Una storia facile da raccontare

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Una storia facile da raccontare
Una storia facile da raccontare
Mercoledì 30 Gennaio 2013 17:52
Albania
1. La verità nel paese delle aquile
20 giugno 2012
Sono in Albania da 20 giorni e se mi affido alla prima impressione che mi ha attraversato, mi
viene da dire che sono in una realtà inverosimile...inverosimili sono le storie che sto
incontrando, inverosimile è la geografia di questo paese, combattuta tra l'inferno di scriteriate
periferie urbane - che si potrebbe pensare siano sorte stanotte - e il paradiso di un entroterra
dalla natura improvvisa, straordinaria, selvaggia, che si arrampica su montagne e si getta in
laghi d'un blu ...inverosimile.
Una natura che isola l'uomo dall'uomo e ti sembra di capire perché il Kanun - complesso di
norme consuetudinarie per la regolamentazione della vita sociale e dei conflitti, che porta il
peso di secoli di storia e tradizioni giuridiche albanesi - sia nato proprio qui, tra queste
montagne. E oggi da queste montagne ritorna a insanguinare la terra del “paese delle aquile”
riesumando il vecchio istituto della giakmarrje, le “vendette di sangue”. Inverosimile è
l'isolamento culturale e fisico in cui vivono le famiglie “sotto vendetta” che l’Operazione
Colomba segue, sostenendo azioni nonviolente fatte di tanta quotidianità e scarsa visibilità. Ma
è nella quotidianità che si agiscono i comportamenti, e sono questi, i comportamenti
dell’adesso, che seminano la speranza del cambiamento di domani. Sono in Albania da 20 giorni e da almeno 19 mi vado ripetendo: bisogna che io trovi come dar
la forma di parole a tutto questo inverosimile, bisogna diventare occhi per guardare l’ “invisibile”
di questa realtà e voce per raccontare la giakmarrje nella vita reale delle persone che vi sono
coinvolte. Vite sospese.
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Da dove iniziare? Mi accorgo che quando provo a scrivere ai miei amici in Italia per raccontare
della mia esperienza in Albania, mi ritrovo a dire ogni volta cose diverse. Come un
caleidoscopio che mostra di uno stesso oggetto immagini multiple che mutano in modo
imprevedibile ad ogni movimento, guardo i volti mutevoli di questa realtà senza poterne tenere il
conto.
Il “Progetto Kanun” mi ha messo dentro a quello che in letteratura viene definito un progetto
complesso
.
E stare nella complessità ti interpella, ti chiede di sperimentarti, ti impone di non cedere a facili
giudizi, all’impulso della mente di semplificare e trovare un ordine di risposte “giuste” a ciò che
fai fatica a comprendere.
“La nonviolenza è la verità”: avevamo riflettuto su questa frase di Ghandi durante il training di
formazione per i volontari della Colomba. E la verità della nonviolenza è stare sempre dalla
parte delle vittime di un conflitto. Già, la verità. Come si fa, nell’intrico delle storie di queste
famiglie entrate in conflitto di vendetta di sangue, a conoscere “la verità”, a separare chi è
“vittima” da chi non lo è? I primi giorni facevo un sacco di domande: come, perché, chi è stato il
primo a uccidere... Poi ho smesso. Le storie evolvono, le versioni dei racconti familiari
cambiano a secondo del narratore, si aggiungono o si omettono dettagli e per quanto si provi a
ricordarli tutti, a ricostruire le sequenze per raccogliere informazioni che pur sono indispensabili
per gestire con cura le relazioni con le famiglie e aspirare a svolgere un ruolo di riconciliazione,
per quanti sforzi si facciano, la domanda finale restava sempre la stessa: dove è la verità? a
me sembra che le famiglie che finiscono nella ruota delle vendette di sangue siano tutte vittime:
del deserto relazionale a cui sono condannate, del degrado culturale, di una emarginazione che
avanza di pari passo con il villaggio globale e le sue contraddizioni, della latitanza delle
istituzioni. Della solitudine.
2. Quella storia “facile” da raccontare
La scorsa settimana avevo iniziato a scrivere, non fosse altro che per rendere più visibile a me
stessa quell’inverosimile a cui sento di dover dar voce. Avevo deciso di partire dalla mia prima
visita a una delle famiglie sotto vendetta.
Ero stata a casa di N. e A. Avevo scelto questa storia perché mi era sembrata la più “facile” da
raccontare…e non potevo immaginare che, nel giro di due settimane da quella prima visita, in
questa famiglia avrebbe ripreso a girare la ruota della vendetta, in cui hanno pagato con la vita
una ragazza di 17 anni e suo nonno di 70, parenti di N., aprendo le porte a un possibile nuovo
giro d’inferno nelle vite sospese delle due famiglie “nemiche”. Aprendo le porte a nuova
complessità da gestire, a nuovo dolore da sopportare.
30 Maggio 2012
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Metto indietro le lancette dell’orologio a due settimane fa. E’ il 30 maggio. Quando arriviamo, N.,
ci riceve sull’uscio con sua figlia M. in braccio, ha due anni, è una bambina stupenda dai capelli
d’oro e lo sguardo assonnato. A., la moglie, non è in casa, è in Montenegro per lavori stagionali
nei campi. Parte ogni giorno alle prime ore dell’alba con il furgon uno dei tanti minibus di
vecchia fattura che in Albania, in assenza di un servizio di trasporto pubblico, funge da taxi
collettivo.
L’occasione di questa visita ci è data dall’iniziativa degli Ambasciatori di Pace: un campo estivo
per ragazzi a Durazzo. Non capisco una parola di albanese, ma comprendo facilmente dal
linguaggio non verbale di N. che lui sta acconsentendo senza molte remore all’invito a far
partecipare i suoi due ragazzi al campo estivo. Un assenso, come in seguito capirò da questa e
altre storie, nè scontato nè facile per le famiglie in giakmarrje, alle quali, troppo spesso,
rinchiudersi con i propri figli in casa appare l’unico modo per proteggerli. Un assenso frutto della
fiducia costruita giorno dopo giorno nelle relazioni tessute con le famiglie dai volontari della
Colomba, fatta di tempo abitato insieme dentro le loro case, accompagnamenti, coinvolgimento
dei bambini e delle donne in attività di svago e socializzazione che ormai si svolgono con
continuità. Fiducia fatta di questa continuità, di ascolto e di condivisione della loro vita sospesa.
N. e suo fratello L. sono ngujuar “inchiodati” da due anni. E’ questo il termine, ai sensi del
Kanun, che descrive la “via di scampo” data ai familiari di chi ha commesso un delitto:
recludersi in casa per non essere soggetti alla vendetta a cui hanno diritto i parenti della vittima
per far giustizia. La sacralità della casa, nel rispetto delle tradizioni albanesi, rende il domicilio
inviolabile. Una simile norma, che vieta l’esecuzione della vendetta nell’ambito domestico,
poneva un limite alla possibilità di “far giustizia” ricorrendo alla
giakmarrje
, e mette in luce che, all’epoca in cui furono elaborate, in assenza di un governo centrale con
poteri sanzionatori, le regole del Kanun avevano una funzione di controllo sui conflitti. Regole
che stridono fortemente con il contesto sociale del XXI secolo completamente destrutturato
rispetto alle origini.1
La storia dei due fratelli N. e L. è una delle tante prove di questa realtà stridente. Sono
“inchiodati” a causa di un omicidio commesso con arma da fuoco da loro fratello. In questo,
come in altri casi, il ricorso alle armi ha origine da un’offesa verbale, da questioni di vicinato, da
una lite al bar, dopo un bicchiere di troppo di raki, la immancabile grappa locale.
Per chi tira la propria vita nell’asprezza di queste montagne, spesso i conflitti si generano per la
gestione delle risorse che permettono di sopravvivere: la terra, l’acqua. Questa storia nasce,
come tante, fra i monti del Dugaijn, per un contrasto - tra il padre dei fratelli e i suoi vicini sull’acqua per alimentare un mulino. Risultato: G., 23 anni (fratello di L- e N.), finisce in carcere,
dove sta scontando una pena di 14, e la sua famiglia è “entrata in giakmarrje”. “Entrare in giakmarrje”, pur se il reato è stato sanzionato in virtù del codice penale dello stato
albanese, rende evidente un primo paradosso che riguarda tanto le famiglie in vendetta, quanto
l’intera democrazia albanese: la giustizia esercitata dalle leggi dello stato, nel migliore dei casi,
non basta. Ciò che “sana” un diritto violato è il ricorso alla giustizia privata. Ed è chiaro che il
permanere di un’ idea di giustizia privata rende invece malato l’intero sistema.
A ben guardare, ciò che è in causa dietro ogni storia di giakmarrje è il rapporto tra cittadino e
stato. Vengo da una terra, il sud d’Italia, dove ho imparato, e continuamente imparo, che ciò
che instaura i circuiti viziosi della illegalità e li fa penetrare fin nelle più quotidiane manifestazioni
del vivere civile, è la mancanza di un ingrediente chiave per edificare la società civile, per
radicare lo stato di diritto e per aspirare allo sviluppo socio-economico: la fiducia.
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Nel caleidoscopio della realtà albanese riconosco quella stessa dolorosa immagine che
continuamente deforma la crescita civile della mia terra: la sfiducia nelle istituzioni, la
rassegnazione, la latitanza dello stato. Tutto questo si traduce in una vita abitata ai margini di
se stessa. Con diverse gradazioni di solitudine, le persone diventano le periferie geografiche in
cui vivono. Fino alla gradazione estrema degli ”inchiodati”: l’isolamento.
Proprio dentro questo isolamento assurdo, scorgo, con i miei occhi, il cambiamento possibile:
nel vissuto quotidiano delle persone circondate da solitudine e sfiducia si entra in punta di piedi,
a piccoli passi, talvolta impercettibili. E io, che sono qui da così poco, quando entro nelle case
delle famiglie sotto vendetta, e respiro l’accoglienza, vedo come mi viene da chiamarlo, il
“cammino invisibile”: il lavoro svolto dai volontari, il tempo dedicato a tessere la trama difficile e
trasparente di legami fiduciari che possono restituire sguardi nuovi sul mondo e su se stessi,
l’attenzione coltivata per ognuno che crea relazione. Prendersi
cura
delle persone che abitano le loro periferie - mentali, sociali, geografiche che siano - restituisce
qualcosa di davvero nuovo alle loro vite: mette al centro chi al centro non è mai stato.
Torno a N. Il racconto sul suo passato finisce qui. Il suo oggi è questo:
N. ha molta paura. La sua è un’autoreclusione pressoché integrale. L’inverosimile inizia qui,
dentro casa sua, il suo confine. N. teme persino di uscire nell’orto dietro casa, quello spazio
“consacrato” dal Kanun come inviolabile. Alle regole del vecchio codice, N. fa riferimento più
volte nel suo racconto, e più volte ribadisce che la famiglia con cui è “in giak” (letteralmente “in
sangue”) è molto potente. Non ci dice che a violare le regole fu per primo suo fratello G. che
esplose quel fatidico sparo nel cortile di casa dei suoi vicini. Ma forse, per il suo sguardo filtrato
dalla paura e amplificato dalla reclusione, questo dettaglio non viene più visto. Quel che conta è
che non si sente protetto da nessuna norma, né del Kanun, né tanto meno dello Stato. L’unica
legge vigente, ai suoi occhi, e quella del più forte. E lui è il più debole di tutti. N. ha ripreso a
bere. Lo faceva prima di
entrare in vendetta
, questo è vero, ma è tragicamente plausibile che la quotidianità di un
inchiodato
costruisca, insieme a quelle fisiche, gabbie mentali, e trasformi in malattia terminale qualsiasi
fragilità. Il raki diventa la cura più ricorrente e a portata di mano nella esistenza dei reclusi, e i
suoi effetti sulla vita familiare un peso in più sulle spalle delle loro donne.
La situazione di salute di N. è grave. La vicinanza dei volontari della Colomba, nel quotidiano,
invisibile lavoro, getta semi di speranza: ha chiesto di essere ricoverato per disintossicarsi. Ma
si è in una fase di stallo su questo fronte: l’ospedale lo ha rifiutato per motivi di sicurezza.
Poiché è sotto vendetta, tenerlo, dicono, è rischioso per l’incolumità altrui. La moglie A. continua
a chiedere aiuto per sé e i suoi tre figli perché ora è la loro vita che è messa a rischio. Quando
N. è in preda alle sue crisi dismette i panni di uomo mite nei quali l’ho conosciuto in una mattina
di maggio, e trasforma in ore buie lo spazio opprimente della reclusione in cui l’affetto familiare
prova a sopravvivere.
Questa storia, come tutte le storie di giakmarrje, ha i suoi angoli nascosti, in cui si addensano
ombre di silenzio, colorazioni differenti di torti e ragioni, tasselli mancanti per ricomporre il
mosaico perennemente incompleto della “verità”.
Il padre di N. da cui è iniziata la “inimicizia” con l’altra famiglia, è stato arrestato di recente per
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detenzione illegale di armi, e ha avuto una condanna a 5 anni di reclusione con l’accusa di
essere legato ai traffici di droga. E’ uno dei piccoli produttori di marijuana, come ormai molti altri
agricoltori che, restati ai margini dell’economia del paese delle aquile, contribuiscono a rendere
sempre più floride nuove e vecchie criminalità organizzate.
Nello sforzo che continuo a fare per mettere ordine almeno nei miei pensieri, ritorna la
domanda: da che parte sta la verità? Ma serve saperlo? Forse si forse no. Al di là di questa
singola storia mi chiedo, nel disordine globale dell’era post-comunista, in questo piccolo angolo
dei balcani, quanto dei conflitti che si producono è da attribuire al Kanun delle montagne? Fra
latitanza dello Stato, tradizioni arcaiche alle quali ci si aggrappa per recuperare quel senso
dell’”onore” disperso nel repentino passaggio dal vecchio ordine sociale al caos, illegalità e
modernità avanzano insieme confusamente, e si costruiscono, qui come altrove, regni di
incertezza, precarietà, perdita di senso.
Dal vagare tra le mie domande, mi sforzo di ritornare al racconto che ho di fronte; all’umano del
quotidiano delle vite sospese dei suoi protagonisti. L’unica verità che posso realmente percepire
da questo mio minuscolo osservatorio di volontaria appena approdata alla complessità di
questa realtà, è che N. ha un fratello e il padre in carcere, una vita da inchiodato, una malattia
da dipendenza da alcool in fase terminale, una moglie che si spezza la schiena per procurare
cibo ed educazione ai suoi figli, e la spada di Damocle della morte per vendetta che pesa sulla
sua testa e su quella dei suoi familiari.
La verità è che, nella sua come nelle altre storie di giakmarrje, per chi prova a condividere la
vita degli ultimi, ogni giorno il lavoro si costruisce attorno ai bisogni veri delle persone che
vivono in queste periferie urbane in cui piombi, quando esci da Scutari, come se finissi
all’improvviso in un altro mondo. Tra le strade sterrate e polverose e dentro giornate riempite di
attesa, lavoro nei campi e con gli animali, quel che c’è da trattare sono tanto i problemi concreti
legati alla vita quotidiana delle famiglie in
giakmarrje
quanto la invisibile materia delle loro emozioni: paura, rabbia, rassegnazione, dolore…
Nel corso di quella visita ciò che N. veramente ci dice è la sua angoscia. Sente minacciata la
sua vita e teme moltissimo per la famiglia, soprattutto per suo fratello quindicenne, il quale è
l’unico che può recarsi a lavorare, non avendo ancora raggiunto la maggiore età che - secondo
le regole del Kanun – ti rende possibile bersaglio della vendetta di sangue. Quanto al futuro dei
suoi figli ancora piccoli, N. è terrorizzato. Vorrebbe avere la forza, ci dice, di andare dalla
famiglia rivale e dire:
“non fate del male ai miei bambini, uccidete me, tanto senza i miei figli non sarei nulla“. Questo è l’oggi descritto da N. quel 30 maggio. Un tempo che appare, a distanza di sole due
settimane, così lontano. Quando ti imbatti in storie che corrono così forte, ti senti lasciata
indietro, perennemente indietro, con la tua possibilità di comprendere, di riflettere, di raccontare.
3. Siamo tutti inchiodati
14 / 16 Giugno 2012
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La paura della vendetta si trasforma proprio in questi giorni, proprio dentro questa storia, nel
mostro che paventava. E’ giovedì pomeriggio. Alcuni di noi sono al bar per vedere la partita
della nazionale italiana. Marcello e Patty rientrano in fretta. C’è una richiesta di
accompagnamento all’ospedale.
La voce concitata di donna che parla con Marcello al telefono riecheggia in tutta la stanza. E’
A., la moglie di N. Non poteva essere una richiesta di accompagnamento come tante, lo
comprendo subito anch’io. Chissà perché le tragedie sanno annunciarsi sempre da sole. Dopo
poco meno di un’ora la notizia precipita dentro casa: M. 17 anni, e suo nonno K., 70 anni, sono
stati uccisi mentre lavoravano la terra nei pressi di casa, lassù nelle montagne del Dugajin.
Da quel momento ognuno di noi sente, come solo la vita strappata sa farti sentire, che la nostra
presenza lì, con la famiglia di N., ovunque in questi giorni scuri essa è richiesta, è l’unica
risposta a tutte le domande del mondo. All’obitorio, a casa, in chiesa durante il rito funebre, al
cimitero, all’ospedale di Tirana dove è stato ricoverato d’urgenza K., il fratello di A.
Guardo questa donna, che divide poche e soffocate lacrime fra l’angoscia di un lutto così
insensato e quella per suo fratello in pericolo di vita. Ancora tracce d’inverosimile. Il fratello ha
bisogno di trasfusioni. Ha solo 19 anni e un’ulcera che gli ha provocato una grave emorragia.
Lui non è implicato nella storia di giak se non indirettamente attraverso il legame parentale con
sua sorella. Eppure quanta rabbia avrà già inghiottito questo ragazzo respirando l’isolamento e
la “colpa” dei suoi familiari
inchiodati per giungere a
perforare il suo stomaco ? Di
giakmarrje
non si muore soltanto. Ci si ammala per contagio.
Sono le due di un pomeriggio bollente e siamo in macchina in attesa del corteo funebre.
Quando A. ci vede non esita un istante. Si stacca dal gruppo di donne che la circondano, viene
verso l’auto, sale in macchina. E’ insieme a noi che vuol raggiungere la chiesa. E’ così naturale
per lei. Io la conosco da così poco e mi arriva immediata questa sensazione schietta. Trovo
naturale stringerla, incrociare il suo sguardo e sentirlo entrare dentro me. Lei trova naturale
abbracciarsi a me. Sono con i suoi amici della Operazione Colomba, sono di casa. Trattiene la
mia mano tra le sue. E così entriamo in chiesa, mano nella mano, in silenzio, in quel silenzio
che non ha bisogno, come le parole, di traduzioni per essere compreso. Le parole portano con
sé il limite invalicabile dell’alfabeto. Ci sono silenzi invece che annullano ogni distanza,
sconfiggono ogni estraneità. Inventano nuove grammatiche. Il non dire, in quel momento, è
come la preghiera che sale dall’altare che abbiamo di fronte. Risuona nel cuore senza bisogno
che tu ti chieda di quali lettere sia composta.
Dopo la messa, raggiungiamo a piedi il camposanto vicino alla chiesa. I tessuti indossati dalle
donne in lutto formano una macchia nera e lucida che spicca sotto il biancore diffuso tutt’intorno
da un sole infuocato. Io sono là in mezzo. Mentre ritrovo agganciato al mio il braccio quello di
A., mi accorgo che i volti che mi girano intorno sono per me sconosciuti. Sconosciuti che si
preoccupano per me, vogliono che io mi sieda, che mi ripari dal sole. Quanta tenerezza può
esserci nel profondo del dolore. Non capisco nulla di ciò che provano a dirmi nella loro lingua
impossibile, ma comprendo le lacrime sommesse e senza scalpore che riempiono l’aria e vorrei
rispondere che quei singhiozzi li conosco, appartengono al linguaggio universale del dolore
davanti alla vita che se ne va. Sono l’idioma dell’anima lacerata da uno strappo che non si
ricucirà. Riesco a fare un unico gesto, e nella scarsità del mio vocabolario albanese trovo la
parola che cerco: Zemra. Cuore. Poggio la mano sul mio cuore e poi su quello della donna di
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turno che vuol proteggermi dal sole, dal pianto, dal cattivo odore che esala dalle urne riaperte
per l’istante dell’ultimo bacio. Il mio cuore è col tuo. Voglio tranquillizzarle, voglio restare. Non
cerco alcun altro luogo in cui andare. Mi sento inchiodata lì. Sento i loro sguardi di gratitudine
per il solo fatto che siamo lì e non ce ne andiamo davanti alla morte, a quella morte. Sguardi
che di lì a poco si scioglieranno in abbracci per tutti noi volontari lì intorno. Abbracci stritolanti
mentre mille volte ripetono:
faleminde
rit…faleminderit, faleminderit shume…
grazie, grazie …grazie molte.
Rimango inchiodata a quegli sguardi, rimango inchiodata a quegli abbracci, rimango inchiodata
a questa storia, a questa morte assurda, a questa guerra, invisibile perché nessuno vuol
vederla e non voglio andarmene. Quel dolore mi appartiene. Ci appartiene. Siamo tutti
inchiodati. No, non mi sento capitata lì per caso. "...Guardare certi morti è umiliante. Non sono
più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso
destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli
occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce che al posto del
morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza. Per questo ogni guerra è una guerra
civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
"
4. Oltre le regole
25 Giugno 2012
Queste morti non hanno ragioni nemmeno per il Kanun. L’omicidio di K. e della giovanissima M.
diventa emblematico per comprendere c
he il fiero codice delle montagne, quale fonte di regolamentazione di conflitti, non c'entra più.
Esso esclude tassativamente dalla vendetta le donne e i bambini fino alla maggiore età. Le
regole del gioco sono completamente saltate. Ci si trova in una situazione di doppia illegalità: ai
sensi delle leggi dello Stato e ai sensi delle tradizioni giuridiche tramandate dal Kanun.
K. e M. somigliano troppo a chi resta per non suscitare lo sdegno nella società civile albanese.
Diventa umiliante guardare quei diciassette anni di M. strappati al futuro. Questa storia scuote i
villaggi del Dugajin, occupa le pagine dei giornali, che ripetono quella parola troppo spesso
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celata, rimossa, ignorata: giakmarrje.
A Tirana la gente si ritrova in piazza. Una manifestazione “in nome di M.” che nasce dal basso,
si diffonde attraverso il passaparola dei social network, e chiede di fermare il sangue di questa
guerra invisibile. E’ la prima volta che accade in Albania. Lo ricorderò come un tempo breve ma
denso, essenziale, vero. Poche parole, nessun discorso ufficiale, una rosa e una candela per
ciascuno dei presenti da lasciare ai piedi della foto di M. Prendo due rose, una per lei e una per
suo nonno K., immaginandomelo lì, vicino a sua nipote. Che anche la sua morte faccia
scalpore, almeno nel mio cuore, come quella che ha chiuso gli occhi grandi e freschi di M. Il
valore della vita non si misura in anni e io sono qui a celebrarlo soltanto con un fiore in più. Mi
sento così povera.
I giorni passano in fretta dopo quel giovedì 14 giugno e, come sempre, l’emotività collettiva
rientra come un fiume a riposare nel suo letto dopo aver rotto per un tratto gli argini
dell’indifferenza.
Le manifestazioni sono finite, sulle colonne dei giornali parcheggiano parole consumate, come
vagoni arrugginiti sui binari di una vecchia stazione. La vita si riprende i suoi spazi fatti di
abitudine e routine. A quale “normalità” può tornare la famiglia di N., L., A, M. e K.? Questa storia che - nell’intricata casistica del fenomeno della giakmarrje con cui sono venuta a
contatto - a me appariva “più facile da raccontare”, intreccia ora fili difficili da districare.
Si scatenerà un ennesimo inferno per vendicare queste morti oltre ogni regola o si
schiuderanno spiragli per la riconciliazione? E quale sarà, per il corpo Nonviolento di Pace della
Colomba, il modo migliore per assicurare vicinanza, senza cedere, pur nel rispetto del loro
dolore, nell’ascolto della loro rabbia, a nessuna ambiguità circa la posizione da tenere: contro
ogni violenza, contro ogni vendetta ?
Le domande corrono in fretta come le ore, come i pensieri che non riesci a fermare. Discutiamo
a lungo tra noi per cercare di comprendere quali pieghe prenderà questa storia, a quali priorità
dare spazio, quali linguaggi utilizzare, per incoraggiare, in questo difficile momento, un
cammino che si apra alla riconciliazione e al perdono.
I fratelli N. e L. tanto quanto le loro mogli, A. e G., ripetono, riferendosi alla famiglia rivale: “il
lavoro non è finito”. Questa espressione diventa la cifra dell’incertezza che domina qualsiasi
possibile scenario. Loro temono fortemente che dopo questo efferato crimine il potente clan
avversario continui a uccidere altri membri della loro famiglia.
Perché? Davvero esiste una simile possibilità che a me sembra così inverosimile? In realtà, sto
lentamente capendo, se la paura diventa parte del nutrimento quotidiano, come nel caso di chi
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vive “in giak” non è facile distinguere il confine tra la paranoia che essa genera e la concreta
possibilità di scenari di sangue. E quando la realtà diventa così incerta che si fa fluida come
l’acqua, può prendere la forma di qualsiasi contenitore riesca a catturarla.
C’è da capirlo il perché di questa paura così inverosimile che può catturare la realtà. Forse i
perché possono essere più d’uno.
C’è la ragione del paradosso: Colpire la famiglia di L. e N. prima che siano questi ultimi a
emettere vendetta per far giustizia della morte, fuori da ogni regola, di M..
Il Kanun prevede, una volta “fatta giustizia con la giak “ che l’omicida dichiari di aver compiuto
la vendetta. Un gesto che rientra nei rituali di un codice basato sull’onore. La circostanza che
non siano state ammesse dalla famiglia rivale le responsabilità del duplice omicidio, appare a
loro come il presagio di questo “lavoro” che resta da compiere. C’è chi sostiene che l’omicidio di
M. abbia ricoperto di un tale disonore i suoi attori, da non lasciare altra scelta, al loro clan di
appartenenza, che rinnegare qualsiasi implicazione. Può essere, paradossalmente, proprio
l’errore commesso di aver ucciso la ragazza a far adottare una strategia di “omicidio preventivo”
eliminando i possibili esecutori della contro – vendetta ? Le ragioni paradossali non aiutano a
mantenere la calma e la lucidità, ma probabilmente è questo l’inferno del circolo della “
giakmarrja
”: Si entra in un labirinto di paradossi e paranoie. Oltrepassate tutte le regole anche la paura
oltrepassa sé stessa.
C’è la ragione della rabbia e della solitudine. Penso al papà di M., all'ottavo giorno dalla morte
di sua figlia: a una settimana dalla scomparsa, tutta la famiglia si riunisce in casa per
commemorare i defunti, e noi siamo con loro. Rivedo i suoi occhi chiari arrossati di pianto che si
riempiono di commozione quando Marcello gli si rivolge offrendogli parole di rispetto,
comprensione, sostegno. Restiamo seduti in silenzio attorno al tavolo. Loro ci toccano il cuore
con riti di accoglienza che sanno di casa. Il caffè, l’acqua fresca, il raki. E si lasciano toccare il
cuore da quelle parole di conforto. Ma cosa accadrà in quegli stessi cuori mentre l’assenza di
M., giorno dopo giorno, riempirà la casa? Quali reazioni di rabbia può accendere un’assenza
forse più irrimediabile del dolore della perdita, quella della giustizia ?
E’ passato esattamente un mese dall’assassinio, e nonostante la “storia di giak” tra le due
famiglie sia una netta traccia per raggiungere i responsabili del crimine, le forze dell’ordine
appaiono ancora una volta protagoniste del nulla. Nessuna azione concreta che possa istillare
gocce di fiducia e pacificazione nei cuori di chi aspetta giustizia. La lontananza delle istituzioni
gonfia il senso di solitudine e diventa un contenitore possente per la fabbrica della rabbia.
Ci sono poi le ragioni delle madri: A. e G. A. combatte senza tregua, N., suo marito, trascina la
sua ombra dentro le quattro mura che lo circondano, e con lei sempre fuori per rimediare il
lavoro che farà mangiare anche domani i suoi figli, sono i piccoli C. e E., i maschi di casa, che si
prendono cura del padre. Hanno 12 e 10 anni. Sono settimane che sono rinchiusi con lui. La
piccola D, di 4 anni, ha beccato un’infezione intestinale. Dicono: “ha preso i vermi”. Espressione
che fa riecheggiare nella mia memoria la voce di mia nonna quando mi raccontava della sua
terra, e della lotta quotidiana per proteggere la famiglia dalle malattie senza fine con un’unica
diagnosi: povertà, malnutrizione, penose condizioni igieniche. Per A. si tratta di trovare la
soluzione a questo semplice problema aritmetico: la mamma deve andare in farmacia a
comprare le medicine ma non ha i soldi. Come possiamo aiutarla evitando di ingaggiare il
pericoloso meccanismo dell’assistenzialismo, in cui gli “amici della Colomba” rischiano di
esporsi continuamente?
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5. Il cammino si fa camminando
Sono le tue impronte la via e nulla più…
non c’e un cammino, si fa camminando il cammino.
14 luglio 2012
Il cammino della condivisione è attraversato da mille ostacoli. Uno di questi è pensare che stia a
te risolvere qualsiasi problema. Sarebbe la negazione della crescita personale. Sostenere le
persone in un cammino è camminare al loro fianco non al loro posto. E’ la sfida dell’autonomia.
Imparo giorno dopo giorno quanto sia difficile.
A. è alle prese con così tanti problemi ma forse proprio per questo non si arrende mai. Le sue
angosce però sono identiche a quelle di sua cognata G. (moglie di L. fratello di N.) che invece
non nasconde la sua fragilità. La domanda che ruba il sonno alle loro notti e rende inquieti i loro
giorni è sempre la stessa: cosa può accadere ai loro figli, in questo scenario di inverosimile
incertezza. Sono ancora piccoli, ma ora che si è usciti fuori da ogni principio del Kanun, della
legge, della morale, tutto è possibile. Persino che arrivino dentro casa e uccidano i miei
bambini, dice G. guardando i suoi figli M. e F., pressappoco la stessa età dei loro cuginetti. M.
guarda sua madre. Vorrebbe proteggerla dai suoi fantasmi finti o veri che siano. Il papà è nel
Dugaijn e lui sa che quando il padre non c’è gli tocca essere l’uomo di casa. Scoppia a piangere
e va nell’altra stanza.
Quel che per me è parte dell’inverosimile, per gli inchiodati e i loro familiari è parte della
quotidianità. La mia mente prova a sostare tra tutte queste possibili ragioni. E ad ognuna di
esse si appendono grappoli di domande a cui non so rispondere.
Ma alla fine di ogni interrogativo c’è come un bivio che ti aspetta. Lì c’è la domanda più
semplice e più difficile del mondo: Cosa fare? io cosa posso fare? Questa esperienza mi sta
insegnando di cosa è fatta realmente la strada della condivisione e della nonviolenza: devo
lottare prima di ogni altra cosa con i miei dubbi, con il mio senso di impotenza, con il mio
sentirmi infinitamente piccola e talvolta inutile. Ho bisogno di imparare a coniugare il verbo
condividere. Scopro che ho un luogo ben preciso in cui posso imparare a farlo: è questo
cammino comune che la Colomba mi sta proponendo, e che “si fa”, un passo dietro l’altro,
in prima persona
insieme alle altre persone. 6. L’"essere è la via del fare"
20 luglio 2012
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Una storia facile da raccontare
Mercoledì 30 Gennaio 2013 17:52
Già. Stare insieme all’altro. Mi chiedo se non sia dentro questo “stare” lo spirito della
nonviolenza, plasmato da “un’attenzione rivolta all’essere piuttosto che al fare”. Questa
definizione non ha smesso di riecheggiare dentro di me dai giorni in cui l’ho udita, durante il
training della Colomba. L’essere come “via del fare” interpella innanzitutto me stessa. E non può che essere così.
Stanno per terminare i miei giorni albanesi di volontaria di breve periodo. Cosa ho fatto in questi
due mesi? Se penso al mio
fare
, ancora una volta la mia mente rincorrerebbe i suoi fantasmi. Hai fatto poco, non hai fatto
nulla…Se penso all’esserci, lo sguardo può cambiare. Scorro il tempo che ho vissuto a contatto con questa storia che sembrava “più facile” da
raccontare. So che non ho fatto nulla per contribuire a sciogliere il dilemma di questa famiglia.
Ma sono stata al cento per cento con gli altri volontari della Colomba quando si è deciso di non
lasciarli soli, di condividere ogni giorno insieme a loro una fetta di tempo, per sottrarlo all’ansia e
alla paura e regalarlo alla speranza. Ho eseguito qualche passo di questo cammino che si
compone degli innumerevoli gesti da cui può nascere l’ “attenzione all’essere piuttosto che al
fare”.
Sono stata con A. G. e i loro figli. Ho giocato con loro nel cortile di casa nei pomeriggi caldi di
questo tempo breve, pieno di sole, di mosche e di vociare di bimbi che, come in qualsiasi altro
posto del mondo, è uguale al cinguettio di uccellini festosi. Li ho visti illuminarsi in volto quando
ci vedevano arrivare e farsi nuovamente seri quando andavamo via. Ho ricacciato indietro le
lacrime ogni volta che mi lasciavo alle spalle il cancello di casa che si richiudeva su quegli
sguardi da piccoli ometti; ho sperimentato la gioia semplice di ritornare il giorno dopo, e il giorno
dopo ancora, e sentire la tenerezza delle braccia al collo di un bambino, i suoi baci stampati
sulla guancia.
Sono stata con loro. Li ho visti ridere. Ho riso di cuore insieme a loro.
Zemra…Sì, tocca il cuore questo cammino che si fa insieme, che insegna a essere, a “stare”;
nel quale ogni passo è ricerca del delicato quanto faticoso equilibrio tra il fare per l’altro e l’esse
rci
p
er l’altro. Fra saper cambiare e mantener fede all’impegno di essere sé stessi. Mi accorgo quanto l’esser parte di un agire che mette al centro le persone abituate ad essere le
periferie di se stesse tocchi il cuore di ognuno. Il mio, il loro. Mi accorgo che è una rivoluzione
copernicana mettere al centro chi non lo è mai stato. E “non si può essere rivoluzionari senza
lacrime agli occhi e tenerezza nella mani
”.
Silvana
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