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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 18 novembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
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L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 17/11/15
La "società civile" convocata in assemblea
per battere il terrorismo
A Roma, al Centro Congressi di via dei Frentani, l'incontro delle
associazioni che aggregano milioni di cittadini, chiamati a sottoscrivere
un appello comune contro la barbarie, la guerra, le violenze
ROMA - Al Centro congressi Frentani, in via dei Frentani 4, ha luogo oggi un'assemblea
nazionale per discutere assieme sulle modalità più efficaci per tracciare un percorso
collettivo contro il terrorismo, le guerre e il razzismo. "Un piano d'azione dal basso - come
si legge in un comunicato congiunto di numerose associazioni della società civile - che
coinvolga scuole, circoli, luoghi di lavoro, parrocchie, centri di aggregazione". L'inizio
dell'incontro è previsto per le 15. Ecco qui di seguito l'appello che convoca l'assemblea e
un primo elenco delle organizzazioni che l'hanno sottoscritto.
"Stretti attorno al dolore dei francesi". "Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai
familiari dell'attacco terroristico di Parigi - esordisce il comunicato congiunto - ci
stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non
scordiamo l'angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano,
iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della
violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l'Europa, il Medio Oriente e l'Africa".
"La guerra è dentro le nostre società". "E' dentro il nostro quotidiano - prosegue la nota
diffusa - è dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la
produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo
reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una
diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono
stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza".
"Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari". "Vogliamo costruire la pace e
fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la
solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell'ambiente,
la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e non
violenta con l'istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace".
Ecco l'elenco delle associazione aderenti. ARCI, ACLI, ACT, ACTION, ADIF, ALEFBA,
ANSPS, ANTIGONE, AOI, ARCHIVIO MEMORIE MIGRANTI, ASGI, ASSEMBLEA
GENITORI E INSEGNANTI DELLE SCUOLE DI BOLOGNA, ASSOCIAZIONE
ALTRAMENTE, ASSOCIAZIONE D/STRISCIO, ASSOCIAZIONE PER LA PACE,
ASSOCIAZIONE RADIOCORA, AUSER, CAMERA DEL LAVORO METROPOLITANA DI
FIRENZE, CENTRO ASTALLI, CGIL, CILD, CINEVAN, CIPSI, CITTADINANZA E
MINORANZE, CNCA, COCIS, COMITATO NUOVI DESAPARECIDOS, FIOM CGIL, FLC
CGIL, FOCSIV, FOCUS-CASA DEI DIRITTI SOCIALI, FONDAZIONE ANGELO
FRAMMARTINO ONLUS, FORUM TERZO SETTORE, HABEISHA,
LASCIATECIENTRARE, LEGAMBIENTE, LIBERA, LINK, LIP SCUOLA, LUNARIA,
MOVIMENTO NONVIOLENTO, NETLEFT, RETE ANTIRAZZISTA FIORENTINA, RETE
DELLA CONOSCENZA, RETE DEGLI STUDENTI MEDI, RETE DELLA PACE, RETE G2
SECONDE GENERAZIONI, RETE PRIMO MARZO, SEI/UGL, SOS RAZZISMO ITALIA,
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SPI CGIL, TAVOLA DELLA PACE, UDS, UDU, UN PONTE PER, WILPF ITALIA.
Aderiscono inoltre: Altra Europa con Tsipras, Altra Trento a sinistra, PCdL, Rifondazione
comunista, Sel, Sinistra Italiana
Per altre possibili adesioni: stopguerreeterrore@gmail. Com
http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2015/11/17/news/arci-127550152/
Del 18/11/2015, pag. 6
Soffiano venti di guerra, nasce il cantiere di
pace
Anche l’Ucoii parteciperà al consorzio di ong. Prima assemblea a Roma
per studiare la risposta delle associazioni alla nuova realtà del
terrorismo in Europa, delle frontiere chiuse e degli stati d’eccezione
Il «cantiere per la pace» che è nato in una saletta affollatissima e piena di giovani del
centro congressi di via Frentani a Roma coinvolgerà in ogni sua iniziativa locale o
nazionale anche rappresentanti delle comunità musulmane in Italia, i cosiddetti musulmani
moderati, ovvero un milione e mezzo di persone che vivono e lavorano nel Belpaese. Per
vincere oltre i guerrafondai e le politiche securitarie contro i migranti, l’islamofobia e en
passant le sirene dei media che tornano ad evocare lo scontro di civiltà.
«Questo terrorismo sta colpendo soprattutto noi musulmani, anche a Parigi 30 dei 129
morti lo erano. Siamo in prima linea», ricorda, raccogliendo l’invito dell’assemblea, Izzedin
Elzir, palestinese nato a Hebron ora imam di Firenze e presidente dell’Ucoii, l’Unione
comunità islamiche d’Italia. «Colpire noi vale di più che colpire un miscredente– continua a
spiegare — in quanto considerati traditori perché abbiamo il vostro stesso sistema di vita e
condividiamo gli stessi valori, quelli democratici della bellissima Costituzione della
Repubblica, laica e rispettosa delle diversità».
Ora che il terrorismo jihadista è qui, dietro casa, anche le comunità islamiche hanno
scoperto una paura più diretta, tangibile. Questa paura è una novità rispetto alle altre crisi,
sottolinea Luciana Castellina nel suo intervento. È con questa paura che ora il mondo del
pacifismo e dell’antirazzismo è chiamato a misurarsi, oltre che con un possibile
restringimento dell’agibilità democratica, dato da un diffondersi di stati d’eccezione e
censure.
Castellina propone al cantiere delle associazioni, Ucoii compresa, presidi mobili ovunque
— «si possono chiamare gazebo, visto che la parola è di moda» — per avvicinare le
persone, informare e proporre soluzioni diverse dalla guerra. Anche Nicola Fratoianni,
coordinatore nazionale di Sel, e deputato di Sinistra italiana, arrivato in una pausa del
dibattito parlamentare sul rifinanziamento delle missioni all’estero, invita a considerare la
variabile dell’empatia nell’approccio da usare. «Non si può perdere il contatto con il sentire
comune e serve un approfondimento culturale anche tra di noi — avverte — perché il
reclutamento dei terroristi non può più essere spiegato solo con il disagio delle periferie,
c’è anche, nella fascinazione per Daesh, l’idea di uno stato-guida da contrapporre alla
secolarizzazione monetaria delle nostre società senza un livello di trascendenza laico che
serva da antidoto».
Il dibattito nell’assemblea romana tocca temi complessi, dalla analisi del colonialismo con
la creazione di stati con il compasso sulla linea immaginata da François Picot e Mark
Sykes ai tempi della prima guerra mondiale — «è quella che stiamo ancora vivendo e non
la terza come dicono», sostiene Castellina — alla critica del modello di sviluppo. Tutte le
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associazioni e le ong mettono a disposizione le loro elaborazioni: i papers di Archivio
Disarmo sull’export italiano di armi, il rapporto sui Diritti globali messo in rete da
Legambiente, le elaborazioni di Sbilanciamoci e Lunaria.
Obiettivo: organizzare a tamburo battente momenti di confronto sui temi delle migrazioni,
delle guerre e dei disastri ambientali, nelle città e soprattutto nelle scuole e nelle
università. «Bisogna costruire anticorpi, monitorare gli stati di eccezione e le violazioni dei
diritti civili, disvelare le verità nascoste», dice Francesco Martone di Un Ponte Per.
Nel frattempo il cantiere per la pace — nato ieri su impulso dell’Arci con l’adesione di un
lungo cartello di sigle, tra cui anche Libera, Uds e Rete G2 — chiede che le manifestazioni
già in programma ospitino uno spazio di rilievo per le tematiche pacifiste e antirazziste. Gli
organizzatori della marcia italiana per il summit mondiale sul clima, il Cop21 di Parigi, in
programma sabato 29 novembre a Roma, hanno già accettato. «Un ambientalismo che
non tenga conto delle questioni sociali, incluso quella dei migranti economici, non avrebbe
senso», sintetizza Maurizio Gubbiotti di Legambiente.
Francesca Redavid della Fiom romana si farà portavoce verso la Fiom nazionale per una
decisione analoga relativa alla marcia Unions di sabato prossimo a Roma.
Se la Coalizione sociale di Landini deve battere un colpo, è il momento per farlo.
Da Radio articolo 1 e Radio popolare Roma del 17/11/15
Stop a guerra e terrore. Con E. Piron e voci
dall'assemblea nazionale per la pace
See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/11/17/26251/stop-a-guerra-e-terrorecon-e-piron-e-voci-dallassemblea-nazionale-per-la-pace#sthash.ioxBMEfD.dpuf
Intervista a Franco Uda (Arci)
Da Redattore Sociale del 17/11/15
"L'Italia che non si vede": dieci registi fanno
rivivere le piccole sale di paese
Film d’autore saranno distribuiti e diffusi nei prossimi mesi nelle piccole
sale e nei circoli culturali presenti in più di 40 città italiane. Iniziativa di
Arci per “rendere popolare” la produzione cinematografica
indipendente
ROMA - Arci e Ucca (l’Unione dei circoli cinematografici Arci) lanciano “L’Italia che non si
vede, una rassegna itinerante del cinema reale”. Dieci film d’autore saranno distribuiti e
diffusi nei prossimi mesi nelle piccole sale e nei circoli culturali presenti in più di 40 città
italiane.
Una rassegna organizzata per “rendere popolare” la produzione cinematografica
indipendente del nostro Paese, dove il termine popolare si declina nel tentativo di rendere
accessibile anche nei piccoli centri, in provincia e nelle periferie, una serie di opere che
spesso faticano ad “uscire” dai festival in cui vengono ospitate o dal panorama dei circoli
metropolitani d’éssais, perché più fragili e meno attrezzate a competere sul mercato.
“L’italia che non si vede vuole” è anche un pretesto per creare e ri-creare degli spazi: spazi
di confronto e di dibattito, e perché no, anche di denuncia. Spazi in cui sia possibile
parlare di una società e di un cinema che cambia - come sottolinea il filosofo Jacques
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Rancière in un suo celebre testo - dopo lo sconvolgimento dei “rapporti tra significare e
mostrare che ha investito l’arte di raccontare storie”.
Perché come sottolinea il presidente di UCCA Roberto Roversi, il film è un evento
collettivo e l’occasione per produrre lo spazio di condivisione di un’esperienza particolare.
Spazi ed esperienze di cui, in questo momento più che mai, la società necessita.
Le dieci pellicole in programma, equamente distinte tra documentari ed opere di finzione,
hanno partecipato ai maggiori festival internazionali europei , sono: “Arianna” di Carlo
Lavagna, “Cloro”, di Lamberto Sanfelice, “Genitori”, di Alberto Fasulo, “Gitanistan”, di
Pierluigi De Donno e Claudio Giagnotti, “La Bella Gente”, di Ivano De Matteo, “Lei disse sì”
di Maria Pecchioli, “Memorie”, di Danilo Monte, “Napolislam”, di Alberto Pagano, “Short
skin” di Duccio Chiarini e “La Vergine Giurata”, di Laura Bispuri.
Giunta alla sua quinta edizione, “L’Italia che non si vede” fa del cinema un “una potenza
comune”, l’esperienza di un attraversamento, con dieci storie che raccontano di diritti
negati e di riscatti, d’integrazione, d’identità di genere e di disabilità.
Per la prima volta saranno distribuiti anche i cortometraggi frutto delle attività del
laboratorio napoletano FILMap dell’Arci Movie di Ponticelli e della Produzione Cinemaniaci
di Piacenza. Narrare la complessità e creare nuovi spazi per l’immaginario, dunque, per
fare dell’immagine un filo teso sul caos del reale, ma anche la cifra di una pratica di
resistenza, un “esercizio di rottura”. (Marta Menghi)
http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/494899/L-Italia-che-non-si-vede-dieciregisti-fanno-rivivere-le-piccole-sale-di-paese
Da Radio Articolo 1 del 17/11/15
Professionisti della cultura, gli stati generali L'Italia invisibile e il cinema del reale
Con D. Jalla, pres. Icom; R. Roversi, presidente Ucca (interviene sulla rassegna L’Italia
che non si vede)
Ellecult 17/11/2015( 11,28 MB)
- See more at:
http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=ucca&contenuto=audio#sthash.aIQl8R4
a.dpuf
Del 18/11/2015, pag. 6
2015: l’anno dei muri contro poveri e migranti
Diritti globali. Pubblicato il XIII rapporto sul "nuovo disordine globale":
l’oscena piramide della disuguaglianza in cifre e scenari. Materiali per la
lotta contro l’austerità
Il 2015 è stato l’anno della guerra. Guerra contro gli indesiderabili e i fuggiaschi; guerra
contro il popolo greco, oggi contro i civili inermi a Parigi; criminalizzazione e guerra contro
i poveri del mondo e quelli delle città occidentali. Guerre per il cibo, per l’acqua, per la
terra con il land grabbing; guerre neocolonialiste. Sono alcuni dei capitoli di quel mondo
terribile definito da Papa Francesco «Terza guerra mondiale» che trova oggi un resoconto
realistico nel 13° Rapporto sui diritti globali presentato ieri a Roma nella sede nazionale
della Cgil in Corso Italia. Pubblicato da Ediesse e realizzato dall’Associazione Società in
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Formazione di Sergio Segio, con associazioni come Arci, Antigone, Legambiente
o Gruppo Abele, il rapporto rappresenta un bilancio consolidato del mondo post-guerra
fredda già descritto, in una precedente edizione, come «prima guerra mondiale della
finanza».
L’Europa è al centro del nuovo volume di oltre 400 pagine. Sul vecchio, cupo e insicuro
continente, viene condotta un’analisi con dati, schede, scenari e interviste che chiariscono
gli scenari geopolitici di una continua frammentazione dell’unione Europea e quelli
geoeconomici imposti con il Trattato transatlantico «Ttip». Oggi l’Europa è uno
«sgangherato esperimento di una moneta senza Stato e di una federazione di
nazionalismi bancari senza politica» che trova un denominatore comune nell’opzione
militare all’esterno e di polizia all’interno, mentre la politica si identifica con gli stati di
emergenza dei «grandi eventi» Expo o Giubileo. Lo si è visto con la capitolazione imposta
dalla Troika alla Grecia di Tsipras a luglio: con le parole di Luciano Gallino o di Yanis
Varoufakis, si è trattato di un «colpo di stato senza eserciti». L’Europa ha dato poi il peggio
di sé nelle liti sulle «quote» per ridistribuire i rifugiati siriani tra i paesi membri. L’iniziale
slancio umanitario della Cancelliera Merkel, operazione politica intelligente per recuperare
consenso dopo il pugno di ferro contro la Grecia a luglio, oggi la sta logorando.
Nella chiamata alle armi di Hollande contro l’Isis, l’Europa si spinge sempre più a destra,
tra stati di emergenza permanenti, modifiche costituzionali e «Patriot Act» alla francese.
Gli attacchi di Parigi stanno unendo l’Europa dell’Est contro il suo piano sui rifugiati. Quel
continente che Merkel pensava di governare con il suo imperialismo ragionieristico la sta
travolgendo. Questa è «l’Europa del filo spinato e quella di Enavfor Med — la missione
antiscafisti» si legge nel rapporto. Altro capitolo, denso e polemico, della ricerca è la
«guerra ai poveri». «Ad agosto li hanno fatti sparire in Italia – ha detto Don Luigi Ciotti
(Libera e Gruppo Abele) intervenuto alla presentazione romana – Ho chiesto al governo:
ma scusate che fine hanno fatto 2 milioni di persone che risultavano a luglio? Ci hanno
detto che hanno modificato i parametri per conteggiarli». L’aneddoto restituisce
l’atteggiamento del governo Renzi: nascondere i danni della crisi – la «guerra sociale»
dell’austerità, la «lotta di classe dei ricchi» — e parlare di «ripresa». Contro queste
diseguaglianze si fanno solo operazioni di facciata con dosi omeopatiche di pietà. Il resto
viene governato attraverso la «criminalizzazione della povertà», l’ideologia del «decoro»
e il carcere. «La povertà, le guerre, le ingiustizie sono inaccettabili – reagisce Don Ciotti –
C’è un obbligo morale a cambiare la storia, non a subirla schiacciati da rapporti globali
tremendi». Nel rapporto ampio spazio è dedicato all’analisi delle politiche economiche
e occupazionali europee, e italiane in particolare con la legge di stabilità 2016. Al centro
della polemica c’è l’aumento del tetto del contante a 3 mila euro voluto ad ogni costo da
Renzi. «Lo ha annunciato nel momento in cui la Francia l’ha riportato a mille – ha ricordato
il responsabile Cgil delle politiche economiche Danilo Barbi – I due commi che aboliscono
la tracciabilità rivelano che questa norma è un regalo alle mafie». «Questa politica difende
i grandi interessi finanziari. Con la sua politica votata alle esportazioni, l’Europa oggi è una
potenza che produce un disordine mondiale”. «Bisogna recuperare l’obiettivo della piena
e buona occupazione – ha detto il segretario della Cgil Susanna Camusso – Per farlo,
però, è necessario abbandonare l’ideologia del laissez-faire e riprogettare l’intervento
pubblico in economia».
Da Adn Kronos del 17/11/15
Rapporto Diritti Globali: in Ue è guerra a
povertà, a rischio 1 su 4
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Il Rapporto sui diritti globali 2015 della Cgil, sono oltre 122 mln, in Italia
più di 17 mln
Roma, 17 nov. - Nell’Unione europea vi sono 122,6 milioni di persone a rischio di povertà
ed esclusione, vale a dire quasi un europeo su quattro; all’inizio della crisi erano 116
milioni. E' uno dei dati più forti che emergono da 'Il nuovo disordine mondiale - Rapporto
sui diritti globali 2015', presentato oggi a Roma nella sede nazionale della Cgil. Il rapporto
è stato curato da 'Associazione Società Informazione Onlus', promosso da Cgil con la
partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione
Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Secondo l'indagine,
"la 'lotta di classe dall’alto' nell’ultimo anno, in diverse aree geografiche, ha preso la forma
di una guerra contro i poveri e di un divorzio progressivo tra capitalismo globale e
democrazia". Secondo le statistiche europee, sottolinea il Rapporto, alcuni Stati membri
hanno percentuali ancor più drammatiche, come la Bulgaria (48%), la Romania (40,4%), la
Grecia (35,7%), l’Ungheria (33,5%), a fronte di percentuali tra il 15 e il 16% di Paesi come
Svezia, Finlandia, Olanda e Repubblica Ceca. L’Italia registra il 28,4%, dato dunque
superiore alla media europea, per un totale di 17 milioni e 330mila persone. Ma, a fronte di
questo drammatico ed eloquente quadro, nel quadriennio 2008-2012 - complessivamente,
sebbene in modo molto differenziato tra i diversi Stati membri - l'Europa, si legge nel
Rapporto, "ha disinvestito nel welfare, in ossequio agli imperativi dell’austerità e del 'Fiscal
compact', con un taglio sulla spesa sociale europea per un ammontare totale di circa 230
miliardi di euro". "Disinvestire nel welfare ha, tra gli altri, anche l’esito -spiega il Rapportodi distribuire i rischi di impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto
sui più deboli, e questo è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà stabili,
prolungate e difficilmente reversibili. Anziché essere contrastata, insomma, la crescente
povertà, che riguarda sempre più anche chi possiede un lavoro e un reddito, viene
perpetuata, diviene una condizione non transitoria, una sorta di buco nero sociale dove le
povertà diventano a bassissima reversibilità, nel quale è sempre più facile scivolare e da
cui è, e sarà, praticamente impossibile uscire". "Sempre più -spiega il rapporto presentato
oggi- la povertà, specie se estrema, nelle risposte istituzionali, ma anche nel senso
comune, è vista e trattata come crimine, anziché come situazione necessitante sostegno.
Un processo presente da tempo negli Stati Uniti, che sta andando avanti in modo deciso in
tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo delle città, mediatico".
Da Askanews del 17/11/15
Cgil: in Europa 122,6 mln persone a rischio
povertà ed esclusione
Roma, 17 nov. (askanews) - In Europa ci sono 122,6 milioni di persone a rischio di povertà
ed esclusione, vale a dire quasi un europeo su quattro. E' quanto rileva il il rapporto sui
diritti globali promosso dalla Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca,
fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e
Legambiente.
All'inizio della crisi erano le persone a rischio povertà ed esclusione erano 116 milioni.
Alcuni Stati membri hanno percentuali drammatiche, come la Bulgaria (48%), la Romania
(40,4%), la Grecia (35,7%), l'Ungheria (33,5%) a fronte di percentuali tra il 15 e il 16% di
Paesi come Svezia, Finlandia, Olanda e Repubblica Ceca. L'Italia registra il 28,4%. Dato
dunque superiore alla media europea, per un totale di 17 milioni e 330mila persone.
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A fronte di questo "drammatico ed eloquente" quadro, nel quadriennio 2008-2012 l'Europa
ha disinvestito nel welfare, in ossequio agli imperativi dell'austerità e del fiscal compact,
con un taglio sulla spesa sociale europea per un ammontare totale di circa 230 miliardi di
euro. Disinvestire nel welfare ha, tra gli altri, anche avuto l'esito di distribuire i rischi di
impoverimento in modo selettivo e diseguale, gravando soprattutto sui più deboli.
Da Radio Articolo 1 del 17/11/15
Rapporto sui diritti globali 2015.
Con Segio, De Ponte, Gubbiotti, Don Zappolini, Miraglia
- See more at: http://www.radioarticolo1.it/audio/2015/11/17/26242/rapporto-sui-dirittiglobali-2015-con-segio-de-ponte-gubbiotti-don-zappolini-miraglia#sthash.nBzaYYYu.dpuf
Da Radio Radicale del 17/11/15
Il nuovo disordine mondiale
CONFERENZA STAMPA | Roma - 11:05. Durata: 1 ora 41 min
Registrazione video della conferenza stampa dal titolo "Il nuovo disordine mondiale" che si
è tenuta a Roma martedì 17 novembre 2015 alle ore 11:05.
Con Sergio Segio (direttore dell'Associazione SocietàINformazione), Marco De Ponte
(segretario generale di ActionAid Italia), Maurizio Gubbiotti (coordinatore nazionale di
Legambiente), Armando Zappolini (sacerdote), Filippo Miraglia (vice presidente,
Associazione Ricreativa e Culturale Italiana), Paola Bevere (presidente di Antigone Lazio),
Luigi Ciotti (sacerdote), Danilo Barbi (segretario nazionale, Confederazione Generale
Italiana del Lavoro).
La conferenza stampa è stata organizzata da Confederazione Generale Italiana del
Lavoro.
Link al video della conferenza https://www.radioradicale.it/scheda/458560/il-nuovodisordine-mondiale
Da Radio articolo 1 del 18/11/15
Work in news
Con C. Tarantino, Spi Puglia; T. Scacchetti, Cdl Modena; W. Massa, Arci Liguria
(intervento sulla marcia dei migranti a Genova)
- See more at:
http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=arci&contenuto=audio#sthash.Hk1AEVR
S.dpuf
Da EmmeElle del 17/11/15
Anche Teramo ricorda le vittime di Parigi
Appuntamento alle 19 in Largo San Matteo. L'Arci guida l'iniziativa
TERAMO - L'Arci di Teramo guidata da Giorgio Giannella promuove una iniziativa di
commemorazione delle vittime di Parigi contro ogni barbarie terroristica e contro chi
promuove la logica dello scontro di civiltà. «Siamo al fianco del popolo francese colpito
così duramente, dei popoli che combattono l'incubo dell'Isis senza quartiere e di chi
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promuove politiche di accoglienza e di integrazione. Ricordiamo - spiega Giannella anche tutte le vittime civili degli almeno ultimi 25 anni di politiche di guerra dei governi
occidental»i. L'appuntamento è per giovedì alle 19:00 a Largo San Matteo, dinanzi la
prefettura di Teramo. Aderiranno le seguenti associazioni: Arci Teramo, Emergency
Teramo, Amnesty Teramo, CGIL Teramo, Auser Teramo, Udu Teramo, Associazione
Detto tra noi. L'elenco è in via di definizione.
http://www.emmelle.it/Prima-pagina/Cronaca/Anche-a-Teramo-una-commemorazionedelle-vittime-di-Parigi/11-37694-1.html
Da la Voce di Vicenza del 17/11/15
L’attore presenta il suo film al Circolo operaio
S.VITO. Con la proiezione del film drammatico “Cloro”, regia di Lamberto Sanfelice, ha
preso avvio al Circolo operaio il cineforum “Incontri ravvicinati con i protagonisti del cinema
italiano” promosso da Comune, Impronta Culturale e Circolo Arci. Ospite della prima
serata l’attore Andrea Vergoni che, al termine della proiezione, si è intrattenuto con il
pubblico. Vergoni, meglio conosciuto come “l’attore in barca a vela”, allieta il cinema a cui
si è avvicinato in tarda età con il suo aspetto trasandato, particolarmente utile
nell’interpretare personaggi legati alla navigazione e al mare di cui è esperto. E’ ricordato
soprattutto per le pellicole come Waves (2012), Andarevia (2013) e appunto Cloro (2015),
incentrato su una diciasettenne che sogna di diventare una nuotatrice sincronizzata.
Bruno Cogo
http://www.ilgiornaledivicenza.it/territori/schio/malo/l-attore-presenta-br-il-suo-film-br-alcircolo-operaio-1.4451212
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ESTERI
del 18/11/15, pag. 1/10
Trovata la terza auto della cellula e il telefonino che annunciava
l’attacco con un tweet. Le falle della polizia belga: così perse le tracce
dei fratelli Abdeslam
Un video incastra un nono terrorista “Salah in
fuga in Belgio” Il fratello: “Consegnati”
CARLO BONINI
Già, c’è dell’altro. Dice infatti a Repubblica una qualificata fonte dell’Intelligence belga: «Se
le informazioni di cui dispo- niamo sono buone — e non abbiamo motivo per pensare il
contrario — Salah è ancora qui. E se dobbiamo stare a quelle stesse informazioni è
ragionevole pensare che nella fuga non sia solo». Questo spiegherebbe il motivo per cui,
ieri sera poco prima delle 19, le unità speciali antiterrorismo di Polizia e Securité de l’Etat
(il Servizio segreto interno belga) siano tornate a Molenbeek, dove un ultimo blitz, lunedì
scorso, aveva preso di mira una casa abitata da 4 foreign fighters salvo scoprirla deserta
(tre degli inquilini sarebbero già in Siria, un quarto in Siria è morto da poco sotto le
bandiere dell’Is). E questo spiegherebbe anche le parole preoccupate del fratello di Salah,
Mohammed, che, dai microfoni della rete televisiva Bfmtv, proprio ieri sera, lo ha invitato
ad una resa incruenta. «Gli consiglio di andare alla polizia per fare in modo che la giustizia
vada al fondo di questa storia» .
COSÍ FURONO PERSI I FRATELLI ABDESLAM
Una giustizia, quella belga, che del resto, in questa faccenda, ha molto da farsi perdonare.
Non fosse altro perché, come conferma la Procura federale, non più tardi del febbraio
scorso, entrambi i fratelli Abdeslam, Salah e Ibrahim (il “martire” morto in boulevard
Voltaire), erano stati convocati e interrogati per misurare il loro grado di radicalizzazione.
L’occasione era stata l’espulsione dalla Turchia di Ibrahim, sorpreso proprio in quelle
prime settimane dell’anno nel tentativo di entrare in Siria attraverso il confine meridionale
turco. Al termine di quel doppio interrogatorio, la stessa Procura aveva deciso di segnalare
entrambi i fratelli alla Securité de l’Etat, il Servizio segreto interno belga, perché
procedesse al loro controllo e monitoraggio. Ma quella sorveglianza non c’è mai stata. O,
se pure è cominciata, è stata presto abbandonata e comunque non condivisa con
l’Intelligence francese, che pure su quei due fratelli un qualche interesse lo avrebbe avuto,
vista la loro nazionalità francese.
Tra il febbraio scorso e venerdì 13 novembre, Salah e Ibrahim sono stati dunque liberi di
muoversi lungo l’asse Bruxelles- Parigi senza alcuna difficoltà. Di pianificare l’orrore nei
dettagli. Dalle auto, alle armi, agli alloggi. Che ora, a mattanza consumata, diventano il
punto di partenza dell’indagine a ritroso della Procura di Parigi.
LA TERZA AUTO E IL NONO UOMO
Indagine che, appunto, ha ora un secondo ricercato. Decisive, nello sciogliere ogni dubbio
sulla presenza di un nono uomo nel commando (oltre ai 7 morti e a Salah Abdeslam in
fuga), sono state non solo le testimonianze raccolte dai sopravvissuti agli assalti al bistrot
nell’undicesimo arrondissement, concordi nell’indicare almeno tre uomini a bordo della
Seat nera da cui è partita la pioggia di proiettili che ha ucciso 39 innocenti, ma anche le
immagini girate da una video-camera di sorveglianza. Da quelle immagini è evidente che
sulla Seat ci sono 3 uomini. Di macchine ne è anche stata trovata una terza, una Renault
Clio nera, che Salah Abdeslam aveva affittato in Belgio e abbandonata nel diciottesimo
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arrondissement. Di più: la scoperta, grazie all’esame delle destinazioni memorizzate dal
navigatore satellitare a bordo della Seat ritrovata domenica scorsa a Montreuil, dei due
punti di appoggio utilizzati dal commando nei giorni precedenti la strage. Due stanze di
albergo ad Alfotville e un appartamento a Bobigny, dove sono state trovate altre tracce in
grado di comporre il quadro numerico del commando. E anche i telefonini che hanno
ricevuto il tweet che ha dato il via libera al massacro: «Che Dio vi benedica».
del 18/11/15, pag. 1/14
I ragazzi del teatro come gli eroi della République. La solennità della
Sorbona e il giardino del museo di Cluny. Viaggio nella città colpita a
morte. Attraverso i simboli che accecano i jihadisti
Dal Bataclan al Pantheon così Parigi si è
scoperta bersaglio universale
ADRIANO SOFRI
MARTEDÌ, ieri, finisce il terzo e ultimo giorno di lutto. È giorno di chiusura dei musei.
Pioviggina. C’è un crollo del turismo. Alla République i ragazzi provano a escogitare
qualche dettaglio, nuovi disegni di candeline, e tutto rifinisce nella Marsigliese. Ha riaperto
il traffico davanti al Bataclan. Fu già in passato un bersaglio, per la proprietà ebraica e la
libertà delle iniziative. E con un concerto come quello, “Eagles of Death Metal”, che nel
momento dell’attacco stava eseguendo “Kiss the Devil”, una specie di ritrovo satanico.
Macché, la band non richiama il Death Metal se non ironicamente, e ha in repertorio titoli
come “Peace and Love”… In realtà, si insiste sulla scelta del Bataclan per un bisogno di
ricondurre anche questo attacco dentro una logica, sia pure la più feroce. Ma il Bataclan e
il suo concerto non sono la replica della redazione di Charlie o di una sinagoga, un luogo
da cui i prudenti possano stare alla larga. E il bar Carillon, e il ristorante Le Petit
Cambodge, e la gente nelle strade? Il Bataclan offriva una gran folla inerme di giovani: è
tutto.
Fate un esperimento: camminate immaginando un giovane jihadista alla ricerca di obiettivi.
E’ l’esercizio che devono fare i responsabili della sicurezza, e non c’è da invidiarli.
Provate: qualunque punto della libera vita parigina, sembrerebbe, una volta colpito, un
bersaglio ideale. Accantoniamo la Tour Eiffel. Il Museo di Cluny è chiuso, ma basta il suo
giardinetto dei bambini. I francesi hanno quel loro modo di rendere solenni le
comunicazioni più ordinarie. «Questa area di gioco è messa degnamente a disposizione
dei bambini. A ogni età il suo gioco. In tempo di gelo l’utilizzazione è strettamente
proibita». L’ispettore jihadista mette una croce sulla sua mappa.
Poco più in là c’è un Salon de coiffeure, un parrucchiere per signora: il più sensibile degli
obiettivi. La prossima facciata ha al primo piano un’elegante insegna primo-novecento che
dice: Libreria Internazionale, e un neon sottostante che dice: HC Fitness Club. Due
bersagli strategici in uno. Altri giardini, coppie, i famosi enfants qui s’aiment e si
abbracciano in piedi o seduti contro le porte della notte e del giorno: nel mirino.
Salto la Sorbona, perché non mi fanno entrare, «per la sicurezza dei professori», ma va da
sé che è un obiettivo primario. È aperto il Pantheon, bisogna solo pazientare perché
sistemano la telecamera all’ingresso. Continuano a scusarsi. Quale bersaglio più ghiotto
del Pantheon? C’è una mostra, dedicata a quattro protagonisti della resistenza, due donne
e due uomini, i ritratti sporgono dalla facciata.
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Tira un gran vento oggi a Parigi. Dentro, sì e no una decina di visitatori. Il sopralluogo del
jihadista ha qui una soggezione, se non altro per l’enormità della fabbrica. La cripta, coi
suoi grandi morti, è massiccia come un rifugio atomico: altro che Ninive, altro che Palmira.
Ripiegare provvisoriamente su obiettivi di dettaglio!
Il pendolo di Foucault, con la sua pretesa di mostrare senza sosta che la terra gira, non è
forse un bersaglio trionfale? Reciderlo, farlo crollare al suolo, cancellare ogni moto e
fermare il tempo sull’ora perpetua del califfato… Ma tutto, là dentro, chiama all’attentato
glorioso. Voltaire, quello del boulevard del corteo per Charlie, quello del boulevard della
strage di venerdì notte, è là, con la sua fisionomia aguzza e la vasta ombra proiettata sulla
parete. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, Voltaire, Rousseau, e Victor Hugo. E Zola…
Che scorta si darebbe oggi a Zola? Se si fosse informato, l’ispezionatore jihadista, si
fermerebbe da Jean Jaurés, socialista, contrario alla guerra, assassinato il 31 luglio del
1914, e il giorno dopo cominciò la guerra mondiale. Jacques Brel intitolò una canzone
così: “Perché quelli hanno ammazzato Jaurés?”.
La ricordarono già a gennaio, “Perché hanno ammazzato Charlie?” dice: “Erano consumati
a quindici anni, finiti al momento di cominciare… Che vita hanno fatto i nostri nonni, fra
l’assenzio e le messe cantate, quindici ore al giorno al guinzaglio ti fanno un viso di
cenere… Perché hanno ucciso Jaurés?” C’è una certa comprensione: vale anche per la
frustrazione di questi giovani assassini- suicidi fra Bataclan e Siria? Mah. È un po’ razzista
pensare che nonostante tutto non sappiano quello che fanno: innumerevoli loro simili non
lo fanno. L’autore del sopralluogo forse non sa ancora se si limiterà a passare le
informazioni, o se sarà designato ad agire. Nel qual caso, forse, l’entusiasmo per la
promozione paradisiaca è incrinato dal rammarico di non vedere le vittime della sua
azione: quelle pagine di giornale fitte di fotografie di ragazze giovani, luminose, belle,
come lui non avrebbe mai potuto permettersi. Ci si può permettere di ucciderle, e non
saranno più di nessuno, e tanto meno di loro stesse. Eccolo, un bersaglio universale, le
strade di Parigi ne pullulano. E quelle di Roma, e Berlino, e Madrid.
del 18/11/15, pag. 2
Notte di paura: bloccati anche stazione, metrò e una sala da concerto.
La Cancelliera era attesa al match: fermata mentre era in volo
“Bomba allo stadio della Merkel”
L’Is fa tremare la Germania
Evacuato l’impianto “Concreto il rischio di un attentato”. Salta anche
Belgio-Spagna
ANDREA TARQUINI
BERLINO –
È andata bene per un soffio: quattro giorni dopo il massacro di Parigi, i terroristi stavano
per compiere una seconda strage, ancora una volta in un luogo di gioia nel cuore
dell’Europa.
Lo stadio di Hannover, ieri sera: un’ambulanza imbottita d’esplosivo doveva seminarvi la
morte. La partita amichevole Olanda-Germania, cui erano attesi come spettatori
d’eccezione la Cancelliera Angela Merkel, il suo ministro dell’Interno Thomas de Maizière
e due alti esponenti del governo olandese, è stata annullata in corsa. La polizia ha chiesto
al pubblico di lasciare il campo da gioco e andare a casa. Poche ore dopo la decisione di
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Bruxelles, dove veniva alzato l’allarme antiterrorismo a 3 su 4 e le autorità cancellavano la
partita Belgio- Spagna.
«Una vita umana vale più di un match», ha detto il ct belga Marc Wilmots. Poco dopo a
Hannover è arrivato l’invito perentorio del capo della polizia locale, Colker Kluwe, a tutta la
popolazione cittadina: «Vi chiedo di restare nelle vostre case, tutti».
Lo stadio era pieno, tifoserie più calme del solito: dopo l’orrore sul campo a Parigi, niente
voglia di hooligan. Tribune stracolme già un’ora prima, quando è arrivato il primo allarme,
spiega Kluwe in diretta alla tv pubblica. «Era cosa da poco, ma dopo Parigi prendiamo il
minimo segnale sul serio: un individuo sospetto era stato individuato dagli agenti, cercava
di entrare allo stadio con un grande pacco. I miei uomini hanno subito pensato a un carico
d’esplosivo, hanno dato il primo ordine di annullamento del gioco ».
In pochi minuti, centinaia di uomini dei reparti speciali, elemetto, Maschinenpistole Mp-5 in
pugno e indosso giubbotti antiproiettile, sono accorsi arrivando con bus, blindati e coi
grandi, verdi elicotteri francesi Super Puma, quelli coi motori protetti dai missili antiaerei.
Allarme poi rientrato: non si sa se il sospetto sia stato fermato, o se fosse solo un esaltato
scambiato per assassino.
Cessato allarme, tutto indicava che la partita si sarebbe giocata, «la vogliamo in nome
delle vittime di Parigi, mostriamo che la vita continua», dicevano i capitani delle due
formazioni. Quindi la Cancelliera ha dato di nuovo per radio luce verde per venire. Ma
poco dopo è intervenuto il peggio.
«L’indizio era serio, troppo grave», continua Volker Kluwe: «Volevano introdurre nello
stadio un pesante, potente ordigno esplosivo. La sicurezza deve sempre avere la priorità
su ogni altra considerazione, i miei agenti e ufficiali hanno agito bene, hanno preso le
decisioni giuste». Jeep della polizia sono entrate in campo al posto delle squadre. E al
posto del Deutschlandlied e del Wilhelmus, i due inni nazionali, i tifosi atterriti hanno
ascoltato l’ordine dagli altoparlanti: «Signore e signori, cari concittadini, ci spiace ma è
necessario annullare la partita. Per favore mantenete la calma, non c’è nessun pericolo,
uscite con calma e tornate a casa».
Tragedia sventata, hanno detto prima il sito del giornale locale Syker Kreiszeitung, poi un
giornalista tedesco intervistato live dalla Cnn: «Pare che la polizia abbia trovato, o avesse
indizi, di due potenti ordigni, uno destinato allo stadio dov’era attesa Angela Merkel, l’altro
alla Hauptbahnhof, la stazione centrale».
Drammatico susseguirsi di allarmi e voci: se davvero gli assassini volevano entrare nello
stadio con la tipica ambulanza Mercedes tedesca, avrebbero usato un veicolo di tre
tonnellate, con un’enorme capacità di carico. Più tardi il ministro dell’Interno
bassosàssone, Boris Pistorius, cercava di rassicurare: «Non abbiamo trovato esplosivo,
non abbiamo effettuato alcun arresto». Ma non vuol dire che la caccia non continui.
Mentre Pistorius parlava, i suoi agenti evacuavano la grande stazione centrale. Poi
nell’arena vicino allo stadio il concerto rock dei “Soehne Mannheims”, una nota band
multietnica tedesca, veniva confermato. Ma in centro, una jazz session presso la stazione
è stata disdetta in corsa. Angela Merkel è a Berlino, sicuramente nuovi consulti con gli
alleati sono in corso, anche la Germania si sente in guerra.
del 18/11/15, pag. 1/33
I RISCHI dei poteri speciali
L o stato d’urgenza, proclamato dal presidente francese la sera del 13 novembre e
confermato nel suo discorso al Congresso di fronte alle Camere riunite, non è il Patriot Act
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voluto da George W. Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. La
legge americana conteneva misure repressive e inquisitive che l’apparato poliziesco degli
Stati Uniti chiedeva da tempo; e fu l’occasione per la più brusca svolta illiberale del
sistema di sicurezza americano dai primi anni della Guerra fredda. La legislazione
francese sullo stato d’urgenza, invece, conferisce al governo e ai prefetti poteri
eccezionali.
Sono previsti tra l’altro il coprifuoco, l’interdizione di soggiorno, le perquisizioni domiciliari
senza autorizzazione giudiziaria e il coinvolgimento della giustizia militare; ma è un
provvedimento eccezionale destinato a durare, probabilmente, non più di tre mesi e già
adottato per i disordini nelle banlieue parigine durante la presidenza di Jacques Chirac nel
novembre del 2005. È probabile che François Hollande non potesse fare diversamente.
Un presidente scolorito, frequentemente punito dai sondaggi e alla vigilia di importanti
scadenze elettorali doveva rappresentare se stesso al Paese come un uomo forte e
deciso, capace di fare fronte alla minaccia islamista.
Mi chiedo tuttavia se sia altrettanto consapevole dei rischi che si nascondono nella
proclamazione dello stato d’urgenza. L’Isis è certamente il più barbaro e crudele dei
movimenti jihadisti degli ultimi decenni. Ma non è privo di una strategia. La sua principale
esigenza, non meno importante delle armi e del denaro, è il reclutamento. Negli ultimi
quindici mesi, secondo alcuni analisti, avrebbe perduto, insieme a una parte del territorio
conquistato, non meno di 20.000 combattenti, fra cui parecchi ufficiali. Può continuare a
reclutare soltanto se riesce a infiammare l’immaginazione dei suoi giovani «martiri» con lo
spettacolo e la narrazione delle sue gesta più audaci e crudeli. Ha colpito Parigi perché
nella capitale francese esiste il più grande serbatoio europeo di potenziali volontari. Ha
agito spietatamente perché una tale sfida, lanciata al nemico nel suo territorio, suscita
ammirazione in molti giovani che vanno alla ricerca di una causa in cui affogare la rabbia e
le frustrazioni accumulate nei ghetti delle banlieue di Parigi. La proclamazione dello stato
d’urgenza punta il dito inevitabilmente contro le comunità musulmane e i loro quartieri, fa
di ogni maghrebino, in molte circostanze e in alcune ore della giornata, l’individuo sospetto
che sarà legale fermare, interrogare, perquisire, trattenere. Non tutti hanno dimenticato la
caccia all’uomo nelle strade di Parigi il 17 ottobre 1961 quando alcune migliaia di algerini
erano scesi in piazza per protestare contro un decreto del prefetto di polizia che
«sconsigliava» ai francesi musulmani di Algeria (come erano chiamati allora) di circolare
nelle strade di Parigi fra le 20.30 e le 5.30. La violenza con cui furono trattati dalla polizia e
da molti parigini rese la loro indipendenza, un anno dopo, ancora più inevitabile.
La guerra, comunque, si vince soltanto in Siria e in Iraq. L’Isis non è uno Stato, secondo le
regole e le convenzioni dell’Occidente, ma ha un territorio, caserme, banche, uffici
pubblici, e soprattutto sudditi che attendono con ansia la loro liberazione e che diverranno
verosimilmente, il giorno dopo, i migliori alleati dei loro liberatori.
Sergio Romano
Del 18/11/2015, pag. 3
Francia: stato di emergenza e stretta sulle
libertà
Attentati. Hollande pensa anche a una riforma della Costituzione per
istituire un "regime di stato di crisi". I costituzionalisti temono una
deriva liberticida. Clima tesissimo a meno di due settimane dalla Cop21:
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le manifestazioni dovrebbero venire vietate, mentre l'esercito produce
dosi di antidoto agli attacchi chimici
Senza attendere la scadenza dei 12 giorni, come annunciato da François Hollande, già
giovedi’ l’Assemblea nazionale voterà sul prolungamento dello stato d’emergenza per tre
mesi. Il Senato voterà venerdi’. Lo stato d’emergenza sarà modificato per “adattare il suo
contenuto all’evoluzione delle tecnologie e delle minacce”, ha precisato Hollande. In
particolare, saranno facilitate le perquisizioni e i domiciliari extragiudiziari. Stato di
emergenza significa una restrizione delle libertà. La legge, che risale al ’55 e alla guerra
d’Algeria, attribuisce poteri eccezionali alla polizia, prevede la regolamentazione della
circolazione e del soggiorno delle persone, la chiusura di luoghi aperti al pubblico, i Prefetti
possono imporre il copri-fuoco nelle zone di loro competenza, ci possono essere controlli
sulla stampa, le riunioni e le manifestazioni sono sottoposte a limitazioni. Le autorità, per
esempio, la sera degli attentati hanno chiesto alle tv di non trasmettere immagini in diretta,
ma solo in differita, sui luoghi degli attentati. Il clima è sempre più teso, anche per
l’avvicinarsi della Cop21, con 195 delegazioni di paesi del mondo e 120 capi di stato e di
governo presenti all’apertura il 30 novembre. Per dare un’idea, domenica il Journal Officiel
(la Gazzetta ufficiale francese) ha pubblicato un decreto che autorizza l’uso del solfato
d’atropina, antidoto al gas sarin, efficace contro gli attacchi chimici. Sarà la farmacia
dell’esercito a produrlo, in fretta e furia, prima della Cop21. Il governo potrebbe proibire
molte o tutte le manifestazioni previste dalle ong.
Hollande ha anche evocato una riforma della Costituzione. L’opposizione è fredda, per
ragioni tattiche, poiché è stata spiazzata dall’incursione del presidente socialista sul suo
stesso terreno. Non è quindi certo che Hollande potrà far passare questa riforma, che
richiede un voto al Congresso (Assemblea più Senato) ai tre quinti (e prevede anche la
possibilità di un referendum popolare), anche se ieri Nicolas Sarkozy e altri papaveri della
destra erano più possibilisti rispetto al capogruppo Christian Jacob, che la vigilia si era
interrogato sulla necessità di questa riforma, visto che le leggi già esistono (e basterebbe
applicarle, secondo lui, contrariamente a quello che fa il governo, considerato lassista). La
riforma mira a stabilire un “regime civile di stato di crisi”, che sia una via di mezzo tra stato
d’emergenza e stato d’assedio, regolati dagli articoli 16 e 36. Il governo ha già studiato
i contenuti di questa riforma, che riprenderebbe delle proposte fatte dal Comitato
presieduto dall’ex primo ministro di destra Eduard Balladur nel 2007. Ma giuristi
e costituzionalisti sono molto prudenti e critici. L’avvocato Henri Leclerc, presidente
onorario della Lega dei diritti dell’uomo, si chiede: “ci attaccano per le nostre libertà, per il
nostro modo di vita. Che senso ha riformare la Costituzione?”. Per l’avvocato “bisogna fare
leggi d’eccezione nell’emozione?”. Bastien François, consigliere regionale di Europa
Ecologia in Ile-de-France, è ancora più drastico e denuncia un progetto di riforma
costituzionale che mira a “definire un regime in deroga ai diritti fondamentali per lottare
contro il terrorismo”. Questa riforma potrebbe venire utilizzata da un prossimo governo per
un giro di vite sulle libertà, se si verificherà una svolta a destra, come annunciano
i sondaggi per il 2017.
Hollande vorrebbe “costituzionalizzare” delle “punizioni” eccezionali per i terroristi: la
perdita della nazionalità francese per i bi-nazionali condannati e l’istituzione di un “visto di
ritorno” per i francesi coinvolti in atti di terrorismo all’estero, in partica una proibizione
a tornare in patria. Sulla perdita della nazionalità c’è la limitazione della regola Onu che
vieta di creare degli apolidi. Sul “visto di ritorno” c’è la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, che stabilisce che “nessuno puo’ essere privato del diritto di tornare sul
territorio dello stato di appartenenza”. Poco per volta, si scivola verso un sistema di
limitazione delle libertà. Il governo, per esempio, ha studia la proposta della destra di
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“internamento” o di “braccialetto elettronico” per individui schedati “S”, cioè considerati
pericolosi, senza pero’ che abbiano ancora commesso nessun reato grave.
del 18/11/15, pag. 6
Parigi, ingressi in metrò calati del 38% e tante
camere libere negli hotel Tutti cercano una voce
rassicurante per ritrovare un po’ di normalità Nervi tesi Basta uno zaino
gettato per terra per far girare di scatto tutti i viaggiatori nel vagone
«Posso uscire di casa per fare la spesa?» Gli psicologi in linea al
centralino del Comune
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI «Buongiorno signorina, dalla mia finestra vedo dei soldati in strada. Secondo lei
posso uscire a fare la spesa?». Anne Clichot risponde con voce rassicurante, ma certo
signora, non c’è nessun pericolo. Quando riattacca si toglie le cuffie, stacca la spina della
sua cabina per qualche istante e guarda fisso l’interlocutore. «Ne siamo davvero certi?».
Il 3975 non è soltanto un numero utile, ma una istituzione, una specie di vecchio amico del
quale essere orgogliosi. I parigini lo chiamano per qualunque esigenza, dagli orari di un
ufficio amministrativo ai giorni di mercato fino agli indirizzi dei locali notturni. I suoi uffici
sono al pianterreno dell’Hotel de Ville e in un palazzo dall’altra parte della Senna dove si
trova la sede operativa nella quale lavorano 420 centralinisti. «È cominciata sabato
mattina, al risveglio dopo la strage». Chiamavano tutti, in cerca di una voce rassicurante,
che dicesse va tutto bene, è stato terribile ma ora è finita. Allora il direttore Vincent Morel
ha chiesto al Comune, dal quale dipende il servizio, di mettere all’ascolto una ventina di
psicologi, che trovassero loro le parole giuste, quelle che le ragazze a contratto part time
che si danno il turno ogni sei ore non sono in grado di trovare.
La vita continua, si dice sempre così dopo ogni disastro. Ma ricominciare davvero è cosa
diversa da un luogo comune buono per tutte le occasioni, in un Paese dove il presidente si
dichiara in guerra, per tre mesi si vivrà in stato d’emergenza e dove le autorità avvisano
che succederà ancora. La domanda più frequente che rimbalza dal centralino del 3975
non riguarda il quando, ma il dove. «A gennaio non fu così» dice Anne. «Non cambiò nulla
nella nostra routine». La strage di Charlie Hebdo e all’Hypercacher furono vissute come un
episodio circolare, aperto e chiuso nel giro di due giorni. Adesso è tutto diverso, è come se
il tradizionale orgoglio dei parigini fosse minato dalla perdita di ogni certezza.
Alla fermata di Chemin Vert la metropolitana sta per ripartire. Le porte sono quasi richiuse
quando un uomo in jeans e giaccone entra con il fiatone dopo la corsa sulla banchina. Le
persone sedute lo guardano per un istante e si rimettono a compulsare i loro telefonini.
Alcuni studenti stanno in piedi. L’uomo sospira e getta a terra il suo zaino. Il rumore è
metallico. Quasi tutti passeggeri nel vagone si girano di colpo. «Scusate, il computer...».
La stazione di Chatelet è il più grande snodo parigino, dove si incrociano i treni a lunga
percorrenza e le linee urbane, un labirinto sotterraneo simile a un formicaio, sempre
percorso da una folla che va di fretta in ogni possibile direzione. «Atmosfera lugubre» dice
dal suo gabbiotto Yves, l’addetto alle informazioni. «Dicono che bisogna sopportare il male
con pazienza. Speriamo che abbiano ragione».
La paura che scorre sotto una patina di calma apparente si legge anche nei numeri.
Lunedì, primo giorno feriale dopo la strage, gli ingressi in metropolitana sono diminuiti del
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38 per cento. Nel pomeriggio non c’è stato il consueto traffico di genitori che dal centro
portano i bambini verso le loro attività nei campi e nelle palestre della periferia. Al Puc, il
centro sportivo della città universitaria accanto allo stadio di Charlety, le luci erano spente.
Su dodici campi da tennis ce n’era uno solo occupato. La pista di atletica era vuota.
«Bisogna imparare a convivere con la paura» ripetono come un mantra gli psicologi del
3975.
Quando il fulmine cade due volte nello stesso punto, nella stessa città, le parole hanno
bisogno di fatti che al momento nessuno è in grado di produrre. Parigi sta vivendo una
precarietà che mai aveva affrontato nella sua storia recente. I primi a respirarla sono i
turisti, che da sempre fungono da canarino nella miniera. Nella notte di sabato la
percentuale di camere occupate negli hotel cittadini è scesa del 21 per cento. Domenica,
giù di un altro 23% nonostante l’associazione degli albergatori avesse cercato di mettere
un tappo abbassando le tariffe di almeno un quinto rispetto ai prezzi normali. Alle 13.55
Anne ha quasi finito il suo turno, ancora cinque minuti e uscirà per prendere la metrò,
diretta all’università di Nanterre, dove studia.
Arriva l’ultima chiamata. «Un giorno torneremo a sentirci davvero sicuri?». È una risposta
che nessuno può dare. Neppure uno psicologo.
Marco Imarisio
del 18/11/15, pag. 4
Dieci mesi fa, dopo l’attacco a Charlie Hebdo, le piazze si riempirono.
Oggi l’atmosfera non è più quella. In mezzo, la crisi dei migranti, uno
degli eventi più traumatizzanti per il continente che ne è uscito spaccato
e cambiato
Sul dolore dell’Europa l’ombra lunga
dell’emergenza profughi
BERNARDO VALLI
PARIGI
François Hollande ha chiesto ieri la solidarietà a un’Europa fredda, incupita, che non è più
quella generosa, aperta di gennaio. Federica Mogherini, l’Alta rappresentante per la
politica estera, ha annunciato che la richiesta francese è stata accolta all’unanimità. Ma la
generosa dichiarazione assomiglia, almeno per ora, a un’auspicio, a un gesto politico, più
che a una decisione concreta riguardante un aiuto militare. Tutto questo corrisponde agli
umori. Allora, dieci mesi fa, le piazze si riempirono spontaneamente in grandi e piccole
città del continente. E lo slogan dominante era “Je suis Charlie”. L’assassinio dei redattori
del giornale satirico, colpevole di avere pubblicato caricature di Maometto, e dei clienti di
un negozio kosher alla Porte de Vincennes, non aveva acceso o accresciuto l’ostilità
all’immigrazione e in particolare a quella araba che ne è la principale componente. Va
ricordato che nella Baviera conservatrice, Horst Seehofer, presidente della Csu, invitava il
movimento islamofobo Pegida a rinunciare a una dimostrazione che sarebbe stata, a suo
avviso, inopportuna. Dopo il massacro di venerdì 13 novembre lo stesso Seehofer ha
assunto un altro atteggiamento. Ha dichiarato che bisogna intensificare il controlo delle
frontiere europee per ristabilire la legge e l’ordine. E un’altra autorità bavarese, il ministro
delle finanze, Markus Soeder, pure lui del partito cristiano sociale, ha insistito affermando
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che la strage di Parigi «cambiava tutto» ed era il momento di porre fine a un’immigrazione
incontrollata.
Tra la strage di gennaio e quella più grave di novembre l’Europa ha conosciuto l’ondata di
profughi proveniente in larga parte dalla Siria. Secondo l’Alto commissariato per i rifugiati
820.318 migranti hanno attraversato il Mediterraneo nel 2015. Se si addizionano i profughi
degli anni precedenti, il loro arrivo è uno degli avvenimenti più importanti e traumatizzanti
del secolo. Ha suscitato solidarietà e avversione, dividendo in generale il continente tra il
Sud-Ovest non del tutto restio all’accoglienza e il Centro-Nord invece apertamente ostile,
in difesa dell’identità nazionale restaurata dalle rovine della guerra e del comunismo.
La strage parigina ha suscitato emozione, espressioni di sincero cordoglio, messaggi di
sostegno, telegrammi, preghiere e fiori, e c’è stata la generosa dichiarazione di Federica
Mogherini. Ma quella tragedia ha soprattutto accresciuto, ingigantito l’inquietudine per
quell’ondata di migranti arabi che ancora si sta riversando in Europa. L’appello di François
Hollande alla solidarietà per la Francia ferita e impegnata in una guerra ha ricevuto
risposte amichevoli, annunci di disponibilità formale, messaggi di sincero dolore per le
vittime. Ma la parola “guerra” , evocata da decenni nell’ Europa pacifica soltanto per
ricordare tenzoni armate in corso alle porte, o lontane, o remote, non ha avuto
un’accoglienza adeguata al suo significato. Guerra è sacrificio, strazio, morte, rinuncia,
devastazione, irrazionalità, sciupio, odio…. Tutti aspetti deplorevoli, sciagurati della vita
civile di cui il Vecchio continente ha avuto una esperienza millenaria. Pensava di averla
esorcizzata almeno nel cuore del suo territorio. Ed ora uno spezzone di quella eterna
sciagura si è abbattuto proprio nel centro dell’Europa.
È uno scandalo insanguinato. Angela Merkel non vuole essere, scrive Spiegel, una
cancelliera di guerra, anche se la sua Germania fornisce mezzi logistici e addestratori alle
forze armate francesi impegnate nell’Africa occidentale, e arma i combattenti curdi in Iraq.
E compie ormai da tempo missioni militari in varie parti del mondo. Neppure Cameron, il
primo ministro britannico, pur disponendo il suo paese del più attrezzato esercito
occidentale, dopo quello degli Stati Uniti, è ansioso di partecipare alla guerra che non è
soltanto francese. Senza contare Matteo Renzi che «non vuole spaventare gli italiani». La
guerra giusta, quella in difesa di valori, sembra non avere più alcun valore.
Invece di esprimere il desiderio di schierarsi a fianco di un alleato ferito, i governi europei
hanno visto nella tragedia francese un ulteriore motivo per frenare l’arrivo dei migranti,
ritenendo che tra di loro sia annidato il terrorismo, anche se per ora non c’è nulla che lo
provi. Il più esplicito nesso tra il venerdì di sangue parigino e l’ immigrazione araba è stato
sottolineato in Polonia dove il partito di destra, Legge e Giustizia (PiS), ha vinto, anzi
trionfato, in ottobre. Sabato, 14 novembre, poche ore dopo i più di ottanta morti del
Bataclan parigino, il ministro polacco degli affari europei, Konrad Szymanski, ha detto che
dopo gli attacchi in Francia era escluso di poter distribuire i migranti secondo le quote
stabilite. La Polonia avrebbe mantenuto l’assoluto controllo delle sue frontiere. Nella
Repubblica ceca il passaporto siriano trovato a Parigi sul cadavere di un terrorista, che si
suppone fosse entrato in Europa come profugo, è servito al presidente Milos Zeman per
esternare la sua profonda preoccupazione. A suo avviso gli arabi in arrivo potrebbero
applicare la Sharia e lapidare le donne infedeli. Sempre dopo quel era accaduto sulla rive
della Senna, il presidente slovacco, Robert Fico, ha sottolineato trionfante che lui aveva
avvertito gli altri europei sui rischi di aprire le porte agli immigrati arabi. Dall’Europa del
Centro-Nord sono partite pesanti accuse alla Cancelliera tedesca che in settembre aveva
aperto le braccia ai profughi. Il suo governo è stato accusato di nazismo perché
rovesciava nei paesi vicini ondate di arabi, come i suoi predecessori mandavano le SS.
Nella stessa Germania Angela Merkel è contestata dai compagni di partito e di governo
per la sua disponibilità ad accogliere ottocentomila profughi. E la sua posizione alla testa
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della cancelleria federale non è più tanto sicura per la donna che fino a qualche mese fa
era “la più potente del mondo”.Il massacro a Parigi ha aumentato anche nel suo paese
l’avversione per gli immigrati.
La solidarietà per la Francia ferita è senz’altro sentita; la solidarietà per la Francia in
guerra resta vaga, malgrado le dichiarazioni. Hollande l’ha forse chiesta sul piano
simbolico.
Ha sollecitato un’assistenza non un’alleanza impegnativa. Ha formulato l’appello, lunedì al
Congresso di Versailles, riferendosi al Trattato di Lisbona, il quale prevede la solidarietà
europea in caso di aggressione di uno dei paesi membri dell’Unione. E Federica Mogherini
ha detto che gli è stata accordata. La clausola era stata dimenticata a Bruxelles, anche se
Parigi assicura di avere informato in anticipo che il presidente francese l’avrebbe evocata.
L’Europa non è del tutto sprovveduta sul piano militare, l’Eurocorpo, cui partecipano
cinque membri permanenti e quattro associati (tra i quali l’Italia), può teoricamente
mobilitare sessantamila umini, e ha già partecipato a varie missioni. La Francia
concorderà comunque con i singoli paesi il sostegno che gli sembrerà utile. Hollande
avrebbe potuto rivolgersi per un aiuto più concreto alla Nato (della quale sono membri
ventidue paesi dell’ Unione europea) e che ha l’obbligo (articolo 5) di fornire un aiuto
armato a un paese membro aggredito. Ma l’intervento Nato, già rodato in Afghanistan,
rischierebbe di urtare Vladimir Putin sul quale si punta come alleato nella guerra al
Califfato (o Daesh). L’appello del presidente francese ha messo in evidenza quanto sia
burocratica e disarticolata l’unità europea.
Del 18/11/2015, pag. 1-15
Strategia del caos made in Usa
Guerra e media. La strategia è disseminare i territori da conquistare di
focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la
guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a
livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua
profonda antidemocraticità. Ma qualcosa ormai è sfuggita di mano
Usciamo da una total immersion mediatica nei fatti di Parigi e la prima impressione non
è buona: un misto tra retorica, buoni sentimenti, privato delle vittime, ma anche un appello
ai nostri istinti peggiori. Hollande chiama l’Europa ad una guerra di religione. L’immagine
del mussulmano sanguinario svolge oggi nell’immaginario collettivo europeo lo stesso
ruolo che ai tempi del fascismo era interpretato dall’Ebreo. Dall’antisemitismo
all’antislamismo in nome dei valori della cultura occidentale: democrazia, libertà, giustizia.
Ed intanto questi stessi valori sono già sacrificati sull’altare della sicurezza.
Per la prima volta nella sua storia la Francia sospende per tre mesi libertà essenziali in
nome di quello stato di eccezione che la guerra porta con sé. Siamo in guerra e ne siamo
le vittime. Perché l’attacco di Parigi viene percepito da tutti come una provocazione
dell’Islam nei nostri confronti, non come una risposta ai bombardamenti francesi in Siria?
I media non fanno che rafforzare nell’opinione pubblica la sindrome della vittima
innocente, perché ci hanno sistematicamente taciuto le premesse che ci hanno portato sin
qui. Oppure se ne hanno parlato, sterilizzandone però le conseguenze reali.
La prima guerra del Golfo è stata un puro videogioco, con quei bombardamenti scientifici
e coreografici capaci di schivare rigorosamente i civili per colpire unicamente
i collaboratori del barbaro dittatore. I droni di Obama, sono oggi capaci di uccidere
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selettivamente i terroristi identificandoli all’interno della popolazione civile. Ed infine chi
potrebbe condannare il bombardamento giusto e sacrosanto di quegli incivili dell’Isis che
sgozzano il nemico, riducono in schiavitù le donne ed applicano la Sharia sfortunatamente
grazie ai finanziamenti dell’Occidente e dei suoi alleati? La Fallaci aveva previsto tutto,
finanziamenti occidentali a parte.
Comunque vogliamo valutare lo stato delle cose in atto, siamo di fronte ad una tragedia,
un evento epocale come quell’11 settembre, che ha cambiato definitivamente la nostra
percezione delle cose, traghettando il nostro immaginario dall’edonismo tardo reaganiano
del consumismo, all’economia di guerra e di crisi di oggi. Una frattura profonda nella
nostra percezione della realtà, il passaggio dall’ambiente amichevole dell’emporio alla
paranoia dell’insicurezza permanente.
Un evento così meritava rispetto, inchieste rigorose, ricerche delle cause. Invece, almeno
in televisione ha prevalso un genere consolidato di successo: la mozione degli affetti, la
cronaca come spettacolo atto a colpire la pancia e non la testa degli spettatori. La cosa
peggiore non sono stati i talk show, ma i telegiornali. Un talk show fa il suo mestiere per
raccogliere audience. E poco importa se al delitto di Cogne si sostituisce la strage di
Parigi. Dai telegiornali ci aspettiamo sobrietà ed informazione. Ed abbiamo assistito invece
alla generale “talkshowzizzazione” dei telegiornali, tutti tesi a drammatizzare
emotivamente gli eventi. I truci terroristi contro la vittima italiana, volontaria di Emergency,
con alle spalle una storia esemplare di impegno personale. Tutto vero, ma marginale
rispetto alla domanda fondamentale: perché è successo tutto questo? Pensavamo che
i giornali potessero fare di più.
Leggiamo (ieri) sul manifesto un articolo di Balibar, che, per quelli della mia generazione
rappresenta un punto di riferimento. Una testimonianza che non chiarisce. E’ un appello ai
buoni sentimenti, non cedere all’odio, preservare la nostra libertà. Balibar sostiene che il
male di oggi affonda le sue radici lontano, dagli imperi coloniali in poi. Non si coglie il
punto inedito: la guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché
affonda le sue radici nel caos.
Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non
è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. E’ una ben precisa
strategia bellica. Pensiamo ai “teocon” e alle loro pretese di instaurare un secolo
americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq,
è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam.
Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos.
Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la
resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della
tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda
antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in
nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele
dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione
di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella
salvaguardia dei diritti umani.
Tutto questo era moralmente accettabile perché giustificato da ideali e da principi.
E perché avveniva altrove. Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un
mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un
mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati
antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche,
gas, petrolio, altre materie prime. E’ normale schiacciare il bottone che ci permette di
annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili
valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi.
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Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa
affermazione di Hillary Clinton: «l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano».
Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di
sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si
applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci
travolga?
del 18/11/15, pag. 6
Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e la
sicurezza: “Stiamo dimostrando come l’Europa della Difesa è qualcosa
che possiamo usare”
Aerei, truppe e mezzi così l’Unione europea si
prepara ad aiutare Parigi “I Trattati lo
impongono”
ANDREA BONANNI
BRUXELLES..
La Ue ha fatto scattare ieri il meccanismo di assistenza militare per aiutare Parigi nella
guerra al terrorismo. «Oggi la Francia ha chiesto aiuto e assistenza alla Ue e la Ue tutta
unita ha risposto sì», ha riferito l’Alto rappresentante europeo per la politica estera e di
sicurezza, Federica Mogherini. Era stato il presidente francese Francois Hollande, di
fronte alle Camere riunite dopo le stragi di venerdì, a dichiarare che la Francia si trova «in
guerra» e a invocare l’articolo 42.7 dei Trattati Ue, che prevede, in caso di attacco armato
sul territorio di uno stato membro, che gli altri Paesi dell’Unione gli prestino assitenza «con
ogni mezzo possibile ». Ieri il ministro francese della Difesa, Jean-Yves Le Drian, ha
ripetuto la richiesta di fronte ai colleghi riuniti per un vertice d’emergenza a Bruxelles. La
richiesta ha ottenuto un’approvazione unanime.
E’ la prima volta che questa norma dei Trattati viene evocata. Dopo l’11 settembre, con
una mossa analoga, gli Stati Uniti avevano fatto ricorso all’articolo 5 della Nato chiedendo
e ottenendo la solidarietà degli alleati atlantici. Sembrava un gesto formale. Ma dopo
qualche mese la Nato è intervenuta in Afghanistan.
Anche l’Unione europea, come ha ricordato ieri Mogherini, dispone di una struttura di
cooperazione militare, sia pure meno collaudata di quella della Nato. «Il messaggio dei
ministri è stato un atto politico e dimostra come l’Europa della Difesa è qualcosa che
possiamo usare », ha spiegato l’Alto rappresentante. La politica di sicurezza e difesa della
Ue è gestita da un organismo intergovernativo, il Cops, Comitato politico e di sicurezza,
composto da ambasciatori permanenti dei ventotto Stati membri, presieduto da Mogherini
e coadiuvato da una non trascurabile struttura di coordinamento militare.
Tuttavia, nel caso della richiesta francese, non sarà almeno per ora il Cops a gestire
direttamente le operazioni militari. Dopo aver ricevuto l’impegno alla solidarietà da parte di
tutti gli Stati membri, sarà la stessa Francia, tramite contatti bilaterali, a raccogliere le
disponibilità dei vari governi e ad avanzare a ciascuno le richieste di aiuto che riterrà
necessarie. «Il nostro è stato innanzitutto un atto politico, che non ha precedenti nella
storia europea», ha spiegato il ministro Le Drian, aggiungendo però che chiederà agli
alleati di «condividere il fardello» dello sforzo militare «perchè la Francia non può fare tutto
da sola in Iraq, in Siria, nel Sahel, in Libano e garantire anche la propria sicurezza sul
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territorio nazionale». «Vogliamo chiedere ai nostri partner, nella misura delle loro capacità,
aiuto nella lotta contro Daesh in Iraq e in Siria e una maggiore partecipazione militare ai
teatri di operazione dove la Francia è già impegnata». E’ dunque probabile che le prime
domande riguarderanno sia la fornitura di supporto logistico nella guerra contro l’Is (il
ministro ha parlato di «aerei da trasporto, armi e rifornimenti»), sia la sostituzione, almeno
in parte, dell’esercito francese che oggi è impegnato in missioni europee in Mali,
Repubblica Centrafricana e Libano. Non è escluso che Parigi speri anche di ottenere la
collaborazione britannica nelle azioni di bombardamento in Siria, ipotesi finora bocciata dal
parlamento di Londra.
Tutti i Paesi europei, naturalmente, per ora conservano il diritto a rispettare i limiti che si
sono posti nel loro intervento sul teatro di guerra siriano. Ma questo non significa che la
solidarietà offerta sarà solo formale. «Escludo un intervento in Si- ria, mentre ci sarà un
rafforzamento della nostra missione in Iraq: porteremo il contingente da 500 a 750 militari.
Abbiamo assicurato alla Francia la massima disponibilità. Ma sul piano militare l’Italia fa
già molto, perchè siamo tra i primi contingenti in Iraq per la lotta all’Isis », ha spiegato il
ministro italiano della Difesa, Roberta Pinotti.
«Faremo tutto quello che è in nostro potere per dare aiuto. La Francia ha ragione sul fatto
che la lotta contro lo stato islamico e il terrorismo non è limitata alla Siria, ma si estende
fino all’Africa sub-sahariana», ha spiegato la ministra della Difesa tedesca, Ursula von der
Leyen, lasciando intendere che Berlino potrebbe sobbarcarsi parte dell’onere delle
missioni europee in Mali e Repubblica centrafricana.
Le richieste di aiuto e di assistenza da parte di Parigi non si fermano comunque al piano
militare. I francesi avanzeranno richieste anche su intelligence, sicurezza e sorveglianza
web. Il tema trattato venerdì nella riunione straordinaria dei ministri dell’Interno della Ue.
del 18/11/15, pag. 8
Il presidente parla al Paese e dice che Mosca è in guerra insieme alla
Francia. Pioggia di fuoco sulla capitale del Califfato. Conferma
sull’attentato all’Airbus con 224 vittime: “Ordigno a bordo tra i bagagli”
“Uniti come contro Hitler” Bombe e missili
dal mare è alleanza Putin-Hollande
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA
LA Russia è entrata ufficialmente in guerra ieri mattina «al fianco dell’alleato francese» e
in attesa di eventuali nuove adesioni sul fronte occidentale. «Uniti contro il terrorismo
come accadde contro Hitler, nonostante tutte le nostre divergenze», dice il Cremlino
tagliando corto sulle sottigliezze diplomatiche e lasciando la parola alle armi. Bombardieri
a lungo raggio, partiti da basi russe, tempestano Raqqa e Deir Ezzor, roccaforti siriane del
Califfato, mentre missili da crociera lanciati dai sottomarini di Mosca nel Mediterraneo
coprono, tra Aleppo e Idlib, la prima avanzata dell’esercito di Assad, rinvigorito e protetto
dai fidati alleati, che comincia a strappare posizioni preziose alle milizie jiahdiste. Per la
prima volta in simultanea gli attacchi sono stati seguiti da quelli dei caccia Dassault Rafale
e Mirage francesi partiti dalle basi giordane e degli emirati arabi. Ed è Putin in persona a
ordinare ai capi della Marina e dell’Aviazione di «comportarsi da alleati leali e collaborativi
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con i colleghi francesi ». Dalla tolda dell’incrociatore lanciamissili “Moskva”, ammiraglia
della Flotta russa nel Mar Nero, alla fonda davanti alla base di Tartus, partono già
informazioni e suggerimenti rivolti alla portaerei francese “Charles de Gaulle” in arrivo in
zona di combattimenti.
Gli stessi Putin e Hollande, in una intensa telefonata di più di mezz’ora, si sono scambiati
proposte e considerazioni strategiche in attesa di vedersi presto, a Mosca, il 26 novembre.
Si è parlato poco di politica e molto di azioni militari in questa insolita alleanza naturale tra
due nazioni ugualmente colpite dal terrorismo dell’Is. E non è un particolare da poco.
Nell’ansia legalista della Russia di Putin, l’escalation congiunta di Mosca e Parigi trova
infatti la sua legittimità nell’articolo 51 dello statuto Onu che sancisce il “diritto di uno Stato
all’autodifesa”. Con tempismo, forse ben studiato, Mosca ha infatti ufficializzato proprio ieri
quello che tutti sapevano da tempo: la strage dell’aereo delle vacanze, l’Airbus esploso in
volo con tutti i suoi 224 passeggeri il 31 ottobre scorso sui cieli del Sinai, è stato un
attacco deliberato alla Russia, programmato e messo in atto dal Califfato due settimane
prima dei massacri che hanno sconvolto Parigi. Tra i bagagli dei turisti russi di ritorno a
San Pietroburgo qualcuno, forse con la complicità del personale egiziano dello scalo di
Sharm el Sheikh, ha messo una bomba artigianale di oltre un chilo di esplosivo.
La scontatissima “rivelazione” dei servizi segreti ha scatenato Putin secondo uno schema
tristemente collaudato: «Non asciugheremo mai le nostre lacrime ma questo non ci
impedirà di trovare i criminali. Li cercheremo dappertutto, ovunque si nascondano, li
troveremo e li puniremo ». Parole durissime, appena più trattenute rispetto a quelle
storiche pronunziate nel 1999 dopo le bombe cecene in due condomini di Mosca: «Li
troveremo anche dentro ai loro cessi». Ma il senso e la rabbia erano quelli. Non a caso,
quella antica espressione è stata subito scelta, come fosse stata detta ieri, da migliaia di
frequentatori di Internet per urlare la propria indignazione e il loro slancio patriottico a
favore della nuova offensiva russa in Siria. Un modo per esorcizzare la paura di altri
attentati che intanto dilaga insieme alle notizie che arrivano dalla Siria. Paura invisibile ma
evidente. Sui portoni di molte case la polizia ha affisso foto segnaletiche di inquietanti
personaggi con preghiera di «avvisare immediatamente in caso di avvistamento». Alla
Duma si parla di chiudere i voli civili con l’Europa, la Turchia e la Tunisia. Qualcuno
propone di reintrodurre il sovietico “visto d’uscita”, con controlli personali e familiari per
ogni cittadino che volesse recarsi all’estero. Agenzie di viaggi, ma anche negozi del
centro, parchi, sale da concerti, registrano un brusco calo di presenze. Su un sito molto
popolare si possono leggere i «consigli dei migliori esperti antiterrorismo». Dicono di non
«dare mai le spalle alla folla», di «controllare personalmente che le uscite di sicurezza
funzionino prima di sedersi in un cinema», «stazionare il meno possibile in luoghi
frequentati da troppe persone», «segnalare alla polizia ogni persona o episodio sospetti».
Ma a giustificare le paure ci pensa la guerra stessa. Le azioni di Aviazione e Marina russa,
«impegnate nella lotta al terrorismo » riempiono nuovamente i telegiornali. L’utilizzo dei
bombardieri a lungo raggio sarebbe stato devastante. I Tupolev 22 M3 avrebbero
effettuato in un solo giorno 127 missioni su 206 obiettivi controllati dallo stato islamico
distruggendo, secondo il ministero della Difesa, 140 strutture, 10 depositi di armi e quattro
centri di comando. Cifre asettiche, come sempre nei bollettini di guerra. All’Onu e presso
l’organizzazione Human Rights Watch si parla di centri medici bombardati e di molte
vittime civili. Con risposte indignate dell’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Safronkov
contro la «politicizzazione dei diritti umani». La guerra, quella vera, è cominciata; la pietà
per i civili, rimandata ad altre occasioni.
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Del 18/11/2015, pag. 4
Mosca: «Noi alleati con Parigi»
Russia. Putin annuncia l’impiego di 25 bombardieri a lungo raggio e il
raddoppio dei raid aerei contro l’Isis, «in coordinamento con l’esercito
francese» e chiama alla «coalizione come contro Hitler»
Solo un anno fa, novembre 2014, il presidente russo Vladimir Putin abbandonava il G20 di
Brisbane, in Australia, a seguito delle polemiche scaturite dalla crisi ucraina. Chi non lo
evitava pubblicamente, lo redarguiva in tono minaccioso.
Putin era descritto alla stregua di un bulletto, capace di «invadere» l’Ucraina facendo il
bello e il cattivo tempo nella sua area geografica di pertinenza. Tutti — inoltre —
confermavano le sanzioni contro Mosca, anzi ne venivano richieste di altre, di più forti, di
più traumatiche. Tutti erano concordi sul fatto che alla Russia fosse necessaria una
lezione internazionale: isolamento, boicottaggio e punizione.
Il tutto per ottenere l’Ucraina, nuovo territorio nel mondo occidentale, perfino andando
contro gli interessi di molti paesi uniti nel fronte anti Putin, Italia compresa e non a caso
accusata a vario titolo nel consesso internazionale di essere eccessivamente cauta nei
confronti di chi, in occasione dell’omicidio dell’oppositore Nemtsov, venne definito da molti
media come «il nuovo Hitler».
E che di nuovi Hitler ne nascano un tanto al chilo di questi tempi, l’ha dimostrato proprio
Putin, che ieri ha chiamato alla coalizione armata contro l’Isis, come si fece proprio
«contro Hitler».
Questa affermazione ci concede di comprendere quante cose sono cambiate in un anno. I
recenti attacchi parigini hanno ancora di più sottolineato una cosa: anche se a malincuore,
con un Obama distratto, l’Europa ha bisogna di Putin. E l’uomo di Mosca è
sufficientemente scaltro e muscolare da apparire come un gigante (da un punto di vista
strategico e di calcolo politico) rispetto a un’Europa divisa, incerta e come al solito in balia
degli eventi, sempre necessariamente alla ricerca di qualcuno sotto cui rifugiare i propri
istinti più biechi.
La Francia, grande protagonista guerrafondaia di questi ultimi tempi (Siria, Mali, Libia,
tanto per citare alcuni esempi) ha chiamato all’alleanza europea. E Putin ha risposto
subito presente. Mosca rafforza il proprio potenziale offensivo, si coordina «da alleato»
con i francesi in Siria — una cosa inimmaginabile solo qualche mese fa, a conferma della
volubilità delle alleanze del mondo multipolare e della inesattezza di chi ancora ragiona
con schemi ormai antiquati, e puntella la propria posizione in ambito internazionale. Putin
era un reietto oggi è l’ago della bilancia, l’unico che può sostenere la guida di una
coalizione anti Isis ben consapevole che qualsiasi sarà il futuro di Assad, sulla Siria la
Russia dovrà avere l’ultima parola.
Ed è scontato che i suoi nuovi «alleati» lo sappiano. Non è un caso dunque che l’aumento
del potenziale offensivo russo contro l’Isis arrivi nel giorno della richiesta francese e nel
giorno in cui Mosca ufficializza che l’aereo abbattuto nel Sinai (un Airbus 321, 224 morti,
quasi tutti turisti russi di ritorno da Sharm) è caduto a seguito di un attentato terroristico.
I servizi segreti russi confermerebbero questa ipotesi, già alimentata da una
rivendicazione dell’Isis e da varie indiscrezioni. Aleksandr Bornikov, il capo dei servizi
segreti (Fsb), aveva comunicato a Putin i risultati delle indagini: «sui resti dell’aereo sono
state trovate tracce di esplosivo prodotto all’estero, è stata una bomba artigianale
equivalente ad un chilo di tritolo esplosa in volo, e questo spiega perché i frammenti della
fusoliera sono stati ritrovati in un’area così vasta».
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Una conclusione che provoca due reazioni: in primo luogo quella stizzita egiziana, che
vede quindi confermata la mancata sicurezza del proprio territorio. In secondo luogo la
notizia mette Putin sullo stesso piano di Hollande: colpito dal terrorismo e desideroso di
vendetta. Ed ecco la risposta militare: Russia e Francia hanno concordato la cooperazione
navale e il coordinamento tra le intelligence in attesa dell’incontro tra i due presidente il 26
novembre al Cremlino.
Il rafforzamento dell’offensiva militare (benché Mosca abbia specificato che non ci saranno
truppe di terra, ad ora) prevede per la prima volta i cacciabombardieri strategici e la
promessa di dare la caccia ai responsabili degli attentati, anche con una taglia da 50
milioni di dollari e un appello alla comunità internazionale.
«Li cercheremo dappertutto, ovunque si nascondano. Li troveremo in qualsiasi angolo del
pianeta e li puniremo», ha spiegato Putin, dopo aver ordinato di aumentare l’intensità dei
raid: «non solo devono continuare ma devono essere intensificati in modo che i criminali
capiscano che la punizione è inevitabile».
Del 18/11/2015, pag. 7
Così nasce la grande offensiva anti-Califfato
Bombardamenti francesi e russi su Raqqa, raid americani contro i
traffici di petrolio, appoggio ai Peshmerga a Sinjar La nuova coalizione
anti-islamisti si delinea anche sul terreno. Le divisioni su Assad e curdi
possono ancora frenarla?
Maurizio Molinari
Missili russi su Aleppo, jet francesi su Raqqa e A-10 americani contro Deir al-Zour: le due
coalizioni che combattono lo Stato Islamico (Isis) intensificano gli attacchi dall’aria mentre,
sul terreno, truppe siriane-iraniane si battono nella provincia di Idilib e unità peshmerga
presidiano la riconquistata Sinjar. Le operazioni belliche in Siria e Iraq vanno anche oltre
Isis, coinvolgono altre potenze regionali, con dimensioni tali da far parlare il re giordano
Abdallah di «Terza Guerra mondiale».
RUSSIA
Negli ultimi 48 giorni i Sukhoi russi di base a Larnaka hanno effettuato 2300 missioni.
Colpiscono nell’area di Damasco tutti i ribelli anti-Assad, nell’Ovest i jihadisti di Al Nusra,
affiliata ad Al Qaeda, e nel Nord i ribelli sostenuti da Turchia, Qatar ed Arabia Saudita. Isis
ne ha tratto vantaggio, guadagnando posizioni fra Aleppo, Homs e Hama. La reazione
russa è arrivata con una pioggia di missili contro Isis. L’intento di Mosca è far avanzare le
truppe di terra siriane, iraniane ed Hezbollah per riconquistare Idlib, cacciare i ribelli da
Aleppo e consolidare Assad a Damasco. Ma le offensive di terra siriane finora si sono
infrante contro i missili anti-tank Tow dei ribelli dell’«Esercito della Conquista» e di «Ahrar
al-Sham», addestrata in Turchia.
STATI UNITI
Sono centinaia di aerei, americani ma non solo, per un totale di oltre 50 mila missioni
dall’agosto 2014. Decollano dalle basi in Giordania, Emirati, Qatar, Bahrein e Turchia
potendo contare anche sulle portaerei Usa. È un’armata del cielo che include Paesi arabi:
Emirati, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita e Giordania. Finora hanno dato la caccia ai leader
di Isis, colpendo basi e centri di comando. Adesso gli Usa iniziano a bersagliare anche le
cisterne di greggio per ostacolare i flussi di denaro al Califfato. Nelle basi in Giordania ci
sono le truppe speciali Usa, hanno già eliminato Abu Sayyaf «ministro del Petrolio» di Isis,
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e sono pronte ad altri blitz. La scelta di David Cameron di far rientrare Londra nelle
operazioni, non solo con i droni, è importante perché il Pentagono che si trova a dover
rinunciare agli efficienti canadesi di cui il neopremier Trudeau ha annunciato il ritiro. Le
uniche truppe di terra di questa coalizione sono i peshmerga curdi iracheni, che a Kobane
e Sinjar hanno battuto Isis, per questo Washington vuole armare anche i curdi siriani.
Andando incontro alle ire della Turchia di Erdogan.
FRANCIA
Rafale e Mirage 2000 da 48 ore bombardano Raqqa. Sono attacchi ad ondate su obiettivi
Isis selezionati con gli Usa. L’intenzione dei comandi francesi è di assumere la guida delle
operazioni della coalizione contro la capitale del Califfato. Parigi si ritaglia un suo fronte di
operazioni, con il sostegno di Giordania ed Emirati dove ha le basi. L’arrivo della squadra
navale della portaerei De Gaulle suggerisce un impiego di lungo termine. Ed una
suddivisione di zone di intervento con Washington e Russia che può portare alla creazione
di rispettive zone d’influenza nel dopo-Bashar Assad.
IRAN
Con oltre 1000 Guardiani della rivoluzione, 5000 Hezbollah libanesi e 15 mila miliziani
sciiti il generale iraniano Qassem Soleimani guida il più consistente contingente di terra fra
Siria e Iraq. Teheran usa i propri uomini come fanteria d’assalto contro le roccaforti ribelli,
Isis e non, a Idblib, Latakia, Homs, Hama e Damasco. Per questo subisce perdite: almeno
4 alti ufficiali nell’ultimo mese, 29 soldati in 14 giorni. E’ un prezzo alto che l’Iran paga per
sedere a pieno titolo nel gruppo di potenze che ridisegneranno l’intera regione.
TURCHIA
Almeno 12 mila soldati turchi sono ai confini con la Siria. Aspettano l’ordine di entrare per
creare una «fly zone» dove ospitare i rifugiati. Ankara lo presenta come un passo anti-Isis
ma ciò che più le preme è ostacolare i guerriglieri curdi in Siria ed Iraq, affinché non
formino un’unica regione autonoma. Per impedirlo Ankara è pronta all’invasione. I raid
aerei turchi contro Isis si contano sulle dita di una mano: decollati per colpire il Califfo,
arrivano a destinazione contro le basi dei curdi. È un corto circuito che indebolisce la
coalizione.
PAESI SUNNITI
Arabia Saudita e Turchia armano i ribelli che ostacolano i russi in Siria. In Yemen, Riad
guida una vasta coalizione sunnita che sta obbligando i ribelli houthi alla ritirata. E in Libia
l’Egitto assieme agli Emirati sostiene le truppe di Tobruk usando i raid contro Isis a Sirte. I
Paesi sunniti dispongono di forze militari consistenti ed efficienti. Ma esitano a usarle in
Siria.
del 18/11/15, pag. 17
Petrolio e fondi, caccia al tesoro
La nuova strategia dell’Occidente per ridurre le fonti di finanziamento
Da 1 a 2 miliardi il budget dei terroristi
WASHINGTON Vladimir Putin ha dato i numeri. L’Isis riceve finanziamenti da 40 paesi,
alcuni dei quali sono membri del G20 - è stata la sua accusa in concomitanza con il
summit di Antalya, in Turchia -, Mosca ha condiviso le informazioni per dimostrarlo. Con
una precisazione. Il leader del Cremlino ha parlato di «individui privati», di traffici di
petrolio scoperti dai satelliti spia, di rapporti sotterranei. Un discorso che ha conquistato
attenzione, anche se il tema non è proprio inedito.
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Fonti irachene e statunitensi hanno fornito varie valutazioni su quanto abbia nei forzieri
Abu Bakr al Baghdadi. Prima si è detto quasi 2 miliardi di dollari, un mese fa il report
dell’Overseas Security Advisor Council ha indicato 1 miliardo di dollari. La differenza non è
piccola, resta comunque un budget poderoso costruito attraverso una rete diversificata,
compresa quella donatori.
Le analisi hanno calcolato che le offerte esterne ammonterebbero a 40 milioni di dollari.
Numeri che si basano su informazioni certe ma anche stime. Non ci sono le pezze
d’appoggio. Non le rilasciano e c’è, ovviamente, la sensibilità diplomatica: alcuni dei
finanziatori occulti vivono in stati amici dell’Occidente, necessari nella manovra
internazionale contro l’Isis. Ecco il riferimento di Putin a membri del G20.
Gli Stati Uniti hanno segnalato l’azione di figure - senza nome - in Arabia Saudita,
personaggi e associazioni che hanno inviato soldi per aiutare l’Isis in quanto alfiere del
sunnismo radicale ma anche nemico dell’Iran. Un legame coltivato all’inizio e poi
attenuatosi. Il cash sarebbe stato portato direttamente oppure attraverso il Kuwait, altro
snodo finanziario spesso citato per i rapporti con ambienti integralisti. Stessa cosa per il
Qatar, onnipresente con ufficiali pagatori e 007. In realtà i qatarini hanno legami più solidi
con una formazione in lotta con l’Isis, i qaedisti siriani di al Nusra.
Gli analisti ritengono che possa esistere una versione minore di quella che al tempo di bin
Laden era chiamata «la catena d’oro», ossia una rete di sostenitori distribuiti in molti
Paesi. A volte personalità ben note, in altri casi signor nessuno in grado però di rastrellare
dollari. I signori del Golfo aiuterebbero il Califfato per due motivi: solidarietà per la
campagna islamista; tangente per evitare di essere colpiti. Sistema che funziona solo in
parte visto che lo Stato Islamico ha comunque ha attaccato pur prendendo di mira gli sciiti.
Altra cosa sono i rapporti con gli esecutivi. I jihadisti sanno che gli aiuti possono
trasformarsi in condizionamenti e per questo hanno cercato di essere autonomi sul piano
economico. Il controllo di risorse energetiche, agricoltura e vie di comunicazione unite alla
tassazione capillare (anche dei commerci), i riscatti hanno permesso loro di costruire un
bilancio ampio. Però è chiaro che il greggio o il gas qualcuno lo compra, quindi ci sono
ricettatori e autorità che non controllano. L’oro nero finisce ovunque: Turchia, Iran,
Kurdistan, Giordania. E persino a Damasco, con il regime che acquista attraverso gli
intermediari. Putin, non a caso, cita le immagini satellitari che mostrano il serpentone di
camion e le pipeline clandestine, persino su twitter sono apparsi scatti nitidi.
È un network che è stato colpito solo in parte dalla coalizione. Quasi 300 i siti distrutti
secondo il Pentagono. Pochi giorni fa gli USA hanno rivelato di aver incenerito un
centinaio di autocisterne con il petrolio dell’Isis. In passato non le avevano toccate
sostenendo che il contrabbando è spesso gestito da civili che non hanno un rapporto
organico, ma solo di interesse con i terroristi.
E’ evidente, che come per i raid, è ancora poco. Bisognerebbe obbligare le autorità a
maggiore severità, tagliando rotte e condutture clandestine, dando la caccia a chi porta
valige di contante, arrestando i facilitatori degli scambi. E’ stato un impegno ridotto, non
una vera campagna. Molti temono contraccolpi in quanto in zone povere tanti campano
con l’economia di guerra e il contrabbando. Poi ci sono le agende segrete, il desiderio di
tenersi una carta di scambio. Infine Washington teme di aprire tensioni con alleati
indisponenti, infedeli ma comunque indispensabili.
E poi c’è l’aspetto finale, quello operativo. Le indagini dicono che organizzare un attacco
nel cuore dell’Europa non richiede troppe risorse, gli attentati costano poche migliaia di
dollari, ben lontano dal mezzo milione dell’11 settembre. Bastano anche gli spiccioli usciti
dal forziere del Califfo.
Guido Olimpio
27
Del 18/11/2015, pag. 5
Netanyahu prende la palla al balzo: colonie e
pugno duro con gli islamisti
Israele/Territori occupati. Dopo gli attentati a Parigi il premier israeliano
ha annunciato la messa fuori legge del braccio settentrionale del
Movimento islamico e dato il via libera a nuove costruzioni in due
colonie.
Il governo Netanyahu spinge sull’acceleratore, sfruttando il clima di paura e ancora più
islamofobo e anti-arabo che regna in Europa e in Occidente dopo i sanguinosi attentati di
Daesh a Parigi. È stato immediato il rilancio della colonizzazione e del pugno di ferro
contro i palestinesi, anche quelli con cittadinanza israeliana. Politiche non nuove che
l’esecutivo di destra spiega come una risposta al terrorismo jihadista. Ieri il premier e i
ministri della difesa Moshe Yaalon e della sicurezza Gilad Erdan hanno annunciato la
messa fuori legge del braccio settentrionale del Movimento islamico in Israele che, ha
detto lo stesso Netanyahu, «incita alla violenza contro cittadini innocenti, mantiene legami
con Hamas, mina alla base l’esistenza di Israele per sostituirlo con un Califfato islamico».
Un “pericolo” che, a quanto pare, il primo ministro pensa di arginare procedendo a una
ulteriore espansione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme
Est. Due giorni fa, ha riferito il giornale Haaretz, ha autorizzato la commercializzazione di
terreni per la costruzione di nuove case in due colonie ebraiche: 436 unità a Ramat
Shlomo, 18 a Ramot.
Il ministro Erdan sostiene che gli islamisti hanno «fomentato violenze e atti di terrorismo».
Accuse che al movimento islamico israeliano del Nord (più radicale, esiste anche una
frazione meridionale più integrata nel Paese) sono rivolte da anni. Però non sono state
provate dalla magistratura ordinaria. Tanto è vero che per proclamare la sua messa fuori
legge il governo ha dovuto far ricorso ai poteri eccezionali del 1948 attribuiti al ministro
della difesa. Erdan, che ama sempre dire ciò che pensa e programma, ha messo in
collegamento il colpo sferrato agli islamisti israeliani con le stragi di Parigi. «Israele – ha
commentato – ha scelto di essere in prima linea nella lotta contro l’Islam radicale i cui
emissari hanno fatto strage di innocenti a New York, Parigi, Madrid e in Israele. Il
Movimento Islamico, l’Isis, Hamas hanno la stessa ideologia che fomenta attentati
ovunque e terrorismo in Israele… Per noi è giunto il momento di utilizzare i mezzi a nostra
disposizione nella guerra contro il terrorismo».
In realtà il provvedimento è l’ultimo atto di un conflitto aperto che va avanti da tempo e che
si è riacutizzato negli ultimi mesi, in particolare con il leader del movimento islamico Raed
Salah, da anni attivo nel promuovere “comitati di difesa” della Spianata delle Moschee di
Gerusalemme. Per le autorità israeliane Salah – che tra qualche giorno andrà in carcere
per scontare una pena inflittagli il mese scorso per “incitamento” — diffonderebbe
menzogne su una presunta intenzione del governo di violare lo status quo sulla Spianata
e spingerebbe alla sollevazione i fedeli musulmani. Già qualche mese fa, il governo aveva
proclamato l’illegalità dei movimenti Murabitoun e Murabitat, uomini e donne che su
incarico del movimento islamico organizzavano proteste nella città vecchia di
Gerusalemme contro gli ultranazionalisti israeliani che andavano sulla Spianata. Le attività
del movimento ora sono vietate e nella notte tra lunedì e martedì la polizia ha chiuso 17
sue istituzioni, ha congelato i suoi conti bancari, sequestrato file, computer e fondi in 13
28
uffici, in particolare nella città di Umm el Fahem, la roccaforte islamista dalla fine degli anni
Ottanta. Il provvedimento permetterà al governo anche di confiscare terre e immobili del
gruppo islamico.
La messa fuori legge del movimento di Raed Salah viene letta dai palestinesi d’Israele
come un attacco a tutta la minoranza araba, dai comunisti fino agli islamisti. Una mossa
che, affermano, potrebbe preludere a nuove misure contro i cittadini arabi e le loro
istituzioni. Il governo Netanyahu ha oltrepassato una ”linea rossa” ha spiegato Mohammed
Barake un dirigente politico della comunità palestinese in Israele, ricordando che il
movimento islamico da decenni svolge una intensa attività sociale a sostegno dei più
poveri ed emarginati. I palestinesi d’Israele hanno proclamato per domani uno sciopero
generale di protesta in tutti i centri abitati arabi. Intanto ieri sera un palestinese,
Mohammed Saleh, è rimasto ucciso, pare in uno scontro a fuoco con soldati israeliani,
vicino a Turmus Ayya (Ramallah).
del 18/11/15, pag. 19
Amos Oz
«Ci vuole un piano Marshall ma l’Islam
moderato si muova»
Gaza Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive sarebbe un
colpo contro l’Isis
Lorenzo Cremonesi
«Ho sempre rifiutato in cuor mio e apertamente le teorie del cosiddetto “scontro di civiltà”
per il semplice fatto che anche nelle mie esperienze personali e pubbliche ho
generalmente trovato che per ogni musulmano violento e fanatico ce ne sono migliaia,
anzi, decine di migliaia che non lo sono. Magari sono arrabbiati, offesi, frustrati, ma non
sono fanatici e rifiutano la violenza». Parla diretto Amos Oz. Negli ultimi tempi aveva
preferito restare zitto. L’avevamo interpellato più volte per un’intervista. Ma lui preferiva
declinare. «Sono troppo arrabbiato», diceva. Sta scrivendo un nuovo romanzo (intanto in
Italia Feltrinelli a breve pubblicherà il suo primo, l’inedito Altrove, forse). Ma le cronache
della strage di Parigi adesso lo stimolano a reagire.
Nel mondo occidentale crescono rabbia e paura, tornano in auge le tesi di Samuel
Huntington sullo «scontro di civiltà», i libri di Oriana Fallaci, il romanzo
«Sottomissione» di Michel Houellebecq. Domina una domanda: come rapportarci
con l’Islam, come difenderci?
«Non sono un pacifista, non lo sono mai stato e certo non lo sono ora di fronte agli ultimi
avvenimenti. Non sono mai stato contrario alla necessità che, quando serve, occorre
utilizzare il bastone. Però sono profondamente convinto che l’unica forza al mondo
davvero capace di combattere e sconfiggere i fanatici musulmani, oltreché aiutare
l’Occidente a trovare le difese necessarie, siano i musulmani moderati. Sono loro, prima di
tutti, che dovrebbero fare un passo avanti, alzare la voce, scoprire, denunciare i fanatici
nei loro quartieri e impugnare il bastone quando necessario».
Anche contro questa ondata di integralismo che va dall’estremo Oriente, al mondo
arabo, al cuore delle nostre città in Europa?
«Posso rispondere con una storia personale, la ritengo rilevante, anche se forse l’ho già
raccontata?».
Certo.
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«Circa un anno fa ero ricoverato all’ospedale per un’operazione. Una sera venne al mio
letto un’infermiera, un’araba-palestinese di cittadinanza israeliana. Aveva appena
terminato il suo turno di lavoro. Mi chiese se poteva parlarmi. Io le risposi che ne sarei
stato ben felice e così lei raccontò qualche cosa che non dimenticherò mai. Mi disse:
“Tutto il mondo quasi ogni giorno vede sugli schermi delle televisioni le manifestazioni
delle masse arabe che inneggiano alla guerra santa, agitano i pugni lanciando slogan di
sfida e violenza, glorificano i kamikaze contro gli infedeli negli Stati Uniti, Israele ed
Europa. Vogliono essere gli unici rappresentanti dell’universo islamico. Ma, chiunque
osservi con attenzione, noterà che sono praticamente solo uomini, per lo più giovani di età
compresa tra i sedici e trent’anni. Sono solo una piccola parte della popolazione. Gli altri,
la maggioranza, se ne restano chiusi in casa, passivi, impauriti, dietro le finestre serrate.
Non li vedi mai per il semplice fatto che non sono visibili. Però, per favore, ricordati di loro,
perché loro sono la vera maggioranza”. Così mi disse quell’infermiera. E da allora io spero
che proprio loro scendano in piazza a manifestare contro gli altri».
Dove questa maggioranza silenziosa potrebbe essere più rilevante?
«Penso alla Turchia, alla Tunisia, alla Giordania, all’Egitto, al Pakistan, all’Indonesia. Ma in
realtà esiste dovunque per il semplice fatto che va compreso che questa, prima che
essere una guerra contro l’Europa e l’Occidente, è una guerra interna all’Islam, per il suo
cuore, è un conflitto sul significato e l’identità musulmani. L’Europa, gli Stati Uniti e gli altri
partner coinvolti possono aiutare gli elementi più aperti e moderati. Ma lo sforzo maggiore
devono farlo loro, il loro futuro è nelle loro mani».
In termini pratici, cosa significa guerra per il cuore dell’Islam?
«La grande maggioranza dei musulmani non sono Isis. Come non sono neppure Hamas, o
Hezbollah, o Al Qaeda, o Al Nusra. La maggioranza deve insistere sui suoi valori,
sull’imporli nelle scuole, nelle moschee».
Resta il fatto che in Europa cresce la paura dell’Islam, specie dopo l’ultimo
attentato. Che fare? Al momento tra Russia e America si discute se il presidente
siriano Bashar Assad debba essere parte della soluzione o meno.
«La questione non è “che fare” contro l’Islam, ma contro i fanatici islamici, che non è la
stessa cosa. Io non sono abbastanza esperto sulla Siria. Non so giudicare se Assad
debba restare, almeno temporaneamente, oppure venire dimesso subito. Però in questi
giorni pochi ricordano il caso di un piccolo Paese arabo del Nord Africa come la Tunisia.
Sarebbe invece bene tenere a mente che in Tunisia la parte moderata religiosa e laica
della popolazione in ben tre tornate elettorali ha sconfitto il fronte estremista islamico.
Perché l’Europa non fa uno sforzo per aiutare economicamente, politicamente e in ogni
altro modo a fare della Tunisia un grande modello? Perché non farne un esempio di Islam
illuminato che sia ammirato e invidiato dai Paesi vicini? Lo stesso si potrebbe dire della
Giordania, dove, lo so bene, la democrazia è meno avanzata, però resta un polo di
moderazione».
Giordania e Tunisia modelli di cooperazione con l’Europa?
«È un inizio, mostra la strada. Mi lasci dire che non sono un seguace della filosofia del
porgere l’altra guancia quando sei aggredito. In particolare, mai farlo con i fanatici. Non ci
credo. Però sono anche convinto che il bastone da solo non funzioni. Non puoi curare una
ferita a suon di bastonate. Se picchi soltanto, la ferita non fa che diventare più larga e
profonda. Non ha senso bastonare tutto il mondo islamico in quanto tale. Penso per
esempio alla striscia di Gaza. Fare di quella regione un posto migliore per chi ci vive
sarebbe un colpo grosso contro Isis e gli altri fanatici che vorrebbero speculare sulla
povertà e il malcontento».
Come?
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«Quasi settant’anni fa un presidente americano poco carismatico e molto modesto quale
era Harry Truman decise che sarebbe stato importante donare una cifra pari a circa il venti
per cento del prodotto nazionale lordo del suo Paese per la ricostruzione dell’Europa
devastata dalla guerra. Poi passò alla storia come “piano Marshall”, dal nome del suo
segretario di Stato. Ma fu lui il motore primo. Truman fece il miglior investimento di tutti i
tempi: la Guerra fredda è stata vinta dagli Usa grazie ad esso. Lui non visse tanto a lungo
per vedere il suo trionfo. Però, garantì la democrazia, salvò l’Europa dai comunisti, dagli
estremisti, ne fece un modello di sviluppo invidiato in tutto il mondo, creò un grande
mercato utile anche all’industria americana. A noi oggi serve un gigante di generosità e
capacità di guardare avanti come fu Truman. Ci vorrebbe un piano Truman-Marshall per il
mondo islamico che dia forza e coraggio ai moderati. Solo così il bastone della guerra ai
fanatici potrà avere prospettive di successo».
del 18/11/15, pag. 20
La svolta. Venerdì l’Eurogruppo darà il via libera all'esborso di una
tranche di aiuti da 12 miliardi di euro (10 per ricapitalizzare le banche)
Grecia, sì all’accordo con la troika
Domani il Parlamento approva l’intesa su 48 misure d’austerità tra cui i
pignoramenti di case
Il governo greco di Alexis Tsipras ha raggiunto un accordo con i creditori su una serie di
48 misure prioritarie di austerità su tagli alle pensioni, aumenti di imposte dirette agli
agricoltori, Iva e pignoramento delle case. L’intesa apre la strada per lo sblocco venerdì di
12 miliardi di euro di prestiti, di cui 10 per la ricapitalizzazione delle banche elleniche
ancora sotto il controllo dei capitali che da giugno permette di ritirare dai conti correnti
bancari solo fino a un massimale di 60 euro al giorno.
L’intesa, una volta perfezionata, apre la strada anche all’aquisto di bond greci (oggi
esclusi) nell’ambito del programma di acquisti Qe della Bce, magari «a metà dell’anno
prossimo», ha detto Athanasios Vamvakidis, analista di Bank of America Merrill Lynch.
I rendimenti delle obbligazioni decennali greche sono scesi vicino al 7%, livello psicologico
importante perché quando questa soglia è stata superata ha costretto numerosi paesi a
chiedere aiuto ai partner per un salvataggio.
Il Parlamento greco deve approvare l’accordo domani, e poi l’Eurogruppo darà venerdì il
via libera all’esborso della sub-tranche da due miliardi di euro e al trasferimento dei 10
miliardi nel fondo salva-banche, HFSF, destinati alla ricapitalizzazione. Lo ha confermato il
presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem in una nota.
«Abbiamo raggiunto un accordo su tutto, incluse le 48 misure prioritarie che erano una
condizione per sbloccare questa tranche di aiuti finanziari», ha annunciato anche il
ministro delle Finanze greco, Euclide Tsakalotos, al termine della maratona negoziale
notturna svoltasi nella notte tra lunedì e martedì con i rappresentanti della troika.
Il governo greco e la troika hanno trovato un accordo sulla spinosa questione dei limiti ai
pignoramenti delle prime case dei greci più poveri che non avevano pagato le rate dei
mutui bancari a causa della crisi economica. Secondo indiscrezioni sarebbero 100mila le
famiglie indigenti prottette dal sequestro della casa. Secondo il governo greco il
compromesso raggiunto proteggerà il 60% dei proprietari di case indebitati e non il 70%
come voleva il governo di Atene.
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Alle quattro maggiori banche greche, la Bce il 30 ottobre scorso aveva applicato uno
stress test per verificare i bisogni di ricapitalizzazione. Secondo lo scenario base, agli
istitutiservivano 4,4 miliardi di euro. La Bce aveva ritenuto che questi potevano essere
coperti da capitali privati. Secondo lo scenario avverso, invece, che prevedeva una minor
crescita dell’economia, pari al 6% nei prossimi due anni, e un nuovo calo, del 10%, dei
prezzi delle case , le banche necessiteranno di capitale fresco per 14,4 miliardi di euro.
Le necessità maggiori erano state individuate alla Piraeus Bank, che doveva raccogliere
4,9 miliardi di euro, di cui 2,2 miliardi secondo lo scenario base. Al secondo posto la
maggiore banca del Paese, la Banca nazionale di Grecia, con 4,6 miliardi di euro, di cui
1,6 per lo scenario base. Secondo indiscrezioni le due banche chiederanno aiuto al Fondo
statale HFSF per iniettare capitale attraverso bond convertibile e azioni ordinarie. Le due
banche hanno offerto ai creditori di trasformare le obbligazioni in azioni e cercato di
vendere quote azionarie.
Per le altre due banche le richieste della Bce erano risultate inferiori: rispettivamente 2,7
miliardi di euro per Alpha Bank, di cui 263 milioni secondo lo scenario base e 2,2 miliardi
di euro per Eurobank, di cui 339 milioni nello scenario base. Queste due banche
dovrebbero raccogliere abbastanza capitale dagli investitori per coprire le necessità senza
ricorrere agli aiuti di stato. Alpha ha incassato 1,55 miliardi di euro in aumento di capitale a
cui si sono aggiunti 1,01 miliardi di euro di una trasformazione di bond in azioni, per un
totale di 2,6 miliardi di capitali freschi. Quanto a Eurobank secondo Blooomberg sono
arrivati 2 miliardi di euro di vendite di azioni e scambio di debito in azioni di investitori tra
cui Fairfax Financial Holding e Wilbur Ross.
A questo punto, archiviato l’accordo con la troika, il premier greco Alexis Tsipras ieri ha
potuto recarsi in Turchia per una visita di due giorni. Al centro del viaggio c’è la crisi
migratoria, che vede la maggior parte dei flussi verso l'Europa dirigersi dalla Turchia alle
isole greche di Lesbo e Kos e la questione di Cipro. Tsipras è stato accolto ieri a Istanbul
dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo. Poi in serata ha assistito
all’amichevole di calcio Turchia-Grecia insieme al suo omologoturco, Ahmet Davutoglu.
Oggi sono previsti gli incontri ad Ankara con il presidente Recep Tayyip Erdogan.
Vittorio Da Rold
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INTERNI
del 18/11/15, pag. 8
«In conto ogni intervento ma non si vince
solo con le armi»
Renzi: «No a una Libia-bis, siamo in prima linea ma serve una strategia Non chiudere le frontiere, la minaccia viene da dentro»
roma
Pondera attentamente le parole. E «guerra» non rientra nel suo lessico, almeno per
ora.L’attacco di Parigi per Matteo Renzi è sì un’azione militare ma è soprattutto «una
gigantesca aggressione all’idea stessa della nostra identità». Per battere il terrorismo il
premier mette in conto «qualsiasi intervento», quindi anche l’opzione militare, ma purchè
sia inserita all’interno di una strategia di «medio-lungo termine» perchè bisogna
assolutamente evitare e una Libia bis.
La posizione italiana, già emersa nei giorni scorsi durante il G20 di Antalya, ieri è stata
ribadita pubblicamente in occasione dell’intervento del premier alla presentazione di
«Origami», il nuovo settimanale de «La Stampa» . La «reazione» è dunque comprensibile,
spiega Renzi con chiaro riferimento alla linea francese, ma in questo momento «la
superficialità è l’unico lusso che un politico non può permettersi». L’intesa internazionale è
quindi una precondizione essenziale. E «il nostro ruolo», sostiene il presidente del
Consiglio, « è quello, innanzitutto, di portare la comunità internazionale ad essere unita».
Si tratta di fare da ponte tra Washington e Mosca. «La nostra stella polare è il rapporto con
gli Stati uniti», insiste il premier, sottolineando anche il ruolo determinante avuto
dell’amministrazione Obama per far tornare l’Italia «ai tavoli internazionali». Ma altrettanto
«cruciale» per Renzi è l’inclusione della Russia. «Certo che possiamo fidarci di Putin»,
dice Renzi aggiungendo che questo però non significa «appaltare» alla Russia la
risoluzione delle questioni internazionali «come una parte della politica da bar sport
vorrebbe». Renzi poi torna a parlare del «rischio» per quanto potrebbe avvenire in
Italia:«Nessuno di noi si può permettere il lusso di dire tranquilli non c’è pericolo: chi lo
dice vive su Marte. Hanno colpito persino in Australia». Insomma, «nessuno» è immune
ma «stiamo facendo tutto quanto è necessario per prevenire». Quanto alle ricette per
contrastare il rischio di attentati, il presidente del Consiglio boccia la chiusura delle
frontiere proposta da Salvini. «Se dici chiudiamo le frontiere, come alcuni hanno fatto in
questi giorni, devi dire che lo fai per tenerli dentro, perchè gli assassini nella stragrande
maggioranza dei casi sono nati e cresciuti in Europa». La minaccia viene dunque anzitutto
«da dentro» e per questo la sfida che per il premier non va assolutamente sottovalutata è
anche quella «educativa».
Sull’integrazione è intervenuto ieri anche il Capo dello Stato: «C’è un tentativo di
distruggere e rendere infelice questa nostra convivenza e l’antidoto si esprime con la
solidarietà che è il farsi carico dei problemi e delle esigenze degli altri», ha detto Sergio
Mattarella consegnando 18 onorificenze al merito a cittadini italiani e stranieri.
Concetto ribadito anche dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che intervenendo ieri al
Senato ha sottolineato che «lavoreremo per snidare i terroristi ovunque siano infiltrati o
cerchino di infiltrarsi, ma senza fare confusione fra i criminali e le decine di migliaia di
uomini, donne e bambine in fuga dalle guerre e dalle dittature».
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Il «no» all’opzione milatare senza un accordo internazionale è stato ribadito anche dal
ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha «escluso» un intervento in Siria confermando
invece il rafforzamento della missione in Iraq («porteremo il contingente da 500 a 750
militari»).
Barbara Fiammeri
del 18/11/15, pag. 7
“L’Italia c’è, ma le armi non bastano”
GIOVANNA CASADIO
ROMA.
«Nessuno può pensare di essere immune dalla minaccia del terrorismo». Matteo Renzi
avverte della drammaticità del momento. Dopo l’orrore di Parigi solo «uno che vive su
Marte» potrebbe dire «tranquilli non c’è pericolo... hanno colpito anche in Australia». Per il
premier il senso di responsabilità impone scelte e accelera decisioni. Quindi l’Italia di certo
è presente «in tante partite». Non solo. «Mettiamo in conto tutto, ma non si vince con le
sole armi». Le azioni militari non bastano; parlare di guerra non è appropriato, la
dichiarazione di guerra non ha senso. Renzi spiega: «Capisco chi utilizza la parola guerra
ma io non la uso, l’attacco a Parigi è strutturalmente un attacco militare, una gigantesca
aggressione alla nostra identità». Soprattutto si tratta di una sfida educativa. Tuttavia nella
risposta al terrorismo l’Italia farà la sua parte, fidandosi di Putin, usando gli strumenti che
le sono più propri di “soft power”.
«Putin? Sì possiamo fidarci di lui, questo non vuol dire che la Russia sia il kingmaker dello
scacchiere internazionale - risponde il premier alla presentazione del nuovo inserto del
quotidiano “La Stampa” - ma va tenuta dentro. Comunque l’Italia non manca di fare la sua
parte con gli altri paesi europei, consapevole che chiudere le frontiere non serve: «Gli
assassini nella stragrande maggioranza sono nati e cresciuti in Europa, hanno giocato a
calcio con i nostri figli». La sicurezza comunque sarà rafforzata con misure concrete.
L’appello è all’unità delle forze politiche. C’è già oggi il voto alla Camera sul
rifinanziamento delle missioni internazionali. Una spesa complessiva di 354 milioni.
Previsto l’aumento del contingente anti Isis da 525 a 750 militari. E in Afghanistan ci
saranno 200 militari in più, da 630 a 834. Nel provvedimento potrebbe essere inserita
subito una novità che, studiata al Senato per la legge quadro, avrebbe così una corsia
veloce. I reparti speciali delle forze armate potranno trasformarsi in 007 per alcune
delicate missioni all’estero. Potrebbe valere subito per l’Iraq, in seguito per la Libia. Nicola
Latorre, presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama, fa notare che è una
risposta necessaria dopo Parigi. Francesco Garofani, che presiede la commissione Difesa
a Montecitorio, punta a una prova generale di solidarietà nazionale sulle missioni. Difficile
sarà convincere la Sinistra. Scontro tra 5Stelle e Pd sui fondi per la difesa. Il dem Andrea
Romano accusa i grillini di essere parolai, «dicono di volere più soldi per la sicurezza ma
propongono 3,5 miliardi di tagli alla Difesa». In arrivo 20 milioni in più per l’intelligence.
Nella legge di Stabilità inseriti circa 120 milioni in più per la sicurezza e l’assunzione di 5
mila tra poliziotti, carabinieri e finanzieri.
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del 18/11/15, pag. 5
La Nazionale italiana sotto scorta
Intercettazioni in moschee e palestre Più poteri ai
soldati Ai militari delle forze speciali le garanzie previste se è a rischio
la sicurezza nazionale
ROMA Quattro macchine di scorta al pullman dei giocatori, bonifiche di alberghi e strutture
prima dell’arrivo della squadra, cordone di sicurezza per evitare il contatto diretto con i
tifosi. In Italia scattano nuove misure di sicurezza e viene «blindata» la Nazionale di calcio.
Il dispositivo deciso dal presidente dell’Osservatorio del Viminale Alberto Intini è scattato
alla vigilia della trasferta di Bologna per l’amichevole di ieri con la Romania e sarà
operativo anche nelle prossime settimane. Sotto controllo costante finisce il centro di
Coverciano, ma anche tutti gli altri luoghi dove l’Italia si sposta per allenamenti e meeting.
Non solo. La circolare diramata due giorni fa dal capo della polizia Alessandro Pansa
prevede il potenziamento delle misure di sicurezza in tutti gli stadi italiani e impone ai
questori di «elevare il livello di vigilanza e sicurezza in occasione di particolari eventi di
carattere culturale, religioso, sportivo, musicale e di intrattenimento connotati da
significativo afflusso di persone».
Le partite e i concerti
Il massacro di Parigi con gli attacchi allo Stade de France, al teatro Bataclan, ai bar e
ristoranti ha dimostrato come nel mirino dei terroristi siano ormai entrati tutti i luoghi che
appartengono alla vita quotidiana. E dunque oltre a rafforzare la sorveglianza di fronte ai
cosiddetti obiettivi sensibili — sedi istituzionali, ambasciate, aeroporti, stazioni ferroviarie e
della metropolitana — l’attenzione dei responsabili delle forze dell’ordine si concentra sui
soft target — supermercati, locali pubblici, centri commerciali, cinema, strutture sportive —
soprattutto nelle occasioni di grande assembramento. Perché la strategia dei leader
dell’Isis, resa pubblica attraverso i proclami di propaganda e gli appelli a entrare in azione
lanciati attraverso i siti Internet e le televisioni, invita gli jihadisti a colpire «ovunque e in
qualsiasi modo». Sollecita azioni eclatanti «dove è possibile e con ogni mezzo» anche
senza avere un piano perfettamente organizzato. Ed è proprio questo a fare paura.
Questa mattina al Viminale si analizzerà il livello di rischio delle partite del fine settimana,
ma è già stato deciso che a Roma l’ingresso all’Olimpico sarà consentito soltanto dopo il
passaggio al controllo dei metal detector , la circolazione nell’area intorno allo stadio sarà
limitata, sgomberati i bar e i luoghi di ritrovo che si trovano di fronte all’impianto. Misure di
prevenzione drastiche che certamente saranno adottate anche a Milano, Torino e nelle
altre città dove si riterrà elevato il fattore di rischio.
Satelliti e intercettazioni
Ieri nella capitale è entrato in servizio il contingente di 700 soldati previsto per il Giubileo e
«anticipato» dopo la strage di Parigi. Si rafforza il dispositivo di controllo del territorio con
uomini e mezzi però il governo pensa anche all’uso di apparecchiature sofisticate che
consentano una «copertura» maggiore e soprattutto più capillare nell’attività di
prevenzione. Un sistema di sorveglianza che tenga sotto controllo i luoghi aperti grazie ai
satelliti e al circuito delle telecamere ad alta definizione, ma sfrutti pure la capacità delle
centrali di ascolto, in modo particolare quelle dell’ intelligence , per monitorare gli ambienti
dove più alto è il rischio di radicalizzazione. Intercettazioni preventive in tutti i luoghi
frequentati dagli stranieri che potrebbero diventare oggetto di proselitismo e dunque
moschee, centri culturali, palestre, carceri. Questa mattina sarà poi presentato un
emendamento al «decreto missioni» per dare ai militari delle forze speciali le garanzie
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funzionali previste per gli agenti segreti «in situazioni di crisi o di emergenza all’estero che
mettano a rischio la sicurezza nazionale o dei cittadini italiani». Il segno di quanto la paura
cresca anche per i nostri connazionali che si trovano fuori dal Paese.
Fiorenza Sarzanini
del 18/11/15, pag. 4
Altro che G20, il governo depenalizza il
riciclaggio
In un decreto del Consiglio dei ministri diventa amministrativa (e non
più penale) la sanzione per chi viola gli obblighi sulla comunicazione
dei dati
di Nunzia Penelope
Nella rete delle depenalizzazioni varate dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso è finita,
a sorpresa, anche una parte degli obblighi antiriciclaggio. Un effetto traino: tra le materie
che il ministero della Giustizia ha ritenuto di escludere dalla depenalizzazione non
compare l’antiriciclaggio. Una svista o una scelta, nonostante al G20 la lotta al riciclaggio è
sembrata una priorità. E nonostante esista una direttiva del Parlamento europeo del 6
giugno scorso che mette in relazione proprio la lotta all’antiriciclaggio con quella al
terrorismo.
Ora in Italia una serie di obblighi, relativi alla corretta identificazione del cliente, alla
registrazione e alla comunicazione dei dati, fin qui oggetto di sanzioni penali per gli
inadempienti, con la nuova legge saranno sanabili con una sanzione amministrativa, sia
pure maggiorata. Per un Paese dove l’economia nera viaggia su cifre miliardarie, ora
anche alle prese con la minaccia del terrorismo, quindi con la necessità di avere il
massimo controllo sui flussi di denaro, un ammorbidimento delle norme è sorprendente.
Considerando che sui reati legati al riciclaggio di denaro è al lavoro, da tempo, una
commissione al Ministero dell’Economia, coordinata dal sottosegretario Enrico Zanetti e di
cui fa parte anche l’Uif, la struttura antiriciclaggio della Banca d’Italia. La commissione ha
l’incarico di compiere una revisione complessiva dell’apparato sanzionatorio sul riciclaggio,
in base proprio alla direttiva europea in via di recepimento. Il che crea, quanto meno, una
sovrapposizione: da un lato procederà il disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri,
dall’altro il lavoro della commissione. Conferma Fabio Di Vizio, magistrato presso la
Procura di Pistoia: “Forse sarebbe stato il caso di introdurre tra le esclusioni anche la
normativa antiriciclaggio, e lasciare che se ne occupasse il testo attuativo della direttiva
europea, invece di trattarla come una materia qualsias”. Stupito del “pasticcio”’ anche
Gaetano Bellavia, consulente di varie procure: “Assurdo procedere a casaccio su materie
delicate come l’antiriciclaggio. Dietro la verifica di un cliente si può annidare di tutto: dal
mafioso al terrorista. La legge antiriciclaggio è fondamentale anche per i flussi di denaro
che alimentano il terrorismo, quindi, soprattutto in momenti come questo, bisognerebbe
stringere le maglie, non allargarle. E metterci mano con maggiore cautela”. Anche se,
precisa, la depenalizzazione non significherà un liberi tutti: “È più pesante la sanzione
amministrativa che quella penale, e sul rispetto degli obblighi identificazione del cliente, se
manca il dolo, non è reato. Prima spettava a un magistrato stabilire se la ritardata
registrazione era una svista o no, ora la valutazione sarà della Guardia di finanza: se
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vedrà un profilo di reato, lo segnalerà alla procura. Chi deve pagare pagherà, anche di
più”.
Del 18/11/2015, pag. 12
Grillo ora si toglie dal simbolo del M5S
Il voto online ratifica
Ma i parlamentari mugugnano: Beppe garantiva
Ilario Lombardo
Arriva sempre un momento in cui bisogna abbassare il megafono della piazza e fare sul
serio. Solo allora il movimento diventa partito a tutti gli effetti. La pubertà politica finisce, e i
ragazzi che sognavano di rivoluzionare il mondo con i clic diventano adulti. Quel momento
doveva passare per forza di cose dal superamento del padre-padrone, del leader
materiale e spirituale. Da ieri sera il Movimento 5 Stelle ha fatto un ulteriore passo in
questa direzione, depennando il nome del blog, che poi è anche quello del leader, dal
simbolo. Non ci sarà più scritto, nella parte inferiore del logo, beppegrillo.it, ma
movimento5stelle.it. Lo hanno decretato gli oltre 32 mila attivisti iscritti al blog che hanno
votato per questa versione, contro i quasi diecimila che avrebbero preferito non avere un
indirizzo web.
Beppe Grillo sta spegnendo il suo megafono a poco a poco. La decisione era stata presa,
la consultazione di ieri è stata solo un atto notarile. Anche il titolo del post “Comunicato
politico numero 56” rievoca gli annunci delle origini un po’ carbonare del M5S, come
fossero capitoli di un’unica storia che dal 2005, anno di fondazione del blog, arriva a ieri.
Ma il comico lo aveva annunciato a Imola, poi ne aveva parlato nei colloqui privati con i
nuovi capi del M5S, quei ragazzi cresciuti a furia di presenza in tv, cui aveva già affidato
un anno fa il direttorio. Erano i giorni del primo passo indietro, del «sono un po’
stanchino»: «E infatti – spiega Piergiorgio Corbetta, autore con Elisabetta Gualmini de “Il
partito di Grillo” – anche questa ultima decisione si inserisce nella strategia nata allora, di
trasformazione di un movimento populista in partito. La storia insegna che per
sopravvivere, i movimenti devono istituzionalizzarsi, darsi quei corpi intermedi che
nell’abbraccio diretto tra il popolo e il capo prima rifiutavano. Devono saper fare a meno di
leader che non sono eterni».
Ma davvero Grillo si ritirerà a Sant’Ilario lontano dal frastuono della politica, a lavorare solo
ai nuovi spettacoli? A leggere i commenti degli attivisti, a parte qualche solitario sberleffo
sarcastico, i toni sono quelli di un commosso addio, tra i mugugni di qualche parlamentare
che ha paura di uno strapotere di Gianroberto Casaleggio e soffre l’ascesa di Luigi Di
Maio. Ma è proprio così? Di fatto Grillo, lo provano gli ultimi mesi, si è defilato. Troppe
energie spese, qualche gaffe di cui si è pentito, e poi la voglia di tornare ai suoi show lo
hanno convinto a ragionare su cosa fare della propria figura così ingombrante per quei
rampanti pentastellati che rischiavano di essere soffocati in culla. Non a caso i primi a
parlare sono loro, con il cuore colmo di gratitudine ma anche di impazienza, quei tre che in
futuro potrebbero contendersi la leadership. Alessandro Di Battista: «Il M5S è diventato
adulto e si appresta a governare l’Italia: credo che sia corretto non associarlo più a un
nome, ma a tutte le persone che ne fanno parte». Di Maio quasi si strappa gli occhi dalle
lacrime: «Grazie Beppe. Sei l’uomo più generoso che conosca». Infine, Roberto Fico, il più
realista del gruppo: «Da oggi diventiamo tutti più responsabili. Ma Beppe Grillo rimarrà il
garante del simbolo». Resterà il garante e il proprietario del marchio. Non proprio un
dettaglio, perché, al di là dell’evoluzione governativa, che consolida l’ambizione confortata
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dai sondaggi, vuol dire che il comico genovese mantiene il potere di interdizione. Avrà
ancora parola sulla titolarità di utilizzo del logo, mentre Casaleggio continuerà a guidare
l’organizzazione del M5S da Milano e Di Maio proseguirà sulla strada per la premiership.
«E’ comunque – aggiunge Corbetta – un’altra tappa della normalizzazione, a vantaggio di
una classe politica, meno leaderistica e più organizzata sul territorio. Se poi avrà
successo, è tutto da vedere».
del 18/11/15, pag. 22
Il giornalista di Vatileaks “Rischio 8 anni non
estradatemi”
Fittipaldi interrogato: non dirò le fonti Sospetti su un monsignore
dell’Apsa
CORRADO ZUNINO
ROMA.
La veloce inchiesta su Vatileaks 2, quella che, senza mai mettere al centro gli scandali
vaticani, vuole scoprire le fonti interne che hanno passato le carte ai giornalisti Gianluigi
Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi (e successivamente alla redazione italiana della Reuters), da
due settimane si è concentrata su un monsignore dell’Apsa, l’Amministrazione del
patrimonio della sede apostolica. L’alto prelato sotto controllo è nelle posizioni primarie
dell’anomala immobiliare vaticana che nelle ultime stagioni si è messa a fare concorrenza
allo Ior agevolando transiti di denaro. Gli inquirenti, guidati dal capo gendarmeria
Domenico Giani, hanno certificato che i documenti economici che attestano sprechi e lussi
della chiesa vaticana sono usciti anche in tempi recenti, successivi alla pubblicazione dei
libri. I promotori di giustizia vogliono punire chi li ha allungati e fermare questo rilascio di
notizie che imbarazza profondamente la curia romana. L’inchiesta Valtileaks 2 si chiuderà
presto, senza dubbio entro l’otto dicembre, inizio del Giubileo di Roma. Lunedì scorso il
giornalista dell’Espresso Emiliano Fittipaldi, autore di “Avarizia”, si è presentato come
imputato negli uffici del promotore di giustizia. Diverse intercettazioni della gendarmeria
avrebbero svelato le sue fonti. Il procuratore vaticano gli ha contestato l’articolo 116 bis del
nuovo codice di procedura penale, varato nel luglio 2013 dopo l’emersione dello scandalo
delle carte portate fuori dal Vaticano dal maggiordomo di Papa Ratzinger, Paolo Gabriele.
Il 116 bis si aggiunge al 10 — “Divulgazione di notizie e documenti” — e prevede una
reclusione da 4 a 8 anni per chi «rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione
» e che toccano «gli interessi fondamentali della Santa Sede». Tra l’altro, c’è l’ipotesi di
applicare l’articolo 4 — “Delitto commesso all’estero” — per chiedere l’estradizione del
cittadino straniero Fittipaldi. Il giornalista dell’Espresso di fronte al promotore Gian Piero
Milano ha avanzato il segreto professionale, anche se nella Città del Vaticano non esiste
tutela della libertà di stampa. Dopo venti minuti ha lasciato gli uffici.
Ieri, in una conferenza alla stampa estera, Fittipaldi ha detto: «Deciderò a ogni passaggio
come comportarmi. Temo che ci possa essere il rinvio a giudizio, ma credo che la
Repubblica italiana si opporrà a qualsiasi richiesta di estradizione. Sarebbe un precedente
gravissimo. Sono andato in Vaticano perché volevo capire con che coraggio mi si poteva
dire che non posso raccontare la verità. Hanno indagato due giornalisti, ma non vogliono
far luce sull’obolo usato per pagare le spese amministrative e sul fatto che la curia romana
ogni anno perde 77 milioni di euro». Ancora: «Per verificare le mie notizie ho interpellato
anche Bertone e lo Ior ottenendo risposte evasive. Sono imputato in concorso con il
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collega Gianluigi Nuzzi anche se non l’ho mai visto. Il cardinale George Pell ha smentito
quello che ho scritto e, allora, nelle successive edizioni del libro abbiamo aggiunto i
documenti che comprovano che ha speso 78mila euro per acquistare i mobili del
segretario personale, 4.600 euro per trovargli un sottolavello all’altezza, 15.000 euro al
mese per dargli uno stipendio degno. Il cardinale Pell è stato scelto da Papa Francesco
come prefetto economico, d’altronde il papa aveva scelto in una commissione importante il
cardinale Lucio Balda e Francesca Chaouqui, poi arrestati. Credo che il papa abbia
bisogno di un buon capo del personale, ma la verità è che è più solo di quello che
immaginiamo».
Gianluigi Nuzzi, autore di “Via Crucis”, a sua volta convocato nel governatorato per e-mail,
ha deciso di non presentarsi. «Se il Vaticano intende sentirmi per rogatoria davanti
all’autorità giudiziaria italiana valuterò che fare».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 18/11/15, pag. 9
I pm e le piste (abbandonate?) nelle indagini
su Milano Expo
di Gianni Barbacetto
Ora che il Grande Evento, l’Azione Parallela, l’Expo dei Miracoli è finita, si avvicina la resa
dei conti. Dovranno essere redatti i bilanci, stabiliti gli extra-costi, realizzate le bonifiche.
Dovranno anche essere concluse le indagini ancora aperte. Tra queste, quella sulla
“piastra”, l’appalto più grosso: messo a gara per 272 milioni e vinto nell’agosto 2012 dalla
cordata capeggiata dalla Mantovani, con un’offerta di 165,1 milioni (e poi richieste di altri
110 milioni nel maggio 2014).
Non sappiamo che cosa c’è di nuovo – se c’è – nei faldoni dei magistrati e dei file della
polizia giudiziaria, ma possiamo cercare di seguire le piste aperte, di riallacciare i fili
slabbrati, di ripercorrere i sentieri interrotti. Sappiamo, per esempio, che la Mantovani ha
vinto a sorpresa la gara, con un ribasso da brivido del 41 per cento, spiazzando l’allora
presidente della Regione, Roberto Formigoni, e il gran capo di Infrastrutture Lombarde
(Ilspa), Antonio Rognoni (poi arrestato, per altre vicende, nel marzo 2014). Alla vigilia
dell’apertura delle buste, per la “piastra” sembrava favorita Impregilo, ma evidentemente
Mantovani viene aiutata da “spifferi” sulla gara filtrati dall’interno di Expo spa, in cui aveva
un ruolo determinante Angelo Paris, il braccio destro del commissario Giuseppe Sala.
Rognoni e gli altri del suo fronte sono costretti a ingoiare il rospo, ma ecco allora che i
vertici di Expo s’incaricano di “punire” la Mantovani imponendo condizioni più dure
all’appalto. Mantovani accetta tutto, tanto sa che poi si rifarà con gli extracosti.
L’allora presidente di Mantovani Costruzioni, Piergiorgio Baita, racconta ai magistrati
veneziani che indagavano sul Mose: “Lo so che la nostra vincita all’Expo ha scosso tutto
l’ambiente milanese, perché noi abbiamo vinto ma non dovevamo vincere noi… Ci hanno
detto che se volevamo il lavoro dovevamo raddoppiare la fideiussione”.
Scatta quella che i pm di Venezia – che hanno poi mandato le carte a Milano – chiamano
la “mediazione strana”: Baita paga 3,1 milioni di euro a un broker di Caserta, incaricato di
trovare una compagnia assicurativa in grado di emettere una fideiussione a copertura di
52 milioni di euro necessari per l’appalto della Piastra. Il broker si chiama Agostino
Raffaele Luongo, titolare della Data Management Ltd di Londra, il quale propone la Hill
Insurance, con sede a Gibilterra. Ma la Hill appartiene allo stesso Luongo, che incassa
una mediazione (in seguito ridotta a 1 milione e mezzo di euro) per dare un incarico a se
stesso.
Poi, nell’agosto 2012, interviene l’Isvap (l’Autorità di vigilanza sulle assicurazioni) che vieta
alla Hill di operare. Luongo con i suoi soci viene denunciato per associazione a delinquere
finalizzata alla truffa e Baita deve rifare tutto: “Abbiamo dovuto ridare una fideiussione con
la Reale Mutua, ma ci abbiamo rimesso 1 milione e mezzo”. Restano aperte alcune
domande: perché affidare quell’incarico a Luongo e alla sconosciuta Hill? Dovevano
essere il tramite per far arrivare soldi a qualcun altro?
Ancor più strana la vicenda delle quote Socostramo. Mantovani aveva molti cantieri in
consorzi di cui faceva parte anche la Socostramo, società quasi inesistente dal punto di
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vista operativo, ma controllata da Erasmo Cinque, potente costruttore romano molto vicino
ad Alleanza Nazionale e ad Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture dell’ultimo governo
Berlusconi. Il rapporto Cinque-Matteoli era così stretto che – racconta Rognoni ai
magistrati – quando doveva parlare di lavori pubblici con il ministro Matteoli, trattava con
Erasmo Cinque: “Lui era il segretario, era il sottosegretario di Matteoli”. Ebbene, tra il 2011
e il 2015, la Mantovani acquista le partecipazioni di Socostramo srl in almeno sei consorzi
(Alfa, Talea, Talea2, La Quado, Fagos, ConExpo 2015) pagando a Cinque circa 20,5
milioni di euro.
È il valore nominale delle partecipazioni. Non il valore reale, evidentemente, perché la
Mantovani le iscrive a bilancio, ma poi in alcuni casi le svaluta. Intanto però un tesoretto
milionario è uscito dalla Mantovani ed è entrato nelle casse di Socostramo. Anche qui,
restano domande aperte: perché acquistare quelle partecipazioni? A chi è andato quel
tesoretto?
Sono solo domande, piste investigative. Chissà se sono state seguite o se invece si sono
inaridite, dopo il conflitto alla Procura di Milano tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e
il suo aggiunto Alfredo Robledo e la conseguente scelta di Rognoni di chiudersi nel
silenzio. Prima di bloccarsi, aveva raccontato che era andato da lui “Ottaviano Cinque, il
figlio del proprietario della Socostramo, Erasmo Cinque”: “Mi dà questo bigliettino nel
quale mi dice: ‘A noi risulta di essere andati molto bene sulla parte tecnica’. E io cado dalla
sedia. La cosa che mi preoccupò fu che, siccome era effettivamente così, significa che c’è
qualcuno della Commissione di Expo (che non sono io, mai occupatomi della gara) che si
permette di fare una cosa illegittima”, cioè di dare notizie segrete sulla gara d’appalto.
del 18/11/15, pag. 23
La versione Cutolo sul caso Moro “Rapito
con le armi della ’ndrangheta”
Le rivelazioni dal 41 bis dell’ex capo della Nco “Patto in carcere tra le Br
e le cosche calabresi”
PAOLO BERIZZI
DAL NOSTRO INVIATO
PARMA.
Le armi usate dal commando delle Brigate Rosse per rapire e uccidere il presidente della
Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e per falciare i cinque uomini della sua scorta in via
Fani, uscirono dall’arsenale della ‘ndrangheta. Quasi certamente in cambio di una
contropartita coi terroristi. Con tutta probabilità nel perimetro di una trattativa criminale
ancora avvolta nel mistero, ma della quale, oltre ai due “contraenti” — brigatisti e
‘ndranghetisti — , erano al corrente anche pezzi deviati dei servizi segreti. Gli stessi
soggetti che — ed è la seconda rivelazione — , affidando l’ambasciata al braccio destro di
Cutolo — il fedelissimo Vincenzo Casillo, detto ‘o Nirone, fatto saltare in aria con la sua
auto a Roma il 29 gennaio 1983 vicino alla sede del Sismi — intimarono all’ex capo della
Nuova Camorra Organizzata di «togliersi di mezzo » proprio quando il boss aveva la
possibilità di trattare in carcere con le Br per arrivare alla liberazione di Moro. È il racconto
emerso dalle dichiarazioni — le prime, ancora da riscontrare —
L’ex boss: “Avrei potuto salvare il leader Dc, come Cirillo. Ma mi imposero di togliermi di
mezzo” rese da Raffaele Cutolo il 14 settembre nel carcere di Parma (dove è detenuto al
41 bis): dichiarazioni registrate su un file audio dal luogotenente dei carabinieri Giuseppe
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Boschieri e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della Commissione
parlamentare d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Dopo aver svelato la
collaborazione con lo Stato (da non confondersi con un pentimento o una dissociazione)
del vecchio capo camorrista — dietro le sbarre da oltre 50 anni e da 23 anni sottoposto al
carcere duro — , Repubblica ha potuto conoscere il contenuto del documento raccolto
dalla Commissione sull’“escussione del detenuto Cutolo Raffaele”. Un documento
secretato. Anzi, l’unico, coperto da segreto, di tutti i 41 documenti messi agli atti
dall’organismo parlamentare. Cutolo è una pagina di verbale (il documento 316/1, inserito
nel protocollo 1027). Una goccia nel mare delle 1.415 pagine di indagine annunciate finora
all’ufficio di presidenza (la commissione è guidata da Giuseppe Fioroni). Partiamo da qui:
perché l’interrogatorio del detenuto “Cutolo Raffaele” è stato secretato? «Stiamo cercando
riscontri alle sue parole ». Così ha fatto sapere ieri la Commissione d’inchiesta,
confermando la nostra anticipazione. Al di là dell’«obbligo di prudenza » e del «riserbo»
richiesti da una testimonianza ritenuta «delicata » — perché «di interesse per indagini in
corso» — va detto che le circostanze e i dettagli riferiti dall’ex boss di Ottaviano “scottano”
anche per un altro motivo. Riscrivono, almeno in parte, alcuni degli scenari dei 55 giorni
del sequestro dello statista Dc (e del periodo che lo precede). Almeno per come li abbiamo
conosciuti fino ad oggi. Ecco che cosa riferisce Cutolo: «Quando ero nel carcere di Ascoli
Piceno, seppi che, in epoca immediatamente antecedente al sequestro Moro, ci furono
ripetuti contatti di membri delle Br con ambienti ndranghetisti al fine di acquisire armi in
favore dei terroristi». Armi da utilizzare per l’assalto di via Fani, dove Moro fu rapito dopo
una carneficina nella quale rimasero uccisi i cinque uomini della scorta. La ‘ndrangheta,
dunque, dice Cutolo. Un inedito. Già. Perché se erano sin qui noti — con la vicenda del
sequestro e della liberazione di Ciro Cirillo — i collegamenti di quegli anni (siamo tra il
1978 e il 1981) tra le Brigate Rosse (in particolare la colonna napoletana diretta da
Giovanni Senzani) e la camorra (capeggiata da Cutolo), nulla si sapeva di una
connessione tra i brigatisti e le cosche calabresi. Il link — stando al racconto di Cutolo —
sembra dunque ruotare intorno al caso Moro. «Avrei potuto salvarlo — ha riferito l’ex boss
della Nco — . Così come feci tre anni dopo con Cirillo, quando lo Stato mi chiese di
intervenire. Ma per Moro non andò così. Avviai delle trattative coi brigatisti in carcere, ma
a un certo punto Vincenzo Casillo mi disse:
leva ‘ e mani (togliti di mezzo, ndr). Seppi poi che Casillo lavorava anche per i servizi...».
Basta tirare i fili per avanzare ipotesi. Lo faranno, ora, i magistrati della commissione
Moro. Viene da chiedersi: la collaborazione del 74enne Cutolo continuerà, o è stata solo
episodica? Altro dubbio: possibile sia finalizzata a ottenere una riduzione delle misure di
pena? «Se ha deciso di dare una mano per ricostruire una vicenda drammatica e oscura
— dice il suo legale, Gaetano Aufiero — conoscendolo escludo lo abbia fatto per fini
reconditi o per passare all’incasso. Lo avrebbe fatto molto prima, se avesse voluto».
del 18/11/15, pag. 25
A Rebibbia Prima udienza a Rebibbia: i presunti «capi» seguono tutto in
diretta dal carcere
Gli imputati di Mafia Capitale nelle gabbie
dell’aula-bunker
Sfida su chi ha diritto ai danni
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Chiesta l’esclusione dal risarcimento di Pd e associazioni antiracket
ROMA L’immagine di Luca Gramazio dietro le sbarre, con la barba curata e il maglione
griffato, è la fotografia del terremoto provocato dall’indagine romana su «Mafia Capitale».
Fino a sei mesi fa era il capogruppo del Pdl alla Regione Lazio e prima in Campidoglio,
figlio d’arte dalla carriera politica già tracciata a 35 anni non ancora compiuti; oggi è tra la
dozzina d’imputati chiusi in gabbia, costretto a comunicare a gesti con quelli della cella
accanto, in un inevitabile quanto umiliante «effetto zoo».
La prima udienza nell’aula-bunker del carcere di Rebibbia del processo contro Massimo
Carminati e i suoi presunti complici accusati di associazione mafiosa e altri reati offre tutti
gli ingredienti del maxiprocesso: dai detenuti in gabbia alle decine di avvocati che si
susseguono ai microfoni in otto ore di questioni preliminari. Oltre le sbarre che nel corso
dei decenni hanno separato dal resto del mondo terroristi, boss e criminali d’ogni risma, i
«colletti bianchi» accusati di una nuova forma di mafia «originaria e originale» sono
mescolati a personaggi pressoché sconosciuti fino all’esplosione dello scandalo.
Nella gabbia numero 2 c’è il calabrese Rotolo, che ha colorato di ‘ndrangheta la
ricostruzione dell’accusa, con altri due imputati; nella 3 ecco Gramazio con altri quattro tra
cui un ex collaboratore di Salvatore Buzzi, che passeggia avanti e indietro e — denuncia il
suo difensore — dal momento dell’arresto ha perso 27 chili; nella numero 4 c’è Franco
Panzironi, corpulento come quando governava la Municipalizzata dei rifiuti, insieme a
quattro coimputati. I «capi» della presunta banda — Carminati, Buzzi, Riccardo Brugia e
Fabrizio Testa — stanno più larghi, ciascuno nella stanza del carcere dal quale è collegato
in videoconferenza. Buzzi prende appunti, gli altri ascoltano immobili le eccezioni degli
avvocati. Che pure quando discutono le cinquanta e più richieste di costituzione di parte
civile, continuano a scavare la loro linea del Piave: corruzione sì, ma mafia no. E attacco
al «processo mediatico».
Quando prende la parola nell’interesse di Carminati, Brugia e Testa, l’avvocato Ippolita
Naso punta il dito sulle associazioni di immigrati nonché «i signori nomadi», secondo le
quali gli imputati avrebbero sfruttato (ai danni dei loro assistiti) «il business dei migranti».
Dopo gli strali lanciati nella scorsa udienza dal padre, Bruno Naso, contro gli spot che
hanno «dopato» l’indagine, adesso è la figlia che attacca: «Nei capi d’imputazione non c’è
traccia di questo business , evocato solo dalla maledetta intercettazione in cui Buzzi dice
che con gli immigrati si guadagna più che con la droga; una frase trasmessa in
continuazione come un trailer cinematografico, che può scandalizzare qualche anima
candida ma non ha alcuna rilevanza processuale».
L’avvocato Naso jr se la prende anche con le richieste pretestuose e inverosimili avanzate
da organismi come la Federazione per la somministrazione e il turismo: «Tutela le
tradizioni gastronomiche, non si capisce a che titolo pretenda risarcimenti»; o dal Partito
democratico che lamenta i danni d’immagine: «Non mi risulta che Carminati sia mai stato
iscritto al Pd, quel partito se la prenda coi suoi rappresentanti che si sono fatti coinvolgere
in questi fatti». Il legale di Buzzi rivendica la «indiscutibile qualità dei servizi» offerti dalle
cooperative del suo cliente, mentre quello del gestore della pompa di benzina dove
Carminati era di casa vuole lasciare fuori dal processo le Associazioni antiracket e
antiusura: «Il mio assistito è accusato di aver preteso la restituzione di un migliaio di euro,
il valore di alcuni pieni di carburante: su questo si fonda l’accusa di associazione
mafiosa!».
Naturalmente la versione dell’accusa è tutt’altra, ma i primi duelli sono indicativi del binario
sul quale i difensori vogliono indirizzare il processo. Terminata la discussione gli avvocati
dello Stato e del Movimento 5 Stelle si ribellano al tribunale che non concede tempo alle
repliche (non previste dal codice), e in aula si scatenano grida e proteste. Alla fine i giudici
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tagliano fuori dal processo proprio i grillini, Confindustria, il Codacons e altri gruppi
lasciando dentro quasi tutte le associazioni anti mafia.
Giovanni Bianconi
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INFORMAZIONE
del 18/11/15, pag. 10
Altri ritocchi. La Commissione chiede un giorno in più, entro sabato il sì
del Senato, probabile la fiducia
Canone Rai, pagamento in 10 rate
ROMA
Canone Rai da pagare in 10 rate mensili da 10 euro con le bollette elettriche bimestrali.
Congedo parentale di 2 giorni per i papà “godibili” anche in via non continuativa. Proroga
per il 2016 e il 2017 delle agevolazioni fiscali per il rientro dei cosiddetti cervelli in fuga nel
periodo compreso tra il 1° marzo e il 6 ottobre 2015. Sono alcune delle modifiche alla
Stabilità presentate dalle relatrici Magda Zanoni (Pd) e Federica Chiavaroli (Ap) in
commissione Bilancio del Senato in aggiunta al pacchetto casa. Nulla di fatto invece sul
nodo Sud, che sarà affrontato alla Camera.
La decisione è stata presa ieri dal Governo per consentire al premier di valutare bene le
due opzioni in campo: mini-credito d’imposta sugli investimenti nelle aree svantaggiate o
prolungamento a tre anni della decontribuzione per i neoassunti. Lo scoglio da superare è
soprattutto quello delle risorse utilizzabili vista anche la necessità di aumentare la dote per
il capitolo sicurezza. Questo tema è stato rimandato alla Camera così come quelli della
sanità e delle pensioni. Il repentino stop sul Sud al Senato ha provocato la reazione anche
ostruzionistica dell’opposizione con conseguente rallentamento dei lavori in Commissione.
In serata il ministro Maria Elena Boschi nel tentativo di rasserenare il clima ha confermato
che servono «ulteriori approfondimenti» per rendere compatibili con i vincoli di finanza
pubblica gli interventi su Sud e sicurezza sottolineando che il Senato sta comunque
decidendo su temi importanti. Le opposizioni hanno chiesto la sospensione dei lavori per
decidere se cambiare la loro strategia parlamentare. La Commissione ieri non ha potuto
dare come previsto il suo ok. Il sì della Bilancio è stato rimandato ad oggi con lo
slittamento a giovedì dell’approdo del testo in Aula che dovrebbe dare il primo via libera
alla manovra con un probabile voto di fiducia entro sabato.
Tra i correttivi delle relatrici anche un pacchetto scuola-ricerca. Con un ritocco che stanzia
1,5 milioni in 3 anni per il diritto allo studio: il 60% va agli studenti delle famiglie meno
abbienti in particolare del Sud. Previsto il restyling del piano di assunzioni di 1.000
ricercatori: 200 saranno destinati agli enti di ricerca ai quali è anche consentito di
continuare ad avvalersi del personale con contratto di collaborazione coordinata e
continuativa «in essere alla data del 31 dicembre 2015». Sulla chiamata diretta dei 500
prof per attrarre i migliori talenti dall’Italia e dall’estero le risorse stanziate rimarranno in un
fondo ad hoc per il merito.
Sul fronte fiscale è prevista l’estensione delle misure per le società di comodo agli
imprenditori individuali con beni immobili strumentali (possibilità di optare dal 2016 per
un’imposta sostitutiva di Irpef e Irap all’8%).
Pronto anche un nuovo pacchetto di modifiche delle relatrici. A cominciare dal riduzione
del taglio ai Caf (da 100 a 40 milioni) e ai Patronati (da 40 a 28 milioni). E dal
rafforzamento con altri 28 milioni della dote per le scuole paritarie. In arrivo anche la
proroga per il 2016 del voucher per baby sitter o asili nido e altri ritocchi anche sul fronte
Rai con la possibilità di utilizzare l’eventuale maggior gettito dal canone per esentare gli
anziani con reddito fino a 8mila euro e garantire nuovo fondi alle tv locali. Certo il ripristino
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a 1.000 euro del tetto ai contanti per i money transfer. Prevista la definizione delle “società
benefit” (attente non solo a utili e dividendi ma anche alle comunità dove operano).
Marco Rogari
del 18/11/15, pag. 18
Breve guida alle falle del progetto del
governo sulla banda larga
Dopo i ritardi degli anni scorsi, ora l’esecutivo sta creando le condizioni
per una duplicazione degli investimenti, mentre la domanda di “rete”
delle famiglie non decolla
Nicola D’Angelo
Il piano per la larga banda procede, ma solo nei preliminari. Mentre l’Italia non decolla
dalla parte bassa delle classifiche europee sugli accessi a Internet e il governo sembra
intenzionato a dimezzare i fondi destinati alla pubblica amministrazione per la sua
informatizzazione, continuano le manovre su chi e come sarà destinatario dei fondi messi
a disposizione dallo Stato per realizzare la rete per la banda larga super veloce.
In questo gran brigare, sfugge però un elemento di tutta evidenza: al di là delle coperture,
cioè dell’estensione della rete, è la richiesta di accesso fisso a Internet nelle case degli
italiani che manca. Qualche dato illuminante (fonte Eurostat e Digital Agenda Scoreboard).
Le reti Adsl, con diversa qualità, coprono il 99% della popolazione, mentre gli abbonamenti
relativi sono solo al 70% (contro la media europea dell’80%). Le reti in fibra ottica coprono
il 36% della popolazione (media europea 68%) con un numero di relativi abbonamenti pari
a circa il 2% (media europea 43%).
Da questi dati è possibile trarre due considerazioni. La prima è che lo sviluppo della larga
e della larghissima banda è stato fino ad ora esclusivamente opera degli operatori privati.
Che hanno precisi piani di sviluppo (talvolta in sinergia tra loro, come nel caso di Telecom
e Fastweb). Salvo cataclismi societari o pastoie burocratiche sembrano intenzionati a
proseguire, soprattutto se ciò sarà conveniente per l’aumento della domanda.
La seconda considerazione riguarda la differenza tra copertura della rete e abbonamenti
attivi. L’Italia sconta prezzi di accesso tra i meno convenienti d’Europa e la percezione
della scarsa utilità di un collegamento alla larga banda. Sui costi si può agire sostenendo
la domanda (in parte il piano del governo si occupa di questo) e le famiglie, attraverso
incentivi di nuova concezione (ad esempio, di tipo fiscale). Per la mentalità, si può far
fronte con un diffuso processo educativo sull’uso delle nuove tecnologie digitali e con un
importante ruolo della Pubblica amministrazione. Non potrà essere solo l’offerta di
contenuti audiovisivi, come sostengono alcuni, a sostenere lo sviluppo delle reti di nuova
generazione.
Resta sullo sfondo l’impegno del governo. Dopo l’approvazione del piano che ha diviso il
territorio nazionale in quattro tipi di aree (cluster), il Cipe, in agosto, ha materialmente
stanziato 2 miliardi e 200 milioni di euro per le zone cosiddette a fallimento di mercato e
rurali (cluster C 1.900 milioni e cluster D 300 milioni) ed è in trattativa con Bruxelles per il
via libera della Commissione Ue (previsto, salvo contrattempi, per i primi mesi del 2016).
Continuano i contatti con le Regioni e la messa a punto delle regole necessarie (quelle sul
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catasto e sulla condivisione delle infrastrutture e sui costi di accesso per gli operatori alla
rete di nuova generazione).
Solo alla fine di questo complesso percorso verranno pubblicati i bandi che all’inizio
riguarderanno le aree dove tendenzialmente non c’è convenienza per gli operatori a
investire. I 2,2 miliardi di euro stanziati faranno quindi gola ai tradizionali operatori di Tlc a
cui si è aggiunta Enel che ha annunciato la costituzione di una società dedicata a utilizzare
la rete della controllata Enel Distribuzione per realizzare una infrastruttura in fibra ottica
accessibile a tutti gli operatori di telecomunicazioni. Un’operazione benedetta dal governo
mirata proprio alle zone a fallimento di mercato (ma non è escluso che in futuro il progetto
si possa allargare anche alle aree più redditizie) e che andrà di pari passo al programma
aziendale di sostituzione dei contatori elettrici con quelli di nuova generazione, in modo da
alleggerire i relativi costi.
L’iniziativa di Enel é già stata salutata con favore da due operatori come Wind e Vodafone.
Si prefigura quindi quell’ipotesi di un’operazione in “condominio” sempre osteggiata da
Telecom durante le trattative con Metroweb. L’ex monopolista ha più volte bocciato
l’ipotesi di collaborazione nei lavori di cablaggio con altri operatori. E in effetti la mossa di
Enel può essere letta come una forzatura nei confronti dell’ex monopolista. Quest’ultimo è
alle prese con l’intrepida iniziativa societaria di Xavier Niel, patron dell’operatore Free.
Resta infatti da capire se la mossa di Niel sia stata concertata con l’altro socio francese
(Vivendi) e quindi quali reali interessi si stanno agitando dietro queste iniziative (l’interesse
di Vincent Bolloré per la rete italiana o meglio per i più appetitosi asset di Telecom in sud
America).
Persa l’occasione per lo Stato di riprendersi la rete di Telecom mediante la Cassa depositi
e prestiti ora il governo sta creando le condizioni per una duplicazione di investimenti (c’è
da immaginare, se non altro per la sua sopravvivenza, che Telecom proseguirà nei suoi
piani). Senza contare che Enel si propone perché deve cambiare i suoi contatori, che
spesso non si trovano nelle abitazioni. Dovranno quindi essere spostati dentro le case per
portare anche la fibra, con inevitabili costi nella bolletta elettrica.
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CULTURA E SCUOLA
del 18/11/15, pag. 46
Il grande sociologo della modernità liquida domani compie 90 anni
Racconta la sua storia e guarda il mondo “È un campo minato”
Bauman
“Io, sempre straniero l’unico giudice è la mia
coscienza”
WLODEK GOLDKORN
Capita di rado, e quando succede è indice di una straordinaria lucidità del protagonista,
che un testimone di un’epoca particolarmente difficile e con forti tratti di tragicità ne sia
anche uno dei più perspicaci e critici interpreti. Ma è questo: capire e spiegare l’ultimo
secolo della modernità, dalla tentazione di rendere il mondo solido, univoco, privo di ogni
ambiguità (e si vedano i fascismi e il comunismo) fino all’approdo a un universo sociale
liquido e frammentario, con il corollario del terrorismo; il ruolo che si è dato Zygmunt
Bauman; lui stesso ebreo, vittima del nazismo, comunista e poi anticomunista espulso nel
1968 dal suo paese natio. Il sociologo polacco, oggi di casa in
Inghilterra,a Leeds, una modesta dimora da professore universitario – e dove lui si occupa
delle faccende domestiche, cucina, stira, pulisce – domani compie i 90 anni. E, più che
un’occasione per trarre il bilancio di una vita, questa conversazione serve a ribadire il
duplice ruolo, del pensatore tra i più influenti nel mondo e nel contempo dell’oggetto del
proprio studio. Dice Bauman: «Talvolta più che un ornitologo, mi sento un uccello». La
conversazione non può che cominciare con l’attualità, Parigi e la guerra in casa: «È come
se vivessimo in un campo minato, sappiamo che le esplosioni continueranno, ma non
sappiamo dove e quando ci sarà la prossima. La quantità di armi in circolazione (anche
grazie ai nostri governi) è tale che pochi kamikaze sono in grado di provocare una catena
di azioni e reazioni di conseguenze incalcolabili. E poi, i problemi da affrontare sono
globali, ma ne fanno fronte le autorità locali, incapaci di arrivare alle radici del male.
Tentare di affrontare problemi globali con mezzi locali è infatti come cercare di rimettere il
dentifricio nel tubetto. Finisce che soffre la democrazia, la gente matura la convinzione che
occorra rinunciare alle libertà conquistate a caro prezzo, in nome della (presunta)
sicurezza. Si crea un circolo vizioso che vede agire di concerto gli xenofobi locali e i
terroristi globali».
Insomma, a 90 anni, tocca a Bauman assistere al disfarsi di un altro mondo ancora. È nato
a Poznan, il 19 novembre 1925. La Polonia indipendente esisteva da appena sette anni, e
non era un Paese dove le minoranze nazionali avevano una vita facile. Poznan poi, era la
roccaforte della destra antisemita che esaltava una patria per i soli cattolici. Racconta
Bauman: «A scuola, durante gli intervalli, non uscivo nel cortile. Era l’unico modo per
evitare i calci e le botte degli altri. Amavo i libri. E andavo spesso in una libreria. Ma non
avevo soldi».
L’impresa commerciale di suo padre fallì, causa crisi.
«Sì, fu una vicenda durissima. Un giorno in quel negozio vidi un cartello: “locale cristiano”.
E accanto un altro: “compra dal polacco” (significa non comprare dagli ebrei, ndr).
Frequentavo anche una biblioteca pubblica, finché vidi sullo scaffale la rivista Alla gogna.
Non ci tornai più».
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“Alla gogna” era una delle più volgari riviste antisemite mai esistite. Nel 1939 Hitler
invade la Polonia. Lei, appena 14enne, scappa in Urss, diventa piccolo comunista e
si arruola nell’esercito polacco che combatte a fianco dell’Armata rossa.
«Nel ginnasio sovietico posso finalmente correre sul campo dietro al pallone (e tuttora
sono un tifoso: di squadre perdenti): nessuno mi dice che devo andarmene in Madagascar
o in Palestina e, quando confesso il mio amore per le lettere polacche, nessuno mi ricorda
che sono un ebreo e quindi non devo usurpare una cultura non mia. Il mio essere polacco
è sempre risultato sospetto, come se l’appartenenza alla Polonia l’avessi rubata senza
averne il diritto e così fino a oggi. Ma possiamo parlare anche delle mie idee e non solo
della biografia?».
Nel 1968, in seguito alle manifestazioni degli studenti, lei, allora professore
all’Università di Varsavia viene dichiarato il nemico pubblico numero uno, sia in
quanto deviazionista, sia in quanto sionista (e cioè ebreo). Fino a metà degli anni
Sessanta però lei è stato comunista ed è stata un’esperienza fondamentale. Cosa
era il comunismo?
«Il comunismo non è nato per miracolo né è caduto dal cielo, non è un prodotto
dell’inferno. Segna invece una continuità con la storia. È uno dei risultati della riflessione
filosofica, manifestatasi dopo il terremoto di Lisbona del 1755, che ha come scopo
abbandonare l’atteggiamento da “guardaboschi” nei confronti del mondo a favore invece di
una posizione da “giardiniere”. Il giardiniere sistema il mondo; sceglie le piante giuste,
estirpa quelle nocive. Il comunismo non è un’utopia romantica, ma è figlio del secolo dei
Lumi, di Voltaire e Diderot. E ha qualcosa di messianico. Trotzky si considerava forse
come un messia degli ebrei, forse come una specie di Cristo, forse pensava al secondo
Avvento».
E poi?
«Infine, il comunismo è una tecnica di conquista del potere, tecnica golpista, tecnica che
permette di ignorare i risultati delle elezioni, e che tende alla totale manipolazione delle
coscienze e del linguaggio».
E con questa risposta ha spiegato anche perché a un certo punto smise di essere
comunista. Ma l’adesione a cosa era dovuta?
«Camus disse che la particolarità del Novecento stava nel fatto di causare il Male in nome
del Bene. C’era il fascino del nuovo inizio, che a sua volta si basava sulla repulsione per il
vecchio mondo. Nell’adesione al comunismo c’è molto del socialdemocratico Bernstein e
di Walter Benjamin con il suo Angelo della storia. Il bolscevismo è stato una specie di
Partito dell’azione. E, per quanto mi riguarda, ero un giovane soldato decorato con una
medaglia al valore militare per aver partecipato alle cruenti battaglie di Kolberg e di
Berlino. Non ero un intellettuale. Volevo che il mio povero e infelice Paese cambiasse».
Seguono gli anni del potere comunista. Lei diventa un sociologo importante, poi un
dissidente; infine, espulso, va in Israele ma vi rimane pochissimo...
«Non volevo scambiare il nazionalismo polacco di cui sono stato una vittima, per il
nazionalismo israeliano».
La sua non è una biografia comune...
«Non esistono biografie comuni. Ogni uomo è un mondo a sé, irripetibile».
Sarà, ma la sua, è una biografia molto ebraica. Ha vissuto in Polonia, Israele,
Inghilterra. Ovunque è rimasto straniero.
«Un comico inglese diceva che l’ebreo è un uomo che in ogni luogo è fuori luogo. Sì, sono
nato straniero e morirò straniero. E sono innamorato di questa mia condizione. Con mia
moglie Janina, scomparsa quasi cinque anni fa, eravamo uniti in tutto, ma una cosa non
l’ho condivisa con lei: ha scritto Il sogno di appartenenza, un libro in cui esprimeva il suo
bisogno di appartenere. Io ne faccio a meno. Nell’essere “straniero” ci sono alcuni privilegi.
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Il più grande di questi è potersene infischiare dell’opinione pubblica. L’unico tribunale è
quello della propria coscienza ed è il più severo di tutti».
Come le è venuta l’idea della modernità liquida?
«Fin da bambino sono stato affascinato dalla fisica. Poi sono diventato un sociologo e non
un astronomo come sognavo. L’idea della modernità liquida mi è venuta leggendo il
fondamentale libro di Ilya Prigogine, Nobel per la fisica, The End of Certainty.
Prigogine parlava della debolezza dei legami tra le molecole dei liquidi contrapposta alla
forza di questi legami nei corpi solidi ».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 18/11/2015, pag. 6
Studenti, 35 mila in piazza per il diritto allo
studio e contro il terrorismo
Istruzione. Per la "libertà di istruzione" e di "mobilità in Europa". In
cinquanta città contro la buona scuola di Renzi-Giannini e per
rifinanziare un sistema strozzato dal ricalcolo dell'Isee. Flash-mob per
fermare la «fuga dei cervelli» organizzati nelle stazioni da Flc-Cgil,
dottorandi, precari e studenti. Presentati alcuni emendamenti alla legge
di stabilità
Trentacinquemila studenti sono scesi in piazza ieri in 50 città e hanno risposto all’appello
internazionale per ribadire l’importanza della libertà di movimento e di istruzione promosso
dai sindacati europei degli studenti medi e universitari (Obessu e Esu). La mobilitazione
della Rete della Conoscenza (Link e Uds) è diventata l’occasione per solidarizzare con le
vittime del terrorismo a Parigi e schierarsi contro «l’odio razzista e xenofobo». Nelle
piazze, dal Trentino alla Sicilia, anche la rete degli studenti e l’Udu. Gli slogan declinati in
inglese: «We are in credit» (Siamo in credito) e «Free education» (Istruzione libera)
A Roma il corteo era stato inizialmente vietato dalla Questura. La motivazione addotta
sarebbe stato «il rafforzamento delle misure antiterrorismo».
Poco dopo una serie di blitz all’alba al ministero dell’Istruzione e al Pincio, nella prima
mattinata il divieto è caduto. «A un certo punto è sembrato che la retorica delle libertà
occidentali si fosse fermato alle porte della Questura di Roma» hanno detto gli studenti
della Rete della Conoscenza. Non è escluso che divieti dello stesso tenore si ripetino dopo
l’inizio del Giubileo: l’8 dicembre. Al corteo romano ha partecipato anche il deputato di
«Sinistra italiana» Stefano Fassina.
Mobilitati per il diritto allo studio e il rifinanziamento della ricerca anche dottorandi,
ricercatori precari e sindacati che ieri hanno organizzato flash mob sul tema
«#menevado?» nelle stazioni di Roma, Firenze, Torino, Milano, Padova, Pisa e Bari. «Con
in mano una scatola di cartone-valigia abbiamo raccontato la situazione degli studenti
e dei ricercatori costretti a lasciare l’Italia in cerca di lavoro all’estero. Noi non vogliamo
andarcene». In una conferenza stampa al Senato, i dottorandi dell’Adi, il Coordinamento
precari Crnsu, il sindacato Flc-Cgil e gli universitari di Link hanno presentato alcuni
emendamenti alla legge di stabilità. Chiesto, tra l’altro, il reintegro del Fondo di
finanziamento per gli atenei di 800 milioni di euro «quanto tagliato dal 2009 a oggi»;
l’aumento del fondo integrativo per coprire le borse di studio e rispondere all’emergenza
Isee; un piano di reclutamento pluriennale di assunzioni di ricercatori a tempo determinato
e lo sblocco del turn-over. Richiesti fondi per il dottorato di ricerca: in Italia ci sono 2 mila
dottorandi senza borsa. Oggi studia chi può permetterselo. E paga. Forte è la
mobilitazione contro il ricalcolo del nuovo Isee che ha escluso migliaia di studenti dalle
borse di studio. A Palermo ieri è stato occupato un edificio dell’assessorato regionale
all’Istruzione. A Bologna il neo-rettore Ubertini ha annunciato un piano straordinario per
«attenuare» l’impatto sugli studenti.
Nel frattempo a Roma aumentano gli istituti occupati contro la riforma «Buona scuola»:
Socrate, Nomentano, Cannizzaro, poi il Machiavelli e l’Alberti, oltre all’Orazio, Primo Levi
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e il Peano. Un emendamento per «sostenere l’accesso dei giovani meno abbienti
all’università» è stato depositato dalle relatrici alla legge di stabilità: milione e mezzo in tre
anni, dal 2016 al 2018. Dovrebbe essere presentato in commissione Bilancio al Senato. Il
60% delle risorse è destinato alle regioni del Sud e alle isole.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 18/11/2015, pag. 7
Manovra, l’Ue rimanda l’Italia
Legge di Stabilità. Via libera solo a metà: in primavera l’Europa deciderà
se concedere la flessibilità. Confermate da Bruxelles anche le critiche
sull’abolizione della Tasi
Anche se Renzi e Padoan fanno finta di niente, la notizia è pessima e soprattutto inattesa.
Il via libera della commissione Ue alla legge di stabilità c’è soltanto a metà: l’Italia resta
una sorvegliata speciale. Di fatto il verdetto europeo sulla manovra di Renzi suona come
un chiaro: «Rimandato ad aprile». In quel mese infatti, dopo aver vagliato il programma di
stabilità, la commissione deciderà se concedere o meno la flessibilità invocata dall’Italia.
Gli occhiuti esaminatori baseranno la loro scelta, dice il testo licenziato ieri dalla
commissione, valutando «se le deviazioni richieste sono effettivamente usate per
aumentare gli investimenti» e sull’esistenza o meno «di un credibile piano di
aggiustamento».
L’Italia aveva chiesto di applicare la flessibilità, oltre che sul capitolo investimenti, anche
sui circa 3 miliardi considerati necessari per fronteggiare l’emergenza rifugiati. Il semaforo
verde non è arrivato, ma neppure quello rosso, ed è già un conforto per palazzo Chigi, dal
momento che il commissario Moscovici ha sottolineato che la richiesta è in parte
ammissibile, solo per l’Italia, in virtù delle sue riforme «importanti e di qualità». In parte,
l’Europa ricompensa dunque il premier italiano per aver varato la riforma istituzionale
invocata: quella che restringe i margini di democrazia effettiva a favore di una
concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Ma non al punto di allentare il controllo
sui conti della penisola.
Nel complesso, il tono del documento è severo. Parla senza mezzi termini del «rischio di
deviazione significativa dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine
nel 2016». Avverte che la commissione continuerà a monitorare da vicino i conti italiani. Si
scaglia contro la vera bestia nera, l’eliminazione della Tasi che appare «non in linea con
l’obiettivo di avere una struttura dell’imposizione più efficiente».
«Questa riserva — commenta Maurizio Landini — conferma che Renzi è completamente
inserito negli stessi vincoli di Monti e Letta». La minoranza Pd, per bocca di Fornaro, legge
nei dubbi della commissione Ue «la conferma della fondatezza delle nostre critiche». Le
quali non toccano però il ministro Padoan, che vede il bicchiere mezzo pieno: «L’esecutivo
europeo riconosce che, anche grazie alle politiche del governo, la ripresa accelera nel
prossimo anno». Poi respinge ogni appunto: «Il bilancio 2016 è stato costruito in modo
coerente con il Patto di stabilità». Fino alla primavera tanto ha da bastare.
Perché sul fronte della Tasi, che Renzi considera vitale per l’esito delle elezioni
amministrative, il governo non intende recedere di un millimetro. Ieri, anzi, è stato
approvato dalla commissione Bilancio del Senato un emendamento delle relatrici che
estende la detassazione al comodato d’uso concesso a figli o genitori, purché il
proprietario possegga solo quella casa in Italia e figuri come residente nella medesima
nell’anno precedente. Sulla carta è solo un’estensione dell’abolizione della Tasi a chi, pur
proprietario di una casa, abita in un’altra, purché l’abitazione di proprietà sia lasciata a un
figlio o a un genitore. Ma è probabile che l’estensione apra la strada a trucchi e sotterfugi
di ogni genere per aggirare la tassa.
Un altro capitolo incandescente della legge è rappresentato dalle misure in favore del Sud,
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o più precisamente dall’assenza di qualsiasi vera misura del genere. Al momento non si va
oltre un leggero aumento della decontribuzione per chi assume, investe o acquista nuovi
macchinari. Sono in discussione altre norme, ma per ora non se ne fa niente. Verranno
introdotte, come le nuove misure sulla sicurezza, alla Camera. Partita chiusa sul canone
Rai: sarà inserito nella bolletta della luce diviso in 10 rate, da gennaio a ottobre.
La legge arriverà in aula giovedì prossimo, e procederà a passo di carica. Il voto finale
è previsto per sabato. In mezzo c’è un solo possibile incidente di percorso, sull’aumento
a 3000 euro del tetto di contante. Non che la cosa preoccupi palazzo Chigi. Il ricorso al
voto di fiducia è già pronto.
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