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John Fante - Charles Bukowski
L’AMERICAN DREAM
CHINASKI
DI
ARTURO BANDINI
SCIVOLÒ NELL’AMARO DISINCANTO DI
Una lettura incrociata dei due magnifici scrittori Usa. L’italo-americano, di origini
abruzzesi, coltiva nei suoi romanzi ancora l’idea di una terra in cui in cui i desideri si
possono avverare. Il narratore di “Storie di ordinaria follia”, di origini tedescopolacche e di undici anni più giovane, non ha più aspettative né illusioni, ma riesce
nonostante tutto ad amare luoghi come Los Angeles e le persone che vi abitano, con
una sorta di strano e cinico amore. I due si conobbero nel 1978 e ‘Hank’ quasi ricattò
il suo editore per convincerlo a ristampare i libri dell’autore di “Chiedi alla polvere”.
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di Ilenia Appicciafuoco
“(…) Così, presto, ci accorgevamo di ascoltare un racconto, di quelli che poteva benissimo
pubblicare, intensi, disperati come tutto quello che scriveva, senza futuro, sempre intrisi di dolore,
senza speranza e senza sorriso: solo in compagnia del vuoto di chi ha conosciuto la sabbia portata
dal vento tra le immondizie e gli scarafaggi su pareti senza colore (…) ”.
Queste poche righe sono tratte dall’articolo che Fernanda Pivano pubblicò sul Corriere della Sera
nel 1994 in occasione della morte di Henry Charles Bukowski, o Hank, come lui preferiva essere
chiamato…
Se sfogliamo il libro di John Fante Un anno terribile (Fazi Editore, 2001) e lo apriamo a pagina 44
vediamo come il protagonista del romanzo ed alter-ego dell’autore, Dominic Molise, descrive
l’atmosfera che avvertiva tra le (fredde) mura della sua casa: “(…) Sognatori, eravamo una casa
piena di sognatori. La nonna sognava la sua casa nel lontano Abruzzo. Mio padre sognava di essere
senza più debiti e di fare il muratore a fianco di suo figlio. Mia madre sognava la sua ricompensa
celeste con un marito allegro che non scappava mai. Mia sorella Clara sognava di fare la suora e
mio fratello Frederick non vedeva l’ora di crescere per diventare un cowboy. Se chiudevo gli occhi
riuscivo a sentire il ronzio dei sogni per tutta la casa (…)” (op. cit. pag 44).
John Fante nasce a Denver, nel Colorado, l’8 Aprile del 1909, è figlio di Nick Fante originario di
Torricella Peligna, un comune in provincia di Chieti che oggi conta 1.520 abitanti. Nel romanzo La
confraternita dell’uva edito nel 2004 da Einaudi Stile Libero, il luogo d’origine del padre di Fante
viene definito un “(..) misero paesino appenninico, molto simile alla Fontamara di Ignazio Silone
(…)” (op. cit. sezione “John Fante: la vita e le opere” pag. 23). È da qui che comincia la storia
personale e letteraria del ‘padre’ di Nick Molise e Arturo Bandini, un luogo che egli stesso
conoscerà solo tramite le parole del suo amato-odiato, alcolista, irascibile, umorale genitore che, in
un impeto di rabbia, Fante stesso, nei panni di Henry Molise definirà anche un “ruzzolamerda”.
A distanza di undici anni, ad Andernach, città situata sulla riva sinistra del Reno, nasce Henry
Charles Bukowski da madre tedesca e padre polacco-americano.
Sia l’uno che l’altro, quindi, sono figli di immigrati, di persone che, per scampare alla miseria o per
fuggire da un paese distrutto dalla guerra o semplicemente per cercare fortuna in una terra che fosse
molto lontana dalla vecchia Europa, avevano abbandonato i luoghi d’origine.
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Così Hank e John si ritrovano a vagare per le strade assolate della California, lungo i boulevard di
Los Angeles, una città praticamente priva di storia (se non quella del cinema), priva di ripide salite,
fatta di viali interminabili, colline morbide, uno di quei luoghi che sarebbe strano immaginare senza
il sole accecante e forse fastidioso di un primo pomeriggio, col venticello che ora muove le palme,
che si può trasformare in violento acquazzone, con la terra arsa dal caldo che si sprigiona
dall’asfalto lucido. Los Angeles non è una città che cresce e si espande “verticalmente” come l’altro
luogo simbolo degli Stati Uniti, New York, con i suoi grattaceli e la Statua della Libertà, tutta
protesa verso l’alto… al contrario essa si propaga orizzontalmente, sembra senza confini, non ha un
centro, un luogo che riassuma e descriva la sua essenza (ad eccezione di Hollywood), un quartiere
simbolo…le abitazioni e gli edifici che la riempiono sono bassi, quasi piatti e sembra che stiano
tutti di fronte alle palme, all’oceano e ai surfisti che cavalcano le onde… la perfetta immagine da
cartolina, o meglio, da film. Ebbene, il fatto che quelle case, quelle strade e quella sabbia riposino
proprio sopra la famosa Faglia di Sant’Andrea, d’un tratto fa pensare che la California non possa
essere solo un luogo senza passato, ma che potrebbe, da un momento all’altro, diventare
improvvisamente senza un futuro. In Chiedi alla polvere, il romanzo più famoso e apprezzato di
John Fante, pubblicato per la prima volta nel 1939, il terremoto coglie il giovane, squattrinato e
ambizioso scrittore Arturo Bandini mentre sta tornando a Los Angeles da Long Beach, dove ha
appena avuto un’avventura con una donna che non ama e mentre pensa a quella di cui è innamorato,
una cameriera messicana, Camilla, che non ricambia i suoi sentimenti e con la quale il ragazzo non
riesce ad avere rapporti sessuali. Bandini, in quel momento pensa che sia a causa della sua recente
azione, quella che lui vede come una ‘colpa’, un ‘peccato’, che la terra stia tremando e crede che
quelle scosse non siano altro che lo strumento di una vendetta architettata da Dio ai suoi danni:
“(…) Tutt’a un tratto sentii un rombo che, dopo un attimo, si trasformò in boato (...). Era un
terremoto. Si levarono le grida, poi si alzò la polvere, e infine venne il boato delle case che si
schiantavano. Giravo in tondo senza sapere dove andare. Ero stato io. Era mia la colpa. Mi fermai a
bocca aperta e mi guardai attorno come paralizzato. Mossi qualche passo verso il mare, poi tornai
indietro.
Sei stato tu, Arturo, e questa è la collera di Dio” (op. cit pag. 123).
Ma la Los Angeles che trema e che è teatro dell’amore impossibile di Bandini, è la stessa che lo
scrittore vorrebbe “possedere” fino in fondo, è la città che ospita in sé le donne “ricche e
profumate” che il ragazzo sogna di poter un giorno conquistare con la sua abilità e fama di scrittore:
“Los Angeles , dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i
miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.” (op. cit. pag.
6) E il suo fiore nella sabbia è quello in cui non pesa vagabondare per ore ed ore, di giorno e di
notte, quello dei ristoranti, delle tavole calde e dei caffè, dove spendere gli ultimi centesimi rimasti
dal compenso per i primi racconti pubblicati, è quello dei sogni di Bunker Hill, delle squallide,
polverose, amate e celebrate stanze di motel, dove poter sperare in un riscatto nei confronti di una
famiglia che non ha mai accettato il semplice, istintivo rifiuto di trasportare in America il desiderio
di una vita uguale a quella che sarebbe stato costretto a condurre in uno sperduto paesino nel cuore
dell’Abruzzo.
Nel suo romanzo Donne, pubblicato nel 1978, Charles Bukowski definisce John Fante “lo scrittore
migliore che abbia mai letto”, “Il più maledetto”. Contemporaneamente, sempre nello stesso anno,
la casa editrice per cui l’autore di Quando eravamo giovani e Storie di ordinaria follia pubblicava,
la Black Sparrow Press, iniziò a prendere in considerazione la possibilità di ristampare i libri, ormai
introvabili, di Fante. È praticamente risaputo che lo stesso Charles Bukowski minacciò i titolari
della suddetta casa editrice che, se non si fossero impegnati nella ristampa dell’opera del suo autore
preferito, non avrebbe più dato loro la possibilità di pubblicare altri suoi lavori.
I motivi per cui uno scrittore come Hank amasse l’autore di Aspetta primavera, Bandini (così
apparentemente diverso da lui soprattutto al livello stilistico) tanto da definirlo addirittura il suo
Dio, potrebbero non avere una spiegazione diversa da quelli che lo spingevano a definire mediocre
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ai suoi occhi William Shakespeare, o Tolstoj, o a figurarsi nella mente l’amato Hemingway “(…)
come uno che si esercitava nella danza classica dietro una porta chiusa (…)” o Fedor Dostoevskij
“(…) un tipo con la barba, piuttosto appesantito e occhi fiammeggianti color verde scuro (…)
Dostoevskij lo vedo persino come uno che sbavava per le ragazzine” (da Il capitano è fuori a
pranzo, Universale Economica Feltrinelli, pag. 89) È probabile che sia così e che Hank apprezzasse
Fante e la limpidezza della sua prosa perché semplicemente provava gusto nel leggerla, ma se ci si
addentra più a fondo nella storia personale dei due autori si possono notare alcuni punti in comune
non del tutto trascurabili.
Il primo, quello che forse più salta agli occhi, è appunto la quasi totale onnipresenza delle strade
della California che Bandini vedrà con gli occhi ingenui di un ragazzo di vent’anni pieno di
insicurezza ma anche di sogni, la stessa verso cui Henry Molise vorrebbe fuggire per poter
diventare un campione di baseball come Joe di Maggio e che dovrà abbandonare molti anni dopo da
affermato scrittore, per dare un ultimo saluto al padre e agli altri dagos, con lo splendido e
dissacrante, disperato e commovente ritratto che ne farà in uno dei suoi ultimi romanzi, La
confraternita dell’uva.
Se la California di Fante è vista, in un primo momento, come la terra in cui tutto può accadere e in
cui i desideri si possono avverare, bastano solo dieci anni per far sì che uno scrittore come
Bukowski rifiuti completamente l’idea di riporvi aspettative e che renda manifesto quanto, al
contrario, non riesca a scorgere in quei luoghi e nelle persone che li abitano, barlumi di bellezza o di
speranza e nonostante questo, in qualche modo, amarli comunque di uno strano, cinico amore:
“(…) Sicché a me mi toccava andar a fare quattro passi lungo la spiaggia. Per fortuna era ancora
presto e non ero costretto a contemplare quella vasta distesa di umanità sprecata, corpi pigiati a
fianco a fianco, quelle cose di carne vomitosa, merdosa e cancerosa. (…)
Ma di mattina presto non era male, specie i giorni feriali. Tutto apparteneva a me, e ai bruttissimi
gabbiani (…)”.
“(…) era una pioggia calda, s’asciugava subito. era come sudore su di te. seduto là attesi il treno per
Los Angeles, l’unica città del mondo. cioè, si, è più piena di stronzi e merdate d’ogni altra città ma
è ben per questo che è divertente. eppoi era la mia città. mia gioia e mio tormento. l’amavo, quasi.
(da Storie di ordinaria follia, Universale Economica Feltrinelli, pag. 129).
Dopo queste riflessioni, Charles Bukowski e John Fante, allora, potrebbero apparire come i
portatori di due diverse interpretazioni del famoso “sogno americano” che per un attimo appare più
raggiungibile ad un ingenuo ragazzo di origini abruzzesi che al disincantato Bukowski,
caratterizzato da uno stile mai proiettato verso il futuro, che guarda raramente al passato e per pochi
istanti e che esiste nel presente, nell’attimo, uno stile costellato da refusi, paratattico, un tipo di
scrittura che sembra avere fretta di inseguire il flusso dei pensieri, della rabbia, del disgusto,
dell’eccitazione sessuale e della rassegnazione. Questa rassegnazione che in Hank viene riferita non
tanto all’atmosfera che respira nei luoghi di cui fa esperienza, ma che si esprime nei confronti del
genere umano che li popola, è un atteggiamento che in Fante troviamo solo a volte e in maniera
molto più velata e indiretta e che, anzi, quando si manifesta, sembra voler ricredersi e smentirsi,
quasi fosse la dimostrazione di una volontà istintiva di sperare nella presenza della dignità
nell’uomo, anche in quello che più ha detestato:
“(…) Faceva pietà: distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e
sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere (…)
Credetti di sentir singhiozzare mio padre e mi avvicinai a lui. Stava piangendo nel sonno: le lacrime
sgorgavano da quegli occhi chiusi. Lei gli asciugava le ciglia umide con l’orlo del lenzuolo.
- Perché piange?
- Sta sognando. Vuole sua madre.
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Sua madre. Morta da sessant’anni. (La confraternità dell’uva, pagine 59, 77 e 78)
Se pensiamo a Nick Molise, Joe Zarlingo e Lou Cavallaro, se ne proviamo a immaginare l’odore,
lo sguardo, le voci catarrose e il respiro corto, ci possiamo accorgere che non avremo una visione
troppo lontana da quella di un Chinaski che squadra da cima a fondo tutte le donne in uno dei tanti
bar in cui sta spendendo, come ogni sera, il suo denaro e se pensiamo che forse anche lo stesso
Bukowski rivedeva un po’ di sé in quei ritratti non ci sembra più strano che volesse far conoscere al
mondo un autore autentico come John Fante, lo stesso che andò a trovare in ospedale, quando,
ormai era ai suoi ultimi giorni e da cui si sentì rispondere, alla domanda su che fine avesse fatto la
Camilla di Chiedi alla polvere, “Quella puttana. Alla fine era lesbica”… in perfetto “stile
Chinaski”…
Charles Bukowski, negli scritti in prosa e nei racconti, può a buon diritto essere definito un autore
che parla al presente, ma nelle raccolte poetiche come Quando eravamo giovani e I cavalli non
scommettono sugli uomini (e neanche io), per citarne solo due, dà spazio ai ricordi: l’adolescenza, la
scuola, le prime sbronze con gli amici, la precoce consapevolezza di essere un ‘diverso’, un ‘non
adatto’ e il misto di orgoglio, la rassegnazione che provava nel constatare quanto il sentimento di
rifiuto nei suoi confronti venisse anche dai genitori e soprattutto, da un padre infastidito dalle sue
stranezze, perennemente preoccupato per quello che avrebbero detto i vicini nel vederlo tornare a
casa ridotto male già da una tenera età, avvezzo ad esprimersi per proverbi e frasi fatte e solerte nel
gridare ogni sera “luci spente!” ed imporre l’ora del sonno all’intera famiglia. “(…) a mio padre
non piacevano / i libri e / a mia madre neppure / (perché non piacevano al babbo) (…)” scrive in
“Primo amore” una poesia che fa parte di Quando eravamo giovani e il primo amore in questione
sono proprio quelle opere lette alla luce dell’unica lampada che rimaneva accesa, sotto le lenzuola:
(…)
Ibsen
Shakespeare
Cechov
Jeffers
Thurber
Conrad Aiken
e altri.
mi offrivano una opportunità e qualche speranza
in un posto senza opportunità
speranza,
sentimento.
(…)
(op. cit, pag 53)
E ancora continua in “che cosa diranno i vicini?”:
(…)
dopo che mi cacciarono
di casa
gliela diedi su
alle assemblee
e andai a vivere da me
in una catapecchia
a Bunker Hill
(…)
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(op.cit, pag 72 e 73)
Il giorno della morte del padre viene descritto in due componimenti presenti sempre nella stessa
opera: “rosario” e la splendida “the smirking dark” (già splendido il titolo, musicale, la ‘r’ e la ‘k’
che danzano assieme…), “un sorriso nel buio”, in cui, dopo aver assistito al funerale, Charles sente
la presenza della morte inseguirlo tutto il giorno, prima all’ippodromo (il suo ‘secondo amore’,
insieme alle donne e all’alcol), in autostrada e poi a casa. Lungi dall’accusarla di aver appena
portato via suo padre, si scaglia su di lei per aver “ucciso Dostoevskij” e “spinto Van Gogh a
distruggersi”, infine le offre un drink e il componimento si chiude con l’immagine di lui che entra
in cucina a vedere se c’è qualcosa da bere, i secoli che scorrono e lei che, seduta, aspetta.
Se per l’autore originario di Andernach il fatto di essere o sembrare un disadattato agli occhi degli
altri è motivo di amarezza e rabbia, ma anche di orgoglio, soprattutto nell’Arturo Bandini di Chiedi
alla polvere, di Aspetta primavera, Bandini questa presa di coscienza porta spesso ad un
atteggiamento superbo e ad un’ostentazione di sicurezza che vengono, in realtà, utilizate come
riparo e difesa da un individuo che, in profondità, si sente realmente inferiore rispetto alle persone
che lo circondano. La scena del primo incontro con la cameriera messicana Camilla al Columbia
Buffet e lo sfottò iniziale che Arturo fa delle scarpe sfondate della ragazza (dalla quale, peraltro si
sente già attratto) per reagire all’indifferenza che lei dimostra nei suoi riguardi, è un esempio
emblematico di questi atteggiamenti:
“(…) Diventai consapevole del mio corpo, del battito del cuore e delle contrazioni dello stomaco.
Capii che non sarebbe più tornata al mio tavolo e ora ricordo che ne fui contento e che fui colto da
una strana inquietudine e dall’ansia di andarmene, di sottrarmi all’insistenza del suo sorriso (…)”
(op. cit. pag 42).
Entrambi gli scrittori fanno del loro rapporto con le donne, l’amore e il sesso uno dei temi basilari
della loro opera. Della maniera in cui Bukowski descrive l’altro sesso e i suoi rapporti con esso si sa
tutto, forse anche troppo. Contestato ampiamente non solo dalla critica ‘femminista’ e dai cosiddetti
‘benpensanti’, l’autore esaspera la descrizione dei rapporti sessuali e fa spesso dei ritratti non
edificanti delle ragazze. Del resto se sfogliamo opere come Taccuino di un vecchio porco, il
romanzo Donne o la serie di racconti in Storie di ordinaria follia, come “La macchina da fottere”,
“Tre donne” o “Una sirena scopareccia”, notiamo che delle figure femminili sono per lo più
analizzate esclusivamente le componenti fisiche o i lati negativi e superficiali del carattere. La
componente che di questo argomento salta più agli occhi, però, è che Bukowski, lungi dal fornire di
sé l’idea che ricalca quella ‘tradizionale’ del playboy (l’uomo che seduce abilmente, usa e poi
abbandona le sue conquiste, provocando in loro terribili sofferenze) lascia sempre trasparire un
senso di distacco reciproco, sia da parte sua, sia delle donne nei suoi confronti. In moltissimi casi è
lui quello che viene usato e questo succede proprio con quelle ragazze nei confronti delle quali lo
scrittore decide di abbandonarsi a sentimenti più profondi della semplice attrazione fisica. Possiamo
citare come esempi il racconto surreale “Sei pollici” (in Storie di ordinaria follia) in cui la sua
compagna viene descritta come una “strega” che lo “consuma” spiritualmente e fisicamente e lo
riduce ad un giocattolo schiavo e sottomesso alle sue volontà. Nella poesia “La mia spogliarellista”
(in I cavalli non scommettono sugli uomini…e neanch’io) i pensieri quasi d’amore che l’autore
riserva alla ragazza, nonostante la natura del suo mestiere, vengono distrutti da quest’ultima che lo
considera uno dei suoi tanti clienti e infine lo fa sbattere fuori dal locale in cui lavora.
Gli eroi di Fante sono ancora più sfortunati con le donne di cui si innamorano e spesso esse
rimarranno, ai loro occhi, un miraggio, dei sogni che non riusciranno mai a tradurre in realtà e che
più che amare tenderanno ad idealizzare. Ma in Fante non ci sono solamente le Camilla Lopez o le
Dorothy Parrish. C’è anche Vera Rivken, la donna sola e disperata che irromperà nella vita di
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Arturo Bandini nell’undicesimo capitolo di Chiedi alla polvere, o la dolce e patetica signorina
Quinlan, l’infermiera che si concederà ad Henry Molise subito dopo la morte di suo padre.
È probabile che le differenze più notevoli, a una prima occhiata, possano essere riscontrate proprio
riguardo allo stile dei due autori, ma anche in questo caso, ad un’analisi un po’ più attenta ci si
accorge delle numerose affinità. La prosa di John Fante, così come quella di Charles Bukowski, è
prevalentemente paratattica, anche se praticamente priva di refusi ed è molto più fluida e
‘tradizionale’: mancano cioè le espressioni gergali, a parte quando ovviamente il discorso viene
affidato ai personaggi emigrati dall’Abruzzo ed in quel caso si possono riscontrare perfino
espressioni dialettali. Fante, inoltre, è uno scrittore di romanzi e racconti brevi, come quelli di Dago
Red, mentre Bukowski, oltre ad aver prodotto quantitativamente un numero maggiore di racconti, si
è dedicato anche e spesso con risultati maggiori, alle poesie: quelle del ‘padre’ di Chinaski
raccontano, narrano storie, situazioni, tanto da far apparire le strutture in versi semplici coperture di
altrettanti racconti. Un’altra caratteristica fondamentale di questo autore è la descrizione, presente in
molte sue opere, dei numerosi reading poetici. Lo stile prosastico e la quasi totale assenza di artifici
retorici in questi versi, uniti alla recitazione dell’autore di fronte ad un pubblico, non sembrano
accentuare l’aspetto teatrale della poesia, ma fanno di Bukowski una sorta di maledetto cantastorie
della nostra epoca.
Infine possiamo asserire che se John Fante si trovava perfettamente a suo agio nella stesura di
romanzi e che se, come sostiene Alessandro Baricco, alcuni capitoli che compongono le storie di
Fante potrebbero essere sfilati dal contesto e trasformati in racconti autonomi, Charles Bukowski da
forse il meglio di sé nelle short-stories e nelle poesie.
Si sa che l’incontro fra i due autori avvenne nel 1978 e che in seguito Charles Bukowski fece molto
spesso visita a Fante mentre in ospedale trascorreva i suoi ultimi giorni, oramai reso cieco dal
diabete e con tutte e due le gambe amputate. Si sa che Bukowski iniziò a collaborare con una casa
editrice e ad intraprendere seriamente l’attività di scrittore a più di quarant’anni e che nonostante
questo, potè godere dei benefici della fama e del riconoscimento del suo talento quando era ancora
in vita, mentre John Fante, “Questo abruzzese emigrato negli USA e quindi odiato dallo
sciovinismo americano, ridotto lui, così grande, a fare le sceneggiature per i film di Hollywood”,
(Fernanda Pivano), probabilmente non assaporò mai la sensazione di essere apprezzato per il suo
lavoro, quello di scrittore di romanzi e racconti, quello che sentiva davvero come il suo ruolo.
E allora abbiamo di fronte due facce della stessa medaglia. Forse c’è davvero un motivo per cui
questi due universi apparentemente così lontani si sono incontrati: da una parte abbiamo Arturo
Bandini o Dominic Molise… sognatori, che scopriranno, nelle primavere promesse dall’America,
discriminazione e sofferenza, nella sua bellezza un inganno, come la parrucca e i seni finti della
signorina Quinlan… Dietro la loro parvenza di montanari ingenui e inadatti, dietro una prosa
semplice e cristallina, troveremo delle personalità tormentate, maledette… come quella di John
Fante.
Dall’altra parte c’è Bukowski, critico nei confronti di se stesso e degli altri, cinico che non sogna e
se sogna se ne pente subito e che, nonostante questo, grazie al suo talento e alla sua personalità,
riesce ad imporsi tempestivamente nel mondo della letteratura. E Charles Bukowski che sarà
ricordato da Fernanda Pivano come un “uomo gentile, delicato…” forse guardava Bandini mangiare
arance dentro una stanza polverosa a Bunker Hill, pieno di speranza e quella stessa speranza,
magari, avrebbe voluto averla anche lui.