile. I materiali
ceramici raccolti sono ascrivibili tra fine X-XI secolo. Cronologia e localizzazione dei
depositi (nelle vicinanze del fiume Ombrone e nei pressi del fosso di Calceno; due colline
assiali) lasciano pensare ai resti dello scomparso castello di Cerrogrosso descritto poco
sopra per gli aspetti documentari: le emergenze di sommità coinciderebbero quindi con la
curtis incastellata, quelle di versante ai poderi del massaricio o del dominico della curtis
preesistente. Si osservano essenzialmente tre caratteristiche: differenza tra materiali
edilizi impiegati nel castello (pietra) e negli edifici rurali (terra); estrema vicinanza tra le
due entità; assenza di tracce riconducibili ad un muro di recinzione posto sulla sommità
od anche sul versante iniziale delle due colline.
Apparentemente esiste quindi una convergenza tra fonte materiale e
documentaria: anch’essa non parla di mura di fortificazione. Dobbiamo allora pensare
che l’unico elemento presente con carattere di clausura è il fossato. Due le spiegazioni
possibili: recinzioni innalzate tramite uso di materiale deperibile (esempi simili sono stati
così interpretati nell’Italia settentrionale) (64); ma ancora più verosimilmente, per alcuni
castelli di fine X ed XI secolo, è il fossato stesso che materializza “il concetto di castello”
(65). Nell’insieme gli elementi esposti lasciano ipotizzare come i più antichi potessero
essere in molti casi strutture elementari occupanti spazi di breve estensione circoscritti da
un muro (i due rinvenimenti di alta collina), altre volte semplicemente un complesso di
edifici sopraelevati dall’immediato circondario e circoscritti da un fosso (il rinvenimento
di medio-bassa collina); forse, nonostante i già citati limiti posti dagli stravolgimenti
edilizi medievali e moderni visibili sui complessi tutt’oggi in vita, non è un caso,
l’assenza di tratti ascrivibili in cronologie anteriori al XII-XIII secolo dai circuiti
difensivi.
Più chiara è invece l’immagine dei castelli frequentati nel duecento. Pancole
(Castelnuovo Berardenga) era cinto da “murorum et fossorum carboniarum” (66), cioè
dagli elevati di fortificazione realizzati in pietra e dal terreno immediatamente adiacente
al fossato o comunque compreso tra il fossato stesso e le mura (67); comprensivo di
“platearum et edificiorum” (68), spazi aperti e edifici, di “capanna et area” (69),
testimonianza di strutture in materiale deperibile, della “ecclesie Sancti Petri” (70). Era
inoltre circondato da un borgo, si poneva al centro di una zona estremamente colonizzata
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(71), e ad esso facevano capo oltre quaranta famiglie contadine. Sicuramente più esteso
dei castelli di prima e seconda fase, Pancole comunque non doveva avere grandi
dimensioni; il suo sviluppo si era svolto fuori dalle mura castellane formando così un
distretto agricolo demograficamente rilevante. Ciò che cambia sono soprattutto le
strutture difensive, esposte con chiarezza dalla documentazione scritta.
(d) L’indagine sul castello di Poggio Bonizio a Poggibonsi:
un modello di ricerca
Si tratta di un progetto in pieno svolgimento, impostato su analisi di valutazione
preventiva del potenziale archeologico funzionalmente ad interventi di scavo ed alla
monumentalizzazione del complesso individuato dal toponimo Poggio Imperiale.
Un’estesa sommità collinare (12 ettari adibiti ad uso agricolo) con quota massima di 200
m. slm. e minima di 180 m. slm. posta sull’immediato ovest della cittadina di Poggibonsi,
sede del castello di Poggio Bonizio nei secoli centrali del medioevo (72), oggi racchiusa
dalle strutture murarie di una fortezza voluta da Lorenzo il Magnifico e mai completata
(73).
Podium Bonitii, un “castello novo” inserito sul tracciato della cosiddetta variante
di fondo valle della via Francigena, fu fondato nel 1155 per iniziativa di Guido Guerra
dei conti Guidi. Non si tratta del castello con funzione preminente di residenza signorile
in ambito rurale ma di un modello insediativo atipico per la Toscana medievale; il
tentativo quasi utopico della feudalità di trasferire i propri ideali ed il proprio potere nella
realizzazione di un impianto di tipo urbano sulla direttrice della maggiore arteria stradale
del tempo. Il nuovo centro ebbe un immediato sviluppo tanto che si costituì comune
autonomo con propri consoli già venti anni più tardi; centro molto popolato (74),
proponeva un’economia polivalente basata su mercatura e cambio, attività artigianali e
agricoltura. Alla metà del XIII secolo doveva presentarsi come una struttura fortificata
occupante gran parte della collina e circondata da un borgo numericamente consistente
(75).
La documentazione d’archivio fornisce molte indicazioni inerenti le
caratteristiche materiali del castello; viene citato il circuito murario al cui interno si
addossavano spazi destinati ad area ortiva, il fossato, cinque porte, la Via di Mezzo cioè
l’asse viario principale dal quale si dipartiva una viabilità secondaria; inoltre una via
aderente le mura, la piazza Maestra sulla quale sorgeva il palazzo podestarile, spazi aperti
(sia dentro che fuori le mura) destinati a sviluppo urbano, tre chiese delle quali una sede
pievana. Insediamento di notevole importanza strategica dopo ripetuti assedi da parte di
Firenze e la conquista di Carlo d’Angiò del 1267, fu definitivamente distrutto dalle stesse
milizie fiorentine nel 1270. Nel 1313 Arrigo VII iniziò la ricostruzione ma nel breve
spazio di cinque mesi il tentativo di dare vita alla nuova comunità era già venuto a
termine.
Le indagini svolte nella fase di diagnostica sono state ovviamente mirate a
verificare l’esistenza di depositi stratigrafici relativi al castello e di emergenze
monumentali superstiti inglobate nella fortezza rinascimentale. Lavorando a livello di
macro-ricerca (indagini non distruttive e dai risultati ipotetici), abbiamo deciso di
affrontare cinque diversi momenti operativi impostati su interscambio tra attività sul
campo ed in laboratorio; le operazioni illustrate rientrano all’interno di un processo di
feed back, ovvero il perfezionamento progressivo e con effetto retroattivo di ognuna delle
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informazione agendo su livelli analitici diversificati:
a) ricognizione ripetitiva del terreno finalizzata ad individuare emergenze di reperti tratti
in superficie durante le operazioni agricole ed all’osservazione degli elevati (ottobre
1991);
b) trattamento tramite calcolatore delle foto aeree regionali (inverno 1991-1992);
c) copertura dell’area con foto scattate da un aereo da turismo (aprile 1992);
d) copertura dell’area con foto scattate da un’altezza di 70-100 m tramite impiego di una
macchina fotografica automatica collegata ad un pallone e trattamento al calcolatore delle
immagini così ottenute (aprile-maggio 1992);
e) nuova ricognizione sul terreno posizionando in carta le concentrazioni di superficie più
marcate e facilmente individuabili, con particolare attenzione a riconoscere quanto
evidenziato dalla foto aerea (ottobre 1992).
Le diverse fasi analitiche hanno dato risultati sorprendenti. La ricognizione ha
mostrato cospicue emergenze in superficie di reperti mobili, dando così modo di
ipotizzare l’estensione del castello e di capire come la costruzione della fortezza
rinascimentale ha in parte agito su alcuni dei depositi ad esso inerenti. Poggio Bonizio
sembra collocarsi solamente in corrispondenza della parte alta della collina tagliandone
trasversalmente il versante sud. I resti di un grosso muro immersi nella vegetazione
arborea forniscono inoltre un elemento di puntello alle ipotesi fatte sulla base della
ricognizione.
Il trattamento computerizzato dei voli regionali ha dato un aspetto tangibile alle
tracce dei depositi ipotizzati. Soprattutto sulla sommità sono state riconosciute chiare
anomalie di forma rettangolare disposte lungo un tracciato viario, anomalie circolari
variamente dimensionate e tracce evidentissime di altri edifici più piccoli (abitazioni?)
disposte sul terreno a comporre una scacchiera regolare.
Per le foto scattate sorvolando l’area tramite un aereo da turismo, prese a circa
250 m di altezza, non c’è stato bisogno di effettuare trattamento al calcolatore (anche se
previsto in un prossimo futuro) per la loro nitidezza. Le immagini confermano l’ipotesi
sull’andamento della cortina muraria del castello mostrandone chiaramente la posizione;
rivelano inoltre la presenza di una strada che si interseca sulle mura e molte anomalie di
forma quadrata e rettangolare sul suo lato est: si tratta dei depositi superstiti relativi al
borgo immediatamente adiacente il castello.
Le foto scattate da pallone hanno ulteriormente precisato forma e consistenza
delle tracce sopra descritte, mostrando una perfetta corrispondenza di immagini per le
anomalie strada-borgo e l’esistenza di grandi edifici sulla zona più innalzata. La seconda
ricognizione di superficie è stata infine mirata a rintracciare un legame tra forma delle
anomalie e caratteristiche delle emergenze di materiali sul terreno.
Le indagini hanno quindi permesso di redigere una prima ipotesi, fondata su basi
analitiche diversificate, circa estensione del castello e consistenza dei depositi. Un
monitoraggio complesso, inedito e sperimentale per la realtà della ricerca italiana, che ha
portato alla realizzazione di uno scavo iniziato nella parte finale del 1993 e proseguito nel
periodo gennaio-febbraio 1994 (in corso nel momento in cui stiamo scrivendo). Sono
state aperte due aree denominate 1 e 2, collocate rispettivamente sul lato nord ovest e sud
ovest della zona sottoposta ad indagine. Le stratificazioni rinvenute hanno reso possibile
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una prima verifica delle ipotesi redatte e già confermato alcune delle interpretazioni.
Area 1 – Estesa 35 m x 20 m circa, di forma rettangolare, è risultata la parte
maggiormente compromessa dalla lavorazione agricola. L’intero lato est ha comunque
mostrato l’esistenza di resti inerenti la fase cantieristica della fortezza medicea. La
superficie qui descritta è infatti segnata da grandi chiazze di calce e da una struttura
circolare che poggia su terreno fortemente arrossato (interpretata come calcara). La
materia prima per la produzione della calce veniva procurata attraverso il riutilizzo di
conci asportati dai ruderi di edifici (con ogni probabilità ancora visibili, poiché non sono
stati riconosciuti tagli o fosse di spoliazione) pertinenti al nucleo duegentesco di Poggio
Imperiale: si osservano chiaramente muri con andamento parallelo, interrotti in più punti
e con evidenti tracce dell’azione distruttiva effettuata. Il lato ovest del settore di scavo ha
invece rivelato la presenza di un selciato realizzato in ciottoli e pezzame di pietra, alterato
in più punti ma tutto sommato in buono stato di conservazione. Quest’ultimo sembra
percorrere l’intera estensione del campo in senso nord-sud, mostrando due diverticoli in
direzione ovest che si pongono ai lati di una cisterna sotterranea, realizzata attraverso una
raffinata muratura in filaretto di travertino (formano quindi nel complesso una piazza). La
cisterna ha una bocca con diametro di 4,46 m, risulta in ottimo stato di conservazione ed
era riempita completamente da pietre asportate a macchina raggiungendo quasi 7 m di
profondità; il fondo non è comunque stato individuato ancora. La struttura, che doveva
essere sormontata da una apparecchiatura esterna tipo pozzo, ed il selciato sono da
ascrivere tra XII-XIII secolo; ambedue erano già state individuate da foto aerea. La
ripulitura del selciato in corrispondenza del suo limite nord est ha rivelato la presenza di
due scheletri parzialmente conservati che appartengono sicuramente ad uno sfruttamento
di tali spazi anteriore al XII secolo.
Area 2 – Posta sulla parte mediana del campo, in corrispondenza del lato est della strada
campestre, ha dimensioni di 16 m x 13 m L’area ha rivelato una stratificazione molto
articolata nella quale si riescono a leggere diverse fasi d’uso e di destinazione degli spazi
in oggetto; si sottolinea comunque l’assenza di grossi strati di crollo, la cui asportazione è
stata causata dall’azione dei mezzi meccanici impiegati nelle operazioni agricole.
Sulla superficie immediatamente adiacente la strada è posto un edificio a pianta
rettangolare allungata, circoscritto da muri di pietra con apertura ad est. L’interno di tale
edificio mostra un piano di calpestio sotto forma di battuto realizzato in tufo misto a
pietre e tagliato da tre buche di palo centrali di grandi dimensioni; una breve base rialzata
composta di piccole pietre è posta in corrispondenza dell’angolo nord est. La grande
quantità di ossa (recanti evidenti tracce di macellazione) individuate sul battuto lasciano
ipotizzare una destinazione di detto ambiente a mattatoio.
Sul lato est sono stati individuati i resti di una bottega di fabbro, indagata
comunque solo parzialmente (si estende infatti oltre il limite dell’area di scavo).
Quest’ultima è delimitata da muri realizzati in conci di medie e piccole dimensioni con
ingresso sul lato nord e mostra il riutilizzo di strutture antecedenti (individuati i resti di
due pilastri di forma quadrangolare formati da grandi lastre di travertino). Il piano di
calpestio era formato da un battuto in tufo interrotto a sud da un pavimento in terra e
calce; mentre sul battuto sono stati individuate chiazze di terra arrossata mista a scorie e
minerale forse pertinenti a fornetti fusori sbancati, sul pavimento è presente una vasta
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suola di terra fortemente annerita ed indurita, carica di carboni e molti frammenti di
minerale a testimonianza di uno spazio dedicato alla riduzione del metallo.
Macelleria e bottega artigianale, da ascrivere tra XII-XIII secolo, sono adiacenti
ad un grande edificio in pietra, con alzati di forte spessore intonacati, di cui si è sinora
individuato un solo lato (misura parziale pari ad oltre 14 m di lunghezza). La presenza di
questo, unita alla cisterna ed alla Fonte delle Fate, individuano un insediamento che tanto
sul nucleo originario quanto sulle zone di sviluppo proponeva un’edilizia quasi maestosa
e di carattere “pubblico” affiancata a costruzioni di tipo popolare senza dubbio più
povere. I limiti delle strutture murarie, a stretto contatto con l’attuale strada campestre,
mostrano inoltre come quest’ultima insista su una delle vie originarie del castello.
La rimozione del battuto sugli spazi compresi a nord est ha mostrato una
situazione estremamente articolata: la presenza di una grande fossa per rifiuti di forma
rettangolare allungata, riempita da pietre, coppi, ossa e ceramica (scarichi di una
ristrutturazione edilizia dell’area); i resti parziali di una capanna (tagliata a metà dalla
fossa) della quale resta il piano di calpestio, quattro buche di palo, le tracce di un focolare
collocato sul limite sud ed una canaletta dallo spessore di 40 cm circa riempita da terra
associata a molti residui di carbone, pietre e grumi di calce. La capanna sembra avere una
pianta rettangolare allungata ed angoli stondati; appartiene a una fase anteriore la
fondazione del villaggio fortificato di Poggio Bonizio, probabilmente da collocare
nell’VIII secolo. Tracce di altre strutture in materiale deperibile stanno inoltre emergendo
sugli spazi a sud est. I primi risultati di scavo mostrano pertanto una frequentazione del
poggio anteriore a quanto attestato dalle fonti archivistiche; un dato che, relazionato con
testimonianze già esistenti (il tesoretto di Galognano databile tra fine VI-VII secolo (76),
il non lontano complesso agricolo di fine VI-VII secolo presso il Poggio del Boccaccio –
Certaldo (77), i primi risultati della ricognizione sulla zona di Colle Val d’Elsa, la
presenza dell’abbazia di S. Michele di Marturi fondata probabilmente tra IX-inizi X
secolo su proprietà regia (78), un incastellamento più o meno generalizzato dalla metà del
X secolo che pare interessare centri preesistenti), apre nuovi scenari di ricerca per la
comprensione dell’alto medioevo in Val d’Elsa.
5. Il supporto informatico: tra archiviazione dei dati e strumento di ricerca
Dagli inizi del 1991 abbiamo cercato di impostare uno stretto legame tra la ricerca
territoriale e le risorse messe a disposizione dal mondo dell’informatica. Ci siamo posti di
fronte a questa vera e propria nuova frontiera del nostro lavoro per comprendere quali tra
i software a disposizione potessero migliorare sia graficamente sia e soprattutto
sperimentalmente la qualità delle indagini ed il nostro potenziale di ricerca. È stata una
scelta di tipo know how cercando di evitare una trasformazione dell’archeologo in un
ibrido “archeo-informatico”. Nella corsa all’informatizzazione in archeologia, forse
perché uno scenario di sviluppo recente, ci sembra infatti questo il pericolo maggiore.
Crediamo che l’archeologo, pur essendo tenuto a conoscere approfonditamente
potenzialità e contenuti applicativi, non debba perdere di vista l’obiettivo principale del
proprio lavoro ponendosi di fronte al calcolatore come un utente di fascia medio-alta;
inoltre, e soprattutto, sapendo a chi rivolgersi ed in quale linguaggio per affrontare e
risolvere specifici problemi di ricerca ed elaborazione. Ci spaventano recenti tendenze
orientate verso la creazione di una vera e propria disciplina; soprattutto ci preoccupa il
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fatto che siano degli archeologi a propugnarlo e ad eccedere in tecnicismi descrittivi ed in
postulati teorici (79).
Le vie percorse sono così conseguenti alle esigenze nate dal procedere del
progetto. Il primo tentativo di ottimizzare i nostri dati archeologici è stato in modo quasi
automatico l’individuazione di uno standard che combinasse facilità d’uso con
trattamento d’immagini, modellazione tridimensionali, archiviazioni sofisticate ed un
buon livello di presentazione: la scelta è caduta in ambito MacIntosh e le terze parti ad
esso collegate. È stata così creata una prima rete (destinata ad arricchirsi di nuovo hard e
ad up-grade progressivo) composta da Quadra 950, Quadra 800, otto personal LC II,
monitors a 21"-16"-13", due drive mobili, tavoletta grafica formato A0, scanner formato
A4, scopeman, stampante laser. Nelle nostre intenzioni rappresenta la base per
sperimentare ed elaborare su macchine veloci contempraneamente all’effettuazione di
didattica (postazioni di lavoro affidate a studenti).
Per quanto riguarda l’archiviazione abbiamo realizzato un primo passo nel creare
database su File Maker Pro comprensivi di diversi formati (scheda Sito/Ut, scheda US,
scheda dati d’archivio, scheda ceramica, schede inventario reperti, scheda bibliografica).
Questo software, di fronte ad un notevole rapporto prezzo/prestazioni e a semplicità
d’uso, nonostante la mancanza di un linguaggio di programmazione alla Hypercard
permette comunque di lanciare AppleEvents definiti dall’utente e quindi comandare
programmi esterni. Non escludiamo comunque in futuro il passaggio a database creati in
Hypercard stesso; necessità che potrebbe farsi molto pressante a breve scadenza, poiché
l’Insegnamento di Archeologia Medievale si sta muovendo verso la realizzazione di un
GIS, un sistema di gestione territoriale di alta fascia destinato a contenere in una banca
dati l’intera attività di ricerca svolta.
Per il trattamento delle foto aeree (come già anticipato nel paragrafo precedente),
abbiamo adottato essenzialmente le risorse messe a disposizione da Photoshop, una delle
più potenti applicazioni in ambito MacIntosh. Tentando di riconoscere anomalie sulla
base della differente colorazione della vegetazione si è lavorato sia su immagini lette da
schede video a 16.000.000 di colori sia a 256 colori. Il risultato è stato buono in ognuno
dei casi. Per riconoscere anomalie abbiamo agito su formati RGB, i più adatti per
operazioni di ritocco-modifica e in grado di visualizzare immagini sino ad un massimo di
16.777.216 milioni di colori; le operazioni sono state articolate sia in scomposizione in
canali ed azioni tra le diverse bande, sia sui menù image (comandi che consentono di
intervenire sull’immagine modificando gli attributi dei pixel) e filtri (comandi che
utilizzano la tecnologia dei plug-in, moduli esterni al programma che ne rendono
possibile l’ampliamento delle possibilità); le elaborazioni possono essere effettuate tanto
in feed back quanto singolarmente e raggiungere in ambedue i casi il risultato (80).
La modellazione tridimensionale di oggetti è stata tentata con due finalità:
presentare ricostruzioni di strutture (Fig. 1) ed oggetti scavati (Figg. 2-3); costruire
supporti di base relativi a contesti monumentali indagati per rappresentazioni inerenti le
fasi analitiche dello studio e contemporaneamente basi per archiviazioni in GIS. Nel
primo caso abbiamo sperimentato soprattutto il soft Strata Vision 3D che permette di
ottenere immagini tridimensionali con rendering fotorealistico; il rendering stesso è stato
spesso integrato facendo ricorso a textures ottenuti memorizzando colori e materiali
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originali attraverso l’impiego dello scopeman, utile in particolare per la modellazione di
forme ceramiche ma anche per strutture tipo legno, paglia, laterizi ecc. Nel secondo caso,
previa vettorializzazione, è stato utilizzato uno dei prodotti più completi relativi alla
progettazione architettonica su Mac: Minicad + (non permette tuttavia rendering
realistici, ma pur sempre buoni risultati. Fig. 4). Per la presentazioni di elaborati stiamo
inoltre sperimentando ricostruzioni animate (81).
Per la documentazione sul campo, in particolare nello scavo, si è fatto ricorso alla
collaborazione di Antonio Gottarelli, che ha messo a punto una particolare tecnica di
rilevamento battezzata videodocumentazione elettronica. Rimandiamo all’autore per una
esaustiva esposizione, in questa sede sottolineiamo come ciò renda possibile la più
elevata risoluzione spaziale alla massima risoluzione temporale, fornendo basi oggettive
del documento non vincolate a priori da fattori interpretativi (82) (Fig. 5).
Marco Valenti
(1) La direzione scientifica è affidata a Riccardo Francovich, il coordinamento a Marco Valenti.
(2) Si veda G. Barker et al., The Montarrenti survey, 1985: Integrating archeological,
environmental and historica data, in R. Francovich et al., Il progetto Montarrenti (SI). Relazione
preliminare, 1985, “Archeologia Medievale”, XIII, 1986 pp. 291-320 e bibliografia ivi citata; inoltre le
sintesi presenti in R. Francovich, M. Milanese (a cura di), Lo scavo archeologico di Montarrenti e i
problemi dell’incastellamento medievale. Esperienze a confronto, Firenze 1990.
(3) Il valore residuo è relativo a tracce archeologiche presenti in elevato.
(4) Sull’argomento si vedano comunque le informazioni già presentate in M. Valenti, Archeologia
del territorio: indagine sul comprensorio comunale di Castelnuovo Berardenga. Rapporto preliminare,
“Quaderni della Biblioteca Comunale Ranuccio Bianchi Bandinelli di Castelnuovo Berardenga”, 8, Roma
1988; M. Valenti, Cartografia archeologica e ricognizione di superficie. Proposte metodologiche e
progettazione dell’indagine, Siena 1989; M. Valenti, Alcune considerazioni ed esperienze nel
riconoscimento dei siti archeologici, in M. Pasquinucci, S. Menchelli (a cura di), La cartografia
archeologica. Problemi e prospettive. Atti del convegno internazionale tenuto a Pisa, 21-22 marzo 1988,
Pisa 1989, pp. 54-65; M. Valenti, Esperienze di ricerca del Laboratorio Cartografia Archeologica della
Provincia di Siena. Tendenze del popolamento e modelli insediativi nel Chianti senese, in M. Bernardi (a
cura di), Archeologia del paesaggio, IV Ciclo di Lezioni sulla Ricerca applicata in Archeologia. Certosa di
Pontignano (Siena), 14-26 gennaio 1991, Firenze 1992, pp. 805-835; M. Valenti, Carta Archeologica della
Provincia di Siena. Volume I. Il Chianti Senese (Comuni di Castellina in Chianti, Castelnuovo Berardenga,
Gaiole in Chianti, Radda in Chianti), c.s.
(5) Ci riferiamo allo scavo di Poggio del Tesoro citato nel paragrafo precedente.
(6) AA.VV., Archeologia urbana a Fiesole. Lo scavo di Via Marini-Via Portigiani, Firenze 1990,
pp. 169-187; AA.VV., Contesti tardoantichi e altomedievali dal sito di Villa Clelia (Imola, Bologna),
“Archeologia Medievale”, XVII, 1990, pp. 155-162.
(7) AA.VV., Archeologia urbana a Fiesole, op. cit., pp. 188-194, 376-379, 432; Tav. III, 437;
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Tav. VIII, fig. 2; G. Ciampoltrini, P. Notini, Lucca tardoantica e altomedievale. Nuovi contributi
archeologici, “Archeologia Medievale”, XVII, 1990, pp. 588-589.
(8) AA.VV., Archeologia urbana a Fiesole, op. cit., p. 169.
(9) M. Michelucci, Roselle. La Domus dei Mosaici, Montepulciano 1985, p. 111.
(10) J.J. Dobbins, Excavations of the Roman Villa at La Befa, Italy, Oxford 1983.
(11) G. Ciampoltrini, P. Notini, Lucca tardoantica, op. cit., pp. 561-592.
(12) A. Maggiani, Rinvenimenti di età tardo-romana nella cisterna del Tempio A, in M. Cristofani,
Scavi sull’Acropoli di Volterra, “Notizie degli Scavi di Antichità” (1973), Supplemento 1976, p. 166.
(13) G. Vannini (a cura di), L’antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia, II, 1. Indagini archeologiche,
Firenze 1985, pp. 333-337.
(14) E. Boldrini, R. Parenti (a cura di), Santa Maria della Scala. Archeologia e edilizia sulla
piazza dello Spedale, Biblioteca di Archeologia Medievale, 7, Firenze 1991, pp. 296-301; M. Valenti,
Materiali ceramici tardoantichi dal territorio senese. Contributo alla tipologizzazione della ceramica
comune di produzione locale, “Archeologia Medievale”, XVIII, 1991, pp. 737-754; inoltre si segnala un
rinvenimento, ancora inedito, effettuato nel quartiere di Castelvecchio ed oggetto attualmente di una tesi di
laurea.
(15) AA.VV., Contesti tardoantichi e altomedievali, op. cit.; AA.VV., Ricerche archeologiche nel
carpigiano. Catalogo della mostra. Carpi 1984-1985, Modena, pp. 71-74; AA.VV., Modena dalle origini
all’anno Mille. Studi di Archeologia e storia, voll. 2, Modena 1988, pp. 57-5.9
(16) A. Carandini (a cura di), Ostia I, StMisc, 13, Roma 1968; A. Carandini (a cura di), Ostia II,
StMisc, 16, Roma 1970; A. Carandini A. (a cura di), Ostia III, StMisc, 21, Roma 1973; A. Carandini (a
cura di), Ostia IV, StMisc, 23, Roma 1977; A. Frova (a cura di), Scavi di Luni, voll. II, Roma 1977.
(17) Stampo 51 della sigillata africana, stili Aii e Aiii.
(18) Cronologia confermata anche ad Arezzo con esemplari in sigillata adriatica.
(19) Abbandoni datati per lo più da monete di Gallieno (seconda metà III secolo), Probo (fine III
secolo), Gallieno (seconda metà IV secolo).
(20) Le ceramiche ascrivibili tra VI-VII secolo sono limitate ad una piccola superficie posta
all’interno della residenza padronale propriamente detta. Nel caso di Fontealpino, oltre all’abbandono
dell’edificio termale, si verifica il taglio del mosaico effettuato in occasione del riuso dell’ambiente.
(21) La capanna era obliterata dal battuto pavimentale di una bottega di fabbro databile tra fine
XII-metà XIII secolo; i resti di due scheletri sono stati rinvenuti sotto una strada selciata anch’essa
dismessa contemporaneamente alla bottega.
(22) La ricognizione di superficie ha mostrato altri punti con affioramento di manufatti ceramici
simili a quelli rinvenuti nello scavo della capanna.
(23) O. von Hessen, C.A. Maestrelli, W. Kurze, Il tesoro di Galognano, Firenze 1977
(24) Si tratta di un rinvenimento di superficie recentissimo (dicembre 1993) su una zona boschiva
nei pressi del castello di Strozzavolpe; l’area, molto estesa, restituisce laterizi e reperti numismatici che
sembrano al momento coprire un arco cronologico compreso tra IV e VI-VII secolo d.C. Se lo studio delle
monete confermerà le datazioni presupposte, lo spazio compreso tra Galognano, Poggio Imperiale e
Strozzavolpe rappresenterà una materializzazione attendibilissima del modello di sviluppo
dell’insediamento tra IV secolo ed VIII secolo presentato in questo paragrafo: insediamento tardoanticoinsediamento di periodo caotico nelle sue immediate vicinanze (zona Strozzavolpe)-sviluppo di chiese nelle
vicinanze (Galognano) nascita dell’insediamento accentrato (zona Poggio Imperiale).
(25) E. Casanova (a cura di), Il Cartulario della Berardenga, Siena 1927 documenti LIII A 867;
IV A 881; in seguito citato come CB.
(26) L’elenco dei servi ivi residenti cita il befulcus (quattro casi), il pecorario (due casi), lo
iumentario (un caso).
(27) La specializzazione nelle attività lavorative risulta ben chiara anche dalla citazione di un
pastore compreso nella villa di Canpi ma che abita a Septiminula. Un ulteriore elemento di differenziazione
tra i due villaggi si rivela nelle condizioni personali degli individui residenti; fanno parte del primo uomini
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con condizioni personali diversificate (servi, semiliberi, liberi), del secondo esclusivamente persone di
rango servile.
(28) La sua descrizione è pressoché identica a quella di Canpi: “casis et hedificiis, cum greges
ovium et greges porcorum et greges armentorum, cum servos et ancillas, et cum ipsos pastores, qui ipsa
animalia custodiunt”. Anche in questo caso la citazione degli uomini ceduti mostra l’assenza di coltivatori:
il pecorario (un caso), il porcario (un caso), il vaccaro (un caso).
(29) Le “casis, curtis et rebus nostris quas habemus in casalis Sextano” si sono raccolte intorno
alla chiesa consacrata già nel 679 come esposto nel paragrafo precedentemente.
(30) Insediamento connotato da indici demografici di rilievo. Popolazione in aumento anche nei
tre secoli successivi come attestano i contratti agrari; il manso, l’unità poderale minima, viene affiancato
sino dai primi decenni dell’XI secolo da un diverso tipo di appezzamento con estensione inferiore (terra,
petia de terra, petiolam de terra): su quarantasette casi di vendite o donazioni rintracciati sul Cartulario
della Berardenga solo quattordici sono mansi, trentuno relativi a petie e due citano nelle medesime carte
ambedue i termini. Analoghe proporzioni sono presenti nelle carte del XII secolo mentre nel XIII secolo la
presenza del manso si fa sempre più sporadica.
(31) Gavignano forse castello già nel 990, Staggia attestato dal 994, Papaiano dal 997, Talciona
citato la prima volta nel 998; Lecchi attestato nei primi anni dell’XI secolo; Marturi attestato nel 998.
(32) Mugnano dal 970 castello, Bibbiano attestato a partire dal 994, Montegabbro dal 996.
(33) Fulignano e Cusona (quest’ultimo probabilmente) attestati dal 994, Casaglia dal 996, S.
Gimignano dal 998, Monti dalla fine X secolo.
(34) Rispettivamente Gallena citato dal 994 e forse Mensano che compare dagli inizi dell’XI
secolo; Strove dal 1001.
(35) Radda in Chianti: Monterinaldi dal 1016; territorio di Castelnuovo Berardenga: Cellole citato
per il 994, Chiesamonti dagli inizi dell’XI secolo.
(36) Ricavo attestato dal 994, Fonterutoli dal 998, Fizzano dal 1007, Grignano dal 1016.
(37) Montegrossi dal 1007 probabilmente già castello, Vertine attestato a partire dal 1013, S. Fedele
a Paterno castello forse già dal 1002, Brolio dagli inizi dell’XI secolo.
(38) Territorio di Poggibonsi: Stuppio documentato probabilmente dal 1033, Montecuccheri e S.
Fabiano attestati dal 1048; territorio di Casole d’Elsa: Casole dai primi decenni dell’XI secolo; territorio di
Colle Val d’Elsa: nessuna attestazione; territorio di S. Gimignano: Montauto e Pulliciano attestati dal 1052,
Collemuccioli attestato dal 1086; territorio di Monteriggioni: Castiglionalto citato a partire dal 1060, Monte
Maggio dal 1086.
(39) Territorio di Castellina in Chianti: Rencine attestato dal 1052, La Leccia dal 1077, Bibbiano,
Monternano, Vignale dal 1089; territorio di Gaiole in Chianti: Campi citato dal 1049, Tornano e Lucignano
dalla seconda metà dell’XI secolo, Stielle e Barbischio citati dal 1086; territorio di Castelnuovo
Berardenga: Monteaperti documentato dal 1023, Valcortese dal 1030, Cetamura, Monastero d’Ombrone e
Ripalta dal 1044, Cerrogrosso e Mandriole (oggi scomparsi) dal 1063, Pancole dal 1071, Barca dal 1074,
Cerreto, Montalto e Orgiale dalla fine dell’XI secolo.
(40) Attestata solo la costruzione del castello di Radda per il 1070; in questo territorio, i castelli
non sembrano proliferare.
(41) Territorio di Poggibonsi: Stoppia attestato dal 1130, Strozzavolpe dal 1154, Poggio Bonizio
fondato nel 1155; territorio di Colle Val d’Elsa: Paurano citato dal XII secolo; territorio di Casole d’Elsa:
Suvera documentato dalla metà del XII secolo, Marmoraia dal 1160; territorio di S. Gimignano: Picchena
attestato dal 1113, Castelvecchio di San Gimignano dal 1144, Villa dal 1147, San Benedetto dal 1115,
Ulignano dal 1171, Mucchio dal 1109; territorio di Monteriggioni: Montauto e Poggiolo citati sin dal XII
secolo; territorio di Castellina in Chianti: nessuna attestazione tranne, forse, Pietrafitta dalla fine del XII
secolo; territorio di Gaiole in Chianti: Monteluco e Castagnoli citati sin dagli inizi del XII secolo,
Monteluco a Lecchi documentato dal 1167, forse Meleto sin dalla fine del XII secolo; territorio di Radda in
Chianti: Volpaia citato dal 1172, Trebbia dal 1193; territorio di Castelnuovo Berardenga: S. Maria a
Dofana forse castello citato nel 1108, Campi dal 1108, Selvole documentato tra 1127 e 1158, Sesta dalla
metà del XII secolo, S. Piero dalla fine del XII secolo.
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(42) Territorio di Poggibonsi e di Colle Val d’Elsa: nessuna attestazione; territorio di Casole
d’Elsa: Selva documentato dal 1216, Monteguidi a partire dal XIII secolo; territorio di S. Gimignano:
Citerna citato dal XIII secolo, Castel S. Gimignano attestato dal 1205; territorio di Monteriggioni:
Quercegrossa attestato dagli inizi del XIII secolo, Monteriggioni dalla seconda decade del XIII secolo;
territorio di Castellina in Chianti: nessuna attestazione; territorio di Gaiole in Chianti: Montecastelli citato
dagli inizi del XIII secolo, Ama dal 1215, Cacchiano dal 1203; territorio di Radda: Castiglioni documentato
dal 1220; territorio di Castelnuovo Berardenga: Barbaioni attestato dal 1202, Argiano forse castello già dal
1212. Alcuni di questi casi, nella fattispecie gli incastellamenti di inizi duecento, rappresentano comunque i
prodromi della fase successiva.
(43) Territorio di Casole d’Elsa: Vergene documentato dal 1318; territorio di Monteriggioni:
Scorgiano e Bigazzi attestati dal 1318; territorio di Castellina in Chianti: Castellina fortificata dalla metà
del XIII secolo, Castagnoli dalla metà del XV; territorio di Radda in Chianti: Le Stinche documentata dal
XIV secolo; territorio di Castelnuovo Berardenga: Castelnuovo costruito nel 1366, S. Gusmè fortificato
nella seconda metà del XIV secolo.
(44) Territorio di Casole d’Elsa: Leoncelli chiesa trasformata in castello agli inizi del XIV secolo,
Marmoraia pieve fortificata ma dubbia la cronologia; territorio di Monteriggioni: Abbadia a Isola,
fortificata nel 1376; territorio di Gaiole in Chianti: S. Giusto alle Monache monastero trasformato in
fortezza agli inizi del XIV secolo; S. Polo in Rosso pieve che agli inizi del XIV secolo aveva anch’essa
l’assetto di una fortezza; territorio di Radda in Chianti: Badiaccia a Montemuro cinta di difese sin dagli
inizi del XIV secolo.
(45) Quasi tutti i castelli del Chianti e della Val d’Elsa presentano oggi corpi di fabbrica derivati
dalle pesanti opere di rifortificazione e di rafforzamento effettuate.
(46) L’iniziativa di procedere ad incastellamento è quasi sempre di origine laica con l’eccezione di
alcuni castelli compresi nei territori di Colle e S. Gimignano (arcivescovato di Volterra).
(47) Papaiano, 989 villaggio aperto, 997 castello; Lecchi, 994 sede di proprietà, inizi XI secolo
castello; Fizzano, 998 citazione del toponimo senza apposizione, 1007 castello; Fosci, 998 villaggio aperto,
inizi XI secolo castello; S. Fedele a Paterno, 998 citazione del toponimo senza apposizione, 1002
probabilmente castello; Vertine, 997 citazione del toponimo senza apposizione, 1013 castello.
(48) Pulliciano, 992-994 sede di proprietà, 1052 castello; Montauto (di S. Gimignano)
documentato nel 934, lo ritroviamo castello nel 1052; Collemuccioli, 1059 prima attestazione del
toponimo, 1086 castello; Casole d’Elsa, sede pievana fortificata ai primi decenni dell’XI secolo; Monte
Maggio, attestato nel 953, 1086 castello; Pancole, concentrazione di beni fondiari sino al 1066, nel 1071
castello; Barca, casale sino al 1038, nel 1074 castello; Cerrogrosso origina da una curtis più antica come si
evince abbastanza chiaramente dai documenti; Stielle, curtis tra 945-963, nel 1086 castello; Campi, nel
1044 attestato il toponimo privo di definizione, nel 1049 castello; Barbischio, attestato tra 1010-1073 come
zona molto frequentata (anche citato il mercato di Barbischio, forse da leggere come l’attuale Gaiole), dal
1086 castello; Radda centro di proprietà fondiarie a partire dal 1002, nel 1070 castello.
(49) Selvole, 1070 toponimo citato privo di definizioni, tra 1127-1158 castello; Monteluco, sino alla
fine dell’XI secolo citato il toponimo privo di apposizioni, agli inizi del XII castello; Monteluco a Lecchi,
998 sede di mansi, 1167 castello; Campi della Berardenga, 1083 curtis, 1108 castello; Barbaioni, sino alla
metà del XII secolo curtis, nel 1202 castello.
(50) Tipologia illustrata già tra 1914-1924 da Vaccari: si veda la raccolta di tali articoli in P.
Vaccari, La territorialità come base dell’ordinamento giuridico del contado nell’Italia medioevale, Milano
1963 (2a ed), in particolare pp. 45-51; in anni più recenti e per una parte delle zone qui trattate si veda il
lavoro di Francovich sul contado fiorentino: R. Francovich, I castelli del contado fiorentino nei secoli XII e
XIII, Firenze 1978, in particolare pp. 18-24.
(51) C. Wickham, Documenti scritti e archeologia per una storia dell’incastel-lamento: l’esempio
della Toscana, in R. Francovich, M. Milanese (a cura di), Lo scavo archeologico di Montarrenti e i
problemi dell’incastellamento medievale. Esperienze a confronto, Firenze 1990, p. 87.
(52) C. Wickham, Documenti scritti e archeologia, op.cit., pp. 79-102; si vedano soprattutto pp.
84-91.
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commerciale
(53) CB XXXVIII A 1064.
(54) CB XXX A 1064.
(55) CB CXLII A 1067.
(56) CB DXXVII A 1065.
(57) Toponimo Collelungo/Collelungolo poi trasformatosi, a partire dal secondo decennio del XII
secolo, in Valcortese. Prima attestazione documentaria in CB DXLII A 1030: “Actum intus castello, qui
dicitur Collelungo”.
(58) CB CXLV A 1170: citato il “burgus” di Valcortese.
(59) Elementi datanti rappresentati da maiolica arcaica di prima fase; tra essi si citano: boccale con
decorazione zoomorfa (uccello); catino tipo Francovich B.2.1; catino tipo Francovich B.1.4; grande catino
a fondo piano con decorazione zoomorfa (pesce). Si veda in proposito L. Cappelli, Ceramiche rivestite
bassomedievali: la maiolica arcaica, in Valenti, Carta Archeologica della Provincia di Siena, op. cit.
(60) Vedi il proseguio del testo e nota 63.
(61) Dato che non compare dalla documentazione d’archivio.
(62) Località Montosi (Radda in Chianti), Castellare (Gaiole in Chianti).
(63) La Fonte di Sestano (Castelnuovo Berardenga).
(64) A.A. Settia, La struttura materiale del castello nei secolo X e XI. Elementi di morfologia
castellana nelle fonti scritte dell’Italia Settentrionale, “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”,
LXXVII, 1979, pp. 1-70.
(65) Wickham, Documenti scritti e archeologia, cit., pp. 89-90.
(66) CB CXXXIX A 1228.
(67) Francovich, I castelli, cit., p. 56 n. 11.
(68) CB CXXXIX A 1228.
(69) CB CXXXVII A 1228.
(70) CB CXXXVII A 1228.
(71) CB CXXXIX A 1228; citati ventisei toponimi che individuavano spazi soggetti a
sfruttamento.
(72) Per un inquadramento generale del villaggio si veda soprattutto E. Rinaldi, Il nobile castello
di Poggio Bonizio, Poggibonsi, 1980; Id, Poggibonsi 1174-1318. Fonti archivistiche, Poggibonsi, 1986; Id.,
Ricerche di vita in una città scomparsa. Poggiobonizio, Poggibonsi, 1986.
(73) Al suo interno avrebbe dovuto infatti ospitare un agglomerato urbano. In merito alla
costruzione della fortezza ed alle caratteristiche dei resti monumentali si vedano L. Masi, La fortezza di
Poggio Imperiale a Poggibonsi. Un prototipo di cantiere dell’architettura militare del Rinascimento,
Poggibonsi 1992; L. Pescatori, Note storico-tipologiche sulle fortificazioni di Poggio Imperiale, in G.
Morolli, C. Acidini Luchinat, L. Marchetti (a cura di), L’architettura di Lorenzo il Magnifico, Cinisello
Balsamo-Milano 1992, pp. 222-226; M. Perini, Relazione preliminare sullo stato di conservazione del
complesso fortificato di Poggio Imperiale, in Morolli-Acidini Luchinat-Marchetti (a cura di),
L’architettura, cit., pp. 234-239.
(74) ASS (Archivio di Stato di Siena), Riformagioni, 10 luglio 1221, 8 luglio 1227:
rispettivamente 1558 e 1695 cittadini in grado di giurare.
(75) ASF (Archivio di Stato di Firenze), Bonifazio, 14 gennaio 1258: citato il borgo di Santa
Maria di Poggio Bonizio; ASF Bonifazio, 7 agosto 1258 citato il borgo nuovo; ASF Comunità di
Poggibonsi, 25 maggio 1263: citati i borghi di Vallepiatta ed il borgo vecchio. Fuori dal castello esistevano
inoltre cinque fontane per la cui ubicazione si veda Rinaldi, Il nobile castello, cit., p. 58. Ai piedi della cinta
muraria rinascimentale fu scoperta casualmente agli inizi del nostro secolo l’imponente e monumentale
Fonte delle Fate, probabilmente duecentesca, collocata da alcuni autori entro la cinta muraria; si veda
soprattutto Perini, Relazione preliminare, cit..
(76) O. von Hessen, C.A. Maestrelli, W. Kurze, Il tesoro di Galognano, Firenze 1977.
(77) Si veda G. De Marinis, Topografia storica della Val d’Elsa in periodo etrusco, Firenze 1977,
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pp. 133-183, in particolare pp. 172-183.
(78) Si veda soprattutto W. Kurze, Gli albori dell’abbazia di Marturi, “Bollettino Storico Pisano”,
XXXIX, 1970, pp. 3-14.
(79) Si veda come esempio il pur apprezzabile contributo sulla eidologia informatica in A.
Guidazzoli, M. Forte, Archeologia e tecniche di eidologia informatica, “Archeologia e Calcolatori”, 3,
1992, pp. 37-76.
(80) Si vedano le foto presentate in M. Valenti, Poggio Imperiale (Poggibonsi - SI). Diagnostica
interattiva del potenziale archeologico all’interno di un’area monumentale, “Archeologia Medievale”, XX,
1993, pp. 633-644.
(81) Tra i partecipanti a tali attività si cita soprattutto Giancarlo Macchi per gli aspetti
sperimentali.
(82) A. Gottarelli, La video-documentazione elettronica dello scavo archeologico (V.M.D.). Studi
ed esperienze per il progetto di una periferica dedicata, “Archeologia e Calcolatori”, III, 1992, pp. 77-99..
Fig. 1 – Modellazione tridimensionale di capanna altomedievale individuata a Poggio Imperiale.
Fig. 2 – Modellazione tridimensionale di ceramica depurata con ingobbiatura rossa. Esemplari provenienti
dallo scavo di S. Quirico.
Fig. 3 – Modellazione tridimensionale di ceramica acroma grezza. Esemplari provenienti dallo scavo di S.
Quirico.
Fig. 4 – Restituzione digitale della Fortezza di Poggio Imperiale con posizionamento anomalie da foto
aerea.
Fig. 5 – Particolare della videodocumentazione effettuata sull’area 2 dello scavo di Poggio Imperiale.
Elaborazione Antonio Gottarelli (1993).
Tav. 1.
Tav. 2.
Tav. 3.
Tav. 4.
Tav. 5.
Tav. 6.
Tav. 7.
Tav. 8.
Tav. 9.
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