Integrazione dei mercati e riaggiustamento nei distretti industriali

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Integrazione dei mercati e riaggiustamento nei distretti industriali
Integrazione dei mercati e riaggiustamento nei
distretti industriali
Giovanni Solinas
*
Abstract
In questo articolo si discute il comportamento dei distretti industriali italiani nelle mutate
condizioni della concorrenza sui mercati internazionali. Il saggio prende le mosse
dall’analisi della varietà dei comportamenti dei distretti nel corso degli anni Novanta I
distretti industriali sono diversi per specializzazione produttiva, per il livello di integrazione
verticale e struttura dimensionale delle imprese, per mercati di riferimento e organizzazione
di vendita, per grado di apertura e livello di internazionalizzazione, per la capacità di
produrre nuovi prodotti. E si comportano in modo diverso anche nel reagire ai processi di
integrazione dei mercati mondiali. A esplorare questo tema, valutandone le implicazioni sul
dibattito sul declino industriale italiano, è dedicata la parte centrale del lavoro. Si conclude
con alcune proposte sulle politiche industriali nazionali e regionali.
Parole chiave: Internazionalizzazione, distretti industriali, politiche economiche
The article deals with the behaviour of the industrial districts in the changed situation of
competition on the international markets, starting from an analysis of the varieties of
behaviour of the districts through the 1990s. The districts differ according to their productive
specialization, their level of vertical integration and size of the firms, their markets of
reference and sales organization, their degree of openness and internationalization, and their
capacity to produce new products. Their behaviour also differs in their response to
integration processes in the world markets. This topic is investigated in the central part of the
article, where its implications in the debate on Italy’s industrial decline are assessed. The
conclusion offers some proposals for industrial policies at national and regional level.
Key words: internationalization, industrial districts, economic policies.
1. Introduzione
Che per la manifattura italiana le cose vadano male è sicuro. Ed è sicuro che per
molti distretti industriali parlare di crisi non sia una esagerazione. Date certe
condizioni il distretto può declinare e morire. Tanto e più della grande impresa: ché
le condizioni di efficienza di un distretto industriale dipendono anche da equilibri
sociali (e comportamenti individuali) assai più difficili da realizzare in condizioni di
*
Professore straordinario di Economia Politica, Dipartimento di Economia Politica,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. e-mail: [email protected].
sinergie n. xxx
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INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
stagnazione economica prolungata. Tutto questo, se non da tutti, è certamente
condiviso da molti. Ciò che invece sorprende è il (ri)emergere nel dibattito
economico sull’Italia contemporanea di un elemento preanalitico. Il punto può
essere reso esplicito come segue. L’economista che, a partire dalla crisi della Fiat e
di infiniti altri progetti che hanno coinvolto la grande industria in Italia ? con la
drastica riduzione del contributo della grande impresa alla produzione
manifatturiera 1 ? ne desumesse l’inutilità di quello specifico modo di organizzare
la produzione, verrebbe probabilmente considerato bizzarro. Questa viceversa è
precisamente la posizione che fa capolino e, alle volte emerge in modo esplicito,
nella discussione corrente sul “declino industriale”. La crisi italiana è fatta
coincidere con la crisi di un modello di organizzazione industriale: il distretto. Il più
ruvido alfiere di questo punto di vista è forse Marcello De Cecco, secondo il quale
l’industria italiana “sopravvive negli interstizi dell’economia mondiale con il
decentramento produttivo e l’economia sommersa, producendo cose che altri, assai
più poveri di noi, sanno e sapranno fare meglio”. (2000, p. 13). Al punto da
prescrivere quale cura quella di espungere dal panorama industriale italiano i
distretti: “[s]olo cercando di eliminare quelli che erano considerati come ‘tratti
originali’, mentre erano verosimilmente anomalie destinate a trasformarsi da
benigne in maligne, col passar del tempo e col cambiare del contesto economico e
politico mondiale, si può tentare di ritrovare la strada (2004, p . 198-199). Forse più
articolati, ma non troppo dissimili i giudizi di altri.2 La crisi segna quindi la fine
dell’economia dell’illusione, appunto, “l’economia di Lucignolo”.3 In questa
prospettiva, il distretto diviene il primo responsabile (o evidenza manifesta) di
dimensioni di impresa “sbagliate” e di specializzazioni nelle industrie“sbagliate”.
Ignorando che, nella sua essenza, quale modello di organizzazione industriale, il
distretto è un altro modo di essere “grandi”.4 E il dato empirico che, non solo nei
paesi emergenti, ma anche in molti paesi di più antica industrializzazione, le
concentrazioni territoriali di imprese con la crescente integrazione dei mercati
mondiali sono divenute, semmai, più numerose.5
1
La quota degli occupati nelle grandi imprese manifatturiera in Italia è, infatti passata, dal
35% nel 1971, al 16,5% nel 2001.
2
Tra i tanti si ricordano: Gallino (2003), Nardozzi (2004), Onida (2004), Petrini (2003),
Zanetti e Alzona (2004).
3
Tra le righe, e a volte esplicitamente, si fa riferimento alla irresponsabilità degli economisti
che hanno sostenuto la possibilità di un modello di sviluppo basata sui distretti industriali.
Tanti Lucignolo (o tanti burattini di legno) che seguono le malie di Mangiafuoco verso un
improbabile paese dei balocchi.
4
Come sottolinea Ginzburg (2005), riemergono modi di pensare che erano tipici degli anni
Settanta e Ottanta e, in particolare, si dà per scontata, ancora una volta, la convergenza
verso“the one best way”: la grande impresa verticalmente integrata. La dimensione ? misurata
da un qualche indicatore convenzionale e non dalle relazioni tra le imprese ? determina il
rapporto K/L e quindi, meccanicamente, la tecnologia.
5
Osserva Trigilia “si è spesso sostenuto “che le tendenze a una maggiore apertura e
internazionalizzazione delle economie dei vari paesi comportino un progressivo sradicamento
territoriale delle attività produttive: le economie diventano sempre più senza patria. Questa
GIOVANNI SOLINAS
Il “dibattito sul declino” fa da sfondo a questo saggio. Ma il suo scopo non è di
proporne una rassegna. Nasce dalla convinzione che la voglia di resa dei conti
teorica ? l’apriori di cui si è detto ?di chi quella costruzione non ha mai compreso e
ritiene che l’apparato industriale italiano debba muovere, il più rapidamente
possibile, verso assetti e modelli di organizzazione differenti, concorra a creare un
vuoto di analisi e di proposta, rendendo più acute le difficoltà dei distretti industriali
e, con essi, di buona parte della manifattura italiana. Il saggio prende le mosse
dall’analisi della varietà dei comportamenti dei distretti nel corso degli anni Novanta
per concludersi con alcune proposte, assai preliminari e incomplete, sulle politiche
economiche Al primo tema ? il riaggiustamento in atto ? sono dedicati i paragrafi 2
e 3; al secondo tema ? le politiche ? i rimanenti (§ 4, 5, 6, 7).
2. Il riaggiustamento nei distretti industriali: uno sguardo d’insieme
Ai fini del ragionamento che si sviluppa in queste pagine, il saggio più utile è
quello di Murat e Paba (2005). Lo studio esamina l’andamento dell’occupazione nel
corso degli anni Novanta nei distretti industriali e negli altri sistemi locali
identificati dall’Istat.
Da questo studio emergono tre risultati di rilievo. I primi due sono mostrati nella
tabella 1.
“Dai dati emerge invece chiaramente come i distretti industriali continuino a
rappresentare i sistemi locali del lavoro dove si concentra la parte più dinamica
dell’industria manifatturiera italiana”. La manifattura si contrae ovunque: nel
decennio 1991-2001 il numero degli occupati si riduce di 322mila unità. Per i
distretti, tuttavia, la perdita è quasi trascurabile (-19mila addetti, pari allo 0,85% del
totale). Negli altri sistemi locali la contrazione è assai più consistente :nel corso del
periodo sfiora il 10% dell’occupazione comp lessiva. Di conseguenza, la quota
dell’occupazione manifatturiera concentrata nei distretti rispetto al totale nazionale
sale dal 42,6% del 1991 al 45% del 2001.
visione si basa sulla effettiva crescita dei processi di delocalizzazione, e sulle conseguenze
che essi comportano per molti sistemi produttivi locali” […]. “Tuttavia, a ben vedere, questi
fenomeni non si accompagnano a una complessiva riduzione della concentrazione territoriale
delle attività produttive. Accade, specie in Europa, il contrario. Le attività manifatturiere si
ridimensionano dal punto di vista occupazionale, anche per effetto della massiccia
introduzione di nuove tecnologie. Ma è significativo che esse tendano ancor più a
territorializzarsi, cioè a concentrarsi in specifici sistemi locali specializzati sia nelle
produzioni più tradizionali che in molte ad alta tecnologia” (Trigilia, 2005, pp. 15-16). Si
veda anche Crouch et al (2004a e 2004b).
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INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
Differenza 20011991
v.a.
Var. %
Differenza 2001-1996
v.a.
var. %
Differenza 1996 -1991
v.a.
var. %
Occupazione totale
1.045.602
7,41
1.338.297
9,69
-292.695
-2,07
434.160
9,81
416.015
9,37
18.145
0,41
611.442
6,31
922.282
9,84
-310.840
-3,21
Occupazione manifatturiera
Tutti i SL
-322.576
-6,19
34.280
0,71
-356.856
-6,84
Distretti
-18.829
-0,85
30.509
1,4
-49.338
-2,22
Altri SL
-303.747
-10,15
3.771
0,14
-307.518
-10,27
Occupazione servizi
Tutti i SL
1.219.408
16,64
1.151.522
15,57
67.886
0,93
Distretti
383.753
21,81
324.751
17,86
59.002
3,35
Altri SL
835.655
15,01
826.771
14,82
8.884
0,16
Altre industrie
Tutti i SL
148.770
152.495
-3.725
Distretti ISTAT
69.236
60.755
8.481
Altri SL
79.534
91.740
-12.206
Note: I dati fanno riferimento ai 784 sistemi locali del lavoro (SL) censiti dall'Itat con dati
demografici del 1991. Di questi, i distretti industriali identificati sono 199.
Fonte: Murat, Paba (2005).
Tutti i SL
Distretti
Altri SL
Tab. 1: Variazione dell'occupazione nei sistemi locali del lavoro
Nei distretti, inoltre, il processo di terziarizzazione è molto più accentuato
(+21%, contro una crescita media del 16% nell’insieme dell’economia). Il dato
riflette il maggiore sviluppo dei servizi legati alla manifattura.
L’ulteriore risultato riguarda la specializzazione del distretto e, in particolare,
l’interrelazione settoriale all’interno dei distretti. Gli autori studiano gli effetti
dell’andamento dell’occupazione nel settore di specializzazione principale sul resto
della manifattura presente nel distretto (fig. 1).6 Emergono tre situazioni diverse.
6
Occorre precisare che analisi riguarda i distretti più specializzati (con una occupazione nel
settore principale superiore al 25% del totale manifatturiero) e più rappresentativi in ambito
nazionale (con un numero di addetti nel settore di specializzazione non inferiore a 1.000). Il
numero di distretti considerato è di 125, il 63% del totale.
Variazione occupazione manifatturiera del distretto (%)
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65
70
75
80
85
Variazione occupazione nel settore di specializzazione del distretto (%)
Fonte: Murat, Paba (2005).
Fig. 1 : Distretti industriali: variazione dell'occupazione manifatturiera e del settore
di specializzazione. periodo 1991-2001
La prima è quella in cui il settore di specializzazione perde peso in termini
occupazionali e trascina con sé l’intera filiera. È quanto accade in molti distretti
tessili e dell’abbigliamento, della Toscana, del Veneto, dell’Emilia e della
Lombardia. In alcuni di questi distretti la contrazione dell’occupazione
manifatturiera nel decennio supera il 30% (Busto Arsizio, Gallarate, Empoli, Pistoia,
Bibbiena, San Sepolcro). A Como, Biella, Thiene, e Carpi ? per citare soltanto i
distretti più noti ? la perdita di occupazione è compresa tra il 20 e il 30%.
Tra i distretti delle calzature perdono occupazione specializzata San Giovanni
Ilarione (-16%), Castelfiorentino (-10%), Montecatini (-15%), Porto Sant’Elpidio (9%) e, in misura drammatica, Barletta (-40%).
Nel mobile, Desio, che è a tutt’oggi il distretto con il maggior numero di
occupati, perde oltre 5.000 addetti, con un ridimensionamento consistente della
occupazione specializzata (-21%) e dell’intera manifattura (-16%). Nelle stesse
proporzioni si contrae l’area del mobile d’arte di Cerea.
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Il distretto del marmo di Pietrasanta perde quasi un terzo degli addetti e la
manifattura si contrae in misura corrispondente.
La seconda situazione è quella nella quale il settore di specializzazione perde, ma
ne emergono o si rafforzano altri (e l’occupazione manifatturiera e complessiva
aumentano).
Nel tessile-abbigliamento l’esempio più significativo è Mirandola ? dove la
maglieria e la confezione riducono il numero di occupati, ma guadagnano meccanica
e biomedicale ? e di molti distretti più piccoli (Clusone, Orzinuovi, Sinalunga). Ma
un comportamento simile lo ha Prato, distretto nel quale il tessile si contrae, ma si
espande in misura considerevole l’abbigliamento, con una crescita considerevole
della manifattura rispetto all’inizio del periodo (+15%).
Nelle calzature è il caso di Montebelluna che, nel decennio, vede contrarsi
l’occupazione specializzata di quasi un quarto, ma le industrie ausiliarie conservano
l’occupazione e si espandono i servizi connessi alla manifattura. Il medesimo
andamento lo si osserva in molti distretti calzaturieri marchigiani (Civitanova
Marche, Fermo, Montegranaro).
La terza situazione, infine, è quella nella quale il settore di specializzazione
aumenta l’occupazione, contrasta la perdita di occupazione di altre industrie o, non
di rado, determina una crescita dell’occupazione manifatturiera e della occupazione
complessiva.
Questa è la situazione tipica dei distretti industriali a specializzazione meccanica.
Se, per comodità, si limita l’analisi, ai distretti con una occupazione specializzata di
almeno 10mila addetti, si osserva che la gran parte fanno registrare una crescita
dell’occupazione meccanica superiore al 10%: è il caso di Conegliano (+41%), di
Borgomanero (+36%), di Padova (+21%), di Reggio Emilia (+18%), di Brescia
(+14%), di Treviglio (+13,2%), di Vigevano (+11%). Soltanto Modena (+2,4%),
Lumezzane (+1,6%) e Lecco (+1%) evidenziano tassi di crescita modesti
dell’occupazione specializzata.
La crescita, tuttavia, riguarda anche settori tradizionali dei beni per la persona e
la casa. Crescono le calze di Castelgoffredo. Ad Arzignano gli occupati nella
lavorazioni delle pelli, anche grazie a una intensa emigrazione, aumentano di quasi il
40%; a Solfora di poco meno del 20%. Con l’eccezione di Desio, qualcosa di simile
accade nei distretti del mobile con una crescita dell’industria specializzata e della
manifattura nel suo complesso. Il caso più emblematico è Oderzo, distretto nel quale
l’industria del mobile e l’intera manifattura crescono del 45% nel corso del
decennio. Ma andamenti dello stesso segno li si osserva a Bassano del Grappa (+17
e + 7%), a Pieve di Soligo (+11% e +5%). A Pesaro aumenta l’occupazione nei
mobili (+5,6%) e, in misura assai più consistente nel resto della manifattura (+25%).
Stesso andamento a Forlì (+1,9 e + 9,9%). In entrambi i casi la crescita dell’industria
principale si accompagna a processi di estensione e diversificazione della
manifattura.
Nel più grande tra i distretti orafi – Arezzo ? la crescita dell’occupazione
nell’industria dei gioielli, prossima al 25%, controbilancia quasi per intero la perdita
degli altri settori manifatturieri.
GIOVANNI SOLINAS
Nell’industriale delle piastrelle, in tutta l’Emilia, centro principale della
produzione nazionale, l’occupazione specializzata cresce in misura consistente
ovunque: in particolare, dal distretto di Sassuolo che in valori assoluti è quello che
cresce in misura maggiore (1.700 addeti pari all’11% dell’occupazione) l’industria si
espande nelle aree circonvicine di Castellarano (+34%) e Vignola (+20%). L’unico
sistema manifatturiero regionale che fa registrare una crescita moderata, e tale da
non compensare la contrazione delle altre industrie, è la ceramica faentina.
Va segnalato, infine, che vi sono molti casi in cui, nonostante una naturale
tendenza alla terziarizzazione, il peso della occupazione specializzata e
dell’occupazione manifatturiera rimangono pressoché immutati: Santa Croce
sull’Arno, per la concia, Udine nell’arredamento, Vicenza per i gioielli.
Fin qui Murat e Paba. Sulle implicazioni di questa analisi si ritornerà. Preme
però sottolineare un punto.
Ciò che è ritenuto ovvio e normale nell’analisi della performance delle grandi
imprese e di altre forme di organizzazione industriale, va ribadito per i distretti: i
distretti sono diversi. Non può dunque sorprendere, se non per costruzione
aprioristica, che vi siano dei distretti che vanno in un modo e dei distretti che vanno
in un altro.7
3. I distretti industriali nella competizione internazionale: cinque
8
comportamenti diversi
I distretti sono diversi per specializzazione produttiva, per livello di integrazione
verticale e struttura dimensionale delle imprese, per mercati di riferimento e
organizzazione di vendita, per grado di apertura e livello di internazionalizzazione,
per capacità di produrre nuovi prodotti. E si comportano in modo diverso. Anche nel
reagire ai processi di integrazione dei mercati mondiali. In modo assai schematico, a
partire dagli elementi caratteristici della struttura produttiva e dell’organizzazione
dei mercati, è possibile individuare almeno cinque casi diversi. La tassonomia
7
Vi è su questo aspetto un passaggio tratto dalle lezioni agli studenti di Economia industriale,
di Sebastiano Brusco che, a chi scrive, pare ancora utile. “In sostanza ? osserva Brusco ? i
distretti si comportano in modo non diverso dalle grandi imprese. Leggete un qualsiasi libro
di testo che spieghi i comportamenti strategici delle grandi imprese: troverete che è diviso in
argomenti che sono: la diversificazione, l’innovazione, i problemi di finanza e quant’altro.
Troverete che si prospettano soluzioni diverse a seconda delle caratteristiche particolari e a
seconda (se chi lo scrive è ragionevolmente attento a ciò che ha dattorno) anche della mente
strategica della impresa, di chi dirige l’impresa. La stessa cosa accade in un distretto. Un
distretto si comporta in un modo, un altro distretto si comporta in un altro. Con la differenza
che la maniera in cui un distretto si comporta non è determinata da un unico centro
decisionale, ? da un unico luogo di elaborazione strategica ? come accade in una grande
impresa, ma è invece determinata da una azione collettiva fondamentalmente non coordinata.”
8
Il presente paragrafo riprende considerazioni contenute in Marchi e Solinas (2003). Due
diverse proposte di lettura sulle trasformazioni in atto nei distretti industriali italiani sono
proposte da Rullani (2003) e Sabel (2004).
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proposta di seguito è di primissima approssimazione e non esaurisce la varietà di
situazioni presenti nel panorama italiano, ma aiuta a individuare diversi modi in cui i
distretti industriali hanno reagito e stanno reagendo al mutamento delle condizioni
della concorrenza.
Caso I: la delocalizzazione all’estero
Il primo caso è costituito da quei distretti nei quali è in atto un processo
consistente di delocalizzazione all’estero della produzione. Parte non piccola sono
specializzati nell’industria tessile e dell’abbigliamento che si rivolgono verso l’Est
Europa (soprattutto Romania per la realizzazione sia di lavorazioni sia di prodotti
finito), i paesi del Nord-Africa (soprattutto Tunisia per semilavorati) e la Cina
(prodotti finiti e semifiniti).9 Nei casi ai quali guardiamo, la delocalizzazione della
produzione riguarda i paesi a bassi salari ed è tesa principalmente, anche se non
unicamente, a reperire forza lavoro e, soprattutto, a ridurre i costi del lavoro.Nel
decennio 1991-2001 le importazioni di manufatti (prodotti finiti e semilavorati) da
paesi a bassi salari sono cresciute a tassi molto alti, con variazioni prossime al 400500% (in relazione all’intero periodo). È il Veneto la regione nella quale
l’andamento è più marcato.10 Il dato su cui soffermarsi è che, in generale, il livello di
competenze dei produttori esteri, anche nei paesi a basso costo del lavoro, è
aumentato in modo significativo, rendendo trasferibile all’estero ciò che, anche solo
fino a pochi anni fa, non lo era. Tuttavia, la delocalizzazione di attività produttive in
paesi lontani, innescata dalle imprese medie e grandi, può essere realizzata quando
riguarda prodotti relativamente meno sofisticati, prodotti in serie lunghe e la cui
produzione sia programmata con largo anticipo.11 Per prodotti con queste
caratteristiche i divari di costi rispetto all’Italia sono incolmabili. Il salario è di 130140 euro al mese per lavoratrice (straordinari inclusi), cioè circa un decimo di quello
italiano. Considerando i divari di produttività e i costi di trasporto un jeans fatto in
Romania costa il 45% del costo italiano (Tattara, 2003 e 2004).
Gli effetti della delocalizzazione sulle aree di partenza sono variegati. Il primo è
la riduzione dell’occupazione nei settori interessati. Ad esempio, nell’area di
Vicenza, tra il 1991 e il 2000, le industrie tessili e dell’abbigliamento hanno
registrato la chiusura di circa mille imprese (-36%) e la perdita di circa 10mila posti
di lavoro (-28%). In quest’area è possibile stimare che i due terzi della contrazione
occupazionale vadano attribuiti a fenomeni delocalizzativi (Crestanello e Dalla
Libera, 2003).
La perdita di occupazione riguarda soprattutto le imprese
subfornitrici mentre, non di rado, nelle imprese finali che delocalizzano,
l’occupazione aumenta. Le conseguenze sui subfornitori locali sono importanti. Tra i
9
Cfr. Bianchi (2003), Crestanello e Dalla Libera (2003).
Soltanto a Timisoara ci sono tra le 700 e le 1000 imprese di proprietà o che lavorano per
imprese venete. La gran parte (70-80%) sono imprese dell’industria tessile o
dell’abbigliamento. Non per caso Timisoara è stata definita l’ottava provincia Veneta. Sul
caso veneto si vedano anche Gisolo e Iodice (2004) e Gomirato (2004).
11
A Timisoara ci sono imprese che, per Benetton, in 5-6 mesi, di uno stesso modello arrivano
a realizzare fino a 100mila capi.
10
GIOVANNI SOLINAS
subfornitori, infatti, quando essi stessi non scelgano di delocalizzare, i differenziali
di costo con produttori esteri si traducono in pressioni al ribasso sui profitti e, a
cascata, sui salari.12 Vi sono altri effetti di natura profonda sul sistema sociale.
Spostare la produzione all’estero genera cambiamenti nella organizzazione del
lavoro, nei rapporti tra impresa e lavoratore nel sistema locale, nel sistema di valori,
nelle relazioni tra le imprese, nelle stesse competenze presenti nel tessuto
produttivo. Nessuno di questi aspetti può essere esaminato in dettaglio in questa
sede.
Caso II: il distretto “catturato” dal brand globale
In anni recenti nell’industria della moda è aumentato il peso dei grandi marchi,
dei brand globali: l’emergere di giganti come Christian Dior, Richemont, LVMH,
Valentino, Gucci e Prada; gruppi internazionalizzati che vendono
dall’abbigliamento, alle scarpe, agli occhiali, ai profumi e ai vini, sfruttando la forza
del proprio marchio e presidiando i mercati con punti vendita nelle principali città
del mondo. Il problema è che i brand globali, soprattutto quando hanno origine in
aree diverse dal sistema produttivo specializzato, tendono a usare il distretto come
centro di produzione specializzato, come luogo delle competenze manifatturiere,
recidendo i legami diretti con i mercati e i consumatori. Nel Brenta, ad esempio –
una tra le più note aree italiana di produzione di calzature da donna di fascia alta ?
il 50% della produzione totale di calzature è per i grandi marchi che esercitano un
controllo molto stretto anche sul processo produttivo (Amighini e Rabellotti, 2003;
Rabellotti, 2003).13 Una situazione simile la si riscontra anche in aree toscane. In
queste circostanze, le imprese locali tendono a perdere il controllo del design, del
marchio, del rapporto diretto con il mercato. Si ha, cioè, quello che si è soliti
definire: “functional downgrading”: attività con valenza strategica per l’impresa e il
sistema locale si spostano al quartier generale dell’impresa con brand globale. In
questo senso, i brand globali possono mettere i distretti in gabbia, possono, appunto,
almeno parzialmente, “catturarli”. Nel breve termine, la dipendenza di un sistema
locale dai brand globali ha effetti ambigui sulla performance delle imprese: in alcuni
casi le imprese possono avere una migliore redditività. Rimane però vero che il
sistema locale si impoverisce.
Caso III: La convivenza “pacifica” con le imprese sovranzionali
Ma non sempre l’interazione tra le grandi imprese sovranazionali (o anche i brand
globali) e i sistemi locali è del tipo ricordato. Può accadere che la grande impresa dal
marchio noto apra mercati nuovi in cui poi si inserisce lo sciame di imprese distrettuali,
capaci di produrre prodotti di qualità similare per una fascia di consumatori
potenzialmente molto più ampia. Il altri casi condizioni di vantaggio reciproco si
12
Ma possono anche esserci effetti di altra natura che contrastano questa tendenza: può
accadere, infatti che il numero di subfornitori si contragga; ma che quelli che rimangono si
collochino su lavorazioni a più alto valore aggiunto: l’impresa recupera profitti e capacità di
pagare.
13
Questo aspetto è affrontato in termini generali anche da Paba e Montermini, 2003.
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INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
realizzano in altro modo.14 Montebelluna è uno dei casi più noti nel Nord-Est di
ingresso delle multinazionali nel sistema locale. Da distretto della neve, da centro
essenzialmente manifatturiero di produzione di ogni sorta di calzatura e scarpone per la
montagna, il distretto è andato via via trasformandosi in un centro nel quale convergono
le competenze più avanzate in termini di ricerca e sviluppo e di ingegnerizzazione del
prodotto.
(Aage, 2003; Asheim e Belussi, 2003). Al pari delle aree venete
dell’abbigliamento Montebelluna usa in misura massiccia la delocalizzazione nei paesi
dell’Est: il 35% del prodotto viene dalla Romania. Anche per questa ragione, come si è
detto, il distretto nel corso degli anni Novanta si è ridimensionato. Montebelluna ha ,
tuttavia, conservato una ampia base produttiva. Il punto, in questo caso, è che le
competenze che contano rimangono all’interno del sistema locale.
Per fare un solo esempio, quando la Salomon cerca di spostare a Parigi i propri
laboratori di ricerca e sviluppo semplicemente non ci riesce (Asheim e Belussi, 2003).
Entrano, viceversa, e a frotte, le multinazionali: la Rossignol-Lange (franco-americana),
l’HTM (austrica), American Spalding, e altri ancora. Entra soprattutto la Nike con il suo
mezzo milione di addetti e quartier generale nell’Oregon. Un processo che da alcuni è
stato definito di “globalizzazione diffusa”. Le multinazionali usano Montebelluna per
darsi strumenti per diversificare la produzione, utilizzando competenze presenti in loco
e di cui prima non disponevano nell’ambito del design, dell’engineering, dell’utilizzo di
nuovi materiali e di tecnologie nuove per realizzare prototipi e produzioni di alta
qualità. E tuttavia, pur con una presenza così estesa delle multinazionali, il distretto ha
modificato profondamente le sue caratteristiche, ma non è affatto scomparso.
Considerazioni simili valgono anche per altri distretti. La crescita del biomedicale di
Mirandola, ad esempio, ha portato Modena a superare Milano nell’industria per la
produzione di macchine per emodialisi, cardiochirurgia, anestesia e rianimazione. Le
imprese finali, tutte di formazione locale, sono oggi detenute da gruppi italiani (Sorin),
tedeschi (Fresenius e Braun), Svedesi (Gambro), americani (Baxter) e giapponesi
(Tyco): in questo caso, ancora una volta, la vicenda industriale del sistema locale
dipenderà da quanta della ricerca di alto livello Mirandola riuscirà a conservare (e/o
attrarre). Il quadro, in linea di massima, è più favorevole (perché meno esposto a scelte
prese altrove), quando imprese a carattere multinazionale crescono all’interno del
sistema locale. È quanto accade ad esempio a Sassuolo. A Sassuolo, l’impresa di
dimensioni maggiori, la Marazzi, produce all’estero per una quota prossima al 70%. Ma
nel distretto (e nell’interazioni con i produttori di macchine ? che sono a loro volta i
primi produttori al mondo) sta molta della sua capacità innovativa (Russo, 2003). Vi
sono quindi casi importanti in cui la crescita della grande impresa e del distretto si
alimentano reciprocamente. Il processo, quindi, non è necessariamente distruttivo.
Caso IV: la bassa qualità e la standardizzazione
Alcuni distretti hanno tentato la sorte dei bassi costi e della standardardizzazione
del prodotto. Il caso forse più emblematico è quello di Barletta. Barletta è un’area di
14
Cfr. Tessieri (2000).
GIOVANNI SOLINAS
produzione di calzature sportive iniettate, prodotte in serie lunghissime con
tecnologie ad alta intensità di capitale (Parolini e Visconti, 2003). A Barletta, oggi, il
70% della subfornitura va verso i paesi della ex-Yugoslavia e, soprattutto, verso
l’Albania (Guido, 2003). Si tratta di prodotti spesso di qualità medio-bassa e
fortemente esposti alla concorrenza delle produzioni provenienti dalla Cina,
dall’Indonesia, e dalla Thailandia. Il distretto delle calzature ha subito perdite
notevolis sime e sembra in una crisi irreversibile.
Caso V: l’alta qualità e la risposta rapida
Un diverso comportamento è quello in cui il distretto coniuga risposte rapide e
flessibili, con una ricca varietà dell’offerta attraverso investimenti nei cataloghi, nei
campionari e nelle collezioni di entità molto rilevante.
Un caso emblematico è Carpi (Bigarelli e Solinas, 2005). Nell’ultimo decennio
l’industria della maglieria e dell’abbigliamento di Carpi ha subito un fortissimo
ridimensionamento in termini di quantità prodotte, occupazione e quote di mercato
sia in rapporto a produttori di altri paesi, sia in rapporto ad altri sistemi produttivi
italiani. In questo processo, non si sono osservati fenomeni di concentrazione
industriale significativi, con ingressi di grandi imprese da altre aree o lo sviluppo di
imprese di grandi dimensioni. Il sistema produttivo conserva una struttura
poliarchica, in cui le imprese leader sono sostanzialmente assenti e la struttura
industriale continua ad essere polverizzata. Carpi e le sue imprese hanno reagito alla
crisi con un miglioramento della qualità e della gamma dei prodotti, diversificando i
clienti e i canali di vendita,15 cercando nuovi mercati esteri, e nuove fonti di lavoro.
La delocalizzazione verso l’estero è assai più contenuta che in Veneto o nella stessa
Lombardia e nelle Marche e le imprese hanno un livello di internazionalizzazione
della produzione basso in termini di investimenti esteri diretti, decentramento
internazionale e ricorso a forme di traffico di perfezionamento passivo. La
dimensione assai piccola delle imprese, il tipo e la qualità del prodotto, la
produzione su serie cortissime e i tempi molto brevi di risposta al mercato rendono
questa strategia non praticabile per la gran parte delle imprese. E, nondimeno, la
globalizzazione avviene per altre vie: si può presumere che circa la metà delle
lavorazioni di confezione ? in termini di quantità ? faccia capo, in forme più o meno
sommerse, alla comunità cinese. I lavoratori cinesi, d’altra parte, non solo costano
poco, ma sono veloci, affidabili, disposti a lavorare intensamente e molto a lungo, e
ragionevolmente addestrati. Un fenomeno analogo, sebbene di dimensioni assai più
modeste, riguarda le stirerie gestite da pakistani. La diffusione di queste imprese ha,
per il sistema locale, implicazioni contraddittorie. Per un verso garantisce un’offerta
di lavoro nella manifattura per la quale l’offerta “autoctona” dei giovani è
insufficiente o non disponibile. In questo senso, la concorrenza di prezzo nei
15
Al volgere del decennio, e per la prima volta nella storia del distretto, le vendite dirette al
dettaglio, diventano la modalità distributiva più importante. Anche tra le imprese più piccole
una su cinque si rivolge direttamente al dettaglio specializzato.
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confronti dei fornitori del Mezzogiorno consente di riattrarre nel distretto, o nelle
aree circonvicine, lavorazioni prima commissionate a fornitori localizzati nelle
regioni meridionali. Per altro verso, e per le medesime ragioni, tende a “spiazzare” i
laboratori tradizionali e coorti di lavoratrici non più giovani e ancora impegnate in
queste lavorazioni. Più in generale, accresce un’area “grigia” di lavoro irregolare o
semiregolare, con effetti negativi sugli standard salariali e di lavoro. Le analogie con
Prato sono evidenti.
Con fortune e storie specifiche diverse, quella della qualità, della produzione su
serie molto corte, delle produzioni personalizzate e della risposta rapida è scelta
comune a molti distretti con altre specializzazioni. Molta della meccanica
strumentale e della meccanica generale, pur con caratteristiche differenti, è
riconducibile a questa categoria. Altrettanto vale per le calzature e il mobile.
E … altro ancora
Come si è detto, molti distretti “in carne e ossa” non sono riconducili alla
tassonomia proposta. Gli stessi casi utilizzati per illustrarla evidenziano, se studiati a
fondo, anche altre peculiarità.16 Inoltre, in pressoché tutti i distretti, le strategie delle
imprese sono molto diversificate. A volte al punto da non far emergere alcun
orientamento decifrabile per il sistema produttivo nel suo complesso.17 Quanto si è
detto, tuttavia, consente di capire meglio cosa si muova nel variegato panorama dei
distretti industriali italiani. È possibile, a questo punto, tentare di tirare le fila del
ragionamento sbozzato nei paragrafi precedenti. Se l’Italia si affaccia al nuovo
millennio come paese manifatturiero, lo deve in misura non trascurabile alle
aggregazioni di piccole e medie imprese concentrate nel territorio.18
A fronte di una caduta irrefrenabile della grande impresa, i distretti industriali,
considerati nel loro insieme, mostrano nel decennio una capacità di tenuta, per molti
aspetti, inattesa. E, tuttavia emerge un quadro a luci e ombre, in cui a situazioni di
crescita si accompagnano evidenti situazioni di difficoltà e di crisi.19
16
Si rimanda, a titolo esemplificativo, a Bigarelli e Solinas (2005).
Un esempio è Como, distretto nel quale alcune imprese perseguono strategie di nicchia su
produzioni di altissima qualità, altre inseguono i produttori asiatici su produzioni
standardizzate (Alberti, 2003).
18
Come, tra gli altri, sottolineano Masera e Maino (2004), al principio del nuovo millennio, i
settori del made in Italy – alimentare, sistema moda, mobili ed elettrodomestici bianchi,
meccanica strumentale e imballaggi ? “hanno fatto registrare un attivo commerciale lordo con
l’estero di oltre 100 miliardi di euro, assicurando al paese un saldo attivo con l’estero di più di
58 miliardi di euro e in grado di coprire il deficit per l’energia, le materie prime agricole e
industriali dell’intero paese, nonché il deficit degli altri settori manifatturieri” (p. 152).
19
Di questo, d’altra parte, vi è riprova anche in altri lavori. Basti ricordare, le recenti indagini
Mediobanca-Unioncamere (2004) sulle medie imprese Si veda anche Coltorti (2004),
Becattini e Coltorti (2004), Becattini e Dei Ottati (2005).
17
GIOVANNI SOLINAS
Le condizioni peggiorano a partire dal 2001. In questi anni, in particolare, i
distretti evidenziano crescenti difficoltà sui mercati esteri.20
Si pone a questo punto una domanda. La domanda è: poteva andare
diversamente?
Difficile pensarlo con l’Europa che cresce poco; con l’alternativa dei mercati
USA inibita dalla debolezza del dollaro; e a fronte di una crescita che si manifesta
soprattutto nei mercati asiatici, particolarmente ostici da raggiungere per i sistemi di
piccole e medie imprese italiani (non tanto e non solo per distanza geografica).
Difficile pensarlo in un quadro di gestione delle politiche macroeconomiche, delle
quali il meno che si possa dire è che non sono stare orientate a sostenere la
crescita.21 Difficile pensarlo in un paese in cui, se si escludono le pur incespicanti
politiche per la concorrenza, non esiste (e non è neppure alle viste) una politica
industriale degna di questo nome.
4. Un evento epocale: i paesi emergenti dell’Asia
Difficile pensarlo anche perché, in un decennio, è cambiato il mondo. Ed è
singolare che, nel dibattito sul declino, non si sottolinei un evento epocale. di cui
sono piene le cronache ed esiste una vasta letteratura, ma che, in questa discussione,
è singolarmente commentato in margine o tra le pieghe del commento sulle quote di
export: l’emergere delle economie asiatiche e, in particolare, della Cina e dell’India.
Sono entrate in scena economie di una dimensione straordinaria. Sono le dimensioni
di queste economie a rendere il fenomeno del tutto diverso dalle “quattro tigri” su
cui a lungo si è discusso nel decennio passato. Si è in presenza di una nuova
“grande trasformazione” e di un processo di proporzioni gigantesche di riallocazione
della ricchezza nel mondo. La torta è diventata più grande, ma i commensali sono
molto più numerosi e le porzioni tendono a diventare (o, date certe condizioni,
possono diventare) sempre più piccole, con processi assai rilevanti di redistribuzione
del reddito tra paesi e tra salari e profitti nei singoli paesi. Il punto è colto con
precisione da Richard Freeman22 . Le tesi di Freeman è che l’implicazione
fondamentale del processo di integrazione dei mercati è il raddoppio della
20
Secondo stime su dati Istat fornite da Banca Intesa, a partire dal 2001, l’export dalle aree
distrettuali cresce meno che nella media del paese. Su questo stesso tema si veda anche
Iapadre (2002).
21
In questa sede non è possibile prendere in considerazione la conduzione delle politiche
macroeconomiche. Ci si limita a una sola osservazione sul cambio euro/dollaro: molti analisti
concordano che l’euro sopravvalutato è un freno allo sviluppo. Secondo stime fornite dal
Ministero dell’economia, ogni 10 centesimi di apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro
l’Italia perde lo 0,7-0,8 punti di PIL e aumenta dell 0,4 il deficit pubblico. Con un cambio 1-1
con il dollaro l’Italia avrebbe avuto nel 2004-5, a parità di condizioni, una crescita dell’1,82%. Per una discussione estesa si veda Vianello (2005).
22
Cfr. The Globalist, giugno, 2005.
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manodopera globale, indotto dell’ingresso sul mercato della manodopera del mondo
industrializzato di Cina, India e della ex Unione Sovietica.23 Non è solo una
questione di standard di lavoro, ma di una miscela di fattori in cui ai bassi salari e a
un buon livello di qualificazione del lavoro si accompagnano le grandi dimensioni
delle economie coinvolte. È questo ad aver fatto dei nuovi paesi asiatici emergenti
la piattaforma che le imprese trasnazionali dei paesi di più antica industrializzazione
si contendono.
Per semplicità, conviene limitare la riflessione alla Cina, pur con la
consapevolezza che a contendere i tradizionali mercati dei distretti sono anche altri
paesi, e che il problema in Italia si è posto prima dell’esplosione dell’export cinese.
Limitare il ragionamento a questo singolo paese ha, tuttavia, una sua ragionevolezza
perché è certamente la Cina, sui tradizionali e sui potenziali mercati di export dei
distretti, il paese che ha maggiori potenzialità. Che dire guardando al fenomeno
dall’Italia?
Il commercio estero della Cina è pari a 1,5 trilioni di dollari. Di questi l’Italia
rappresenta soltanto l’1,5%. Tra il 1996 e il 2004 si è registrato uno straordinario
aggravamento del passivo commerciale dell’Italia verso la Cina. Il deficit è passato
da 930 milioni di euro nel 1996 a 7,4 miliardi di euro nel 2004. Per il 2005 il deficit
(stimato) è prossimo ai 9 miliardi. Ma il problema non è solo (e non è tanto) quello
connesso al mercato interno. Il problema riguarda in primo luogo i mercati europei.
Cosa accade all’Italia emerge con tutta chiarezza se guardiamo al mercato
tedesco, quello che, per decenni è stato il mercato di riferimento principale delle
esportazioni italiane e, in particolare delle esportazioni provenienti dai distretti
industriali. Nell’interscambio con la Germania 1996 l’Italia ha raggiunto un picco
massimo con un saldo attivo pari a 4 miliardi di euro. Nel 2005 il passivo è prossimo
ai 12,5 miliardi. La ragione è molto semplice: l’Italia importa in misura crescente
Nel 1980 la forza lavoro globale osserva Freeman ? era composta dai paesi allora OCSE,
parti dell’Africa e porzioni della America Latina, pari, nel complesso a circa 960 milioni di
persone. L’incremento demografico di alcune di queste aree ha portato nel 2000 a 1,46
miliardi. Nel nuovo millennio Cina, India e ex Unione Sovietica aggiungono altri 1,47
miliardi di lavoratori, raddoppiando le dimensioni della forza lavoro interconnessa a livello
mondiale. La conseguenza ? spiega Freeman ? è l’inevitabile pressione al ribasso sui salari
mondiali. Nel complesso, l’ingresso di questo enorme contingente ha ridotto il rapporto
capitale/lavoro al 55-60% di quello che altrimenti sarebbe stato. E poiché il rapporto è
cruciale nel determinare il livello dei salari, più alti laddove c’è più capitale rispetto al lavoro,
le retribuzioni sono destinate a soffrire. Freeman conclude che saranno necessari trent’anni
prima che il mondo, interconnesso a livello globale, possa recuperare il rapporto
capitale/lavoro che prima aveva sorretto l’economia globale. Anche Laura d’Andrea Tyson,
in un recente convegno del Cercle des Economistes a Aix-en-Provence preconizza
23
prolungate pressioni al ribasso sui salari. Il processo, prima di generare nuovi
equilibri, secondo l’autrice, e in sintonia con quanto sostenuto da Freeman, è
destinato a durare alcuni decenni.
GIOVANNI SOLINAS
chimica, telefonia, elettronica di consumo e auto di lusso. Le grandi catene e i grandi
gruppi di acquisto tedeschi, viceversa, hanno sostituito i made in Italy con prodotti a
buon mercato provenienti dall’Asia.
L’andamento è chiarissimo per l’industria tessile e dell’abbigliamento. Per citare
un solo dato, nel tessile e nella maglieria la quota dell’Italia sull’import tedesco era
il 17% nel 2002; nel 2005, il valore stimato è del 12%. Nello stesso periodo la quota
della Cina raddoppia (dal 5 al 10%). Nel mercato UE(15) la Cina ha sottratto
all’Italia qualcosa come 13 miliardi di euro in termini di quote di mercato. Non solo
sul tessile-abbigliamento e sulle calzature, ma in molti altri settori: oreficeria,
mobilio, sedie e divani, rubinetteria, pietre ornamentali, piccoli elettrodomestici,
occhiali, pompe, ecc. Dati prodotti dalla Fondazione Edison evidenziano che tra i
primi 40 prodotti caratterizzati da un saldo commerciale attivo, circa i 2/3 sono
colpiti in misura notevole dalla concorrenza cinese.
Non può sorprendere che un distretto come Prato, che aveva visto accrescere
l’occupazione e l’export, tra il 2001 e il 2004 (e quindi, ancora, con il regime di
quote previsto dall’accordo Multifibre ancora operante) faccia registrare una
contrazione delle esportazioni pari al 6,4% a prezzi correnti e di quasi l’11% a
prezzi costanti. La medesima cosa si verifica in altri distretti. Questo pone un
problema di riaggiustamento.24
5. Le politiche (sovra)nazionali: il problema del riaggiustamento
Uno dei corollari che fanno capolino nella discussione sul declino è che, se
l’Italia si posizionasse dove dovrebbe, nella produzione di beni ad alta tecnologia,
seguendo la strada maestra indicata dagli USA, dall’apertura dei commercio ai paesi
emergenti non si avrebbe nulla di che temere. Principio dei vantaggi comparati
docet. Le cose, tuttavia, potrebbero non stare in questo modo. O almeno non sempre.
È proprio Samuelson (2004), il maggiore teorico vivente del commercio
internazionale ed uno tra coloro che al principio dei vantaggi comparati ha dato
statuto e vigore analitico, a porre con forza la questione in un recente articolo,
andato largamente sotto silenzio in Italia al di fuori di una ristretta cerchia di addetti
ai lavori. Senza fargli troppa violenza, il punto di vista di Samuelson può essere
riesposto molto semplicemente. L’idea è che se ricorrono tre circostanze ?
differenziali di produttività (salari) molto rilevanti, progresso tecnico che si diffonde
orizzontalmente e molto velocemente nell’economia emergente, e, infine, processo
di integrazione troppo rapido ? non è necessariamente vero che l’apertura al
commercio internazionale produca benefici per tutti. Le tre condizioni sono
esattamente quelle che oggi caratterizzano le economie emergenti e, in particolare,
la Cina. L’articolo è importante. Non tanto in sé. Quanto perché a proporlo è uno dei
fondatori della teoria su cui si basano le ipotesi più ottimistiche sulla
globalizzazione. Politiche che consentano e facilitino il riaggiustamento se ne
24
I dati sono di fonte IRPET. Cfr. Casini Benvenuti (2005).
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possono pensare molte, sia in ambito reale, sia intervenendo sui cambi. Brevemente
sui primi, sul tema, cioè delle regole nel commercio internazionale di cui molto si è
detto in questi mesi.
Vi è, innanzitutto, la questione della contraffazione. La discussione sulla
contraffazione non riguarda solo l’Italia. È altrettanto accesa in Giappone e lo è stata
nel recente passato anche negli Stati Uniti. Gli esempi sono infiniti e se ne dà conto
un recente numero di Business Week, dal significativo titolo Fakes (febbraio 2005).
Un modo per far sì che, entro certi limiti, il commercio avvenga in un quadro di
regole definite è il rafforzamento dei controlli alle dogane e, in particolare, nei porti,
che sono i punti di approdo delle merci contraffatte. In quest’ambito si pongono
problemi diversi. Ci sono, infatti, mo lti modi di fare merci contraffate. Un modo è
di esportare direttamente il prodotto contraffatto. Il secondo modo è importare il
prodotto semilavorato con il paese ricevente che finisce la lavorazione e
commercializza il prodotto. A questi controlli si opporrà chi da forme specifiche di
contraffazione trae vantaggio nel paese di destinazione. Inoltre, se il paese non è
manifatturiero o ha specializzazioni diverse dai manufatti per i quali la
contraffazione è più facile, come è il caso di molti dei paesi dell’Europa del Nord,
può non esserci interesse a condividere una politica di controlli: ciò che non entra a
Genova o a Gioia Tauro, potrà entrare nel mercato comunitario ad Anversa, o a
Rotterdam. 25
Un problema, strettamente connesso, è quello della tracciabilità e della
etichettatura del prodotto. Associazioni di produttori e sindacati dei lavoratori
chiedono a gran voce a Bruxelles l’obbligo della etichettatura di origine. L’obbligo
del “made in”, trainato dai tessili di Biella, è voluto anche dagli orafi e dai
calzaturieri. La richiesta si estende anche a quei beni manufatti per la gran parte
altrove rispetto al paese che esegue le lavorazioni finali. Un marchio che permetta la
tracciabilità del prodotto che si sta comprando è una garanzia fondamentale a tutela
di un mercato trasparente. Ma, anche in questo caso, vi sono anche altri risvolti. Il
punto è che il problema non coinvolge solo “chi sta di là”. Questo è il caso, ad
esempio, nell’industria alimentare dell’olio: olive tunisine, spremute in Grecia e
imbottigliate in Italia diventano olio calabro o pugliese o toscano.
Vi è, infine, la complessa materia della clausole di salvaguardia 26 . In questa sede
il tema non può trovare una trattazione completa. Quanto, tuttavia, la applicazione
25
È importante sottolineare che la contraffazione, almeno nel lungo termine, non danneggia i
grandi marchi. Come sottolinea acutamente in un recente intervento su Il Sole-24 ore (agosto
2005) Franco De Benedetti, il prodotto contraffatto, alla lunga, almeno tra i consumatori che
hanno un reddito ragionevole, stuzzica il desiderio del vero.
26
Gli accordi internazionali consentono l’utilizzo di diversi strumenti. In ambito WTO è
previsto un periodo di dodici anni durante i quali i paesi europei possano adottare misure di
salvaguardia transitoria per difendere specifici settori dell’economia a rischio di crisi a seguito
dell’apertura alla concorrenza cinese. In base al regolamento UE 427 del 2003 la
Commissione Europea può, su richiesta dei produttori comunitari, invocare queste clausole a
condizione che il mercato sia perturbato a causa del rapido riorientamento dei commerci di un
determinato prodotto. Nel marzo 2005 l’esecutivo comunitario ha varato le linee guida che
permettono di invocare le clausole di garanzia nei confronti della Cina secondo il protocollo
GIOVANNI SOLINAS
delle clausole di salvaguardia sia irta di difficoltà è testimoniato dal recente accordo
Mandelson (giugno 2005). L’accordo, raggiunto a seguito dell’esplosione delle
importazioni di prodotti tessili e dell’abbigliamento sui mercati europei nei primi
mesi del 2005, a seguito dell’esaurirsi del regime di quote previsto dal Multifibre,
prevede che per alcune categorie di prodotti tessili e dell’abbigliamento (tessuti in
cotone, biancheria da tavola, T-shirt, pantaloni e abiti da donna, biancheria da letto,
ecc.), l’export verso la UE non possa aumentare più di una determinata quota
rispetto all’anno precedente. Le quote sono comprese tra l’8 e il 12% a seconda della
categoria merceologica considerata. E, tuttavia, fin dai primi mesi, si sono
manifestati i punti deboli e le difficoltà di applicazione dell’accordo. Le quote sulla
crescita dell’export fanno riferimento ai dodici mesi precedenti. Includono quindi il
periodo in cui si è registrata la crescita esponenziale dell’export dalla Cina, in
seguito al decadere dell’accordo Multifibre. In secondo luogo, come nel caso della
contraffazione, l’efficacia dell’accordo è legata ad un adeguato apparato di controllo
alle frontiere. La cronaca di questi mesi fa intravedere possibili meccanismi di
aggiramento dell’accordo, quali, ad esempio, far transitare le merci prodotte in Cina
in paesi non soggetti a quote. Emergono, da ultimo, in modo evidente i conflitti tra
produttori e importatori nei singoli paesi e, quelli ancor più acuti, tra i paesi
produttori del Sud Europa e i paesi che non sono tali.27
In prima approssimazione, quindi, sul terreno delle regole, anche limitandosi a
considerare queste misure, esiste una strumentazione per governare la transizione ?
che è, appunto, il problema posto da Samuelson. Di tale strumentazione, tuttavia,
come si dirà più estesamente tra breve, sono anche evidenti i limiti.28
di adesione al WTO del 2001. L’attivazione della procedura prevede diversi passaggi. Il
monitoraggio dei dati commerciali, possibile anche a partire dalle richieste di importazione. A
questa, segue una fase di indagine: se l’import supera certi valori soglia gli stati membri
votano a maggioranza qualificata se inoltrare una notifica di consultazione. A questo punto,
entro un mese deve aprirsi la trattativa. Se la trattativa non conduce a esiti concordati diversi è
possibile applicare le restrizioni: l’export non può superare il 7,5% addizionale rispetto al
livello dell’anno precedente. A seguito della caduta dell’accordo Multifibre si è apposta a
livello internazionale una apposita clausola di salvaguardia per i prodotti tessili e
dell’abbigliamento disciplinati dall’accordo ATA e valida fino al 2008. È su queste basi che,
sul tessile, si è concluso l’accordo Mandelson. Infine, per un periodo transitorio che si
estenderà fino al 2016 c’è un regime più severo in materia di dumping (“Difesa per un sistema
non completamente di mercato”) che può essere attivato nei confronti della Cina.
27
Non per caso, la conclusione della vicenda, come evidente segno di compromesso, ha
portato a sbloccare gli 87 milioni di capi fermi in frontiera, andando in deroga a quanto
previsto pochi mesi prima, e computando parte dell’import ? circa la metà ? nelle quote
previste per il 2006.
28
Ci sono anche altre cose che, con la Cina, nelle opportune sedi internazionali, si possono
contrattare non per quanto riguarda l’export, ma per quanto riguarda le condizioni di ingresso
nel mercato cinese: dall’abolizione delle tariffe in entrata, all’abolizione delle quote
sull’import; dalla liberalizzazione del sistema bancario e dei servizi a quella della abolizione
delle pratiche discriminatorie per gli investitori esteri. È, infatti, l’insieme di queste
condizioni che, in molti casi, ha indotto e induce molti produttori a fare joint ventures in loco
piuttosto che scegliere altre soluzioni di ingresso nel mercato cinese.
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Infine, ma non ultimo in termini di importanza, ? e qui di nuovo il dibattito non
riguarda soltanto l’Italia – vi è la il problema del cambio. È evidente che la
controversia sulle regole nell’ambito del commercio internazionale e quella sul
cambio sono due facce della medesima partita. I fatti sono noti. A partire dal 1995 e
fino all’estate del 2005 lo yuan, la moneta nazionale cinese, è stata ancorata al
dollaro con una parità fissata a 8,28-8,65 euro per dollaro. Il che implicava un
rapporto di cambio con l’euro prossimo, a fine periodo, a 10,10. Secondo stime
riportate dall’Economist, al principio dell’estate, (in ipotesi di PPA), lo yuan è
sottovalutato del 59% rispetto al dollaro e di circa il 64% rispetto all’euro.29 Nel
luglio 2005 lo yuan si è rivalutato del 2,1% rispetto al dollaro. Si è molto lontani dai
livelli richiesti in ambito internazionale (non meno dell’8%) Attualmente lo yuan è
ancorato a un paniere di valute (che include anche euro e yen), ma con il dollaro
ancora dominante. Non è neppure chiaro, all’oggi, come il sistema funzioni.30
Gli effetti della rivalutazione dipendono, ovviamente, dalle dimensioni che
l’apprezzamento assumerà nel futuro.31 La Banca centrale cinese ha teso a
sottolineare che la manovra non va intesa come un primo passo verso ulteriori
aggiustamenti. Dopo l’abbandono della parità fissa con il dollaro, già a fine luglio
essa è intervenuta contro la speculazione volta a ottenere una ulteriore rivalutazione.
L’opinione dei più è che la rivalutazione sia poco più che una atto simbolico,
destinato a cambiare poco i termini del problema. E i primi dati di export dalla Cina
dopo la rivalutazione sembrano confermarlo.32
29
Ancorare la valuta nazionale cinese al dollaro, tra l’altro, ha fatto sì che qualsiasi
svalutazione del dollaro si scaricasse prevalentemente sull’Europa e non, invece, anche su
questa area, che dovrebbe essere una delle principali aree di aggiustamento. Questo solleva
l’intricata questione delle interconnessioni tra economia cinese e economia USA, che,
tuttavia, in queste pagine non può essere affrontata.
30
I governanti cinesi lo definiscono managed floating exchange-rate regime, ma c’è da
credere che la componente di governo del cambio conti assai più della componente di libera
fluttuazione. Con il nuovo sistema è sufficiente che il dollaro si apprezzi nei confronti
dell’euro e dello yen, perché il cambio effettivo dello yuan salga senza alterare il suo valore
nei confronti della moneta USA.
31
I retailers USA scommettono su ulteriori rialzi e, soprattutto per quanto riguarda il tessile,
dirottano gli acquisti in India. Secondo stime del WTO (fatte prima della rivalutazione dello
yuan) le importazioni degli USA di prodotti di abbigliamento indiani dall’India potrebbe
quadruplicare, la quota sul commercio mondiale potrebbe passare dall’attuale 4% all’8% nel
2010. Wal-Mart, proprio confidando su ulteriori rivalutazioni dello yuan, sta differenziando
gli acquisti e ha intenzioni di acquistare prodotti tessili sul mercato indiano per un valore di 5
miliardi di dollari l’anno. Sembra fare le stesse stime il governo indiano che sta promuovendo
forti incrementi di capacità produttiva. È stato reso noto nell’estate 2005 un piano che prevede
la costruzione di 25 parchi industriali tessili con l’obiettivo di attrarre investimenti privati per
4 miliardi di dollari.
32
JP Morgan stima che un apprezzamento del 10% dello yuan lascerebbe il tasso di crescita
annuo delle esportazioni intorno a valori prossimi al 18%. Un valore tale da mettere in
serissima difficoltà tutti coloro che si contendano i medesimi mercati (The Economist, 21-27
maggio, 2005)
GIOVANNI SOLINAS
Vi è dunque e fondamento teorico e possibilità di utilizzo di alcune leve per
facilitare il processo di riaggiustamento (ammesso che a livello internazionale si
riesca a creare le condizioni che lo permettano). Quelle indicate, tuttavia, sono
politiche deboli. Per tante ragioni.
In primo luogo, c’è stato molto tempo per adottare opportuni aggiustamenti.
Questo è certamente vero per i prodotti tessili. Quando il governo cinese sottolinea
che l’abolizione delle quote dell’accordo Multifibre era prevista da anni e che le
strategie di aggiustamento potevano essere adottate allora, ha molte ragioni dalla sua
parte. Non è detto che il tempo reso disponibile dall’accordo Mandelson venga usato
meglio di quanto lo è stato fino ad oggi, innanzitutto dai produttori. La seconda
ragione è che a impedire di copiare, quando chi copia ne ha le capacità, non ci è mai
riuscito nessuno.33
La terza ? e forse più importante di tutte ? ha di nuovo a che fare con le
dimensioni dei nuovi paesi emergenti. I produttori tessili in Cina (i lavoratori) sono
circa 100 milioni. Quasi il doppio della popolazione italiana. I produttori di calzature
sono 30 milioni. A fronte di questi ordini di grandezza non c’è “regola” o manovra
sulla moneta che tenga.
I modi per convivere con la Cina (e con i paesi emergenti) sono probabilmente
tanti: lo si può fare andando là, incentivando i processi di delocalizzazione e di
internazionalizzazione delle imprese;34 individuando strade praticabili dagli stessi
33
Il comportamento della Cina oggi non è molto diverso da quello che ha avuto e ha in
qualche misura anche oggi l’Italia. Copiare i macchinari per il decoro delle piastrelle non è
diverso da quanto è avvenuto in Italia quando, negli anni Sessanta, si è realizzato il primo
rene artificiale a partire da un modello americano. O dall’imitare, con quel tocco in più, una
infinità di altri prodotti. Tra le possibili testimonianze è utile riproporre integralmente quella
di Ambrogio Merlo, amministratore delegato della Vibram, impresa leader nel mondo nella
produzione di suole. “Ogni anno spendiamo un mezzo milione di euro per difendere i nostri
brevetti e soprattutto per cause legali contro i contraffattori. […]. Adesso tutti parlano di Cina,
ma siamo stati noi europei a insegnare a tutti la contraffazione. Quelli che ci copiano fanno
affari. Analizzano la mescola, si preparano uno stampo – costa sui 5000 euro ? cominciano a
produrre le simil Vibram. Noi ce ne accorgiamo magari dopo due o tre mesi, chiediamo il
blocco. Se chi ha contraffatto ha venduto poco, chiede il patteggiamento, tanto il costo dello
stampo lo ha già recuperato. A quel punto paga la metà delle spese legali (l’altra metà siamo
costretti a pagarla noi) e distrugge lo stampo. Se l’affare gli va invece bene, continua a
produrre fino alla sentenza. La cosa che fa male è che questi piccoli produttori o artigiani,
lavorano per aziende importanti, molto importanti. Sono le stesse che poi vendono le scarpe a
200 euro, e cercano di risparmiare sulla suola. I nomi sono noti: sono gli stessi che si
lamentano per la concorrenza sleale dei cinesi. (La Repubblica, 31 luglio 2005).
34
Un solo esempio. La Francia non è in una situazione assai migliore dell’Italia per quanto
riguarda il commercio con l’estero. Nei primi 5 mesi del 2005 il deficit commerciale è già
dello stesso ordine di grandezza di quello del 2004 (10 miliardi di euro). Le imprese
esportatrici in tre anni sono calate di 8mila unità (da 103mila a 95mila). Sono allo studio da
parte del governo francese, incentivi fiscali per le multinazionali che mettano a disposizione
delle piccole e medie imprese l’esperienza maturata nelle transazioni all’estero e la loro rete
distributiva. Misure analoghe riguarderebbero gli intermediari commerciali che mettessero in
Nr pag
INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
distretti35 ; lo si può fare trovando le forme per imporre che le imprese occidentali
(qui e là) mantengano standard di lavoro decenti; 36 lo si può fare, in qualche caso,
aumentando l’emigrazione; lo si può fare abbattendo i costi di beni e servizi privati
offerti in condizioni non concorrenziali37 e semplificando le relazioni tra imprese e
pubblica amministrazione. Ciascuno di questi meriterebbe una riflessione attenta.
Nelle pagine che seguono si concentrerà l’attenzione su un unico aspetto. Si
guarderà a due diversi disegni di politica industriale. Il nodo è quello delle
specializzazioni dell’industria italiana.
6. Le politiche nazionali (e regionali)
A parere di alcuni l’unica politica industriale concepibile è il mercato: garantire
le condizioni della concorrenza e lasciare che il processo darwiniano di selezione tra
le imprese indotto dal mercato faccia il suo mestiere. Secondo altri lo scopo
principale della politica industriale dovrebbe essere quello di riorientare il sistema
produttivo italiano verso nuove specializzazioni, abbandonando, quanto più
rapidamente possibile, le vecchie. Questo è il punto di vista prevalente nel dibattito
sul declino. Una visione di questo tipo nasce da una singolare lettura del principio
dei vantaggi comparati. L’assunto è, molto semplicisticamente, che le produzioni
tradizionali siano dominio esclusivo dei paesi emergenti a basso costo del lavoro e
che l’Italia ? che ha una spiccata specializzazione nei settori “tradizionali” ? debba
muovere lestamente, verso queste nuove industrie, verso un’economia della
conoscenza intesa essenzialmente come passaggio da settori tradizionali a settori
relazione imprese con acquirenti esteri. Questa linea di intervento è stata inaugurata nel 2003,
con sgravi previsti per i costi sostenuti dalle imprese di piccole dimensioni per sperimentare
l’inserimento in mercati esteri.
35
Al proposito, alcune interessanti proposte sono contenute in Bellandi e De Tommaso
(2005).
36
Cfr. Gallino (La Repubblica, 3 marzo 2005).
37
La relazione annuale dell’AGCM (2003) e alcuni studi specifici dell’Autorità mostrano che
i settori che sono stati maggiormente penalizzati in termini di export sono quelli che più
dipendono dall’offerta di beni e servizi prodotti in condizioni scarsamente concorrenziali.
Questo è un asse di intervento tradizionale. Invero, l’unico vivo (per ora) in materia di
politiche industriali. Ma a questo tema non riflettono abbastanza gli economisti che si
occupano di sviluppo locale. L’Italia è il paese in cui i servizi bancari sono i più cari in
Europa. Fatto pari a cento il costo per la Francia, in Italia i servizi bancari hanno un costo
all’incirca doppio. Considerazioni analoghe valgono per i trasporti, l’energia, i servizi
professionali. In questi ambiti, spesso attraverso quelle che l’autorità definisce “pratiche
facilitanti” si sono imposte modalità collusive di determinazione dei prezzi con aggravi di
costo per i consumatori e per il sistema delle imprese. Le industrie che, negli anni Novanta,
vedono peggiorare la loro performance in termini di crescita del fatturato e delle esportazioni
sono quelle che, più delle altre, utilizzano inputs provenienti da questi settori (cfr. Allegra et
al., 2004).
GIOVANNI SOLINAS
innovativi (individuati gli uni e gli altri con una qualche tassonomia alla Pavitt). Le
obiezioni che è possibile muovere a questo modo di argomentare sono tante.
Vi sono, innanzitutto, molte e buone ragioni che dovrebbero indurre a cautela
prima di scegliere di abbandonare le produzioni mature in cui i distretti industriali
hanno tradizionalmente goduto di un vantaggio competitivo. Non foss’altro per la
rilevanza in termini di occupazione (la filiera della calzatura in Europa, ad esempio,
conta più della filiera dell’auto).
Inoltre, nessuno, tra coloro che sostengono questo punto di vista si assume la
responsabilità di entrare in merito e indicare quali: in che direzioni si dovrebbe
investire per promuovere l’applicazione industriale della scienza e l’innovazione?
Informatica? Robotica? Elettronica di consumo? Biotecnologie? Quali?
Nanotecnologie? Nanotubi? Nuovi materiale? Quali? E così di seguito. Quando si
arriva al dunque il tutto sfuma e finisce nell’indeterminato. Faccende che riguardano
il tecnologo (e il politico).38 Ma supponiamo pure che qualche governo più o meno
illuminato scelga il “cosa”.
Il punto è che, con questa logica, si rischia di incorrere in errori colossali,
indirizzando il sistema produttivo su strade senza sbocco. È meglio prenderle dai
cinesi nelle produzioni “tradizionali” o prenderle, sempre dai cinesi, nelle
biotecnologie e nell’elettronica di consumo (dove con tutta evidenza, in molti
comparti, la Cina e l’India si avviano ad essere leader mondiali. Oppure è meglio
prenderle direttamente dagli americani in settori a cui i paesi emergenti non arrivano
(o non arriveranno subito) e gli USA continuano a detenere il primato? Oppure dai
finlandesi sulla telefonia mobile o dai tedeschi in molti comparti della chimica?
Forse non è né più vantaggioso né più divertente. Questo è un problema enorme.
Poniamo che anche quest’ultima obiezione sia trascurabile. La scala degli
interventi ha un’importanza straordinaria. O si ha una capacità elevatissima di
attrarre investimenti esteri oppure l’intervento pubblico deve assumere una
dimensione assai rilevante. Questa è l’esperienza di tutti i paesi che, su questi
terreni, dal dopoguerra a oggi, hanno avuto successo. È vero per gli Stati Uniti, è
stato vero per i giapponesi, è di nuovo vero per Taiwan e oggi per la Cina e l’India e
la stessa Irlanda. Basti ricordare la scommessa in termini di formazione di classe
dirigente nelle università americane di Taiwan, dell’India o della stessa Cina, il
numero di centri di alta formazione presenti nelle concentrazioni più note, o la
stessa, straordinaria capacità dell’Irlanda di attrarre investimenti dall’estero (oltre
che drenare risorse dai fondi strutturali europei).
In Italia non se ne vedono le condizioni. Non le si vede sul terreno dei possibili
incentivi (fiscali?, sul costo del lavoro? dell’efficienza delle amministrazioni
pubbliche, o che altro?) per attrarre investimenti esteri. E non si vedono le
potenzialità di intervento su ampia scala con i ferrei limiti alla spesa pubblica che
derivano da una finanza pubblica vincolata dal patto di stabilità e in perenne
affanno. A questi scopi, d’altra parte, devono assolvere istituzioni che sono,
38
Alternativamente si ricade a questo stadio nello schema secondo il quale tutto è demandato
al mercato e la politica industriale non ha ruolo.
Nr pag
INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
primariamente, di carattere nazionale (i grandi istituti di ricerca “nazionali”). Le
difficoltà in cui si dibattono il CNR o l’Enea devono forse indurre alla prudenza. Lo
stesso IIT – ammesso che il suo mandato sia intelligibile ? ha un budget che è
ridicolo in rapporto a quello degli istituti che prende a modello. La Francia, che
sembra aver imboccato con decisione questa strada, dedica agli istituti nazionali per
la ricerca di base e per la ricerca applicata un ammontare di risorse di altro ordine di
grandezza 39 . Per le stesse (e per altre ragioni che, in questa sede sarebbe troppo
lungo esporre), pensare che si possa agevolmente passare dai distretti industriali
tradizionali a distretti high-tech è una mera chimera. Né, d’altra parte, è più
promettente l’idea, che fa capolino in diversi progetti ministeriali, che a farsi carico
di queste attività debba essere il sistema universitario. Che la tripla elica evocata da
Etzkowitz debba essere messa in moto è fatto non controverso.40 Il sistema
universitario italiano, tuttavia, è già in seria difficoltà a garantire standard accettabili
di didattica e di ricerca e che, con poche eccezioni, è tradizionalmente poco avvezzo
al rapporto con le imprese, alle attività di trasferimento tecnologico e
industrializzazione dei risultati della ricerca. In questa prospettiva, soprattutto, si
tende a dimenticare che l’innovazione è un fatto sociale che coinvolge sempre
soggetti altri dall’impresa singola e dal singolo laboratorio universitario.
L’ultima questione è che, anche ammesso che tutto questo funzioni, la
realizzazione di un disegno di questa natura richiede tempi lunghi. E nel frattempo?
Conviene forse ripartire dal facile (ma possibile).
Sui beni standard e a bassa intensità di conoscenza c’è, probabilmente, poco da
fare. È impossibile competere con paesi, come la Cina, che dispongono di quella
messe e di quel costo della manodopera (e che, in certi casi, hanno una tradizione di
manifattura ancor più antica della nostra). È inevitabile che componenti meccanici
(anche di buona qualità) prima o poi vengano fatti realizzare in Bulgaria dove
costano il 50% in meno. Ed è inevitabile che Benetton, Miroglio e imprese simili
prima facciano in quel paese (o in altri paesi dell’Est) la loro piattaforma e poi
inizino a esportare da lì nel resto del mondo Questo, tuttavia non significa, che ciò
che è di interesse (industriale) nazionale sia esclusivamente la genomica o la fisica
della materia applicate alla manifattura.
Vi è una logica, che può orientare il disegno delle politiche, non esente da rischi,
ma, a mio avviso, molto più assennata. La si può esporre proprio a partire da una
lettura, in questo caso radicalmente diversa, del principio dei vantaggi comparati. Il
punto non è quello di reinventarsi il mondo, di spingere i sistemi produttivi locali a
fare quello che non hanno mai fatto e che, con tutta evidenza, non sanno fare. È,
semmai, quello di costruire le condizioni per aiutarli a fare meglio quello che sanno
già fare aiutandoli e creando i presupposti perché possano fare cose nuove a partire
39
Secondo fonti di stampa, in Francia, per la sola agenzia per l’innovazione industriale, e ai
poli di eccellenza industriale ad essa connessi, verrebbero resi disponibili 6 miliardi di euro
nei prossimi 5 anni e assunti 6mila ricercatori entro il 2006 (Il Sole-24 ore, 31 agosto e 3
settembre 2005).
40
Cfr. Etzkowitz e Leydesdorff (1997).
GIOVANNI SOLINAS
da ciò che già sanno fare, (ri)posizionarsi in mo do intelligente lungo la catena del
valore.
Nei processi innovativi, in molti casi, non prevale la rottura, ma la continuità.
Nuovi sentieri possono emergere quasi per caso percorrendo vecchie strade. Il nuovo
nasce dal vecchio. Tanto più quando si intenda in modo plausibile quella che taluni
definiscono l’economia della conoscenza. Come già sottolineato, il fraintendimento
implicito nel punto di vista di cui si è appena detto è il fatto che l’economia della
conoscenza sia presente solo nei settori ad alta tecnologia. Non è così, e la
distinzione tra settori ad alta e bassa tecnologia è spesso fuorviante. Se del caso, si
può fare agricoltura, acquisendo sementi sui mercati internazionali, coprendo a
termine le vendite del prodotto, usando le previsioni satellitari per decidere della
semina, e utilizzando macchine a guida automatica con sistemi di navigazione GPS
per la raccolta. Se del caso, si può fare tessile producendo biotessuti. Se del caso, si
possono fare componenti meccaniche con materiali compositi a elevatissima
tecnologia. Ma non ha necessariamente minor conoscenza del mercato, del prodotto,
dei materiali e delle tecnologie più avanzate chi produce lastre di grandi dimensioni
per i rivestimenti esterni dei grattacieli, macchine personalizzate per la
movimentazione dei grandi carichi, macchine blisteratrici per il confezionamento dei
farmaci, o macchine per l’incisione o il decoro delle piastrelle, e neppure chi sceglie
lane e filati pregiati sui mercati internazionali e ripropone maglie raffinate al
mercato mondiale. Caratteristiche analoghe hanno un gran numero di prodotti (e
produttori) di nicchia: dal produttore di aceto balsamico tradizionale, all’artigiano
che produce modelli di trenini per i collezionisti e contende il mercato ai produttori
austriaci e tedeschi utilizzando tecniche di prototipazione rapida, dall’impresa che
realizza attuatori elettromeccanici accessoriandoli con encoder, poteziomentri per il
controllo di posizione, dinamo tachimetriche che li rendono servomeccanismi in
grado di operare come assi controllati, a infiniti altri. Tutto questo i distretti lo sanno
fare. E, in tutto questo, si mescolano tecnologia, saperi di luogo, e, non di rado,
sensibilità culturali. Non esistono, in questo senso, settori industriali a bassa
conoscenza e tecnologia, ma imprese a bassa conoscenza e tecnologia.
Va da sé che, in questa seconda prospettiva, il riferimento primo degli interventi
devono essere i distretti industriali quali oggi essi sono, e la platea dei soggetti
(imprese) di cui tener conto nel disegno degli interventi non sono le imprese singole
e, ancor meno il sottoinsieme di imprese ritenute “innovative”. Non è affatto detto
che l’intrapresa di uno spin-off universitario per l’analisi e il trattamento delle
superfici sia attività più redditizia e lungimirante di quella di chi sa proporre al
mercato le varietà più rare di rose antiche recuperando tecniche, sementi e metodi di
coltivazione dimenticati. Il rango delle competenze del secondo non è affatto
inferiore al rango delle competenze del primo. E non è affatto detto che chi, a partire
dai lasciti emiliani della Comau, produce robot antropomorfi ultraleggeri per il
settore automotive e aerospaziale sia più meritevole di attenzione pubblica
dell’imprenditore umbro che ha trasformato un antico borgo medioevale in uno dei
centri europei più noti più noti di design, produzione e vendita di cashmere.
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INTEGRAZIONE DEI MERCATI E RIAGGIUSTAMENTO NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
Vi è un secondo aspetto che va sottolineato. Nel primo modo di impostare le
politiche industriali il territorio è irrilevante: gli interventi hanno un carattere
tipicamente trasversale, tra industrie e territori. In questa seconda prospettiva, il
disegno della politica industriale parte dai territori41 . In riferimento, ad esempio, alla
classificazione proposta in precedenza (§ 3) la politica industriale può essere
modulata a partire dal riconoscimento che i distretti hanno bisogni diversi: un
distretto
che
delocalizza
ha
particolare
bisogno
di
servizi
per
l’internazionalizzazione e per ricomporre i conflitti latenti tra chi produce all’estero
e chi rimane; un distretto “captive” ha bisogno di riconnettere le imprese ai mercati
finali; un distretto che è centro di sperimentazione di nuovi prodotti, deve trovare gli
strumenti per mantenere in loco le attività di ricerca rilevanti; un distretto con una
struttura industriale polverizzata, infine, ha bisogno di quei servizi (tecnologici, di
mercato e informativi) per i quali non esiste mercato e che le imprese singole non
sono in grado di garantirsi. In ciascuno di questi casi le politiche pubbliche devono
partire da bisogni differenti.42
41
Riconoscere il bisogno di “dare voce” ai distretti nella formulazione delle politiche
industriali (e delle politiche economiche a livello locale in generale) è probabilmente ciò che
muove la recente proposta di legge formulata dal CNEL. La bozza di articolato prevede
l’istituzione di un organo di distretto con compiti di coordinamento e di indirizzo le cui
modalità di funzionamento devono essere definite da un protocollo di intesa tra le parti sociali
(associazioni imprenditoriali e sindacati) e le regioni. All’organismo, come recita l’articolo 4
della bozza di articolato sono attribuiti cinque compiti fondamentali: esecuzione per conto
delle imprese di tutti gli adempimenti amministrativi necessari per l’avvio e l’attività delle
imprese, fornendo servizi di informazione e di consulenza legale, amministrativa, tecnica,
finanziaria e fiscale; offrire servizi di consulenza e di promozione delle innovazioni
provenienti dal sistema della ricerca pubblica; promuovere i rapporti con l’Unione Europea;
collaborare a progetti innovativi di speciale rilevanza; collaborare con le imprese e con gli
organi di governo centrale e regionale per favorire gli sbocchi dei prodotti locali sia nei
mercati interni che su quelli esteri. Tra queste funzioni viene posta particolare enfasi nella
riorganizzazione della ricerca applicata (art. 6) tenendo conto della vocazione dominante in
ciascun distretto e promuovendo la collaborazione con i laboratori e con in centri di ricerca
pubblici. L’organismo di distretto fornirà sostegno organizzativo per progetti di innovazione
di particolare rilevanza che, approvati dal governo e dagli organismi tecnici della UE,
potranno godere di incentivi a livello nazionale e/o a livello europeo. Al di là delle buone
intenzioni, la proposta rischia di creare un ulteriore livello decisionale in perenne tensione con
le regioni, e soggetto a defatiganti mediazioni tra le associazioni imprenditoriali e tra queste e
i sindacati. È assai dubbio che possa assolvere ai compiti per i quali verrebbe istituito, senza
un generale ridisegno dei poteri delle amministrazioni a livello locale che tenga conto della
geografia dello sviluppo (industriale e no). Per un approfondimento della discussione su
questo progetto si veda Il Sole-24 ore (15, 16, 17 e 19 luglio 2005).
42
Molto mi divide dalla lettura di De Cecco della vicenda italiana. Ma, tra le politiche
(dell’offerta) possibili, ve ne è una con la quale sono in totale sintonia: formare più scienziati.
“Gli studi scientifici sono in declino sia in Italia, sia in tutto l’occidente sviluppato. Tuttavia
stanziando alcune decine di milioni di euro per borse di studio da assegnare agli iscritti a
facoltà scientifiche che dimostrino di essere meritevoli, si otterranno risultati assai corposi in
tempo breve. Naturalmente, tali borse di studio devono essere aperte agli stranieri e
propagandate nei paesi dell’Europa centro-orientale, del Nord Africa, dell’Asia e
GIOVANNI SOLINAS
7. Conclusioni
Il sistema industriale italiano vive una stagione di grandi, rapide e importanti
trasformazioni che possono avere esiti tutt’altro che scontati e modificare gli
equilibri tra i paesi e le regioni del mondo. I sistemi produttivi locali e i distretti
industriali italiani, come si è cercato di mostrare in queste pagine, hanno reagito in
modi molto differenti al processo di integrazione delle economie e dei mercati. Ed è
forse prematuro tentarne una, seppur provvisoria, mappatura. Non prendersi cura
delle realtà distrettuali, come è certamente accaduto a livello centrale e anche in
taluni orientamenti delle politiche industriali regionali ? considerandoli magari un
organismo produttivo messo inevitabilmente fuori gioco dalla globalizzazione dei
mercati e, ad un tempo, inseguendo modelli di riassetto dell’apparato industriale
italiano i cui contorni sono, nel migliore dei casi, vagheggiati e la cui efficacia e
praticabilità rimangono tutte da dimostrare ? è un grave errore. Vanificata
dall’assenza di un disegno e forse costretta da vincoli di un bilancio pubblico che
lascia sempre meno margini di manovra, l’alternativa tra aiutare i distretti a
cambiare o aiutarli a fare meglio quello che già sanno fare, tra puntare al mutamento
di traiettoria tecnologica o, in primo luogo, a un riposizionamento nella catena del
valore, in realtà in Italia non si è posta neppure. Ha prevalso l’inerzia. Favorita dai
consiglieri del principe: dai più che pensano che le uniche politiche industriali da
praticare siano le politiche per la concorrenza e dal numero non piccolo di coloro
che, incapaci di proposta credibile per l’industria italiana così come è, sotto la
bandiera del declino, auspicano il ritorno a sani modelli di grande impresa. In queste
circostanze le preoccupazioni e i pericoli diventano tanti ed è difficile essere
ottimisti.
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quali avevano ricevuto certe dotazioni, saranno penalizzate in quello successivo, con una
dotazione inferiore.” (De Cecco, 2004, p. 202).
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