The Merchant of Venice - eut - Università degli studi di Trieste
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The Merchant of Venice - eut - Università degli studi di Trieste
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Tigor Rivista di scienze della comunicazione A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Sommario Presentazione 4 Paolo Heritier Nessi multiformi tra diritto e narrazione 14 M. Paola Mittica diritto e COSTRUZIONE NARRATIVA. La connessione tra diritto e letteratura: spunti per una riflessione 24 Giuseppina Restivo Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 43 Aldo Raul Becce Meticcio 47 Laura Capuzzo Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione 52 Francesco Lazzari Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 61 Antonio Rocco Minoranze e comunicazione transfrontaliera: il ruolo di Radio e TV Capodistria Sommario 64 Giorgio Rossetti Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico 67 Paolo Moro - Federico Puppo Informatica e retorica forense 76 Marco Cossutta Note sul processo come algoritmo 85 Eugenio Ambrosi “The Beatles”: da band sgangherata a mito, il contributo delle Relazioni Pubbliche 106 Maria Cristina Barbieri I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 120 Letizia Mingardo L’autonomia illusoria. Il diritto di autodeterminazione tra le maglie dell’eterodeterminazione 129 Marco Cossutta Libertà di migrazione: da bene fondamentale a reato di clandestinità? Note su alcune ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale in merito all’articolo 10 bis del D. Leg. n. 286 del 1998 1 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Presentazione I l presente fascicolo propone anzitutto alcuni contributi presentati nel corso di tre incontri di studio organizzati a Trieste, con il concorso di “Tigor”, nello scorso autunno. Questi si sono articolati in altrettante tavole rotonde; la prima, patrocinata dalla Italian Society for Law and Literature, su Diritto e costruzione narrativa. La connessione fra diritto e letteratura, la seconda, patrocinata dall’Unione Italiana di Croazia, su Comunicazione e plurilinguismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico, e la terza, organizzata in collaborazione con il progetto MediAttori della Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti, su Comunicare la società multiculturale: esperienze a confronto. Della prima vengono proposti gli interventi dei relatori, Paolo Heritier, M. Paola Mittica, che, da diverse angolazioni, affrontano il tema, in Italia innovativo, del rapporto fra il mondo della letteratura e dell’esperienza giuridica. A questi contributi si unisce idealmente il saggio di Giuseppina Restivo che viene ad essere il primo contributo in lingua inglese edito da Tigor, si auspica che nei prossimi fascicoli diventi consuetudine la pubblicazione di saggi in varie lingue. Il tema del rapporto fra processi di comunicazione ed integrazione europea viene qui trattato negli interventi di Laura Capuzzo, Francesco Lazzari, Antonio Rocco e Giorgio Rossetti, i quali, nel concentrare la loro attenzione sul caso del litorale adriatico, offrono più ampi spunti di riflessione sull’intreccio fra dinamiche culturali a sociali. Presentazione Aldo Raul Becce, affronta, ripercorrendo la sua personale esperienza, la questione dell’incontro non conflittuale fra diversità culturali all’interno di una prospettiva interculturale. All’interno della tavola rotonda particolare significato ha assunto l’intervento del vice Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Friuli - Venezia Giulia, Maria Stella Malafronte per la quale << L’Italia, come il resto dei Paesi d’Europa, nell’ultimo decennio è diventata una società multietnica. Fino ad una ventina d’anni la parola “immigrato” richiamava solo l’immagine del meridionale al Nord, ora in Italia vivono persone provenienti da tutti i Paesi del Mondo. Ovviamente questa nuova configurazione della società ha portato ripercussioni di tutti i tipi e ha presentato la necessità di ripensare molti suoi aspetti tra cui quello della comunicazione. L’Ordine dei Giornalisti e la Federazione della Stampa, che è il sindacato unico dei giornalisti, hanno affrontato questa questione e hanno dotato i professionisti della comunicazione di un importante strumento che è la Carta di Roma stilato d’intesa con l’UNHRC (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) con la collaborazione di Enti pubblici che si occupano di emigrazione e di giornalisti italiani e stranieri. Questo documento vuole dettare delle regole circa l’informazione su rifugiati, richiedenti asilo, le vittime della tratta e i migranti con particolare attenzione nei confronti dei minori, invitando i professionisti dell’informazione ad usare sempre termini giuridicamente corretti, ad evitare di diffondere notizie imprecise che possano urtare sensibilità o suscitare allarmi ingiustificati e ad interpellare esperti ed organizzazioni specializzate in materia per poter fornire notizie supportate precise e contestualizzate. 2 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Allegato alla carta un glossario che definisce chiaramente i soggetti di questo aspetto dell’informazione e fornisce i giusti termini per parlare e scrivere di immigrazione. Ma non c’è solo l’utile ed importante strumento della Carta, nelle scuole di giornalismo c’è particolare attenzione nella formazione dei futuri operatori della stampa per i temi dell’immigrazione e della società multietnica. E’ l’Ordine dei giornalisti, sia quello nazionale che quelli regionali, che ha particolare attenzione alla deontologia professionale, stimola e vigila sull’applicazione delle direttive della Carta di Roma e sulla comunicazione riguardante questa componente della società italiana». Accanto a questi interventi si collocano le riflessioni proposte da Paolo Moro e Federico Puppo sul legame e sui distinguo fra l’informatica giuridica e la retorica forense. Sempre legato al tema dell’informatica giuridica è il contributo di Marco Cossutta. I due saggi affrontano, partendo dall’uso sempre più massiccio dell’elaboratore elettronico nel mondo del diritto, questioni di metodologia giuridica. Di diverso tenore è l’interessante ed originale riflessione proposta da Eugenio Ambrosi, il quale concentrando la sua attenzione sul ruolo delle relazioni pubbliche, indaga il fenomeno mediatico dei Beatles. Il fascicolo si chiude proponendo tre contributi che riprendono tematiche affrontate sul precedente numero della Rivista. In particolare, Maria Cristina Barbieri e Letizia Mingardo propongono alcune riflessioni sul diritto all’autodeterminazione, che richiamano il saggio sul “caso Englaro”, proposto sul numero 2 del 2009. Marco Cossutta riprende il problema del reato di clandestinità, di cui si fece cenno sullo scorso numero. Presentazione 3 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Nessi multiformi tra diritto e narrazione Paolo Heritier Abstract Nell’articolo, prendendo in esame il tema della normatività dell’immagine nell’opera di Legendre, viene prospettata una nozione estesa di narratività, suscettibile di essere presa in conto per la comprensione di fenomeni narrativi non testuali, concernenti la pittura, l’architettura, ma potenzialmente anche il cinema, il teatro o la danza e dotati di un significato normativo. Si configura così, a fronte dei cambiamenti che la società dell’immagine e la teoria del diritto sono in procinto di affrontare dopo la crisi del positivismo giuridico, l’utilità di una disciplina come l’estetica giuridica, volta a configurare unitariamente i molteplici nessi individuabili tra arte e diritto, in grado di affiancare progressivamente le più consolidate teorie ermeneutiche ed epistemologiche in ambito giuridico, contribuendo a superare la contrapposizione tra le due culture umanistica e tecnologica. Sommario: 1. Diritto, narrazione, estetica giuridica; 2. L’estetica sociale della testualità; 3. Narratività e costruzione normativa dell’individuo; 4. Verso un’estetica giuridica. ‘estetica giuridica’, mostrandone le connessioni con le più note discipline dell’epistemologia e dell’ermeneutica giuridica. Per ottenere questo scopo farò riferimento ad autori forse laterali rispetto al consolidato dibattito in tema di diritto e letteratura, se non persino estranei ad esso, che tuttavia hanno il merito di porre alcune questioni generali, metodologiche, concernenti l’estensione e l’ambito degli studi collegabili a tale indirizzo. Forse proprio il tratto eterodosso di questi autori ha consentito loro di precisare aspetti filosofico-giuridici della questione spesso ignorati e tuttavia assai rilevanti per quanto concerne la collocazione della teoria narrativa entro la scienza giuridica: tema che appare ancora lungi dall’aver ricevuto una forma definitiva, nonostante l’intenso sviluppo degli studi in materia degli ultimi anni. Il primo elemento che si pone, a partire da qui, è dunque il rapporto tra gli accostamenti di diritto e letteratura e le forme di narrazio- 1. Diritto, narrazione, estetica giuridica È abitudine far risalire agli anni settanta del Novecento l’inizio dell’accostamento teorico denominato ‘diritto e letteratura’, con la pubblicazione del libro The Legal Imagination di James Boyd White. Non interessa in questa sede analizzare lo sviluppo di questo movimento teorico, che da una posizione minoritaria è gradualmente divenuto un ambito assai rilevante della teoria del diritto. Il mio obiettivo è, in primo luogo, sollevare alcuni interrogativi concernenti la collocazione della prospettiva narrativa nel più generale quadro degli studi giuridici; in secondo luogo, abbozzare una ricognizione di una più ampia area che mi pare riferibile a tale accostamento, denominabile Nessi multiformi tra diritto e narrazione Parole chiave Estetica; Estetica giuridica; Pittura; Architettura; Principi; Corpus; Rete; Testo; Fondamento; Narratività. 4 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ne non letteraria. A questo proposito, il problema che si presenta è la necessità di fornire una definizione della nozione di ‘testo’, il che rinvia a una assai estesa letteratura ermeneutica, semiotica e decostruzionista che, negli ultimi decenni, ha cercato di precisare la nozione in senso estensivo, giungendo a qualificare come testo forme espressive anche assai lontane dalla forma del libro1. Una nozione di testualità concepita in senso ampio è significativa per la teoria giuridica in una duplice direzione: perché possono essere indicate forme testuali normative altre da quella tradizionale della norma scritta (elemento su cui la teoria del diritto ha, nel corso del Novecento, insistito a lungo), ma anche perché il processo di configurazione della nozione di testualità ha un suo implicito tratto normativo, spesso trascurato. Questo secondo elemento appare evidente in relazione all’impatto delle tecnologie informatiche e telematiche sui modi di trasmissione della conoscenza2 e di organizzazione della società3, dal momento che appare chiaro un punto elementare ma significativo: la rete telematica, pur costituendo in origine una nuova tecnologia del libro, tende ancora a essere considerata un oggetto in primo luogo tecnologico, in secondo luogo mediatico-comunicativo e solo in modo residuale la nuova forma tecnologica del testo. L’idea che il sapere giuridico sia un elemento costitutivo dell’emergere della rete telematica rimane lungi dall’essere compresa, anche se proprio l’accostamento estetico giuridico, come cercherò di chiarire, può contribuire alla comprensione del punto. 1 Nella sterminata bibliografia, cito solo la recentissima mappatura ricognitiva dei problemi, che ben introduce agli elementi antropologici ed estetici presenti nella nozione, in G. Marrone, L’invenzione del testo. Una nuova critica della cultura, Roma-Bari, 2010, cap. 1 Genealogia del testo: avventure di una nozione, pp. 3-80. 2 Ho affrontato questi temi concernenti la ridefinizione della nozione di testo in seguito alla rivoluzione telematica in Urbe-Internet. Vol. 1. La rete figurale del diritto, Torino, 2003. 3 Vedi il recente testo di M. Castells, Comunicazione e potere, Milano, 2009. Dello stesso autore anche il precedente Galassia Internet, Milano, 2002 e, sul tema dell’ipertestualità, il recente libro di P. Castellucci Dall’ipertesto al Web. Storia culturale dell’informatica, Roma-Bari, 2009. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x Il secondo elemento problematico, strettamente legato al primo, e dunque a partire da questa accezione ampia della nozione di diritto e letteratura, è quindi rappresentato dalla relazione tra gli studi di diritto e letteratura e la configurazione di un’estetica giuridica, intesa come disciplina che, seppur ancora pensabile in forma embrionale, non pare meno rilevante dei più tradizionali accostamenti, ormai consolidati e assai diffusi, l’epistemologia e l’ermeneutica giuridica, come emersi nell’ultimo mezzo secolo di teoria giuridica. Elemento, questo, centrale in un contesto teorico, che, seppur legato alle menzionate prospettive teoriche, solleva un tema di base per la riflessione intorno al diritto in tempi di crisi del positivismo: vale a dire la necessità di oltrepassare la distinzione tra “le due culture”4, che ha pesantemente afflitto la filosofia e la realtà politica e sociale del Novecento e che ancora oggi influenza le reciproche opposizioni tra sapere scientifico- tecnologico e sapere umanistico-letterario. Il problema che questa opposizione sembra presupporre è eminentemente antropologico, legato a una configurazione dell’umano distinta tra sfera della razionalità e dell’irrazionalità (dei pensieri, delle azioni, delle teorie) intesi come ambiti separati e non comunicanti, o al più riducibili l’uno all’altro, rispettivamente in una concezione ontologico-oggettualista del reale oppure in una concezione ermeneuticoesistenziale, concepite come una sorta di teorie prime a cui ricondurre la prospettiva filosofica. La questione non è neppure aliena all’ambito filosofico giuridico, all’interno della quale si confrontano accostamenti che possono apparire come opposti, quali la filosofia analitica – l’orientamento certo principale nella filosofia del diritto novecentesca e invece accostamenti innovativi ma tradizionalmente considerati periferici, entro i quali può essere collocato anche il movimento teorico diritto e letteratu4 Sul problema del superamento delle due culture in ambito filosofico-giuridico, mi limito a segnalare M. Manzin, Retorica e umanesimo giuridico in F. Cavalla, Retorica, processo e verità. Principi di filosofia forense, Milano, 2007 e il mio articolo Oltre le due culture. Grammatiche antropologiche dell’iconico, in M. Manzin, F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, Milano, 2008, pp. 397-420. 5 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ra. Il quadro complessivo tuttavia, come si è già notato, si presenta come non più configurabile nei termini di questa opposizione all’inizio del secolo ventunesimo. Ciò a causa di una ormai risalente crisi dell’impostazione positivistica radicale, che si trova a essere confrontata con l’esistenza riconosciuta di tipologie differenti di norme, quali le prescrizioni e i principi, ascrivibili a modelli di operatività giuridica radicalmente diversi, anche in correlazione a processi di globalizzazione del diritto che tendono a ridurre le distanze tra sistemi giuridici di common law e di civil law. Distinzione, questa, che conduce a riaprire l’arsenale dei nessi tra diritto e morale inizialmente negati: è l’ambito di operatività dell’intero campo delle dottrine neocostituzionaliste, a fianco delle quali può essere fatto rientrare anche l’interesse propriamente giuridico per l’analisi dei nessi tra diritto e letteratura, da ritenersi metodo innovativo per l’individuazione dei principi giuridici propri di una determinata cultura, ad esempio. Riemerge così, in relazione alla trasformazione del positivismo, al suo rinnovato interesse per l’argomentazione, la retorica, la giustificazione delle norme, il programma di ricerca di un’attività ricostruttiva di diversi ambiti disciplinari, ispirata alla nozione di complessità del diritto5, a fronte di un problema metodologico divenuto ormai evidente, anche se non ancora affrontato in tutta la sua profondità teorica. Si tratta dell’idea che, una volta mostrata l’innegabilità della riapertura alla morale dell’arsenale concettuale della teoria del diritto, implicante la necessità di una ridefinizione dei confini esistenti del sapere giuridico, non appaia più facilmente circoscrivibile l’ambito dei movimenti teorici configuranti l’altro polo del normativo (diritto e letteratura, diritto e cinema, diritto e pittura, diritto e architettura e così via, limitandosi all’ambito della cultura umanistica), indubbiamente legato alla formazione culturale e sociale dei principi giuridici. Come è possibile, 5 Non a caso spesso la individuazione di un modello reticolare del diritto prelude all’approfondimento successivo di un accostamento narrativo o estetico giuridico: è ad esempio il caso di François Ost, nei testi F. Ost, M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Poru �������������� une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002; F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x infatti, una volta aperta la falla, nella diga della teoria pura del diritto, della impossibilità di distinguere il diritto dalla morale arrestarsi poi di fronte all’analisi dei nessi tra diritto e scienza, economia, religione, senza estendere il campo all’analisi dei nessi tra diritto e arte? Appare d’altra parte evidente come, in assenza di una visione della morale, delle istituzioni, della cultura, dell’uomo, riconosciuta come base unitaria da cui muovere – indubbio dato di partenza questo, al di là di ogni valutazione di merito sul punto, nelle società pluraliste contemporanee – il rischio da evitare è altresì la frantumazione teorica conseguente al proliferare postmoderno degli accostamenti “diritto e...”, elemento che non aiuta certo a risolvere il problema della distinzione tra la due culture. Tratto che innescherebbe, e ha già innescato in parte, invece, l’ennesimo movimento a pendolo tra istanze scientifico-tecnologiche e istanze umanistiche che ha costituito il motivo principale teorico della cultura novecentesca, scandita da fasi di predominio quasi assoluto della cultura giuspositivistica e fasi di reazione altrettanto energiche dell’antiformalismo, ma spesso scomposte o scandite da una controreazione irrazionalistica sostenuta da indirizzi teorici e movimenti politici. All’interno di questo quadro, sia pure ricostruito nei termini assolutamente generici che la forma dell’articolo impone, essendo il compito di ricostruzione analitica del quadro un compito che richiede spazi e metodologie ben differenti, mi pare allora un obiettivo teoretico interessante quello di muovere alcuni passi verso la configurazione di un’estetica giuridica in grado di tenere ben presente il senso teorico unitario dei movimenti di ”diritto e...” che hanno riferimento alle arti. Qui, tenere presente non significa certo pensare di giungere facilmente o rapidamente alla configurazione di un quadro unitario e risolutivo dei problemi metodologici posti sul campo dall’estetica giuridica. Più semplicemente, riprendere l’elemento istituzionale proprio della tradizione culturale giuridica dell’occidente, sempre attenta alle esigenze di ricomposizione di un quadro comune di partenza socialmente condiviso, di fronte alle sfide, radicalmente nuove, 6 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) poste dalla globalizzazione culturale e tecnoeconomica, ormai divenuta il contesto di fondo sul quale pensare l’ambito del normativo e il suo ruolo sociale. Senza tuttavia pensare di trascurare teoreticamente o ritenere irrilevanti, per altro verso, le questioni scientifiche, tecnologiche, e, in ultima analisi, antropologiche, che si pongono all’orizzonte. Svolte queste assai generali premesse, appare possibile precisare qualche elemento teorico volto a muoversi in quella direzione e presente in autori che appaiono interessanti, anche se forse marginali nell’attuale dibattito degli studi configurati come diritto e letteratura, ai fini dell’elaborazione futura di un discorso metodologico complessivo in grado di far avanzare la teoria del diritto in direzione del superamento dell’ostracismo reciproco tra posizioni scientiste e posizioni irrazionaliste. 2. L’estetica sociale della testualità L’accostamento scelto nell’articolo attiene al profilo, già accennato, concernente la ridefinizione della nozione di testo, collocandolo tra l’ambito giuridico e quello iconico-sociale. È riferito all’opera di un autore originale come Pierre Legendre, in particolare a un testo riassuntivo della sua prospettiva, la cui sinteticità consente la presa in conto di diversi aspetti strettamente correlati nel suo pensiero, ma impossibili da trattare analiticamente in questa sede, anche in quanto appartenenti a ambiti del sapere considerati tradizionalmente non comunicanti. Mi riferisco al libro Della società come testo. Lineamenti di un’antropologia dogmatica6, in cui il tentativo di configurazione di un’estetica giuridica non è preso direttamente in conto, ma mi pare presupposto nell’analisi comprensiva del concetto di testualità, delineato a un livello di generalità tale da coincidere con la stessa configurazione dell’idea di società e da essere compreso mediante il ricorso a discipline artistiche differenti quali la pittura, la poesia, la danza, l’architettura. Nel libro citato lo storico del diritto Pierre Legendre sviluppa una accezione di testuali6 P. Legendre, Della società come testo. �������������������� Lineamenti di un’antropologia dogmatica, Torino, 2005. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x tà, riassuntiva di un più ampio lavoro svolto nella monumentale serie delle proprie Leçons all‘EHESS (École des hautes études en sciences sociales) pubblicate, a partire dagli anni ottanta, in nove volumi (di cui l’ultimo appena pubblicato), ove viene proposto un accostamento al fenomeno giuridico volto a ripristinare il nesso tra la costituzione collettiva delle istituzioni giuridiche (ma anche quelle economiche, religiose, sociali) e la costruzione normativa dell’identità soggettiva. Per tentare questa impresa volta a riprendere il tradizionale tema del legame tra l’individuale e il collettivo (si pensi alle metafore organiche nella rappresentazione della società – e dei testi giuridici – come corpo), lo storico del diritto francese non si limita a seguire l’itinerario consueto nelle discipline giuridiche come configurato dalla storiografia della modernità, ma estende l’analisi alla problematica dell’immagine e della sua normatività: questione presente nella tradizione del pensiero giuridico romano e medioevale e nell’analisi dei totalitarismi contemporanei, ma del tutto rimossa dal positivismo e dalla scienza giuridica moderna. Questa dottrina, infatti, sia pur gradualmente e progressivamente, ha confinato la questione dell’immagine e della sua normatività fuori dall’ambito del giuridico. Ancora oggi, infatti, mentre è ben chiaro e delineato il problema dell’uso politico e strumentale dell’immagine nelle democrazie occidentale, risulta del tutto incomprensibile l’idea che vi sia un qualche rapporto tra il testo giuridico e l’immagine. La separazione totale tra i due ambiti è ben rappresentata dalla pretesa purezza kelseniana del fenomeno giuridico inteso in senso formale, che, come accennato, ha ritenuto necessario provvedere a una definizione del giuridico tenuto distinto da tutti gli altri elementi extragiuridici, quali la morale, e quindi certo anche l’immagine. Questo non è che l’ultimo episodio di una serie di rimozioni del tema, che ne costituisce l’esito finale. Mentre infatti il testo giuridico classico e medioevale pensava, mediante il ricorso alla metafora del corpus, il rinvio alla natura sistemica della raccolta di testi giuridici testuali unitamente alla iconicità presente nella sintesi realizzata nei 7 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Corpus Iuris (Civilis e Canonici), come indica efficacemente la classica analisi teologico-politica di Kantorowicz7, il codice moderno ha infatti eliminato qualsiasi riferimento all’immagine entro il testo giuridico, a partire dall’idea di Systema iuris. Questa impostazione, nel rinunciare a tener conto degli effetti dell’iconico nel processo di fondazione del diritto, confinava di fatto nell’ambito dell’irrazionale la sfera attinente l’immagine. Non a caso Kelsen intendeva elaborare la concezione della purezza formale del giuridico distinguendolo tanto dalla morale quanto da ogni altra forma di sapere, anche per reagire così in modo razionalistico e logico all’uso irrazionale e di massa dell’immagine del corpo del dittatore e del suo culto messo in opera dal totalitarismo nazista (in seguito da ogni totalitarismo successivo nel novecento). La stessa nozione kelseniana di norma fondamentale, concepita come un’esigenza meramente logica, nonché fittizia, intendeva infatti, in questa prospettiva, rappresentare anche una reazione teorica all’irrazionalismo del momento fondativo del giuridico, presente nel sorgere storico del nazismo, mediante lo svuotamento iconico della nozione di fondamento dell’istituzionale che, al contrario, l’idea di rappresentanza, ma anche quella di persona giuridica nella sua lontana radice nella fictio legis romana8, aveva sempre veicolato secondo un registro anche mitico od emblematico. Il problema che la teoria kelseniana tuttavia appare lungi dal risolvere è che la non menzione del problema dell’immagine non ne significa affatto il superamento, ma semplicemente il suo confinamento nell’irrazionale proprio della realtà della lotta politica e mediatica, intesa come categoria non riconducibile alla razionalità pretesa del giuridico. Non a caso un giuspubblicista come Carl Schmitt univa nel proprio pensiero, alternativo all’impostazione kelseniana, l’utiliz7 E. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medioevale, Torino, 1989. 8 F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Padova, 1979; E. Dieni, Finzioni canoniche. Dinamiche del “come se” tra diritto sacro e diritto profano, Milano, 2004; P. Heritier, Fictio iuris, persona, agency, in M. Leone (a cura di), Actants, Actors, Agents. The Meaning of Action and the Action of Meaning. From Theories to Territories, in Lexia. Rivista di semiotica, (3-4), Roma, 2009, p. 101-116. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x zo di una categoria come quella della distinzione tra amico e nemico, per definire l’ambito del politico, all’attenzione ai problemi dell’uso del simbolico in ambito teologico-politico e nella definizione della sovranità. La crisi contemporanea del modello giuspositivistico nella sua versione formalista, la ripresa di accenti giusnaturalistici nell’affermarsi del neocostituzionalismo si accompagna pertanto a una ripresa dell’attenzione al problema del nesso tra normatività e immagine, nel nuovo contesto rappresentato dalla società dell’immagine postmoderna. La teoria di Legendre riapre di fatto la questione mediante un’analisi complessa e articolata di cui non è possibile che presentare una breve sintesi. In primo luogo lo storico del diritto intende riproporre lo statuto mitologico e iconico del fondamento9 del giuridico, delineato secondo una prospettiva storica riferita all’insieme del secondo millennio, a partire dall’appropriazione canonica della nozione di Corpus Iuris e dalla conseguente riorganizzazione giuridica della Chiesa cattolica. L’analisi della nozione di emblema vivente indica sinteticamente il punto: il meccanismo del mandato, dell’agire in nome di, già presente nella sua valenza giuridica ma anche iconico-rappresentativa nel gesto di Triboniano del raccogliere i testi giuridici nel Corpus Iuris Civilis in nome dell’imperatore Giustiniano, è un dispositivo che si estende dal diritto romano alla redazione del Corpus Iuris Canonici10. Esso rimane presente anche nello stato moderno, in cui i codici e le sentenze vengono emanati nel nome del popolo, ove però ne viene mantenuto solo il valore giuridico positivo, mentre, come già notato, si crede di rigettare il senso iconico fondativo del dispositivo insieme al carattere mitico-religioso del fondamento del diritto11. In questo senso, 9 Non a caso un autore che recentemente si è occupato di diritto e letteratura, Ost, ha svolto un pionieristico lavoro analizzando anche l’opera di Legendre, (la parte antecedente all’impianto delle Leçons): F. Ost, J. Lenoble, Droit, mythe et raison, Essai sur la dèrive mythologique de la rationalité juridique, Bruxelles, 1980. 10 Sul punto P. Legendre, Leçons IX. L’autre ������������������������ Bible de l’Occident: le Monument romano-canonique. Étude ��������������������� sur l’architecture dogmatique des sociétés, Paris, 2009. 11 Sul solo preteso carattere razionalistico del positivismo giuridico, P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007. 8 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) secondo Legendre, l’imperatore, il papa, il re, il presidente della Repubblica sono emblemi viventi, immagini fittizie e mitiche che mettono in scena il fondamento mitico del diritto12 in quanto rappresentanti l’istituzione. Il tema del fondamento iconico del normativo è quindi impossibile da espellere dalla teoria del diritto, se non al prezzo di costruire una teoria riduzionista del presentarsi del fenomeno giuridico, confinando l’iconico nel campo dell’irrazionale, al di fuori del diritto positivo. Il ruolo dell’estetico così inteso, tuttavia, non si limita oggi all’ambito politico nella società dell’immagine coi rappresentanti del potere, ma si estende anche alle dinamiche privatistiche dei marchi d’impresa, semiotiche del brand ed economiche delle divise monetarie: tutti luoghi facenti ricorso a elementi simbolici ed iconici che occupano quel piano della rappresentazione fittizia e mitica operante anche nelle pretese razionali odierne società dell’immagine tecnologicamente avanzate (si pensi all’uso del dispositivo della pubblicità per orientare la... sovranità del consumatore). Appare chiaro come la posizione legendriana costituisca l’apertura a una concezione narrativa dell’iconico, in cui il raccontare tramite le immagini è una delle forme plurali di narrazione, iconica e non scritturale, ma da situare entro la nozione di testo (giuridico). Legendre non sviluppa il punto, ma prendendo in considerazione il problema a partire dalla sua opera, la presa in conto dell’estetico per una concezione estesa della narratività apre un campo interessante di indagine. 3. Narratività e costruzione normativa dell’individuo Se questa analisi viene condotta sul piano della storia (iconica) del diritto, parallelamente, tuttavia, Legendre esplora l’ambito della costruzione normativa del singolo, passando dal registro collettivo a quello individualistico. Egli intraprende così un’analisi del senso normativo dell’immagine nella teoria psicologica della formazione del soggetto con specifico 12 P. Legendre, L’Occidente invisibile. Conferenze in Giappone, Milano, 2009, p. 68. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x riferimento alla teoria lacaniana della specularità e alla distinzione semiotica di de Saussure tra significante e significato, cercando di mostrare la stretta relazione individuabile tra il lessico psicoanalitico, quello linguistico e quello giuridico, quanto alla formazione della coscienza individuale13. Appare così comprensibile come egli possa costruire una nozione, come quella di testualità sociale, volta a tener conto della questione della normatività dell’immagine, legata al piano della rappresentazione mitica del fondamento e considerata all’opera non solo nelle società antecedenti la modernità giuridica, ma nei meccanismi quotidiani presenti nelle società dell’immagine contemporanee e postmoderne. L’autore analizza, ne La società come testo, oggetti iconici quali il celebre quadro di Piero della Francesca La Flagellazione14, reputati indicanti un vero e proprio contenuto normativo, sia pure implicito e riconducibile a una cultura come quella umanistica a cui appare naturale “vedere attraverso” – questa l’etimologia di prospettiva secondo Dürer15 - arti e saperi diversi. Senza entrare nell’analisi del discorso di Legendre, già precisata altrove16, l’analisi del celebre e controverso quadro17 cerca di indicare come nel dipinto sia presente una vera e propria struttura raffigurativa equivalente a una teoria dell’interpretazione, proposta emblematicamente allo sguardo dell’interprete. Il quadro, in altre parole, ci mostrerebbe un testo normativo sull’interpretazione, non attraverso 13 Ibidem. Per una presentazione sintetica del pensiero di Legendre, P. Heritier, Nomenclature e nomi del Padre. Dogmatica occidentale e teologia giuridico-politica in Pierre Legendre, in P. Sequeri, S. Ubbiali (a cura di), Nominare Dio invano? Ricerche sull’anestesia del teo-logico, Milano, 2009, pp. 403-438. Vedi anche l’ampio lavoro L. Avitabile, La filosofia del diritto in Pierre Legendre, Torino, 2004. 14 P. Legendre, Della società come testo, cit., p. 141ss. 15 «Perspectiva è una parola latina, significa vedere attraverso», come riporta Panofsky il tentativo di circoscrivere la nozione di prospettiva di Dürer. E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Milano, 2007, p.11. 16 Società post-hitleriane?, Torino, 20092, pp. 238ss. 17 Ci riferiamo nella sterminata bibliografia solo a C. Ginzburg, Indagini su Piero, Torino, 1994 e Y. Bonnefoy, La strategia dell’enigma. Piero della Francesca e la Flagellazione di Cristo in La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia, Roma, 2005, pp. 15-42. 9 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) un discorso fatto di parole e frasi, ma mediante la costruzione di una struttura narrativa, di un racconto costruito mediante immagini e non parole, ma non per questo privo di senso normativo in quanto rinviante alla costruzione dell’idea di terzietà, della figura del terzo fondatore mediante l’utilizzo della tecnica della prospettiva inventata dal Brunelleschi e precisata dall’Alberti. Per così dire, con gli evidenti limiti della metafora, Legendre vede dipinto nel quadro di Piero della Francesca, insieme ad altri contenuti, un testo per così dire equivalente (non certamente dal punto di vista della teoria delle fonti giuridiche, ma del ruolo svolto nella rappresentazione del fondamento e nel mostrare emblematicamente il rapporto degli interpreti al fondamento) al noto articolo 12 delle Preleggi al codice civile. Un discorso iconico circa l’interpretazione espresso, dunque, nella forma emblematica e dogmatica dell’arte e non in quella scritturale del testo giuridico, ma non per questo priva di una sua normatività, espressione di quella sovranità dell’artista a cui fa riferimento Kantorowicz18 e di un contesto modulare in cui letteratura, pittura, scultura, diritto, teologia, sono tenuti culturalmente insieme nel gesto sintetico dell’artista; ancora, ove anche il giurista, più che come scienziato, viene concepito come artista della ragione. Lo storico del diritto, nella sua analisi, che oltrepassa la mera esegesi del dipinto, individua così una vera e propria struttura normativa, un discorso circa la struttura dell’interpretazione, degli interpreti che in nome del fondamento rappresentato iconicamente si pongono come i depositari del sapere (giuridico, morale, politico)19 nell’atto di dare forma alla propria libertà di azione. Analizzando la relazione normativa, tra lo sguardo del pittore, che ha dipinto il quadro e costruito la struttura iconico-testuale - emblematicamente mostrata e dotata di quella temporalità posta dogmaticamente fuori dal 18 E. Kantorowicz, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, 1995. 19 Sulla base della distinzione del dipinto in due scene, una rappresentante il fondamento mitico, l’altra gli interpreti che sembrano discutere del senso del riferimento ad esso nel loro presente storico. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x tempo (nello spazio logico del fondamento rappresentato) - propria dell’universalità artistica e lo sguardo dell’osservatore del quadro, egli rileva l’identificazione tra i due sguardi, tra le due azioni, il dipingere e l’osservare ciò che è dipinto, tratto che spiega il significato normativo dell’immagine dipinta. Proprio in relazione al processo di identificazione tra lo spirito dell’osservatore e lo spirito del pittore non può non venire in mente il criterio metodico posto nella teoria dell’interpretazione di Emilio Betti, laddove egli concepisce l’attività dell’interpretare come processo triadico in cui l’interprete e lo spirito oggettivato in forme rappresentative vengono in contatto «attraverso la mediazione di quelle forme rappresentative in cui lo spirito oggettivato sta di contro all’interprete come qualcosa d’altro, come una oggettività irremovibile» e ove viene evocata la «trasposizione in un’altra soggettività» 20 come fonte della comprensione ermeneutica. Legendre si riferisce a un processo similare. Senza addentrarci nel complesso problema bettiano, viene qui sollevata dallo storico francese l’attenzione su quel momento specifico, l’identificazione dello sguardo dell’interprete con lo sguardo del pittore, identificazione normativa operata attraverso la mediazione del quadro, da intendere come testo normativo che pone in relazione il pittore e l’osservatore, che impone una determinata esperienza cognitiva all’osservatore. Ove questi, osserverei, fa uso di questa esperienza cognitiva nella forma della libertà di agire e non certo col riferimento al meccanismo norma-sanzione mediante il quale è definito il diritto positivo. O meglio, secondo un processo cognitivo più simile alla apprensione dei principi giuridici che alla osservanza delle prescrizioni. Il punto interessante in relazione alla nozione di testo è tuttavia qui il dato che il processo soggettivo di identificazione viene messo in opera non da un testo scritto, ma da un’altra forma rappresentativa, quella iconica della pittura, che opera tuttavia come forma di mediazione dotata di un contenuto normativo, nel senso di costitutivo della soggettività dell’interprete e in particolare della sua concezione dell’interpreta20 E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Roma, 1987, p. 63, 65. 10 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) re. Naturalmente, infatti, il riferimento al valore normativo dell’immagine non è da intendere nel senso positivistico di norme contenenti comandi, ma come esperienza di identificazione/trasposizione suscettibile di produrre conseguenze pratiche nell’agire del soggetto. Tale esperienza è riferita a testi iconici veicolanti una metodologia di accostamento ermeneutico riferibile a contesti assai diversi e trasversali, da comprendere secondo una prospettiva di modularità, ad esempio tra pittura e diritto, ma a cui l’elaborazione di ciò che viene considerato giuridico in una determinata società non è affatto indifferente, al di fuori di ogni distinzione tra ambiti disciplinari, sia pure sul presupposto storico di una concezione di uomo rinascimentale universale e posto al centro del mondo oggi non riproponibile. L’accostamento individuato, in altre parole, tenta una spiegazione estetico-giuridica unitaria consistente nell’individuazione di nessi tra fenomeni culturali diversi in una medesima epoca, fornendo una base per la configurazione di itinerari di ricerca che fanno emergere legami tra il diritto e manifestazioni artistiche e culturali, quali la pittura e il diritto, ma anche, virtualmente e astraendo dal contesto, la danza, il teatro, la scultura, il cinema, naturalmente la letteratura, nei loro legami col diritto. Accostamenti del tutto comprensibili e familari per lo sguardo di un umanista rinascimentale, ma assai ostici alla cultura di un giuspositivista contemporaneo, al punto di essere letteralmente incomprensibili e privi di senso giuridico ai suoi occhi. È dunque a partire dalla configurazione di una nozione di testualità sociale volta a tenere insieme i differenti ambiti circoscritti dai diversi campi di studi che, muovendo dalla complessa analisi legendriana, sembra interessante provare a configurare l’ipotesi di un’estetica giuridica, intesa come disciplina volta a unire, da un punto di vista metodologico, gli ambiti multiformi dell’arte e della vita in un’accezione di testo normativo estesa a forme distinte di testi narrativi, includendovi forme di narrazione iconica, architetturale, musicale entro il dominio della riflessione giuridica. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x 4. Verso un’estetica giuridica Conclusivamente, nella prospettiva dello storico del diritto Pierre Legendre, la nozione di testo si estende così all’intero ambito della testualità sociale, che può essere pensata sia nelle sue forme correlate alla formazione psicologica della soggettività individuale, sia nella costituzione “oggettiva” e dogmatica dell’elemento istituzionale (la rappresentazione del fondamento). La ripresa di un tale accostamento teorico sembra costituire la conseguente implicazione dell’inclusione, posta in atto dal neocostituzionalismo, della sfera dei principi (e quindi della moralità) intesi come ambito non estraneo alla configurazione del giuridico nelle società contemporanee. Il progetto di ricerca così prefigurato sembra quindi riprendere la questione giusfilosofica concernente il fondamento antropologico ed estetico dell’ermeneutica giuridica, concepito come ambito della riflessione da pensare come integrativo, e non sostitutivo, delle più tradizionali configurazioni della scienza del diritto intesa come teoria positivistica della norma e del sistema giuridico. Le forme di mediazione testuale presenti nella società complessa contemporanea sembrano quindi poter tener conto di una nozione assai estesa di testo, introducendo la figura della narrazione, nella sua pluridimensionalità, come elemento volto a tenere insieme le istanze individuali con quelle collettive. La stessa letteralità etimologica sembra venire in soccorso: dal verbo latino texo può essere derivata infatti la nozione di tessuto sociale, che può essere compreso come l’effetto interindividuale della pluralità delle forme di narrazione. Come nota Legendre nella parola troviamo il «senso di tessere, intrecciare, ma anche comporre, costruire, e al figurato raccontare; si dice non solo della tela, ma di ogni opera di cui i materiali si intrecciano o si aggrovigliano; allo stesso modo di intrecciano parole e scritti»21. Le forme plurali di mediazione testuali possono dunque essere riferite alla costituzione del fondamento di una nozione di terzietà sociale e iconica, ancor prima che specificamente nor21 P. Legendre, Della società come testo, cit. p. 180. 11 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) mativa e istituzionale. Tale sforzo di comprensione, tuttavia, non deve essere inteso come riferito principalmente all’individuazione di elementi da desumere dal corpus testuale, meramente tratti dal passato dell’esperienza giuridica e della tradizione, ma, al contrario, in una intenzione prospettica, attinente al ruolo normativo dell’interprete del testo nella sua attività volta al dire il diritto. La nozione di testo, infatti, è oggi soggetta a modificazioni radicali quanto inedite a fronte della ricerca della nuova forma scritturale rappresentata dalla rete telematica, che, per la prima volta, pone la difficoltà del concepire una nuova forma della testualità in grado di ricomprendere insieme gli elementi sonori, letterari e iconici, ma al tempo stesso di fornire una nuova profondità alla concezione della società come testo, prefigurata, non senza ambiguità, dall’emergere della rete Internet come forma di interazione insieme sociale, economica, giuridica, testuale, iconica. La radicalità della posta in gioco è sollevata da autori come Castells o come lo stesso Legendre, che, nell’interrogarsi sulla portata della trasformazione in corso, individua, sia pure in forma interrogativa e dubitativa, la portata insieme sociologico-giuridica e fondativa-rappresentativa della nuova forma che sta per assumere la testualità: À travers la norme stricte qu’impose le maniement de l’ordinateur à celui qui l’utilise, s’agit-il d’une re-création du lien normatif?… La pratique Internet agence-t-elle des montages de la Raison miniaturisés et en quelque sorte portatifs, et anticipe-t-elle un monde de communication atomisé, dans l’illusion de s’exempter de l’idée même de société? Le concept de réseau recouvre-t-il, dans un contexte de re-féodalisation planétaire, une procédure de parcellisation, où le sujet ne parle qu’à d’autres soi-même, où l’adresse fonctionne sur un mode groupusculaire autor de Références privées? Ou bien, moyennant ce remue-ménage, en sommes nous à des tentatives encore insaissables de recomposition sociale d’une scène de l’homme et du monde?22 ������������� P. Legendre, Leçons I. La 901e conclusion. Étude sur le théâtre de la Raison, Paris, 1998, p. 274. Nessi multiformi tra diritto e narrazione issn 2035-584x Il pensiero dello storico francese rappresenta certo uno dei punti di partenza della ripresa del tema, che appare tuttavia da approfondire nella direzione della configurazione di una teoria estetica del diritto. Molti altri autori, che qui non possono essere richiamati, si muovono in questo contesto teorico. Conclusivamente, mi limito a richiamare uno degli autori più conosciuti per l’aver svolto un progetto interessato a intrecciare aspetti epistemologici e semiotici, ermeneutici e teologici, storiografici e narrativi in una unica concezione filosofica: Paul Ricoeur, in particolare nella trilogia Tempo e racconto23. Nella sua vasta analisi, tuttavia, volta a connettere ambiti cosi differenti come la storiografia, la letteratura, la filosofia, il diritto non sembra essere stato preso in particolare considerazione. Tuttavia, che Ricoeur intenda il modello elaborato nella trilogia come un accostamento ermeneutico riferibile anche ad altri ambiti è, ad esempio, mostrato dal fatto che, laddove egli prende in considerazione un’altra disciplina artistica non priva di effetti pratici, l’architettura, egli riprende il modello elaborato in Tempo e racconto, adeguandolo al sapere preso in conto. Nell’articolo Architettura e narratività, egli infatti ritiene che esista un parallelismo tra i due saperi, nel senso che «l’architettura sarebbe per lo spazio ciò che il racconto è per il tempo, vale a dire un operazione “configurante”»24. Se infatti nel suo sistema il primo momento, la prefigurazione, è la radicazione del racconto nella vita, nell’architettura essa è svolta dall’abitare, nel senso che «ogni storia di vita si svolge in uno spazio di vita»25 e dunque proprio l’abitare, il cercare riparo come bisogno originario dell’uomo rappresenta il momento prefigurativo specifico dell’atto architettonico. Se poi il secondo momento dell’itinerario ermeneutico del percorso ricoeuriano, la configurazione, è dato invece, in ambito letterario, dalla costruzione dell’intreccio, della messa in intrigo letterario in cui il contesto della vita quotidiana si svincola 23 P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 1; La configurazione nel racconto di finzione, vol. 2; Il tempo raccontato, vol. 3, Milano, 1986, 1987, 1988. 24 P. Ricoeur, Architettura e narratività, in di F. Riva (a cura di), Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, Troina, 2008, p. 56. ���������������� Ibidem, p. 61. 12 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x dal mondo della vita per entrare nella sfera della letteratura, si può notare che ad esso corrisponde, in architettura, il progetto architettonico così, il costruire, anche esso è concepibile come un analogo della costruzione dell’intreccio: ove il progetto architettonico è inteso anche esso come testo “narrativo”. Infine, se il momento conclusivo dell’esperienza cognitiva, la rifigurazione, è fornito dall’esperienza della lettura ciò che sta a valle della configurazione e a essa contrappone le istanze individuali e le aspettative di senso del fruitore del testo -, ugualmente l’abitare l’edificio si pone come gesto rifigurante in architettura. Esso fornisce la reazione dell’abitante a fronte della progettualità avanzata dalla costruzione del progetto, che non coincide mai con quanto pianificato in sede di progettualità. In questo senso, anche l’architettura può essere assunta entro il quadro ermeneutico e, aggiungerei, estetico, della narrazione, giungendo a indicare un altro ambito di analisi a quelli precedenti menzionati come caratteristici dell’estetica giuridica, il nesso tra diritto e architettura. Il legame tra l’ermeneutica letteraria o storiografica e l’architettura precisato da Ricoeur è poi interessante come punto di partenza per comprendere quanto afferma Legendre a proposito dell’uso giuridico della metafora architettonica riferita alle istituzioni26. Riprendendo un tema di Vitruvio, lo storico nota come l’idea di fermezza e di solidità delle istituzioni e della società abbia una matrice “architettonica”, connotandosi in senso finzionale. Nel senso che, proprio come gli edifici, le istituzioni non devono solo reggersi in piedi, ma comunicare anche l’idea di solidità, di firmitas, del reggere: essere rappresentate e narrate come dotate di solidità e stabilità. Appare allora possibile individuare un tratto in comune tra la firmitas vitruviana e l’iconografia emblematica delle costruzioni sociali, dal punto di vista dei loro effetti sociali: in entrambe l’effetto previsto è il far credere mediante la costruzione di un’apparenza iconica, il piano della rappresentazione del fondamento giuridico27. Queste osservazioni, sia pure solo embrionali, sono volte a specificare la rilevanza di una disciplina ancora in fase di costruzione metodologica, l’estetica giuridica, che mostra come il nesso tra diritto e la nozione di narratività possa essere integrata in una prospettiva teorica unitaria, volta a tenere insieme un ampio arco di discipline artistiche, dalla pittura al teatro, dalla danza all’architettura, secondo un accostamento che non appare affatto estraneo alla teoria del diritto e alla sua storia. In questo senso, gli studi di diritto e letteratura sembrano poter convergere verso la complessa direzione della progressiva configurazione di un’estetica giuridica, disciplina da affiancare progressivamente alle più note epistemologia ed ermeneutica giuridica. ������������� P. Legendre, L’architecture dogmatique des sociétés: de la metaphore au concept, in P. Legendre, Leçons IX. L’autre Bible de l’Occient: le Monument romano-canonique. Étude sur l’architecture dogmatique des sociétés, Paris, 2009, pp. 50ss. 27 Non sembra sfuggire a questo aspetto funzionale neppure l’edificio del positivismo giuridico nella sua versione kelseniana, retto da una norma fondamentale il cui tratto fittizio mostra l’interesse dell’analisi estetica legendriana in ordine all’ambito della costruzione del testo e del sistema giuridico. Nessi multiformi tra diritto e narrazione Paolo Heritier è professore associato di Filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino ove insegna anche Antropologia filosofico-giuridica. Si interessa tra l’altro di estetica giuridica, teologia e diritto, diritto e cinema. Codirige (con PA. Sequeri) le collane di antropologia “Humana. Le forme dissonanti dell’umano comune” e di estetica giuridica “Tôb. Collana di antropolgia ed estetica giuridica”. Fra le pubblicazioni, Ordine spontaneo ed evoluzione nel pensiero di Hayek, Napoli, 1997; L’istituzione assente. Il nesso tra diritto e teologia a partire da Jacques Ellul, Torino, 2001; La rete del diritto, Torino, 2001; Società post-hitleriane?, Torino2 2009; La vitalità del diritto naturale (a cura di, con F. Di Blasi), Palermo, 2008; Problemi di libertà nella società complessa e nel Cristianesimo (a cura di), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008; Le culture di Babele. Saggi di antropologia filosofico-giuridica (a cura di, con F. Di Blasi), Milano, 2008; Sulle tracce di Jean Vigo. Attualità di un visionario anarchico (a cura di ), Pisa, 2010. 13 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x diritto e COSTRUZIONE NARRATIVA. La connessione tra diritto e letteratura: spunti per una riflessione M. Paola Mittica Abstract Parole chiave Nel quadro del dibattito attuale intorno alla metodologia di Diritto e letteratura il rapporto tra diritto e costruzione narrativa è cruciale. Muovendo dall’osservazione del diritto quale prodotto culturale tra altri, l’articolo ha per obiettivo la ricostruzione delle tesi e delle categorie che interessano il campo della narratività, come terreno più fertile per ricollocare la definizione dell’approccio Diritto e letteratura e della sua metodologia. Diritto e letteratura; Narrazioni giuridiche; Comunità narrative. 1. Lo studio delle storie L e poche pagine che seguono riassumono alcune riflessioni emerse in occasione di una tavola rotonda* organizzata dal prof. Marco Cossutta in collaborazione con la prof. ssa Maria Carolina Foi, presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Trieste, con il patrocinio della Italian Society for Law and Literature. L'invito, particolarmente gradito, ha dato occasione a un confronto molto stimolante con gli altri relatori – la prof.ssa Giuseppina Restivo, il prof. Paolo Heritièr, il prof. Fabio Cossutta – oltre che con gli stessi Cossutta e Foi, al punto da non esaurirsi se non dopo diverse ore dalla conclusione formale del seminario. Tavola rotonda su “Diritto e costruzione narrativa. La connessione fra diritto e letteratura”, Trieste 30 novembre 2009. Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione. Master di primo livello in “Analisi e gestione della comunicazione”. In collaborazione con CERMEG – “Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica”, “Tigor. Rivista di scienze della comunicazione”. Con il patrocinio di “Italian Society for Law and Literature”. ∗* diritto e costruzione narrativa Il tema in gioco “Diritto e costruzione narrativa. La connessione tra diritto e letteratura”, d'altra parte, è uno dei più cruciali nel dibattito intorno alla metodologia di diritto e letteratura e l'incontro tra studiosi dei due diversi versanti di questo approccio non poteva che rivelarsi proficuo. La prospettiva adottata nell'intervento trae spunto dalla formulazione ben riuscita del titolo della tavola rotonda. Rielaborando infatti soltanto di poco la soluzione grafica, ponendo “diritto” in minuscole e “costruzione narrativa” in maiuscole, emerge immediatamente che è possibile osservare il diritto come una delle espressioni della costruzione narrativa della realtà. Ed è questo l’oggetto principale degli argomenti proposti, rivolti all’osservazione dell’approccio diritto e letteratura come una delle possibili vie per l’analisi del diritto come fatto culturale (prodotto del linguaggio e della relazione sociale). La trama del concetto di narrazione si svolge attraverso vari lavori nell’alveo di differenti discipline e più in particolare dell’antropologia culturale, della sociologia 14 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) narrativa, della psicologia culturale, ma anche di buona parte della critica letteraria. Si tratta di lavori che finiscono con il richiamarsi tutti tra loro, accomunati dagli stessi riferimenti filosofici (Ricoeur prima di tutti) e narratologici (le tesi di Genette in particolare sono quelle su cui c’è maggiore convergenza). Al cuore di questa ricerca vi è “lo studio delle storie”, che a partire dagli anni ottanta del 1900, è divenuto oggetto di rielaborazione anche nell’ambito delle discipline più vicine al diritto e in particolare del movimento L&L1. Si tratta ad oggi di un percorso già tracciato, ma ancora poco noto e frequentato dagli studiosi di Diritto e letteratura italiani e in generale non statunitensi2, che necessita quindi di essere messo in luce. Ma non soltanto. Attraverso la ricostruzione delle assunzioni, delle categorie e degli stessi strumenti di indagine che riguardano lo studio delle storie è auspicabile che l’inevitabile reinterpretazione dei problemi possa condurre anche a nuove acquisizioni. Partiremo quindi da una semplificazione quasi assoluta dei termini del discorso, per provare a cogliere la struttura essenziale delle categorie in gioco, e poi ricostruirlo in modo via via più articolato, prendendone in considerazione i vari elementi, senza nessuna pretesa di esaustività, ma al fine di condividerli, discutere e affinare, proseguendo idealmente lo stimolante confronto avviato a Trieste. 1 Il complesso coinvolgimento di molte delle prospettive del pensiero delle scienze umane nel dibattito attorno alla narrazione è ben testimoniato da un monografico pionieristico della rivista “Critical Inquiry”, dal titolo On Narrative, Vol. 7, n. 1, 1980, in cui sono coinvolti filosofi, critici letterari, psicologi, storici, antropologi, romanzieri e narratologi chiamati a discutere sul modo e sulle ragioni per cui raccontiamo, capiamo e usiamo le storie. 2 Un’autorevole eccezione in Europa è rappresentata da F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004. Il fronte metodologico della narrazione si sta facendo avanti anche in Italia; per alcuni riferimenti bibliografici vedi M. P. Mittica, Diritto e letteratura in Italia. Stato dell’arte e riflessione sul metodo, in: “Materiali per una storia della cultura giuridica”, n. 1, 2009, pp. 3 - 29. Per la ricostruzione della storia del movimento L&L vedi A. Sansone, Diritto e letteratura. Un’introduzione generale, Milano, 2001. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x 2. Narrazione. Pensiero. Comunità narrative Cosa è una narrazione? Senza avventurarci per economia del discorso nella lunga e complessa storia di questa categoria, possiamo dire che il concetto di narrazione diviene trasversale nelle scienze umane a partire dalla seconda metà del 1900, fino a maturarsi in una definizione che osserva la narrazione come: “il processo di strutturazione di un racconto che si realizza come pratica sociale in cui due o più persone mettono in comune una storia”3, dove, in altre parole, l’atto del narrare è una pratica inscrivibile in modo esclusivo nel contesto della relazione tra un narratore e il suo pubblico o interlocutore. L’attitudine alla narrazione è una qualità di una specifica forma del pensiero, vale a dire del pensiero “narrativo”4. Gli psicologi della cultura, che considerano il pensiero nel suo complesso come un prodotto culturale e sociale 5, ritengono infatti che la cultura influenzi la formazione di diversi tipi di pensiero: quello paradigmatico, e per l’appunto quello narrativo. Mentre il pensiero paradigmatico viene ascritto al ragionamento scientifico classico, quello narrativo è una forma del pensiero che si manifesta nelle prime fasi dello sviluppo cognitivo con tre precise caratteristiche: (1) è un modo di pensare al sociale, tanto che la sua referenza è costituita dagli eventi sociali; (2) si genera a partire dalle interazioni sociali – vale a dire che la struttura narrativa è insita nell’interazione so3 P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, 2000. 4 A. Smorti, Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Firenze, 1994. 5 Com’è noto, il funzionamento del pensiero viene osservato nella psicologia culturale all’interno del rapporto tra mente e cultura. È la cultura a plasmare la vita e la mente dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema interpretativo. Viene sposata in tal senso la lezione geertziana in uno dei suoi assunti principali, ovvero che non esiste qualcosa come la “natura umana” indipendentemente dalla cultura. Cfr. per tutti J. S. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale [1990], Milano, 2006, p. 47; C. Geertz, Antropologia intepretativa [1983], Bologna, 1988. 15 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ciale, prima ancora di trovare espressione linguistica; e (3) allo stesso tempo genera vita sociale, nella prospettiva in cui la vita sociale è considerata un contesto di tipo interpretativo e in certa misura anche il risultato di costruzioni narrative 6. Il pensiero narrativo è dunque il luogo eletto dell’elaborazione simbolica della dimensione relazionale. Il che ne conferma la manifestazione nelle pratiche sociali e/o narrative. Queste semplici tesi di partenza conducono di per sé all’idea che le pratiche narrative siano alle origini della comunità. La tesi, largamente condivisa, viene convalidata essenzialmente prendendo in causa l’evidente qualità narrativa dei contenuti della memoria collettiva su cui ogni comunità fonda la propria identità e l’individuo sociale trova collocazione e proiezione. È attraverso la ricezione e la rievocazione di storie che appartengono alla memoria collettiva che si rinsaldano l’identità collettiva e il senso di appartenenza, offrendo sul piano emotivo e interpretativo anche la capacità di interpretare i bisogni e gli scopi presenti7. 6 Per meglio comprendere la differenza tra le due forme di pensiero si rimanda alla tavola sinottica proposta in A. Smorti, Il pensiero narrativo, cit., p. 92. 7 La dimensione individuale nella prospettiva del pensiero e della prassi narrativi si riduce al Sé, quindi all’esistenza sociale dell’individuo. Lo si osserva anche al livello della memoria personale che si intreccia con il pensiero narrativo. La memoria personale è quella autobiografica, più intenzionale, più legata a ricordi specifici e vincolata a precise situazioni nello spazio e nel tempo. Essa è costituita da molteplici sistemi, di cui tre sono i principali: sistema episodico; sistema semantico; sistema narrativo. Il sistema narrativo interviene dopo che quello episodico e quello semantico, quando il bambino comincia a parlare ed è in grado di trasporre le proprie memorie in modo verbale, strutturandole secondo un prima e un dopo, e descrivendo un’azione che si svolge nel tempo. Nel suo complesso la memoria autobiografica è la memoria degli eventi della propria vita, ricordati nell’unica prospettiva del Sé in rapporto agli altri. Vale a dire che deve assolvere al compito di rappresentare gli eventi in modo coerente alle esigenze del Sé. Inoltre, pur potendo distinguere sul piano teorico la dimensione collettiva da quella individuale, i due piani non lo sono al livello dell’esperienza poiché nell’esperienza il ricordare e il raccontare o il raccontare tout cour, precipitano l’uno nell’altro. Vedi ancora A. Smorti, Narrazioni. Cultura, memoria e formazione del Sé, Milano, 2007, p. 46 ss. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x Che le pratiche narrative siano alle origini della comunità, tuttavia, lo si comprende anche grazie alla caratteristica delle storie di essere “messe in comune”. Le pratiche narrative non si prestano infatti a essere ridotte a un semplice scambio comunicativo. Raccontare a un altro significa farlo partecipe di un’elaborazione personale di eventi dell’esperienza o di storie della memoria collettiva a lui specificatamente dirette. Secondo Jedlowski, il racconto è un “dono”, un munus che vive della disponibilità di chi narra ma anche di chi ascolta, e si volge in potenza perciò a rinsaldare legami esistenti e/o a crearne di nuovi, in virtù della propria qualità di “obbligazione” fondata sulla reciprocità8. L’essere comunità e il perpetuarsi come tale si realizza dunque attraverso racconti, mediante i quali si condividono le stesse storie, in riferimento a un immaginario comune. Questa condivisione tuttavia non può essere assunta in modo aproblematico. Intanto non possiamo pensare alla cultura in termini di “mono - cultura”. È evidente che il mettere in comune storie è una pratica relazionale che si svolge al livello delle diverse e plurime appartenenze dei soggetti interagenti. Lo stesso soggetto può essere parte di diversi gruppi, caratterizzati ciascuno da una propria cultura e da una memoria comune “locali”. Dalla prospettiva inversa, diverse culture possono entrare anche in forte contrasto, provocando dissonanze tanto al livello dell’individuo sociale quanto nel più ampio contesto della memoria collettiva. A ciò si aggiunge il fatto che il racconto di una storia è anche frutto di reinterpretazione e adattamento dei contenuti secondo la funzione dettata dal contesto specifico della relazione sociale in cui si svolge, e che spesso si tratta di storie che recano in sé un forte potenziale innovativo ma anche immaginativo e creativo. Le comunità narrative sono in altre parole di per sé instabili, organismi in continuo movimento: “comunità “lasche” e dai confini mobili”9. 8 P. Jedlowski, Il racconto come dimora.“Heimat” e le memorie d’Europa, Milano, 2009, p. 34. La proiezione della comunità a partire da una struttura del legame solidale sintetizzabile nell’espressione “cum - munus” è esplicitamente riferita a R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, 1998. 9 Ivi, p. 38. 16 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) 3. Il testo narrativo La narrazione produce un testo narrativo, vale a dire un racconto, che può essere definito come: uno strumento flessibile per interpretare e parlare della realtà, ovvero di Sé e del mondo. Si tratta di uno strumento flessibile perché impiega materiali simbolici preesistenti nella cultura in modo elastico a seconda delle finalità a cui è diretto; che è volto a interpretare, nel senso che tende a stabilire un ordine di significati attraverso un racconto “comprensibile” e “credibile” di eventi, in cui le azioni dei vari personaggi coinvolti si svolgono secondo una sequenza temporale e in uno spazio determinati, che contribuisce alla comprensione della realtà, a dare un senso al Sé e al mondo; per parlare ovvero interagire con gli altri, con la possibilità di stipulare nuovi significati e proiettarsi in un tempo futuro10. Senza racconti non saremmo in grado di utilizzare le diverse prospettive temporali. Sono le storie ad articolare il tempo. Dall’eterno presente, in cui si va svolgendo la nostra vita, riusciamo a conoscere l’esperienza passata e recuperare il tempo del vissuto costruendo una memoria individuale e sociale. Grazie a testi prodotti da pratiche narrative possiamo compensare così la nostra finitudine11, ma anche prefigurare un’alternativa alla realtà ordinaria del quotidiano, a immaginare il possibile e a costruire il nuovo. Senza le storie, d’altra parte, non riusciremmo a gestire nemmeno il nostro presente, perché privi dello strumento principale attraverso cui rielaboriamo progressivamente l’esperienza, costruendo un’identità personale coerente, culturalmente collocata, individuando un equilibrio sulla base di significati e regole riconoscibili e condivisibili. La stessa vita sociale non avrebbe “senso”. Certamente i testi narrativi si avvalgono di molteplici forme di materiali simbolici. 10 La definizione rielabora quella proposta da Smorti, il quale si limita a osservare il racconto soltanto come uno strumento linguistico, per abbracciare l’idea più generalizzabile che un testo narrativo possa trovare espressione attraverso molteplici linguaggi, come viene chiarito subito dopo. Cfr. A. Smorti, Narrazioni, cit., p. 78. 11 R. Ceserani e A. Bernardelli, Il testo narrativo, Bologna, 2005. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x Sarebbe erroneo limitare il linguaggio della narrazione al piano della forma linguistica e/o della comunicazione verbale. Non si parla, non si racconta anche attraverso la musica? la pittura? Il cinema? La fotografia?12 La narrazione è un processo che può svolgersi attraverso ogni genere della produzione culturale. Se in questa sede ci si limita a considerare i racconti discesi da narrazioni che si servono del mezzo linguistico è soltanto perché il rapporto preso in analisi è quello tra diritto e costruzione narrativa sotto lo specifico versante delle convergenze (e divergenze) tra diritto e letteratura. I tipi di testi narrativi che ricadono in questo rapporto hanno sovente la struttura di un racconto letterario in cui è possibile distinguere: una “storia”, in cui si rispecchia un ordine cronologico e logico degli eventi, che è l’oggetto del racconto; e un “discorso” che è il racconto della storia considerato nel suo sviluppo. Si tratta di una dicotomia che si ritrova nella narratologia russa, francese, americana13, e caratterizza molti generi di narrazione: dai miti, alle favole, alla deposizione di un testimone processuale, al romanzo, a un racconto breve, al dispositivo di una sentenza, a un testo teatrale, a una storia di vita raccontata nel corso di una rilevazione empirica adoprata con tecniche di sociologia qualitativa. Il nostro mondo normativo si scompone e ricompone continuamente attraverso una fitta rete di combinazioni narrative che ci raccontano e attraverso cui raccontiamo. E non potremmo accedervi, darne interpretazione 12 A questo proposito si rimanda a Chatman che osserva la caratteristica della narratività in molteplici linguaggi della cultura, focalizzando l’elemento tipizzante di ogni testo narrativo nel tempo. Cfr. S. Chatman, What Novels Can Do That Films Can’t (And Vice Versa), in “Critical Inquiry”, Vol. 7, No. 1, On Narrative (Autumn, 1980), pp. 121 - 140. ����������������������������������������������� Vale a dire che “la presenza del tempo è la caratteristica fondamentale di tutti i testi e i discorsi che definiamo come “narrativi” e della nozione stessa di “storia””. Cfr. P. Jedlowski, Storie comuni, cit., p. 10. 13 Rispettivamente come: fabula/intreccio; histoire/récit; story/discourse - plot. Vale la pena precisare la tesi di Peter Brooks, il quale individua nel “discorso”, ovvero in questo testo che si va compiendo durante il processo narrativo, la trama che si svolge, rispetto alla quale il plot è il motore. Cfr. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984), Torino, 1995. 17 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) e orientare di conseguenza i nostri comportamenti se non vi partecipassimo come narratori e personaggi. 4. Pratiche narrative e ordine normativo La qualità normativa delle pratiche narrative emerge in modo particolarmente visibile quando le stesse intervengono nella composizione degli equilibri all’interno delle comunità, in presenza di fratture della solidarietà sociale. Poiché la coesione societaria è sempre esposta a traumi e conflitti al livello del legame sociale, una delle principali risorse per mantenere un equilibrio di sopravvivenza è proprio la capacità di elaborare narrazioni interpretative adatte a mitigare e ad attenuare le scissioni che potrebbero scatenare un eccesso di dinamiche conflittuali14. Il narrare svolge questa funzione in quanto è un’azione che si colloca in un contesto di interazione e ascolto reciproco – chi narra rende raccontabile e comprensibile il proprio racconto all’altro che ascolta – consentendo la rielaborazione simbolica degli eventi che hanno causato la frattura. Spesso si attinge a storie comuni e condivise, mettendo in gioco un patrimonio di valori e norme serbate da una cultura in un insieme storie e di procedure interpretative che, in caso di scostamenti dalle norme, sono in grado di assegnare alla narrazione in gioco significati secondo determinati canoni o credenze15. In uno dei saggi più noti a proposito di diritto e narrazione, si invita a osservare il testo e la giurisprudenza costituzionali come le dimensioni narrative fondamentali in cui una comunità si riconosce e radica la propria esistenza e il proprio futuro come tale, per quanto culturalmente diversificata16. La tesi si può tuttavia estendere anche a quei casi in cui i due attori che entrano in disaccordo non condividano un patrimonio narrativo comune. Intervenuta una narrazione, potrebbe accadere, infatti, che si proponga un racconto volto non tanto a ricomporre tesi inconciliabili quanto a renderle comprensibili e a forgiare 14 Cfr. V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, 1993. 15 Cfr. J. S. Bruner, La ricerca del significato, cit., p. 58. 16 R. Cover, Nomos e narrazione. Una concezione ebraica del diritto [1980], a cura di M. Goldoni, Torino, 2008. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x interconnessioni percorribili, offrendo storie – per dirla con Bruner – che rendano la “realtà” una realtà mitigata. In queste circostanze le pratiche narrative possono sorgere proprio come un ponte tra mondi normativi diversi. Le pratiche narrative sono sempre volte, in definitiva, a stabilire o ristabilire un ordine, nei significati e nelle regole, sebbene nel segno di una condivisione che va continuamente rinsaldata e ripattuita. In questa prospettiva è possibile ritenere che tutta l’attività del raccontare che si svolge verso la definizione di un ordine simbolico e comportamentale è “giuridica”. Il mondo delle relazioni sociali potrebbe essere osservato allora come un universo normativo caratterizzato dalla narrazione, in cui i testi narrativi si diversificano nelle loro forme – alcuni codificandosi appunto in leggi e in altri testi della cultura – ma che in ogni caso sono tutti di carattere normativo, quanto meno nel contesto dell’attività interpretativa che richiedono: “ogni prescrizione esige di essere situata in un discorso, ovvero di essere provvista di una storia e di un destino, di un inizio e di una fine, di una spiegazione e di una finalità; e ogni narrazione esige di essere compresa da una prospettiva prescrittiva: esige la propria morale. La storia e la letteratura non possono sfuggire da un universo normativo; e non può la prescrizione che, per quanto incorporata in un testo giuridico, non sfugge dalla propria origine e dal proprio fine nell’esperienza: ovvero non può sottrarsi alle narrazioni che la nostra immaginazione proietta sulla realtà materiale”17. 5. Storie di fatti e storie di fantasia. Una definizione di campo Se assumiamo che il mondo della vita quotidiana è narrativo e allo stesso tempo normativo, dove anche il diritto è una pratica o un insieme di pratiche narrative, diventa a questo punto necessario chiedersi in quali termini può essere riproposta una distinzione tra diritto e letteratura. Quella da cui evidentemente non si può prescindere distingue tra diritto a letteratura sulla base della differenza tra storie 17 Ivi, p. 18. 18 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) di fatti realmente accaduti, azioni e situazioni della vita ordinaria e storie inventate, di fantasia, tutt’al più verosimili. Detto ciò e con la consapevolezza della necessità metodologica di questa operazione, sarebbe troppo ingenuo ricondurre diritto e letteratura a binomi come vero/falso o peggio ancora reale/irreale: sarebbe come negare quanto stiamo dicendo sulla costruzione narrativa della realtà18. Se la prassi narrativa è un processo che ha la funzione di riprodurre e produrre la realtà, se dobbiamo di conseguenza intendere il testo narrativo nella sua più specifica componente dinamica, che è quella del raccontare, come un dato di realtà, in quanto canalizza l’interpretazione della realtà, e così contribuisce a crearla: che una storia possa trattare di fatti avvenuti concretamente o di fatti che sono frutto di invenzione e immaginazione non è poi una distinzione così risolutiva. Storie di fatti accaduti e storie di fatti di fantasia (verosimili) orientano con grande forza narratori e fruitori dei racconti al livello della costruzione interpretativa della realtà. Sia che si riferisca a un evento accaduto o a uno di fantasia, il racconto può infatti descrivere indifferentemente circostanze e situazioni della vita ordinaria e indicare valori e regole che ordinano l’orizzonte delle attese di chi elabora e di chi ascolta il racconto. Il punto focale che dobbiamo mantenere nella nostra osservazione, per comprendere la consistenza della costruzione narrativa, è nella “realtà del raccontare” e nella consapevolezza che il raccontare produca “comunque” delle “storie”. A qualunque vissuto si può avere accesso soltanto mediante l’elaborazione narrativa che se ne fa (a partire di come il protagonista la racconta a se stesso). I fatti e le loro circostanze – accaduti o di fantasia – costituiscono l’oggetto della storia. La storia è a sua volta l’oggetto del racconto. Il 18 D’altra parte, all’interno del dibattito sulla narrazione sin dalle sue prime mosse si è ben compreso che l’opposizione vero/falso, parlando delle funzioni del narrare rispetto alla vita individuale e collettiva nei processi di mediazione e costruzione simbolica della realtà, si scioglie nel concetto di “realtà”. Cfr. H. White, The Value of Narrativity in the Representation of Reality, in “Critical Inquiry”, Vol. 7, No. 1, On Narrative (Autumn, 1980), pp. 5 - 27. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x racconto può riferirsi a un fatto e raccontarne la storia, ovvero le circostanze e i tempi in cui è avvenuto, le persone coinvolte, le ragioni, sia elaborando ex novo una storia, sia prendendo a prestito storie analoghe conosciute. Chi racconta costruirà un racconto in modo più o meno originale a seconda dei materiali che vorrà impiegare nel proprio racconto, che sono presenti nella cultura condivisa da lui e dal suo diretto interlocutore o dal suo pubblico. Nel raccontare una qualsiasi storia, l’autore di un testo narrativo interpreta e restituisce un dato di realtà indipendentemente dal fatto che gli eventi a cui si riferisce siano effettivamente accaduti o meno. Le storie quindi vanno viste innanzi tutto facendo riferimento all’effettiva ricaduta che hanno nella realtà al livello dell’esperienza e soltanto in questa cornice si può proporre la differenza tra storie di fatti avvenuti concretamente, situazioni vissute nella vita ordinaria e storie di fantasia che si basano su fatti e situazioni che potrebbero verosimilmente esistere ma anche assolutamente fantastici, purché in grado di incidere sull’orientamento dei soggetti del contesto narrativo. Piuttosto dunque che concludere sommariamente ascrivendo il diritto alle storie dei fatti accaduti e la letteratura alle storie di fantasia, bisogna assumere questo campo in modo più complesso. Dovremmo dire perciò che rispetto all’insieme dei testi narrativi, nei quali si ricomprendono tutti i racconti elaborati nel corso dell’esperienza19, il campo diritto e letteratura 19 Alle storie di fantasia possiamo ascrivere le storie della letteratura. Si tratta di storie inventate e raccontate secondo canoni che sono quelli del genere letterario, da parte di narratori di professione (scrittori letterari) che scelgono la forma di testo che preferiscono, il romanzo, piuttosto che la pièce teatrale, o altro. A questo tipo di storie ci sia consentito – per quanto arbitrario – di accostare miti, leggende e fiabe che com’è noto hanno caratteristiche del tutto specifiche, in quanto sono narrazioni tradizionali che costituiscono un patrimonio culturale da cui attinge la memoria collettiva di una comunità. Alle storie che sono oggetto di racconti su eventi e circostanze ordinariamente vissute possiamo invece ascrivere tutte quelle storie che sono elaborate da soggetti nel corso della loro vita quotidiana senza il ricorso – almeno consapevole – a una forma letteraria. Impossibile enumerare le modalità infinite di combinazione narrativa attraverso cui esprimiamo e comuni- 19 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) si circoscrive a quelle storie che discendono da pratiche narrative che presentino la qualità normativa, nel senso che poco più sopra abbiamo espresso. In questo modo si introduce la qualità normativa delle narrazioni letterarie (sebbene siano storie “di fantasia”) e allo stesso tempo si includono nei racconti giuridici anche quelle storie della vita quotidiana che il sistema giuridico (del diritto positivo) esclude. Vale a dire che le storie che interessano il versante della giuridicità sono tanto quelle della “legge” quanto quelle dell’“infra diritto” e del “non - diritto”20. Nella prospettiva di una distinzione analitica tra diritto e letteratura, si dovranno individuare perciò nel complesso dei racconti giuridici: 1. sul versante della letteratura: a) i testi letterari veri e propri – storie di fantasia formalizzate in romanzi, racconti, opere teatrali ecc.; b) le storie tradizionali – a partire dai miti che spiegano i principi della convivenza, raccontando le ambiguità della giustizia e della violenza, la necessità del limite nonché l’alterità irriducibile, fino alle favole accompagnate in ogni tempo da una morale e da precise indicazioni di comportamento; chiamo ordinariamente la nostra esperienza. La nostra vita quotidiana si svolge in un reticolo storie, oggetto di pratiche narrative che ci vedono narratori e fruitori di racconti. Un inventario delle forme di testi narrativi di ambedue le specie è stato elaborato da Ceserani sebbene limitatamente a testi narrativi scritti. Cfr. R. Ceserani, “Forme della scrittura narrativa”, in R. Ceserani e A. Bernardelli, Il testo narrativo, cit., pp. 20 - 53. 20 L’infra - diritto è traducibile nel complesso di pratiche, usi e consuetudini, dei valori e dell’immaginario giuridici, che nel loro insieme sono all’origine delle istituzioni giuridiche e politiche di una comunità, ne tutelano il mantenimento ma le spingono anche al rinnovamento. A questa dimensione della giuridicità la categoria del non - diritto aggiunge più espressamente il “vuoto” che potrebbe essere colmato: un’assenza del diritto che prelude a possibilità alternative rispetto ai codici consolidati. Intesi come tessuto normativo della vita quotidiana che affondano le radici nel patrimonio culturale condiviso, i testi narrativi riferibili all’infra - diritto e del non - diritto scaturiscono dalla trama di qualunque racconto elaborato nel corso dell’esperienza individuale. Per l’approfondimento di queste tematiche si rimanda a J. Carbonnier, Flessibile diritto [1969], Milano,1997; per la rilettura di questo autore classico contemporaneo si rinvia a F.S. Nisio, Jean Carbonnier, Torino, 2002. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x c) i racconti che provengono dal mondo della vita quotidiana, ma che sono esclusi dal sistema giuridico21. 2. sul versante del diritto, si osservano invece più specificatamente le storie ascrivibili alla “legge” che, come sappiamo, è più semplicemente la più piccola parte del diritto, ovvero quella che si positivizza nell’ordinamento dello Stato moderno nelle società occidentali. Si tratta per lo più di quelle che hanno ad oggetto fatti accaduti e situazioni vissute concretamente, me per l’appunto di “storie”: quelle che appartengono al mondo della legge, del sistema giuridico, raccontate da giudici e avvocati quando si tratta di fatti ricostruiti nell’ambito di processi, o da altri operatori del diritto e in particolare dal legislatore quando si tratta di costruire un provvedimento legislativo o da un burocrate che si occupa di applicarlo22. 6. Diritto e letteratura Che poi tra diritto e letteratura il rapporto sia di fatto privilegiato è un discorso ulteriore. I racconti letterari e i racconti del sistema giuridico si osservano reciprocamente, servendosi gli uni degli altri. Proviamo a guardare dalla prospettiva della letteratura. Le storie letterarie presentano quasi sempre sullo sfondo un contesto quotidiano ordinato simbolicamente e normativamente, a partire del quale si svolgerà la trama. Questo ordine “dato per scontato” viene poi sistematicamente infranto e posto in crisi, per poter essere discusso, reinterpretato e infine ricostruito. Così, dalla finzione letteraria – dice Bruner – giungono gli strumenti per definire la realtà sul piano del suo 21 Il legal story - telling movement tra le varie tematiche affrontate ripropone anche l’elaborazione di storie – anche inventate, purché verosimili – di situazioni in cui si perpetuano condizioni di disagio, emarginazione, esclusione dal godimento di diritti, aspettative normative disattese. 22 In un mio precedente saggio, ho identificato questi racconti come “giuridici ufficiali” e ho riportato il catalogo dei documenti giuridici ricostruito da Mortara Garavelli sulla base delle attività da cui gli stessi discendono: creativa; teorico - interpretativa; pratico - applicativa. Cfr. M. P. Mittica, Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche, Milano, 2006, p. 39 ss.; B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni, grammatiche e retoriche sui testi giuridici italiani, Torino, 2001, p. 22 ss. 20 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ordine normativo, attraverso una messa in discussione dell’ordine stesso23. Ciò è possibile perché il racconto letterario è stato elaborato facendo riferimento all’ordine normativo di un preciso contesto sociale e culturale, posto sullo sfondo della trama e che proprio in quanto attinto dalla realtà comune (narrativa) può essere dato per scontato. Inoltre: in moltissimi casi la finzione letteraria mette in crisi l’ordinario e canalizza la rielaborazione di un ordine normativo facendo ricorso alle forme dell’esperienza giuridica. Quale migliore strumento per ridiscutere il senso dato per scontato se non il racconto di un fatto violento che, dopo aver provocato un shock nel tessuto ordinario della vita, diventa oggetto di analisi nel teatro di un tribunale, nel contesto di un processo in cui si canalizzano tutte le variabili che interessano il delitto sul piano valoriale e normativo? Quale migliore sistema per riordinare i significati delle procedure consolidate e ordinate di un processo? Quale dimensione se non quella della “legge” è maggiormente utile per esplorare le ombre della vita umana che si confronta con il proprio limite, con il proprio essere anche violento e l’ossessiva ricerca di una giustizia che possa essere davvero superiore agli uomini, e “graziarli” perdonando la loro naturale incompletezza, la loro colpa? Proviamo ora a fare l’operazione inversa e a guardare come nell’elaborazione di una storia nell’ambito del sistema giuridico, rispetto fatti e concretamente avvenuti e a circostanze della vita ordinaria, un ordine normativo venga costruito attraverso racconti che attingono alle storie di fantasia, della letteratura o della tradizione culturale24. 23 J. Bruner, La fabbrica delle storie. Letteratura, Diritto, Vita, Roma - Bari, 2002. 24 Si rimanda alla ricostruzione che Flora Di Donato affronta circa il movimento americano di lawyering theory, nell’ambito delle cui tesi si osserva la costruzione della realtà sociale come frutto di processi narrativi che si concretizzando principalmente nella pratica giuridica: “Doing law – il fare legge – è considerato un modo di ‘vivere’ e ‘costruire’ il mondo, a dispetto dello sforzo di isolarne la ‘specificità’. Si tratta di una pratica non disconnessa dagli altri modi di vivere. Cosicché l’interesse è quello di ‘restituire la dimensione degli uomini (human beings) al diritto”. Cfr. F. Di Donato, La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel “processo”, Milano, 2008, p. 67. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x Nei contenuti di una legge non si riversano forse le rappresentazioni e le interpretazioni dei legislatori, che provengono da un tessuto di storie che è tipico della loro comunità narrativa di riferimento? E i giudici, quando devono pronunciarsi su un delitto, non ricostruiscono e restituiscono una storia sulla base di tradizioni narrative? e così gli avvocati, i testimoni: non procedono forse proponendo delle storie su come sono andati i fatti “realmente accaduti”, reinterpretandoli grazie al ricorso ad altre storie? E spesso non accade che un processo sia vinto grazie alla migliore abilità narrativa di un avvocato? Per non dire poi di quanto in queste costruzioni narrative del diritto viene preso a prestito consapevolmente e dichiaratamente dai testi narrativi della letteratura. Basterebbe leggere l’ultimo libro di Nobili, quasi un manuale dell’intreccio tra situazioni e valori in gioco nelle varie vicissitudini processuali e passi della letteratura dei grandi classici25. Il che sia sufficiente a dimostrare come l’argomentazione giuridica si serva tradizionalmente di questi materiali della cultura letteraria per dare “significanza” al proprio discorso. 7. Elementi di un rapporto dialettico A questo punto è necessario chiarire quale sia il vantaggio sul piano metodologico della messa a raffronto di diritto e letteratura. Separati dunque, per essere messi a confronto in modo più analitico, i due ambiti di costruzione narrativa presentano un interessante gioco di opposizioni dialettiche che offrono più di un’opportunità a un’analisi raffinata della giuridicità: 1. Riduzione della complessità/osservazione complessa della realtà. Di fronte alla complessità del mondo la legge codifica la realtà sociale, la istituisce con una rete di qualificazioni convenute operando selettivamente tra le alternative possibili di significato e di comportamento. In tal modo agisce riducendo la complessità26. 25 M. Nobili, L’immoralità necessaria, Bologna, 2009. 26 Si fa riferimento a una tesi acquisita dalla sociologia del diritto contemporanea che trova le sue radici in alcune premesse della teoria della società di Niklas Luhmann. 21 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Da questo regno di apparente luminosità, la letteratura si discosta addentrandosi in percorsi più accidentati, in ombra, nei “valori caldi” dell’umanità dove il distinguere non è un’operazione possibile, soprattutto se proviene dalla pretesa di una differenza netta tra il male e il bene27. La letteratura si pone altre parole come critica e continua sollecitazione del giuridico ad aprirsi alla complessità del reale. In particolare la prosa libera consente al letterato di avvicinarsi alla realtà spesso con maggiore comprensione rispetto a quella che i saperi accademici sono in grado di offrire e da questa prospettiva interroga il giuridico, indebolendo i pretesi saperi positivi che fanno da fondamento alla legge28. 2. Gestione del conflitto/rifiuto della violenza. Per la necessità di gestire il conflitto sociale, la legge opera delle scelte in nome della certezza giuridica: sceglie fra interessi contrastanti; istituisce gerarchie tra pretese contrapposte; dà vita ai tribunali. Introietta la violenza che si prefigge di opporre. La letteratura è pervasa dal rifiuto di questa legge, investendo nei sentimenti vitali (tesi alla vita) dell’uomo. Tuttavia essa si scontra anche con l’incapacità dell’uomo a dare loro spazio, vanificando la necessità del ricorso alla legge in nome della capacità di vivere, promuovendo al contrario pulsioni di morte. Per questa incapacità Magris osserva nella letteratura il ritrovarsi dell’uomo che rifiuta la legge, mentre paradossalmente si colloca in uno schema di giudizio davanti a una legge che lo giudica per la sua limitatezza29. 3. Consolidato/possibile – (canonico/alternativo). Qui il rapporto è reversibile a seconda che si osservi la legge nella funzione di stabilizzare le aspettative e di converso la letteratura nella sua capacità di rovesciare punti di vista, inducendo a spaesamento e alla costruzione di nuova realtà; oppure sia la legge ad assumere valore innovativo e la letteratura quello conservativo. Conseguentemente si potrà opporre un “tempo della legge” a un “tempo della let27 C. Magris, “Davanti alla legge. Letteratura e diritto”, in Davanti alla legge. Due saggi, Trieste, 2006, p. 33 ss. 28 F. �������� Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004, p. 26 ss. 29 Cfr. C. Magris, “Davanti alla legge”, cit. Diritto e costruzione narrativa issn 2035-584x teratura”, osservando le differenze tra testi del “presente - futuro”, del “presente - presente” e del “presente - passato”30. 4. Persona giuridica/personaggio letterario. Qual è infine lo statuto di individui riferibile ai due versanti? La legge parla di persone, la letteratura di personaggi. Mentre la persona giuridica è un ruolo stereotipato dotato di uno statuto (diritti e doveri) convenuto (maschera normativa), il personaggio è un soggetto reale, ambivalente e imprevedibile, che non è riducibile a una maschera giuridica. Il personaggio di fatto sfida o subisce la maschera che gli si vorrebbe imporre: comunque sia, questi eccede la misura della “persona”31, riproponendo una misura diversa e più complessa che è quella “dell’uomo”. 8. Breve conclusione sul metodo Il raffronto tra legge e letteratura ci consente in conclusione di approfondire la comprensione sia della normatività, che si estende ben oltre il sistema giuridico, sia del rapporto tra l’uomo e la legge. Volendo sintetizzare in punti quanto detto sin qui, attraverso questo raffronto riusciamo a: a) comprendere che il diritto è frutto di narrazioni al pari di qualunque altro prodotto culturale – riportando il sistema giuridico a ciò che di fatto è, ovvero a un complesso di pratiche interpretative veicolate da rapporti di forza; b) restituire complessità al sistema giuridico, di per sé selettivo e riduttivo di quella stessa complessità, tentando di rendere la legge più inclusiva di tanti racconti giuridici “esclusi” ma presenti nella realtà della vita delle persone; c) valutare criticamente i contenuti delle norme, osservando il grado di adesione o lo scollamento rispetto ai dettati normativi e a misurare l’effettivo “sentimento giuridico” dei membri di una comunità; d) sovvertire la legge, soprattutto in virtù del potenziale immaginativo e sovversivo che possono avere i testi del versante letterario, ma anche a im30 Per quest’articolazione del “tempo presente” nei testi narrativi, cfr. R. Ceserani, “La concezione del tempo”, in R. Ceserani e A. Bernardelli, Il testo narrativo, cit., p. 106 ss. 31 F. ������� Ost, Raconter la loi, cit. 22 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x maginare nuove forme per ordinare la vita in comune, ponendo le premesse per positivizzare consuetudini e introdurre nel sistema giuridico nuove norme. Il fine è tentare di restituire alle persone il diritto per quello che dovrebbe tornare ad essere: espressione del legame sociale e discorso volto a mediare la convivenza tra “altri” e a tutelare la vita stessa. Proprio a fronte delle forti potenzialità euristiche non si può prescindere dalle opportune cautele metodologiche su cui è necessario meditare e confrontarsi soprattutto sul proficuo terreno dell’interdisciplinarietà. Con questo auspicio ringrazio ancora i colleghi e i nostri ospiti che hanno consentito di avviare queste primi spunti di riflessione in modo condiviso. M. Paola Mittica è sociologa del diritto e docente di antropologia giuridica e diritto e letteratura, presso la facoltà di sociologia dell’Università di Urbino. Dal 2008 coordina la Italian Society for Law and Literature (ISLL), presso l’Università di Bologna. Tra le sue recenti pubblicazioni Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche, Milano, 2006, Cantori di nostoi. Strutture giuridiche e politiche delle comunità omeriche, Roma, 2007 Diritto e costruzione narrativa 23 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice Giuseppina Restivo Abstracts La controversa interpretazione della figura di Shylock nel “Mercante di Venezia”di Shakespeare non si è finora avvalsa di due importanti aspetti iscritti nella testualità del dramma e che possono bene spiegarne le apparenti contraddizioni. La rilettura del contesto socio-storico all’epoca di Shakespeare ad opera di Lawrence Stone ha introdotto una nuova prospettiva, focalizzata sull’importanza dell’incipiente nascita della borghesia (“the rising gentry”), della rivoluzione culturale e del vivace dibattito politico, in particolare dell’ideologia Country, con le sue polemiche etiche ed economiche, centrali nei sistemi di valori del dramma. Sebbene sempre più confermata dai più recenti studi storico-giuridici, tale prospettiva non ha tuttavia ancora esercitato la sua influenza sulla controversia in questione, nonostante la decisiva luce che essa può gettare sul pubblico shakespeariano, i suoi interessi e il suo orizzonte di attesa. Anche la corretta interpretazione del problema giuridico centrale nella lunga scena del processo, che inizia in regime di “common law” e procede passando, nella seconda parte, ad una corte di “equity”, di fatto con un secondo processo presso la Chancery, come bene spiegato da Mark Andrewes, è stata per lo più trascurata senza discuterla, nonostante il suo preciso rilievo nel testo. Lungi dall’essere anti-semita o contraddittorio in tal senso, “Il Mercante di Venezia” è un testo complesso, che ha influenzato la più importante riforma giuridica voluta nel 1616 da Giacomo I e da Francis Bacon e ha sorprendentemente anticipato la riforma del diritto inglese dei Judicature Acts del 1873-75, che hanno ridisegnato l’attuale sistema giuridico inglese. Questo testo è un’edizione rivista del testo già pubblicato in Daniela Carpi ed., “The Concept of Equity, An Interdisciplinary Assessment”, Universitäts Verlag, Winter, Heidelberg, 2007. Controversial interpretations of Shakespeare’s “The Merchant of Venice”, with particular reference to Shylock’s treatment, have so far taken little or no account of two important aspects inscribed in the play, that can explain apparent contradictions. Lawrence Stone’s re-description of the socio-historical set up in Shakespeare’s time has introduced a new outlook, focusing on the importance of “the rising gentry”, the “educational revolution” and the contemporary rich political debate, including the Country ideology, with its emphasis on ethics and economics, central in the value systems of the play. Though progressively confirmed by the more recent historical and law and literature studies, this perspective has yet so far exerted no influence on the controversy mentioned, in spite of the decisive light it can shed on Shakespeare’s audience and its interests and expectations. The correct interpretation of the juridical issue at stake in the long trial scene, which starts in terms of common law, but then shows the superseding of equity in the second part, actually a second trial in Chancery, as well explained by Mark Andrews, has also remained generally both unused and unchallenged, in spite of its relevance and importance in the play. The combination of the two outlooks can offer a new perspective: far from being antiSemitic or contradictory, “The Merchant of Venice” is a complex text, that influenced the 1616 major judicial reform James I and Francis Bacon agreed upon, and surprisingly anticipated the reform brought about in England by the 1873-75 Judicature Acts, still extant today. This text is a revised edition of the text published in Daniela Carpi ed., “The Concept of Equity, An Interdisciplinary Assessment”, Universitaets Verlag, Winter, Heidelberg, 2007. Parole chiave Shylock; Lawrence Stone; Equity; Common law; Thrift; Inns of Court; Mark Andrewes. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 24 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) 1. A Frame of Reference O pposing interpretations of The Merchant of Venice have led to the paradox of its double use by the Jews for their cause and by Nazis against the Jews. As anxiety over the Semitic problem has been growing, contradictory comments have been produced even by some of Shakespeare’s most convinced estimators. For such a major Shakespeare critic Harold Bloom (of Jewish origin), who has placed Shakespeare at the core of what he calls “the western canon”1 and the western “invention of the human”, Shylock is meant as an anti-Semitic villain and Portia’s role in the trial is unduly aggressive2. In the Indian critic Ania Loomba’s 2002 volume Shakespeare, Race and Colonialism, Portia is construed as both racist and anti-Semitic: a surprising charge for the author of Othello, and at variance with Loomba’s own promotion of Shakespeare in the light of her political standing3. As for the trial scene in particular, it seems to have given rise to ideological tension. The play (dating to 1597) refers to a period of social and juridical evolution amply revisited by scholars from the 70’s to the 90’s as one of the most controversial periods of English history, leading to Cromwell’s rebellion. The search for the causes of the 1642 Puritan revolution stimulated a prolonged debate and led to Lawrence Stone’s influential studies. If further research, by Richardson or Russell, seems to have added to the analysis of the revolutionary moment itself, Stone’s re-description of the socio-historical set up in Shakespeare’s time during the reign of Elizabeth and James I has established an unchallenged new outlook. Yet it has so far exerted no influence on new historicism 1 H. Bloom, The Western Canon, Riverhead Books, New York, 1995. 2 H. Bloom, Shakespeare, the Invention of he Human, Fourth Estate, London, 1999. 3 A. Loomba, Shakespeare, Race and Colonialism, Oxford University Press, Oxford, 2002. Portia’s racism is detected in her attitude to the Prince of Morocco, a Moor and an outstanding military hero seeking a Venetian wife, clearly an Othello in nuce: but certainly Shakespeare cannot be accused to side with racism in Othello. Neither was he schizophrenic nor did he change his mind from one play to the other: the linguistic mistake, owing to interpretive distortion, is here later explained in note 24. issn 2035-584x critics or on major Shakespearian criticism and the controversy mentioned. The fact that the trial scene stages a major juridical problem has been considered by few law experts, but hardly at all by literary critics, while no reading combining juridical awareness and the renewed socio-historical outlook has been attempted. Mark Edwin Andrewes’ analysis of the trial scene line by line in Law v. Equity has duly explained all its steps and implications in the light of the history of English jurisprudence4, as two successive legal procedures are adopted by Portia, one at common law and one at equity. This reading, limited to the trial scene, disposes of all the impatient, uninformed labellings of the trial as based on a ‘legalistic quibble’, and accounts for the precision of Shakespeare’s language in the technical workings of the confrontation in favor of equity. Yet it has been ignored by main stream literary criticism, and understandingly so. Confined to few legal experts for the timeconsuming competence it involves, it has not appeared to contribute to a better definition of the crucial problems in the interpretation of the play. Andrewes suggests nothing from this point of view and accepts as obvious the audience’s anti-Semitic outlook5. Among American law and literature experts, Daniel Kornstein - convinced of Shakespeare’s legal expertise, to which he devoted a volume ranging throughout the author’s work - owns indeed that a winning battle for equity is staged in The Merchant, but resents its outcome at the cost of turning Shylock into a discriminated looser. 6 Why place Shylock on the wrong side, turning him from a victorious prosecutor at common law to a losing defendant at equity? Kornstein proposes what he calls a minority view, or “minority report”, sharing the remarks already voiced by Richard Weisberg7: both 4 M.A. Andrews, Law versus. Equity in “The Merchant of Venice”, University of Colorado Press, Boulder, 1965. 5 Ibidem, p.70. 6 D. Kornstein, Kill All the Lawyers? Shakespeare’s Legal Appeal, Princeton University Press, Princeton, 1994 7 R. Weisberg, Poethics and Other Strategies of Law and Literature, Columbia University Press, New York, 1992. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 25 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) authors question the outcome of the equity in the play. Appreciating Portia’s intelligence, Weisberg tries to deflect from Portia to Antonio’s “mediation” the responsibility for what he considers an unnecessarily cruel conclusion of the trial, while yet his full awareness of the whole play leads him rightly to realize that Shakespeare’s portrayal of Shylock is not anti-Semitic8. Thus, paradoxically, a greater difficulty seems to have arisen from greater legal awareness. On the one hand, Shakespeare’s play appears to advocate the importance of equity against a strict resorting to common law with surprisingly lucid anticipation: The Merchant prepares the 1616 legal reform by James I and Francis Bacon, which solved a long contraposition between common law and equity (here later described) by establishing the supremacy of the Chancery. Portia’s role in the trial as a lawyer envisages a solution – a dual jurisprudence to be applied in the same court and trial – anticipating a concept which will become operative in England only with the Supreme Court of Judicature, established with the Judicature Acts of 1873-75. On the other hand, Shakespeare’s extraordinary juridical intuition, combining in the play with the ‘Shylock problem’, increases questions as to the value systems with which the text is imbued. But recent studies allow a reconsideration of the socio-juridical frame of reference for the play. Wilfrid Prest’s two volumes on the London inns of court and on the legal professions in Shakespeare’s England9 suggest new aspects of the setting of The Merchant, which well combine with Stone’s historical re-evaluation of the period. Both authors implicitly suggest, as we shall see, the problem of Shakespeare’s audience ‘inscribed’ in the play. As for Orgel’s 2004 essay Shylock’s Tribe, it has attracted attention to a more immediate detail, which 8 See Ibidem, pp.43, 93-104. Weisberg points out that Shakespeare’s “attraction to Jewish ethical dialogue is too clear, and the dignity of his villain too great” (p.100), but is convinced that this purports a reversal of values, that “to put it legally, law conquers equity and the covenant regains its ascendancy” (p.103). 9 W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), Longman, London, 1972, and The Rise of the Barristers, Oxford University Press, Oxford, 1986. issn 2035-584x throws new light on Shylock’s role10. Orgel’s relatively brief and apparently non-committal essay on The Merchant convincingly argues that the name of “Shylock the Jew” does not at all point to Jewish origin, but to a typical English surname, historically traceable and equivalent to Whitelocke, or Whitehead, suggesting ‘white hair’. The name Shylock did exist in England before Shakespeare’s play, though it tended to disappear after the play, for the implications it suggested. As for the name Whitelocke, it was attached to important magistrates, particularly John Whitelocke and his son Bulstrode Whitelocke, a friend of John Selden, the famous jus-naturalist and expert in common law, but also an eminent scholar of Hebrew. This ‘name detail’ disposes of the various awkward attempts at finding a Jewish background to Shylock’s name, which is actually the only English name in a play properly full of Latin-Italian names (Antonio, Bassanio, Portia, Lorenzo etc.), consistent with the Venetian ambience. As Shakespeare is always highly attentive in choosing his names, why should only Shylock the Jew of all characters sound English? In the re-designed cultural horizon important missing clues – self-evident to Shakespeare’s audience and later lost or altered by the weight of subsequent historical problems – allow a relocation of equity in the play. Equity not only introduces the chancery procedures in the second part of the trial: in a sense it seems to extend to the overall meaning of the play. An equitable logic is here embedded, in the balancing of the textual counterparts, as in the evaluation of more ideological issues at the same time. A degree of both recognition and detraction is allowed to Shylock as well as to Antonio, whose names figured jointly in the unusual double title of the play: The History of the Merchant of Venice or the Jew of Venice11. But perception of necessary evidence requires the reconstruction of the sociolegal background of the play, its central economic issue and the reference audience the trial scene was conceived for. ����������������� Stephen Orgel, Shylock’s Tribe in T. Clayton, S. Brock, V. Forès editors, Shakespeare and the Mediterranean (Selected Proceedings of the International Shakespeare Association World Congress Valencia 2001) Rosemont, Cranbury, N.J., 2004, pp.38-53. ������������������������������������������������������������ See the entry in the Stationer’s Register on 22 July 1598. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 26 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) 2. The Rising Gentry and the Inns of Court Lawrence Stone’s historical outlook has redesigned the social landscape of Shakespeare’s time, characterized by what he calls “the educational revolution” and a social mobility described as the development of an early bourgeoisie, or “rising gentry”. Wilfred Prest’s two studies have enlarged this perspective on the specific ground of the growth of juridical studies and of the professional classes. The formation, role and fortune of English barristers in the sixteenth and seventeenth centuries call into question current historical assessments which postpone the rise of the professional classes in England to the age of the industrial revolution, failing to recognize their existence and importance since Shakespeare’s age. A long tradition describing late Tudor and Stuart English society as based on three social pillars, king, aristocracy and an undifferentiated ‘people’, must give way to a more complex and dynamic interplay of social strata, whose mobility, economic struggle and success prepared the setting for an opposition to absolute monarchical power and the raising of an army surprisingly capable of facing the king’s army in the subsequent Puritan revolution. As both the formation and the career of legal professionals concentrated in London, they advocate a new evaluation of Shakespeare’s audience, of the specific weight of current legal debate and culture, of the playwright’s opportunity to reckon on foreseeable impacts and play on complex allusions, appealing to the informed section of his audience, though later lost or difficult to retrace. As Stone points out in The Causes of the English Revolution from 1529 to 1642, in England between 1540 and 1640, the landed classes trebled in numbers, while the population as a whole scarcely doubled12. Great social mobility brought about “an impressive rise of the gentry as a status group in terms of numbers and wealth”13, which ran parallel and in good part ���������������� See L. Stone, The Causes of the English Revolution 15291642, Routledge & Kegan Paul, London, 1972. ��������������� Ibidem, p.74. issn 2035-584x merged with the rise of the professional classes, the most influential group being the lawyers, followed by the medical profession and the merchants. Education was rapidly improving, as grammar schools and the two universities of Oxford and Cambridge saw a very large increase in enrolments14. Concomitant with the decline of the aristocracy, which was losing its military supremacy and economic hegemony, the increasing gentry ranged from the younger children of the aristocracy, excluded from inheritance, to minor nobility, absorbing the rising middle class, formed by the richer merchants and yeomen, eager to rise socially. In The Past and the Present Stone even more openly describes an alliance of common lawyers, gentry, Puritans and the merchant community15. Educated at Oxford and Cambridge, this rising class was no longer tied by allegiance to the nobles, but to the counties, to regional forces and the defense of their rights in Parliament. Their socio-political awareness grew along with their culture, as with a spreading of juridical knowledge and the successful development of the common law, connected to one specific institution central to its formation: the London inns of court16. Great collegiate institutions, alimented by the growing prosperity of the gentry, by merchants and yeomen (in spite of complaints about the ��������������� Ibidem, p.95. ������������ L. Stone, The Past and the Present, Routledge & Kegan Paul , London, 1981, p.187 and passim. ����������������������������������������������������� Born as voluntary unincorporated associations from groups of practicing lawyers, who clubbed together to provide themselves with lodging houses and offices, the inns of court had turned by 1400 from professional fraternities into teaching institutions. The four great inns, Lincoln’s Inn, Inner Temple, Middle Temple and Gray’s Inn, offered study and training in common law, as distinguished from lesser preparatory inns of chancery. The educational revolution in Elizabethan and early Stuart England, connected to the demographic upswing which reached a peak in the middle of the reign of James I, brought about their growth: between 1500 and 1600 admissions to the inns quadrupled, Gray’s Inn, in particular, enjoying twice as many students as any other house. Students were admitted at an age between 16 and 20, to gain two or three years seniority, then attended university at either Oxford or Cambridge and came back actually to attend the inns. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 27 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) intrusion of lower classes), the inns soon became “the nurseries for the greater part of the gentry of the realme”17. They provided talents with the ladder on which to climb to power and riches, ensuring social mobility. As Erasmus pointed out, there was “no better way for an Englishman to attain fame and wealth than by becoming a common lawyer”18. While the universities trained civil lawyers19 and taught in Latin, the inns taught the common law, of Norman codification, which required a mixture of Latin and “law French”. Common lawyers acted not only as legal experts, but also as accountants, brokers, financiers and land agents, as there was no specific institution for economics. The inns provided not only legal training but also a good conventional gentlemanly education, combining the law, as useful for landowners as for future professionals, with lessons of fencing, dancing and music. Thus, they appealed to the sons of legal dynasties and to future peers, but also, provided they could pay the fees, to merchants and yeomen, men of bourgeois or small farmer stock, whose sons, if admitted to study the law, would be called “Masters” as a first mark of social growth20. Relations with the London merchant oligarchy were close and cordial: many lawyers intermarried with London mercantile families. The organization of the inns was based on three levels: the students, the barristers and the benchers and rulers of the inns, who conferred qualification for audience in the high courts, choosing from their barristers. Typical students’ exercises were disputations, “case-putting”, “moots” or doubtful cases, arguments etc., but they also included a cult of wit, incessant versifying, theatre-going, as the theatres were not far away and helped develop linguistic training: language ability was sought after as coinciding with social mobility (which ������������ W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), cit. p.20. ���������������� Ibidem, p.21. ������������������������������������������������������ For the Chancery, the Admiralty Court, the Court of Requests and ecclesiastical courts. ������������ W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), cit. p.23. issn 2035-584x is indeed ironically mirrored in The Merchant21 as in the cemetery scene in Hamlet). Gaming or unrestrained expenditures on clothes and extra consumption attached to a gentlemanly education often led young men, far from home and family, to debts and even economic ruin: more than one Bassanio would have studied at the inns and been part of Shakespeare’s audience, whose front rows would be filled by students who would actively participate in all the situations (social, economic, legal, emotional) represented in the play. As during termtime presences at the inns could amount to about 2000 and “the passion for play-going among members remained a stock literary joke”22, it is reasonable to assume that inns of court attendance could offer Shakespeare a reference audience, as must have been the case at least for his two so-called “legal plays”, The Merchant of Venice and Measure for Measure. Immediate allusions to such an audience are not lacking indeed in The Merchant: they range from Lancelot’s playful social pretensions with his father when he styles himself as “Master Lancelot” (we have seen the social meaning of the term “Master” at the inns), to his extravagant and defiant use of wit with Lorenzo; or from the links between law and economy in the play, to the traits of the well-educated but impoverished young ‘scholar’ Bassanio, as of course to the trial scene and Portia’s devices as a lawyer. The educational revolution also brought about the political growth of the counties. They assumed a symbolic cultural meaning as an ideal opposite to city or court life. The county meant a rural world and country houses, a kind of Arcadia healthy, green and blessed by beautiful landscapes, trees and birds, as in the description of Portia’s Belmont in The Merchant, contrasted with the city or court, polluted by over-crowding or by political intrigue. In Stone’s analysis, this outlook nurtured the so-called “Country ideology” (which would ���������������������������������������������������� See Lancelot’s wit with Lorenzo in 3.5,45-59 (the reference edition of The Merchant of Venice used is the 1994 Oxford University Press one, edited by Jay Halio). ������������������������������������������������������� Of one Edward Heath we know that in the mid-1620s he attended 49 plays in a year and a half (Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), cit. p.155). Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 28 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) later give rise to a party) and was, in the late Elizabethan years and early Stuart period, one of four currents of thought ‘resisting’ court and crown. The other three were Puritanism, the common law (with Edward Coke as its champion) and “skepticism” (or relativism), represented by Bacon’s philosophy and, we may add, by Montaigne’s Essays (translated by Florio and evoked in Shakespeare’s plays at least since Hamlet). These currents of thought converged in establishing the “prerequisites” for the 1642 revolution against the king. Within the wider social frame, Stone’s description of the Country ideology in particular reveals a peculiar interplay of cultural changes ranging from ethics to economy. It stressed such aspects as “being thrifty”, “responsibility as employers of domestic labour”, ethical pride, and reference to the bench of justices, all of which are evident in The Merchant, as attached to Shylock: “The third component in the mentality of the opposition wastheideologyofthe‘Country’.Spreadbypoetsandpreachers, and stimulated by the news letters about the goings-on at Court, it defined itself most clearly as the antithesis to this negative reference group. The Country is firstly an ideal. It is that vision of rustic arcadia that goes back to the Roman classics and which fell on the highly receptive ears of the newly educated gentlemen of England who had studied Virgil’s Georgics at Oxford or Cambridge. It was a vision of environmental superiority over the City. [...] It was also a vision of moral superiority over the Court: the Country was virtuous, the Court wicked; the Country was thrifty, the Court extravagant; the Country was honest, the Court corrupt [...] secondly the country is a culture and style of life, again defined as much by what it is not as by what it is. As its name implies, it stood for rural residence in a country house, as opposed to living in rented lodgings in London; for the assumption by the owner of paternalist and patriarchal responsibilities as employer of domestic labour, dispenser of charity, landlord of tenants, and member of the bench of justices”23. In The Merchant of Venice the connections linking the rising gentry with the new economy, the Country ideology and the legal environment, appear well evident. The nobles are far from being the protagonists, as usually elsewhere in Shakespeare: indeed, when they do appear, it is only to their disadvantage, as with Portia’s discarded suitors, about whom ������������ L. Stone, The Causes of the English Revolution 1529-1642, cit. pp.105-7. issn 2035-584x her comments are constantly disparaging. A Neapolitan prince, a County Palatine, a French lord, a young baron of England, a Scottish lord, the Duke of Saxony’s nephew, described as departing, and then the Prince of Morocco and the Prince of Arragon, acting on stage, are not simply queuing up to emphasize Portia’s appeal: they represent a whole range of the international aristocracy of the time and are all equally and ironically found inadequate by Portia. She judges them not by their ascriptive qualities, like titles or aspect, but by their personal qualities, or ‘character’: or rather “complexion”, the term Shakespeare uses for the first of the suitors appearing on stage, the Prince of Morocco. Morocco happens indeed to be a foreigner with a brown skin, which helps attenuate in naïf eyes the daring discarding of aristocracy he actually introduces, while the more sophisticated ‘rising gentry’ would quickly recognize in Portia’s irony with all her noble suitors their own self-pride in acquisitive qualities and their socio-ideological antagonism to nobility. As for the term “complexion”, it is used four times in The Merchant and its first meaning was then character (a person’s complex sum of qualities or “complexion”) and did not refer only to skin as it does today24: not a race problem ����������������� The meaning of complexion (used in The Merchant four times) is in Webster as follows: “1. originally the combination of the four humors, or the qualities of cold, heat, dryness and moisture, in certain proportions believed to determine the temperament and constitution of the body. 2. the temperament or constitution. 3. the color, texture and general appearance of the skin, particularly of the face. 4. the general appearance of anything; aspect; character; nature. Portia’s words after Morocco has failed the test, “Let all of his complexion choose me so”, have been considered racist by some critics, as if resuming Morocco’s own previous use of the term, unequivocally referring to his skin. But the term complexion also appears in the play once before and once after these two cases, the last use being unequivocal in the sense of character: Jessica’s elopement in 3.1,279 is compared by Solanio to the migration of birds, “the bird was fledge; and then it is the complexion of them all to leave the dam”. A similar use referred to a rebellious personality, and not to skin, is attached in the first scene of The Tempest to a boatswain impatient with social subordination, on board a ship ready to sink (“his complexion is perfect gallows”, 1.1,29). Portia’s mentioned use seems ironically to correct Morocco’s Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 29 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) but a social class and personality evaluation problem hovers over the whole suitors’ scene in the play. Hence Portia’s ‘mass disapproval’ of her aristocratic suitors and the elaborate psychological nature of the casket ‘personality test’, which is based on the opposition between two verbs, taking and giving in marriage: that is between marriage as social acquisition or as reciprocal human and emotional exchange25. By contrast Bassanio – who has no aristocratic title, as the play emphasizes by ironically styling him Lord Love – is simply a scholar and passes the love test. The rising gentry’s acquired qualities of education, stressing individual identity rather than inherited attributes, combine here with the ideology of the elective couple, as opposed to aristocracy’s tradition of dynastic marriages. In fact all the protagonists of the play belong to a wellto-do untitled bourgeosie. Everything pertaining to Portia and Bassanio points to this status: no title is attached to Portia’s fabulous wealth and her Belmont country seat; her connections are with the professional classes, represented by her cousin, a famous Paduan lawyer, whom she successfully imitates by playing a lawyer in the trial scene; she shares with Bassanio both the ideals of learning and scholarship and the ‘gentile’ life style which Bassanio insists in preserving, even though it means borrowing from Antonio, who stands for the mercantile class. Lorenzo and Gratiano, Jessica and Nerissa represent lower strata of the same gentry. anxiety at her possible dislike of his skin, acutely aiming instead at his personality, made evident in his boasts as a Mars entitled to his Venus for his military heroism. In fact we have seen that Portia evaluates all other suitors on the sole basis of their character. Ironical ambiguity also invests the remaining use of complexion in the play, in Portia’s first remark on Morocco, before she sees him: “If he have the condition of a saint and the complexion of a devil, I had rather he should shrive me than wive me” (1.2,127-8). This may be construed as meaning “had he the (sexual) character of a devil (black men were deemed to be fierce lovers: see in Othello), although socially behaving like a saint, I would prefer to inhabit his sanctuary than accept sexual excess as his wife”. ����������������������������������������������������� There is no room here for a proper analysis of the love plot, the casket scene and Bassanio’s position between Antonio and Portia, which add greatly to the complexities of the play. issn 2035-584x Within the so-called rising gentry there were, indeed, different social components and attitudes to money, introduced in the play not without tensions, as between Shylock and Antonio. In fact, there is an ideological split, as two moral outlooks regarding property are highlighted. One is Shylock’s thrift (a characteristic which we have already seen as attached to Country ideology), the other is the prodigality of renters, who considered money and estate only as a means for high quality life, to be shared with friends, relatives or even in part with domestics: this position is represented by both Bassanio (who is generous even to Lancelot) and Portia, who are imitated by Jessica and Lorenzo and admired by Nerissa and Gratiano. As for Antonio, he becomes heavily indebted just to help Bassanio in his marriage suit, apparently unaware of money or investment risks, as liberal-minded as Bassanio, virtually an aspiring renter26. ����������������������������������������������������������� In Venice in the sixteenth century gentrified inheritors of the merchant class were indeed turning into rentiers or professionals, anxious to distance themselves from their unfashionable mercantile connections. The play mirrors both the Venetian and English abhorrence of money dealings connected with the gentleman, which explains Antonio’s strange detachment from money matters, while for her lawyer’s fee Portia refuses to be paid with more than a ring, anxious to shun “a more mercenary mind” (4.1,414). Money was necessary to be fully human and free and to imitate, in Renaissance terms, the Roman virtus, but it was still often considered better to inherit it than to earn it, to spend it ‘liberally’ rather than be ‘thrifty’ like Shylock. An example of what was happening in Venetian society at the time (and similarly in English society, which looked at Venice with admiration) can be provided by a Venetian pamphlet, dedicated in 1570 by Girolamo Cappello to cardinal Giovanni Grimani, to whose family Cappello belonged. Here, this young graduate from the University of Padua celebrates landed property as the necessary basis for human dignity and virtue. Surprisingly, against his own family’s past and against centuries of Venetian mercantile tradition, he rejects the figure of the patrician merchant, because commerce, aiming at ‘making money’, “vile et sordidum est”, is vile and dirty. In Venetian society merchants used to sea-voyaging and seeking profit were becoming landed country gentry, living in elegant villas on reclaimed lands. (See Gino Benzoni, “Comportamenti e problemi di comportamento nella Venezia di Giovanni Grimani” in Irene Favaretto and Giovanna Luisa Ravagnan editors, Lo Statuario pubblico della Serenissima, Venezia, 1997, pp.21-22). In England, as Stone points out Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 30 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) 3. Shylock’s Double Split If a reckless renter’s use of money was closer to the aristocratic tradition, the thrifty one would better appeal to professionals living off their work, or to severe Puritans, both connected with the new economy which was changing Renaissance Europe, where the Medici had built their fortune as bankers and had become art patrons to hush Christian church resentment against their practice of lending money at an interest. The new economy was based on careful budgeting, expenditure control or parsimony, profit and investment, personal ability and work contracts, as opposed to inflated prestige expenditure, based on a combination of inheritance and a debt economy, social hierarchy exploitation and scarce attention to gain or budget. This economic contraposition is carried on by Shylock, who, when on stage, is seen not as imposing high rates in money lending, but rather proudly insisting on his economic awareness. From beginning to end he is a champion of thrift, which would not be received equally by all components of the contemporary audience, but would appeal to social sections sharing the Country ideology or Puritan values and to part of the inns of court students and professionals: in fact, the term “thrift” is insistently disseminated throughout the play and Shylock’s predicament in the plot seems particularly designed to stress the opposing economic ideologies. Bassanio, a profligate impoverished scholar, though already heavily indebted with his friend Antonio, does not hesitate to ask him three thousand ducats stylishly to court and try to marry the beautiful rich woman he is in love with, Portia. Antonio, in his turn, is ready to help his friend of whom he is all too fond. But in spite of his proud position as a “royal merchant” of Venice, whose “argosies” in The Crisis of the Aristocracy 1558-1641, Oxford University Press, Oxford, 1965, the merchants were long considered socially inferior to the landed gentry: land-owning was the prerequisite to sit in Parliament as a representative, or for an official post. It was only in 1906 that a man from the working class could join the government. (p.43) issn 2035-584x sail throughout the world, he appears unable to raise the necessary amount of cash, except by borrowing money from Shylock, while at the same time despising him for acting as a bank. Yet, far from trying to profit in the transaction, Shylock gives the money at no rate of interest, borrowing part of it himself from his Jewish friend Tubal: but on condition that he and Antonio underwrite a bond, the penalty of which, in case of default, would be a pound of Antonio’s flesh. No greed for money here pushes Shylock: he is in fact trying to force Antonio to admit that money and life are one, that his economic role as money lender is useful and not to be vilified and heavily scorned, as Antonio publicly used to do. Nor does it appear likely that a rich merchant like Antonio would not be able to pay back in three months’ time. When Antonio actually fails to do so, two unforeseeable events have happened that turn the “merry bond” into a dangerous revenge device: none of Antonio’s many ships has yet come back, all of them being apparently lost, and Shylock’s only daughter has eloped to marry Antonio’s friend Lorenzo, denying her father and faith, to become Christian like her husband. She has also taken with her the family jewels, including the marriage ring Shylock had given her dead mother, which he particularly cherished. To enforce the bond then becomes for him a tragic form of justice, which Tubal’s comments and Antonio’s scorn and cultural counter-positions push him to and resorting to common law makes legally possible27. Before the plot develops to Shylock’s prosecution of Antonio for the bond, the Jew’s ���������������������������������������������������������� Apart from prejudices voiced by others, the one passage in the play which might confer Shylock a murderous intent on first proposing the bond is Jessica’s words in III, 2 282-8 : “When I was with him I have heard him swear/ To Tubal and to Chus, his countrymen,/ That he would rather have Antonio’s flesh/ Than twenty times the value of the sum/ That he did owe him; and I know, my lord, / If law, authority, and power deny not,/ It will go hard with poor Antonio.” But Quiller-Couch and Dover Wilson (Cambridge edition 1953) and Halio after them (Oxford Edition 1993) observe that Jessica’s jarring words remain strangely unheeded, as if unrelated with the dialogue going on: which suggests interpolation, if so with obvious interpretative intentions. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 31 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) economic outlook is repeatedly explained. In his first appearance on stage Shylock imparts Antonio a lesson in economics which the latter does not understand. To justify his position as a money lender, Shylock evokes the Laban/ Jacob episode in the Bible (Gen.27), proposing Jacob’s ability in cunningly getting more sheep than expected from Laban as an example of effective enterprise. He insists on an idea of money as “breeding” or producing profit, against the traditional Christian viewpoint, which considered money as necessarily “sterile” or fruitless, according to the principle that “pecunia non parit pecuniam”, money does not beget money. But Antonio, though a merchant, sees Jacob’s success only as a case of inscrutable Divine Providence. In an aside, Shylock better explains his economic-ideological grudge against Antonio, who “rails” against “my wellwon thrift, which he calls interest” (I,3,47-48): the contraposition between “thrift” as a value and “interest” as despicable is central in the ideological debate of the play. References to the “thrift issue” are recurrent28: even Lancelot is by Shylock disparaged as “an unthrifty knave”, while in 2.5,36, Shylock is “by Jacob’s staff” proud of his “sober house”, as shortly later of his “thrifty mind”. Shylock’s economic criticism of Antonio as a “prodigal Christian” (2.5,15), “a bankrupt, a prodigal” (3.1,41-2), or “a fool that lent out money gratis” (3.3,2) and again “a bankrupt” in 4.1,121, appears even more pronounced than his grudge at Antonio’s social disavowal: this is indeed the very core of their opposition, which is not that of a miser to a “royal merchant”, but rather of a new economist to an aristocratically-minded or else a medieval merchant, who seems to ignore all banking problems and investment risks. Moreover, there are other traits in Shylock pointing to advanced socio-economic awareness. Shylock’s careful dealing with the salary problem, staged in his relationship with his servant Lancelot (still meaningfully uncertain between faithful feudal subjection ���������������������������������������������������������� For the terms “thrift, thrifty” of “unthrifty” the list includes 1.1,75; 1.3,47 and also 87 and 173; 2.5,1 and 54; 5.1,16. Moreover see the use of “sober” in 2.5,36; of “prodigal” in 2.5,15 and 3.1,42; and reference to money in 3.3,2 and 4.1,121. issn 2035-584x to a master and a work contract), suggests his economic awareness of the need for a labor market. Unsatisfied with Lancelot’s service, he dismisses him, but arranges for his passing to Bassanio’s service for a better salary he is not ready to grant, aware of a worker’s right to choose. But, at the same time, he tries to stimulate Lancelot to learn by comparing his own thrift with Bassanio’s profligacy29. Later Shylock denounces slavery as illicit. His concept of thrift, free labor market and everyman’s reason and capability of judgment will become the rule in the western world, as will the abolition of slavery: aware of a need for banking, risk evaluation and business fair play as for labor contracts, Shylock does not stand for old usury, neither does he impersonate the usurious miser deemed by Solanio, Salario and Salarino. Aptly named by a critic as the “three Sallies”30, these characters interchangeably represent the racist anti-Semitic opinion current at the time at popular level, but not a culturally dominant attitude in the higher and in the professional classes. While the Sallies’ scornful descriptions of Shylock after Jessica’s elopement interpret the miser’s frenzy of their imagination we do not see on stage, Shylock actually always appears on stage as dignified, a severe Puritanlike man of principles. He mirrors throughout a set of values which were often shared by the new Puritan culture, based, like Jewish culture, on the Old Testament rather than the Gospels and implying a connection, if not correspondence, between economic success and salvation, as later emphasized in Max Weber’s The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1905). At stake are, with the moral aspects of the economic rights and usage of money and estate, what are called in the play “life props”: the coincidence between money and life itself or actual flesh, as signified not only in the pound of flesh bond, but also in the slavery/property issue raised by Shylock during the trial, and again when �������������������������������������������������������� In 2.5,1-2 Shylock proudly addresses Lancelot: “Well, thou shalt see – thy eyes shall be thy judge – / The difference of old Shylock and Bassanio.” ������������������������������������������������� See Jay Halio’s Introduction to his edition of The Merchant of Venice, Oxford University Press, Oxford, 1994. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 32 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) in 4.1,370-3 he refuses to survive if deprived of all his means. This position Antonio himself is later forced to acknowledge: economic means and life are one and the same thing and life might well be taken away if the economic means for it are taken away (4.1,264-69). Through parallel experiences this awareness can be finally shared by both Antonio and Shylock, who had started out from opposite economic viewpoints. In fact Shylock’s economic issue was linked with Shakespeare’s own scarcely considered (usually ignored) personal background. As Kornstein rightly recalls – only in the general introduction to his volume, to justify Shakespeare’s experience with law, on which he builds his study, but strangely not later in his specific analysis of The Merchant of Venice, where it would have been directly relevant for interpretation – Shakespeare’s father had been tried at court twice in 1570 “for breaking the usury laws by lending money at 20% interest”31. This socially equated John Shakespeare with Jews, and in the play with Shylock. A similar practice would not be unknown at the time to Catholic recusants, as well as to other religious groups excluded, like Jews, from public office, and, therefore, inclined to cover the absence of, and socio-economic necessity for banking, by risking their money in lending it at higher rates than legally allowed. John Shakespeare was actually a Catholic recusant, as was at least one of William’s two daughters, while Shakespeare’s career made of him part of the rising gentry. Three social cultures seem in fact to interact in the play on the economic issue: the Christian shame connected with interest raising involves both lower and higher social strata, introduced as attached to both the Sallies’ popular contempt for Jews and the “noble”, “royal” Antonio, or to Bassanio, imitating an aristocrat economic model. But these two ‘money cultures’ cede to a third attitude, a middle class professional one, represented by Shylock. This is ironically hinted at by rich Portia’s lofty refusal to be paid as a lawyer and finally appropriated by Antonio himself, when on the verge of ruin he shares Shylock’s equation “money is life”, and when, like a skillful ������������������������ See Daniel Kornstein, Kill All the Lawyers? Shakespeare’s Legal Appeal, Princeton University Press, Princeton, 1994, p.16. issn 2035-584x equity lawyer, he provides with legal means for Jessica’s and Lorenzo’s economic future. Shylock, though, not only faces an ideological split on economics. He is also involved in a second and overlapping split, a complex legal one. This fully involved the described ambience of the inns and again makes awareness of specific aspects of the context necessary before re-investigating Andrewes’ analysis of the trial scene. In the 2004 reprint of Basil Brown’s 1921 Law Sports at Gray’s Inn (1594)32, Francis Bacon, then a law student at Gray’s Inn, appears to have organized the 1594 Law Sports at the inn, including the Gesta Grayorum, in which the speeches of six councilors were written by him. The performance was attended by the Queen herself and among the outstanding personalities present there were the Earl of Essex and the Earl of Southampton33, Shakespeare’s patrons. Shakespeare’s Comedy of Errors was also performed in the same year at Gray’s Inn, possibly as a portion of the Law Sports, and, in the same year, Shakespeare appears first attached to the Lord Chamberlain’s Players. From this concomitance and a number of other details, Basil Brown conjectures that it was Francis Bacon who introduced Shakespeare to London as he fled from Stratford: “without his shelter he would have been classed as a vagabond and a masterless man”34. At the time Bacon was relatively poor, out of the Queen’s favour, tormented by law suits for debts, particularly in 1597 and 1598, usually solved recurring to equity, as was the case with his dear brother Anthony Bacon, also a student at law. Secretary and close friend of Essex, Anthony Bacon survived Essex’ execution in 1603 by only three months, his attachment to Essex bringing to mind Antonio’s love for Bassanio, their names coinciding35. To disparage Francis with the Queen, in 1601 Coke insulted him in the Exchequer alluding to his early poverty and to a writ of capias utlegatum against him for debts36. Models for Shakespeare’s Bassanio or ��������������� Basil Brown, Law Sports at Gray’s Inn (1594), privately printed by the Author, New York 1921, re-print edition by The Lawbook Exchange, New Jersey, 2001. ��������������� Ibidem, p.IX. ������������ Ibidem, p. XXXIX. ������ ������������������������� Ibidem, p.LXI and p.67. �������������������������������������������������������� Ibidem, pp.34-35. This has been traced to a 1597 debt Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 33 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Antonio were not lacking at the inns: they were close to the author and in a sense ‘binding’. Inthesameyear1594inwhichBaconorganized the Law Sports at Gray’s Inn, Elizabeth appointed Edward Coke Attorney General in preference to Francis Bacon, whose fortune Essex was in vain trying to promote, which engendered long hostility between Coke and Bacon37, coinciding with an opposition between the common law, defended by Coke, and equity, fostered by Bacon and Egerton. For Coke, the Chancery could not act as a court of appeal annulling judgments. The problem was long standing. Since about 1330, when Edward III allowed his Chancellor to hear cases which the rigid judges of common law would not hear, two separate and different systems of jurisprudence existed in England. The common law courts acted in rem on the property of the litigants; the equity courts acted in personam on the person of the litigants. A conflict soon arose between these courts, and there followed a struggle, which lasted approximately three hundred years. The effect was that if a litigant, say Mr A, went into a court of common law and obtained a judgement against Mr B, then Mr B could go to the Court of Chancery and, if the Chancellor thought that the judgement against him was inequitable, he could obtain a decree in his favour. In such a case Mr A could not enforce the judgement in his favour, say on a bond, a debt or a covenant, without incurring the charge of contempt of court with regard to the Chancellor’s decree and being sent indefinitely to jail for it. The problem had been increasing all the time and “by the reign of Elizabeth (1558-1603) literally hundreds of cases were recorded with William Johnson of Gray’s Inn: “Bacon was outlawed after judgement and a capias utlegatum was delivered to the sheriff in court. And now Bacon brought error…quod contra legem.”(pp.44-5) and somehow escaped the danger. ������������������������������������������������������������ Edward Coke (1552-1634), was a lawyer’s son, had attended a chancery inn for a year, then Cambridge and Lincoln’s Inn. In 1606 James I made Coke chief justice of the Court of Common Pleas, and six years later chief justice of the King’s Bench. But in 1616 he allowed Bacon, allied with the Lord Chancellor Egerton, to win the legal battle in favor of “the precedency of the Chancery”. On Egerton’s death Bacon succeeded him. issn 2035-584x in which one litigant had a judgement in his favour and the other litigant had a decree in his favour, in the same controversy”38. By 1598, the date when The Merchant of Venice was entered in the Stationer’s Register, Edward Coke (future judge of the Court of Common Pleas), Lord Ellesmere (soon to become Lord Chancellor of the Court of Chancery) and Francis Bacon were all members of the inns of court. In that year the common law/equity contraposition “was referred to all the judges of England assembled in the Exchequer Chamber. Coke participated in the arguments, which went through all the grounds which were to be raised in 1616”39, when a settlement was reached. The moment had been building up and was tense. The social reference frame here described shows how Shylock’s trial dramatized legal problems which touched Shakespeare’s friends or patrons (Essex, Anthony and Francis Bacon), while working up to a peak in the history of the country and of the English legal system, which would later lead to the 1616 solution. Moreover, like the economic issue of the play, its legal split also touched Shakespeare personally and, once again, his own father. If John Shakespeare had found himself in Shylock’s economic predicament, he and his son had also found themselves in Antonio’s position as a debtor and as defendant in common law suits for debts. A lawsuit with Edmund Lambert, John’s brother-in-law, had started in 1580 and lasted twenty years. John had borrowed 40 pounds from Edmund Lambert, mortgaging 44 acres of land in Wilmcote, owned by John’s wife; but on the payment date Edmund had refused to accept the money unless John’s other debts to him were paid, and he claimed default. In 1588-90 John sued Lambert again to win back what would be William’s inheritance; then the parties apparently reached a settlement40. But in 1597 the John Shakespeare versus Edmund Lambert case was reopened: ����������������� M. A. Andrews, Law versus Equity, cit. p. XI. ��������������� J. H. Baker, The Legal Profession and the Common Law, cit. p.208. ���������������� D. Kornstein, Kill All the Lawyers?, cit. pp. 16-17. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 34 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) William sued Edmund’s son in the Court of Chancery, expecting better luck at equity. In 1599 the case was finally settled, but William never recovered the land lost by his father, as Kornstein notes in his Introduction41, yet forgets when discussing The Merchant, which was presumably written in 1597 and staged in 1598. Both the national conflict between common law and equity and Shakespeare’s own litigation were impending while the author was engaged in writing the play. Given this background, a degree of identification is likely to have involved Shylock, but, at the same time, the merchant of Venice himself, Antonio: John Shakespeare had experienced both roles, as money lender and as debtor. Shylock’s defense of the economic meaning and necessity of thrift or interest could well be a defense to redeem John’s ‘Jewish-like usury’, as many would have called it. This may well be relevant to the choice of an English name for Shylock, the more so as interest raising was indeed practiced by many Englishmen in London and these were not isolated private problems, but basic social ones, widely shared by what Lawrence Stone has called “the rising gentry”, staged in the play with a number of its different components. Before analyzing the confrontation between common law and equity in the trial scene, one last preliminary question is now left as to the way in which Shylock, thus charged with a double split, economic and legal, would be received as a Jew by the inns of court section of the audience. The alliance between common law, Puritanism and Hebraism, fostered by Coke or by his friends at Gray’s Inn, later attachable to the distinguished jurist and Hebraist John Selden (1584-1654), and then to Cromwell, was incipient. Selden considered equity “roguish”42. From 1571 to 1578 the reader of divinity at the Temple Church, common to the Inner and the Middle Temple, was a protestant Spanish Jew, Antonio de Corro, who had influential backers ��������������� Ibidem, p 17. 42 J. Selden, Table Talk (1927 ed.), p.43, in J. H. Baker, The Legal Profession and The Common Law, The Hambledon Press, London, 1986, p.228. issn 2035-584x like the earl of Leicester, “patron-in-chief of the Puritans”43. Jews would be later favored by Cromwell and practically readmitted to England after a banishment of centuries by the Puritan revolution44. An ideological line headed by Coke was developing, connecting common law, Puritans, Hebraism and Jews, while another ideological line seemed to connect equity and what Stone has termed as “Bacon’s skepticism”, but might equally well be called relativism (a concept insisted on in The Merchant of Venice in Act 5.1,89-108). Bacon was close to Essex and Southampton, Shakespeare’s patrons, who, as pointed out by Trevor-Roper, were a point of reference for the country gentry as opposed to the Court45. The trial in The Merchant does not therefore only dramatize the common law/equity or Coke/ Bacon opposition, envisaged by Andrewes, who rewrites the 397 lines of the scene in a closely parallel prose, imagining it as occurring in London as a double trial, first before Coke and then Egerton. It also stages a larger ideological split, in which common law and “puritanized Jews” or “judaizing Puritans”46, in a sense combined forms of ‘rigidity’, were allied against Baconian relativism and equity. The latter were two major values to Shakespeare, at the time addressing the Chancery in the hope of solving the major law suit in his experience of litigation. Shakespeare could only be aware that to the inns of court audience a Puritan-like Jew on the side of common law and thrift like Shylock would appear to stand for Coke and a respectable position. Now the first crucial question – did not Shakespeare realize the risks of an anti������������ W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), cit. p.190. ��������������������� James Shapiro, cit. �������������������� See Trevor-Roper, The Gentry 1540-1640, “The Economic History Review Supplements”, Cambridge University Press, London and New York, 1953, p.32. Though partly in contrast with Stone, Trevor-Roper, who calls Cromwell’s revolution “The Great Rebellion”, admits that “The difficulties of the excluded Elisabethan peers led to the brief inglorious rising of the Earl of Essex” and that “the gentry not only gave substance to that abortive rising: they continued far beyond it and led directly to the Great Rebellion”. �������������� J. Shapiro, Shakespeare and the Jews, Columbia University Press, New York, 1996, pp. 20-21. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 35 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Semitic interpretation obscuring the complex issues at stake in the play? – can find an answer: to an inns of court audience the text would be as stimulating as evident in its issues as would Shylock’s economy and the play’s siding with the rising gentry, or its meaningful insistence on thrift; while the Sallies or Gratiano (who is not casually described as not a proper gentleman) would be unappealing to such an audience. In their eyes, Shylock’s competence in common law as in economy recommended him, while his English name could well imply that the Jew was in fact ‘one of them’. 4. The Trial Scene: Shylock and Equity Described in its technical aspects by Andrewes, the trial scene in The Merchant of Venice was meant to show the full workings of equity devices, compared to the technical insufficiency of “remedies” at common law. Common law judges had recurrently to admit that there were cases for which there was “no remedy at common law”, or, as the phrase went in legal French, “il ne poit avoir remedy per nostre ley”. The setting of the trial is carefully contrived to be highly impressive, even sensational, better to attract attention to its central issue. A major contemporary legal problem is brought to bear on a double love plot, in which a psychic test story (staged in the fabulous terms of a choice among three caskets imposed on Portia’s suitors) is interlaced with an intense attachment between two men, Antonio and Bassanio, verging on a love and death outcome (possibly evoking Antonio Bacon’s attachment to the earl of Essex). With Antonio’s default to pay his debt on time, the comedy turns into a potential tragedy, as Shylock is driven to use his pound of flesh bond to revenge his long ill-treatment by Antonio, and Jessica’s sudden elopement with Antonio’s friend Lorenzo, organized, Shylock thinks, with Antonio’s help. Bassanio is then torn between his love story with Portia and his tie with Antonio, who is ready to die to prove the strength of his love, emphasizing the latent opposition between the heterosexual and the homosexual couple. Portia understands that Antonio’s issn 2035-584x death would spoil her marriage to Bassanio, and decides to prevent it, disguised as a (male) lawyer at Antonio’s trial. Emotions run high for the two competing couples and Portia’s skillful elusion of the social gender division (which allowed no female lawyers): the legal problem thus appears staged in a context both extreme and socially outstanding. It involves Antonio’s possible dramatic death at law under Shylock’s vengeful knife, not for lapsing into an intentional crime, but for Bassanio’s sake, combined with an unbelievable bad luck with his ships abroad. At the same time Antonio is an outstanding merchant of Venice, the Venetian Duke himself deeply grieving for him, but impotent to prevent the application of the law on which the state of Venice depends. The legal stalemate, thus powerfully worked up, is then suddenly and surprisingly overcome by having the common law procedure give in to a chancery procedure and its elaborate issues. These finally involve not only the two litigants, but the future of two of the three couples forming in the play. In the scene, Andrewes distinguishes four phases belonging to two subsequent trials and procedures. The first phase of the common law trial (4.1, 1-118) sees the Duke probe Shylock’s intentions. On his refusal to relinquish the pound of flesh penalty, even when offered twice the money borrowed by Antonio, the Duke appears ready to dismiss the court adjourning it to wait for Balthasar, the “learned doctor” from Padua he expects assistance from. Emphasis is placed by Shylock on a limitless right of property, even though arisen to either irrational or ethical extremes. He points out that, if it pleased him, or “his humour”, he could well spend ten thousand ducats to have his house freed of a rat, just as he chooses to refuse any amount of money – even six thousand times the money due to him (4.1,84) – rather than give up Antonio’s pound of flesh, which he has sworn to have in the synagogue, “by our holy Sabbath”. He is by common law – indeed a property law – entitled to his pound of flesh, just as, he points out, Christians think they are entitled to the slaves they have bought, using human bodies “like your asses and your dogs Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 36 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) and mules”, “in abject and in slavish parts” (4.1,90-1). Here, while indignantly denouncing slavery, Shylock confirms that the common law extended to the human body and allowed no breach in application: “If you deny me, fie upon your law! There is no force in the decrees of Venice” (4.1,100-1), which position is shared by the Venice Duke himself. Thus in fact, for revenge’s sake, Shylock is ready to use the very logic of slavery he has descried, while turning Christian ‘logic’ against the Christians themselves. At the same time common law allows scope for such a use. The revenge issue is an important one, but in the circumstances given it is not obviously humiliating for Shylock. It confers on him a dignified sense of honour, reversing the current image of the Jewish miser: Shylock is, for moral reasons, ready to relinquish the money due to him, which casts off from him the expected image of covetousness. He prefers to pursue fruitless redress for offences not enforceable at law (Antonio’s long-standing scorn and Jessica’s recent elopement), resorting to the enforcement of a common law procedure over a money issue, thus exposing its weak and dangerous aspects. But this is done highlighting two important implications. The first is that Shakespeare is careful to define the revenge overtones as not Jewish, not deriving from the Hebrew tradition of Old Testament (as he might have done, and as for instance Melville did for Ahab’s thirst for revenge in Moby Dick): it is rather, ironically, an imitation of Christian values47. The second is that revenge, as connected with honor and prestige, was indeed well attached to Venice: its famous admiral and Duke Sebastiano Venier, admired in England and throughout Europe for his success against the Turks in the naval battle of Lepanto (1571), was also famous for his avenging of Venetian honor, as he had unhesitatingly hanged Spanish officers who had belittled it on his ship48. ����������������������������������������������������������� In 3.1,55-69, Shylock vindicates his human rights in the famous passage “Hath not a Jew eyes?” (a “declaration of man’s rights” ante litteram) and comments “If a Jew wrong a Christian, what is his humility? Revenge. If a Christian wrong a Jew, what should his sufferance be by Christian example? Why, revenge. The villainy you teach me I will execute, and it shall go hard but I will better the instruction.” �������������������� See J.J. Norwich, A History of Venice, Random House, issn 2035-584x At the same time, Shylock’s attack on slavery is meant to confer on him ethical status and win consent in some social areas, confirming Puritan qualms on the subject, though common law was to exclude slavery only at the beginning of the 18th century. Shylock’s qualities, both moral and economic, would thus appeal to a large part of the inns of court audience, the more so as Shakespeare avoids all absurd pretences of physical difference or allusions to legendary Jewish crimes against Christians and emphasizes that Shylock’s difference from a Christian is confined to his diet and prayers. In fact, the play sees Shylock repeatedly compared with Christians to his advantage, as when he alludes not only to slavery in Christian society, but to the Jewish concept of marriage contracts (soon to be studied by Selden), or disparagingly comments on Christians’ matrimonial lassitude. If, as a Jew with his profile and an English name, Shylock would not fare badly with at least a section of the inns of court audience, his competence and confidence in common law, inducing him to take no counsel in the trial, would recommend him to all inns of court students or professionals, whose attention would be raised by a painstaking use of procedural details. When Portia arrives disguised as young lawyer Balthasar, accompanied by Nerissa, disguised as his clerk, she bears the letter of the famous lawyer Bellario, which the Duke reads. Its contents are specific: Bellario states he has studied the “cause in controversy” together with Balthasar, turned many books (the common law records) to provide his “opinion”, a technical term meaning the outcome of his study, and recommends to have Balthasar admitted at the bar. Here he acts as the bencher of an inn of court, who was entitled to choose who could discuss a case. Portia is then admitted by the Duke as Amicus Curiae and counsel for the plaintiff Shylock, and proceeds to identify the parties (emphasizing that there is no physical difference between the Jew and the Venetian). Then the second phase of the trial starts. Stressing both the “strange nature” of the suit and the importance of “rule by law”, that New York, 1989, p.483. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 37 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) is of a “strictum jus” logic (4.1,174-5), Portia tries, as appropriate in the case, to convince Shylock to be “merciful”: which does not mean that Shylock should bow to a superior sense of mercy in Christian terms, as often intended by uninformed criticism, but rather that he could accept to solve such a “strange” and extreme case without impairing the rule of law, a technical solution called the “equity of redemption”. If a debtor’s failure was due to an unforeseeable cause, independently of his will or control (for instance he had been robbed of his money while on his way to bring it punctually), the plaintiff could allow him the “equity of redemption”: a solution well applicable to Antonio’s unbelievable simultaneous loss of all his ships. The “equity of redemption” was often used, as Portia hints, “to mitigate the justice of the plea”, and often accepted as profitable for the plaintiff, who was entitled to thrice the money due to him to compensate for the delay. But this equity device could not be enforced by the judge in trials at common law: it was based on the plaintiff’s acceptance to destroy the expired bond (in one of three alternative ways: by cancelling, tearing or burning it) and accept the money in court, or at a new established date. This solution indeed usually solved a good number of debtors’ cases. When Portia suggests such a solution (“take thrice thy money. Bid me tear the bond”: 4.1,231), Shylock’s answer, though, appears inflexible, as he has taken an oath to stick to the law: “I crave the law” (4.1,203); “Proceed to judgement. By my soul I swear/ There is no power in the tongue of man/ To alter me. I stay here on my bond” (4.1,237-9). As already pointed out, Shylock is using the “rule by law”, or strictum jus at common law, as a means of revenge, with an evident “strange” unbalance between Antonio’s default and the insistence upon his death, for which indeed “there was no remedy at common law”. The bond, clearly stated and signed by Antonio before a notary, could only be considered valid. From Portia acting as Balthasar, Shylock therefore at first sees his right to a pound of Antonio’s flesh recognized, as he has not received back in time the 3000 ducats Antonio had borrowed from him: “the law allows it”, “the law doth give it”, issn 2035-584x “the court awards it” are the correct formulae used for judgment by strictum jus and in rem. When Portia, though, suggests that Shylock provide a surgeon to assist Antonio, “lest he do bleed to death” (4.1,255), Shylock again sticks to the bond, mentioning no such obligation: but by so doing he proves he is ready to kill Antonio. He thus provides the evidence necessary to produce a “writ of error”, with which to start an equity procedure to contrast the common law course. Here the second phase of the trial ends and with it the common law procedure as such: when Portia starts with her “Tarry a little”, she actually turns into a chancery lawyer, for Antonio as plaintiff, versus Shylock as defendant. Technically she proceeds with a “temporary injunction”, halting the common law procedure “for impending injury irreparable” (Antonio’s possible death), connected to a breach of the “doctrine of waste”: the bond mentions no blood, which is therefore not due, but the ‘waste of blood’ would be likely to kill Antonio49. When Portia/Balthasar warns Shylock he must not shed a drop of Antonio’s blood, which is not included in the bond, she is not producing a “quibble”, as many critics have deemed: she rather starts a second trial in Chancery, for the “cause in controversy” resorting to the equitable device of the “doctrine of waste”. Then Shylock cannot enforce the previous judgement in his favour, as he becomes liable to “contempt of court”, which would mean spending the rest of his life in jail or worse. The “impending injury irreparable” was a formula meant to protect property rights from the exercise of opposing property rights, if these were likely to encroach upon or damage the property of others. Thus Shylock is informed he may neither shed blood nor cut more or less flesh than one pound. When he backs away, ready to give up the pound of flesh and take his principal, Portia denies him this right, resorting to an “estoppel”, as ��������������������������������������������������� Andrewes illustrates the case quoting an example of injunction granted by the court of equity to stay irreparable injury regarding the Bush vs Field case. Plaintiff Bush asked to stay Field, entitled at common law to restructure his rooms, from pulling down a wall joining his own house, which might impair his own property (Andrewes 64). Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 38 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) he had already relinquished the money in the open court, and proceeds to inform him he now stands under a new charge. As the equity court (unlike the common law judge) could deal with a cross action, reference is also made to an existing Alien’s Statute. While at common law the judge could consider one issue at a time, which could mean a series of trials, at chancery the judge proceeded “for all issues”, the aim being to exhaust all possible legal proceedings at the same time. According to the Alien’s Statute an alien seeking a Venetian’s life was liable to lose all his estate, a half of which would go to the party imperiled, and the other half to the state, while the offender’s life would lie at the Duke’s mercy. The Duke grants Shylock’s life and appears ready to take only a fine, rather than appropriate half of Shylock’s goods. When Portia then asks Antonio “What mercy can you render him?” she does not again mean Christian mercy, but rather the so-called “balancing of equities”, inviting him to follow the Duke’s example. Then Antonio proposes a further double or “balanced” reduction of Shylock’s punishment: he invites the Duke to relinquish even the mentioned fine, while he himself relinquishes the ownership of his half of Shylock’s estate, turning it into a temporary possession, that is into a kind of trust, or more properly into a “use after use”50. Which means that, in spite of his own desperate need for money after his apparent loss of all his wealth, Antonio refuses to appropriate the part of Shylock’s riches he would be entitled to. He will just keep it for Jessica and Lorenzo, as for their future children to inherit it at Shylock’s death (not at his own), on two conditions: that Shylock sign a gift to his daughter of all he will die possessed of, recognizing her right to choose her own husband, and that he become a Christian, a point which will be discussed later. As the typical equity instrument of the trust is here used, it should be recalled ���������������������������������������������������� See Andrewes p.74. With the creation of this “use after use” Antonio obtains first use of half of Shylock’s estate during Shylock’s life: he is entitled to all of the income, but not the principal, which he manages but cannot dissipate and is accountable for, while on Shylock’s death the use after the first use passes to Lorenzo, Jessica and then their first child. issn 2035-584x that it was meant flexibly to distribute the benefits deriving from property between the parties, while the common law could rigidly assign property to one party only. In fact two trusts are used in this second chancery trial: Antonio’s use after use and a trust for what remains in Shylock’s possession, guaranteed by the Duke, who accepts this solution and finally pronounces a decree in personam for Shylock: “Get thee gone, but do it”. By juxtaposing the two legal proceedings in one scene Shakespeare can effectively show the informed part of his audience the difference between ‘a strict court’ and justice by equity. As Andrewes pointed out, if the story had ended after the first suit, Shylock: “1.would have cut the pound of flesh off Antonio’s breast, which the law allowed (“It was axiomatic, at common law, that, where one held a legal right, he had all the remedies necessary to a full enjoyment of that right, for, otherwise, the right itself would be without avail; a bond under seal could not be impugned for fraud or violence); 2. would not have been informed of any other hold which the law had upon him [...], for this would have raised more than one issue in a suit at common law; 3. would then have been tried in a criminal proceeding for his attempt against the life of a citizen and, upon conviction, his life and half his property would have been forfeit to the state51.” Thus Antonio would have first lost his life and Shylock later both his life and property. By proceeding with equitable devices, Shakespeare instead: 1. spared the lives of both the litigants; 2. provided for each of them and for Shylock’s heirs the means or estate necessary for their social survival; 3. created a case for public debate, while solving all the striking problems raised in the plot. Some have objected indeed to the very mention here of the Alien’s Statute. Apart from the possible importance of such a Statute in Elizabethan England, open to Spanish and Catholic dangers at a time of religion wars (suffice it to consider what was happening in the France of Henry IV), the Alien’s Statute fully proves the potentialities and advantages of the equity procedures. Only these allowed the simultaneous treatment of all issues connected to a case and consented the so��������������� E. J. White, Commentaries on the Law in Shakespeare, p.141, in M. E. Andrews, cit., p.77. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 39 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) called “balancing of the equities”. Besides, Antonio is offered the chance to “accept Shylock” (countering Gratiano), and become, against his long prejudices, an agent of the Jew’s social integration, and of Jessica’s rights and ‘elective couple’ choice, confirming the ‘un-racist’ acceptance of integration which Lancelot had laughed at answering Jessica’s anxiety over the matter52. Yet one major point is still left unconsidered: Shylock’s forced conversion. First it must be noticed that Shakespeare imposes it through Antonio, all of a sudden, ex abrupto at the last moment and with no comment, obviously obeying Elizabeth’s Uniformity Act: belonging to a Catholic recusant family (as already suggested, Shakespeare’s father and one of his two daughters were Catholic recusants), the playwright would have probably willingly avoided doing so. We also know that the inns of court accepted covert Catholics53 as well as Puritans. But religious peace was only possible at the time by ensuring at least outward public observance of the Uniformity Act. With dignified self-control, though he feels ill, English-named Shylock avoids all protest, as if sharing his author’s prudence and awareness. As for the remaining question, the first we posed, “why place Shylock the Jew on the losing legal side?” we can now return to it from a new point of view. From what I have argued, it can now appear that for Shakespeare Shylock must lose the legal issue not only to favor equity, as two more reasons are to be added. One entails the revenge issue. Perceivable by an inns of courts audience as akin to a respectable ‘Puritan’ common lawyer, with moral superiority as to the slavery issue and domestic ethics, Shylock is though at the same time exposed (as Puritans were) to the temptation of revenge. The problem of revenge is indeed a recurrent theme in Shakespeare’s canon, starting from Henry VI, where aristocrat revenge causes unending wars and civil strife, up to Shakespeare’s last ������������������� See III, 5, 1-32. ������������������������������� See Geoffrey de C. Parmiter, Elizabethan Popish Recusancy in the Inns of Court, University of London Institute of Historical Research, London, 1976. issn 2035-584x play The Tempest, where revenge is dismissed not without a reference to Montaigne’s Essays, translated into English by John Florio. Between these two limits, the beginning and end of his dramatic career, Shakespeare polemically went back to the problem various times, in As You Like It54, most notably in Hamlet, where it is notoriously central, and again in Julius Caesar and Coriolanus, in different typologies, its ideologies invariably rejected. But there was one more important reason to drive Shakespeare in Shylock’s case: the dangers the author dreaded in the forthcoming historical alliance and corresponding cultural ‘conflation’, of strict common law, strict Puritanism and Hebraism55. Though philo-Semitic from the economic and human point of view, implicitly revenging his own father’s “Jewish” choices, at the same time Shakespeare was taking sides with Bacon, equity, relativism, and must have been worried about Puritan rigidity. The Puritans would not only readmit Jews, they would also close down theatres. Shakespeare’s next “legal play” will be Measure for Measure, meant to promote tolerance and correct Angelo’s Puritan, strict enforcement of the law, partly foreshadowed in the ‘judaizing’ barrister Shylock evokes. As in contemporary culture, one of the richest periods in western history, so in Shakespeare’s carefully constructed plays many implications and motivations were interlaced. 5. Structural Equity Throughout the plot of The Merchant Antonio and Shylock appear, if well compared, to share parallel destinies, being both half ����� In As You Like It Orlando rejects his chance to take revenge on his brother Oliver (who had tried to kill him and forced him into utter indigence) and saves his life against a lioness: in IV, 3, 128 comment on this choice defines it “kindness nobler ever than revenge”. ��������������������������������������������������������� James Shapiro (cit.) repeatedly stresses associations, current at the time, of radical English Puritans and Jews: see the chapter “False Jews and Counterfeit Christians”. English Protestant sects emulated Jewish Sabbath observance and dietary laws (p.14), and during Cromwell’s revolution some royalists even began to call their Puritan opponents Jews (22). Fostering of Jews’ conversion to Christianity and to Christian Protestantism is also discussed by Shapiro (see p.146 and on). Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 40 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) winners and half losers: a strikingly revealing symmetry seems to tie them, mirroring the double title of the play, as well as John Shakespeare’s double legal experience as both usurer and debtor. This balancing of Shylock’s and Antonio’s destinies is achieved with a carefully dosed textual development, which can be neither casual nor meaningless. In the opening scene, Antonio’s sadness reflects the sudden deprivation of his beloved friend Bassanio, who is seeking marriage. He feels depressed and implicitly bereft, just as Shylock is later suddenly abandoned by his only daughter and remaining close relative Jessica, who also leaves him in order to marry, precipitating him into an anguished state of mind. Then Antonio is surprisingly faced with utter ruin, after the apparent loss of all his ships at sea, just as, during the trial, Shylock is menaced, under the unforeseen Alien’s Act, with a similar utter economic ruin. They both find their lives in danger for legal reasons: in this sense the Alien’s Statute balances Shylock’s danger with Antonio’s pound of flesh bond. Then both Antonio and Shylock recover a good part of their property: three of Antonio’s argosies come back and Shylock is granted back half of his riches by the Duke, while the other half of his goods and his line of inheritance will be safeguarded by Antonio. In the end Antonio and Shylock are both left alone, economically linked to each other, in a sense turned from enemies into allies, bound to recognize each other. But there are also subtler symmetries. As three couples are happily married by the end of the play, Antonio is recognized by Portia not only as Bassanio’s best friend, but also his ‘double’: yet he can advance no claim on him and is forced to acknowledge Bassanio’s love for his wife, and even guarantee for it through the rings episode. Shylock is, in his turn, both forced to accept his daughter’s marriage and his son-in-law Lorenzo, while he is also recognized by Antonio, who had previously denied his human dignity, and must undersign a trust to guarantee his daughter’s future. He is finally integrated into Venetian society, but at the cost of being forced to become Christian, at least formally. Are then Antonio and Shylock, one could ask, both left to a degree issn 2035-584x frustrated for parallel social reasons, though both have managed to avoid the worst? Antonio is indeed, as the language of the play insinuates, a “maid not vendible” (I,1,112: society would not allow him to marry Bassanio), while Shylock is equally unable to retain his religion, which was “not vendible” under Queen Elizabeth’s Uniformity Act. Is then the play equally condescending and persecutory, or “balancing the equities”, with the Jew and with the Venetian (or English) “royal merchant”? Does this symmetry reveal a double ‘soft denunciation’ Shakespeare could not shout aloud, but could hint at to a social section of his audience and put off till a better future? Like the economic and the legal issues involving both Shylock and Antonio, so also the sexual and religious ones again touched Shakespeare or his family closely. Besides the balancing of Antonio’s and Shylock’s destinies, the complexity of the aspects blending in the plot may seem to correspond to an equitable evaluation of more issues at a time. While Shylock’s loss of the 3000 ducats, which are not given back to him, seems to punish his craving for Antonio’s life and close the ‘debt plot’, Antonio’s final recourse to a “use after use” and a trust confers upon him Shylock’s place as a father financially providing for Jessica’s marriage, which ends the elopement plot. Of course, the objection could be raised that Antonio gains possession of half of Shylock’s estate, as if the play compensated him for the loss of his ships, while only Shylock in the end loses. Is then Shylock discriminated against, and Antonio unjustly privileged? In fact Antonio always appears ready to give: he has given Bassanio even too much and gives back to Jessica and Lorenzo what might have been his own at a moment of need, while Shylock does not show towards Jessica the same generosity Antonio has for Bassanio. If Antonio, like Bassanio in the casket scene, is ready to “give and hazard all he hath” for love’s sake, Shylock is certainly not ready to do the same with Jessica: he does not love her enough to accept her choice, but rather behaves like Hawthorne’s Puritan Chillingworth with Hester Prynne in The Scarlet Letter: he cannot Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 41 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) forgive her. The outcome of the play seems to remunerate this difference. If Shylock and Antonio are compared for their demands on Jessica and Bassanio, which equally endanger their lives, an unbalance appears and seems to call for different outcomes. But the two corresponding ‘love plots’, in a sense, suggest two further issues, the rights of which could not be socially and legally formulated, as both were unacknowledged at the time: homosexual love and a daughter’s personal rights as opposed to patriarchal powers. Of course, as the play is ‘equitably complex’, so must interpretation also be. We have to refer to the socio-historical background of Shakespeare’s audience to better grasp the play’s intricacies or symmetries: only by combining all aspects does the play appear ultimately consistent as not antiSemitic, but quite the reverse. Shylock stands for the Puritan-like common lawyer – a respected figure in the inns of court – as for Shakespeare’s own economy. At the same time Portia and finally Antonio stand for equity, a position Shakespeare wants to recommend, while he is worried about Puritan rigidity. As English as his name, Shylock seems to become a Jew because of the usury polemics and the economic issue at stake, so important in Shakespeare’s own life. No exception in Shakespeare’s logic of tolerance and inclusiveness, he points out, in the eyes of the bestknowing among the audience, the distance to be taken from the three Sallies. Shylock is not ‘the Jew’ and a ‘villain’ to be chastised by the Christians, but rather an ‘acceptable Jew’, receivable and finally received in the general community. Indeed Shakespeare’s use of equity in the play appears surprisingly to foreshadow future developments: it did suggest to James I and FrancisBacon,thenAttorneyGeneral,thejudicial reform conferring precedence upon equity in 1616, putting an end to the long controversy between Coke on the one hand and Ellesmere and Bacon on the other56. But by merging ����������������������������������������� Andrewes finds echoes of passages from The Merchant in Bacon’s formulation of the 1616 resolution establishing the precedence of equity, and Kornstein owns that this play, “a legal parable” which influenced contemporary judges, “may have changed the course of English legal history” (cit. p.88), also considering that King James I unusually asked to see two performances of the play on two consecutive days. This happened on February 10th and issn 2035-584x common law and equity procedures, it more surprisingly anticipated the 1873-75 Judicature Acts solution in force today. At the same time Shakespeare was offering a vast vivid fresco of his society, honoring his later definition of the players in Hamlet as “the abstracts and brief chronicles of the time” (2.2,515). Giuseppina Restivo è docente di Letteratura Inglese presso l’Università di Trieste (SSLMIT e Facoltà di Lettere e Filosofia). Principali aree di ricerca: teatro contemporaneo inglese, teatro di Shakespeare, Shakespeare e la legge. Ha pubblicato circa 90 saggi in volumi e riviste, le monografie La nuova scena inglese:Edward Bond, Einaudi, Torino, 1977 e Le soglie del postmoderno: Finale di partita di S. Beckett, il Mulino, Bologna, 1992; ha curato tre volumi della collana Teatro/Università (Clueb, Bologna) su Amleto, su Otello e su Strehler e oltre: il Galileo di Brecht e La tempesta di Shakespeare. Giuseppina Restivo teaches English Literature at the University of Trieste (SSLMIT e Facoltà di Lettere e Filosofia). Main research areas: contemporary English Theatre, Shakespeare’s theatre, Shakespeare and the law. She has published about 90 essays in volumes and journals, volumes on contemporary playwrights (La nuova scena inglese:Edward Bond, Einaudi, Torino, 1977 and Le soglie del postmoderno: Finale di partita di S. Beckett, il Mulino, Bologna, 1992) and has edited three volumes in the series Teatro/ Università (Clueb publisher, Bologna) on Hamlet, on Othello and on Strehler e oltre: il Galileo di Brecht e La tempesta di Shakespeare. February 12th 1605. At such a date, seven years after The Merchant was recorded in the Stationer’s Register and five years after the 1600 publication of its first quarto edition (from which most of our modern editions are derived), the king’s choice to meditate on the by then well-known play may only mean that it had been highly influential on public opinion. Circulating in print for five years, it had probably long been a source of legal debate, deserving the king’s particular attention, although a final decision on equity would have to wait eleven more years. Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice 42 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Meticcio Aldo Raul Becce Abstract Parole chiave Lo scritto prende spunto dalla esperienza biografica dell’autore per descrivere l’attraversamento psicologico, culturale e linguistico dell’immigrante. Riflette sulle conseguenze della perdita della lingua materna (intesa come dialetto famigliare) e l’impatto con il linguaggio della terra di accoglienza. Infine, considera la scuola come spazio interculturale decisivo nel processo migratorio. Immigrante; Lingua; Cultura; Parole; Cocoliche; Adozione; Scuola; Programma; Identità; Malati di mente. C particolare di ogni famiglia è un dialetto dentro al dialetto, dove insistono certe parole, si ripetono racconti e si nascondono segreti. Lasciare la propria terra è lasciare la madre, la Pachamama, la Madre Terra come dicono gli indios quechuas. Lasciare il paese, per me, che l’ho fatto per mia volontà, vuole dire finire una storia d’amore, la sofferta storia d’amore con il mio paese. Lasciare è come scegliere di morire per la propria cultura, per il quotidiano della propria cultura, sparire dalla telenovella in cui abbiamo avuto un ruolo da protagonisti. L’anno prima di andarmene quando avevo già preso la decisione della partenza guardavo ogni cosa ed ero distante, ero già un fantasma. Gli amici mi guardavano come quello che “se ne sarebbe andato” ed il nostro rapporto era profondamente cambiato. Abbiamo venduto la casa e con la casa la maggioranza degli oggetti. Abbiamo messo prezzo a ogni cosa. Giorno dopo giorno un pellegrinaggio di oggetti svuotavano pareti e angoli. Potevo portarmi via dall’Argentina 150 kg. degli oggetti che mi avevano accompagnato. E’ interessante ed istruttivo chiedersi ogni tanto ’è un romanzo dello scrittore argentino Julio Cortazar che si chiama “Rayuela1” che parla dell’ immigrazione. Il romanzo è diviso in due parti: “dalla parte di là”, “dalla parte di qua”. Dal punto di vista della immigrazione noi ci troviamo “dalla parte di qua”. Tutti i discorsi si producono da questa parte, “la parte di qua”. Per questo voglio parlarvi invece collocandomi nella parte di là, quella parte che un immigrante abbandona. Prendo me come esempio perché sono l’uomo che ho più vicino, come diceva lo scrittore Miguel de Unamuno. Ho lasciato il mio paese per mia volontà insieme a mia moglie e a mia figlia. Dire “lasciare il paese” è dire “lasciare la lingua materna” e questo allontanamento allude a una specie di svezzamento culturale. Lasciare il paese vuol dire vivere senza la lingua materna che avvolge nella propria cultura. A sua volta la lingua materna è costituita da tante lingue, dialetti privati, lingue quotidiane che parla ogni singola madre e che ci hanno iscritto nel mondo. La lingua materna Straniero qui, come in ogni parte. Fernando Pessoa 1 J. Cortazar, Rayuela, Ed. Sudamericana, Buenos Aires, 1965 Meticcio 43 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) quali 150 Kg di oggetti si scelgono di salvare. Si scopre che le cose importanti sono poche, e le superflue tante. Noi abbiamo scelto di salvare i libri, alcune fotografie, la tartaruga di terra Manuelita e le pentole dalla cucina. Lasciavo lingua, casa, famigliari, amici, professione e tante altre cose, e mi svuotavo. Così, sentivo dentro di me un’assenza, un vuoto che vivevo come una perdita, un buco enorme, un cratere, un abisso che avevo perfino paura di guardare. Dicevo: “la malinconia è un lusso che gli immigranti non possono permettersi” Perché? Perché gli immigranti non hanno niente, appartengono ad una categoria generica - gli stranieri – e in quanto tali devono lavorare per guadagnarsi un posto nell’altro che li accoglie, devono entrare nel nuovo paese, farsi un posto, occupare uno spazio simbolico. 1. Io sono più intelligente nella mia lingua Mi mancava la lingua italiana, avevo imparato in Argentina l’italiano con un corso in cassette della “Linguaphone” dove il personaggio era un ingegnere milanese spossato, con due figli, che passavano la settimana bianca a Cortina e discutevano con un pescivendolo nel mercato del pesce a Venezia. Appena arrivato mi sono appellato all’ingegnere ma non riusciva ad aiutarmi perché non capivo niente. E’ vero che le sue preoccupazioni erano diverse dalle mie: io avevo imparato da lui come prenotare un albergo a Cortina, ma più che un albergo mi serviva un lavoro. Una prima immagine della nuova cultura mi è rimasta impressa: notavo che la gente andava più veloce di me. Era come essere capitato dentro un film di Chaplin: mangiavano più veloce di me, bevevano il caffè più veloce di me, parlavano più veloce di me. Stavo immigrando in una cultura che aveva ingranato già da tempo la quinta marcia mentre io arrivavo a mala pena alla terza. La mancanza della lingua crea una grande difficoltà negli esseri parlanti quali siamo, provoca una specie di regressione ad un’epoca dell’infanzia nella quale non si hanno le parole per dire quello che succede nel mondo e nel corpo. Meticcio issn 2035-584x Mia moglie che aveva cominciato a lavorare come volontaria nel Centro di Salute Mentale, un giorno tentava di spiegare con grande difficoltà ad altri operatori quello che le era successo con un malato di mente. Di fronte alla perplessità degli interlocutori che stavano capendo meno della metà di quello che lei diceva, lei disse: “Io sono più intelligente nella mia lingua”. Tutti gli stranieri sono più intelligenti nella propria lingua. 2.Anzi Essere immersi, in un costante rapporto con un’altra lingua vuole dire accendere ogni mattina il traduttore. Il mio traduttore ha un rapporto di enorme simpatia con alcune parole e di antipatia con altre. Il mio traduttore è ancora innamorato della parola italiana“anzi” la cui traduzione in spagnolo “al contrario” oppure “màs bien” non rende, perché sono espressioni troppo accademiche mentre “anzi” è cosi semplice ed elegante che quando ho imparato ad usarla, la applicavo a qualsiasi cosa, la aggiungevo dappertutto come il prezzemolo. Utilizzare l’espressione “anzi” ha significato per me compiere un salto di qualità nel mio essermi istallato nella lingua italiana, raggiungere una specie di traguardo che mi ha permesso di articolare pensieri più complessi, paradossali. Mi ha permesso di avventurarmi nei “quartieri dei ricchi del linguaggio”. Ricordiamo che all’ingresso della cultura di accoglienza, uno si muove con passo incerto, cammina da un verbo ad un sostantivo come chi attraversa un fiume pericoloso, con la paura di cadere. Evitavo ed evito ancora di usare certe parole, il traduttore è un censore. Ad esempio evito la parola “scoraggiare” per la pericolosa vicinanza alla sorella “scoreggiare”. Così, anche se scoraggiare sarebbe proprio la parola giusta all’interno di un discorso da me intrapreso, comunque preferirei non azzardarmi e fare piuttosto un elegante aggiramento dell’ostacolo, parlando di “fare mancare il coraggio”. 44 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Invece di gran lunga preferisco “te quiero” a “ti voglio bene”. Quel doppio impatto del “Te” con il “Quie” colpisce due volte, chiama energicamente all’altro, te quiero suona dentro come un tamburo. Tutti i messaggi del cuore rivolti ai miei amici (anche italiani) li scrivo nella mia lingua. 3.Non sapevo cosa fosse il Ferragosto Potete credere che parole come De Andrè, Foiba, Carosello, Ferragosto per me erano totalmente indifferenti? Non potevo associare De Andrè a un amore, le Foibe a un fatto storico, il Carosello alla mia infanzia, il Ferragosto all’estate. Dice lo scrittore Milan Kundera che per il nativo, nella sua propria lingua, tra una parola e l’altra scorre un fiume semantico che a noi, stranieri, manca. Da qui si spiega la faccia da “ebete”, di noi, stranieri, che trovandoci fuori discorso (come i matti) provano la sensazione di rincorrere il discorso per capirne il senso: “si parla di me? Cosa si sta dicendo? Devo rispondere?”. Mentre cresce il rapporto con la nuova lingua, si problematizza il rapporto con la propria lingua. Quando mi manca quella musica, leggo Jorge L. Borges, Alejandra Pizarnick, Miguel Hernandez. Ma la mia lingua comincia a diventare meticcia. Meticcio come ibrido, come prodotto non più puro. La mia lingua adesso, la mia lingua quando torno a casa e parlo con mia moglie e mia figlia è uno spagnolo impuro, contaminato da “anzi”, “testa”, “ricatto” ecc... Una coppia di miei pazienti ha adottato un bambino rumeno, e si son portati dalla Romania non solo cassette e libri, ma anche e soprattutto parole, che entrano nel discorso familiare, nel dialetto familiare, in modo che si parla, come diciamo noi, in “cocoliche”. 4.Cocoliche Il cocoliche è una modalità linguistica nata alla fine del ‘800 in Argentina. Gli immigrati italiani arrivati in massa, per comunicare con i locali produssero una varietà mista di spagnolo insieme a diversi parole dei dialetti italiani. Il cocoliche venne usato nel teatro comico popolare argentino, identificando l’emigrante italiano. Meticcio issn 2035-584x Tornando alla famiglia, un bambino adottato non ha niente. Nella sua vita ha perso tanto già dalla nascita e adesso, nell’ adozione ha guadagnato due genitori ma ha perso tutto. Resta appigliato alla lingua e ad alcuni poveri ricordi. Si tratta dell’ultimo legame con la madre che lo ha concepito e partorito, con la sua voce. E pensiamo che evitando che parli nella sua lingua, che ricordi il suo istituto, evitiamo la sua confusione? Pensiamo che se parla in un modo corretto dicendo ad esempio: “Buongiorno sig. ra maestra oggi non ho studiato perché ho il mal di pancia”, è un bambino che non è più in confusione? Lasciamo che la lingua d’origine resti lì, senza prevalere, come musica che accompagna, come musica in sottofondo. Le parole arriveranno, si impara la lingua predominante dappertutto. A scuola il bravo insegnante aspetta, ferma tutta una classe e aspetta il dire povero, contratto, sbagliato, della voce strozzata dello straniero. “Ma non posso fermare tutta la classe, io ho trenta allievi, non posso dedicarmi solo a lui perché perdo il resto”. Lo avete sentito? Ci sono certe verità scolastiche che bisogna mettere in questione e dire “si, devi fermare la classe per ascoltare uno”. Non uno di meno, come nel meraviglioso film del cinese Zhang Yimou. Ma il programma? E gli altri genitori che si lamentano che la classe rallenta? 5.”Dove te va?” Rallenta? Ma dove te va? Come si direbbe in triestino. Ogni azione pedagogica sembra essere ricondotta ad un Programma, ad una Bibbia scolastica che segna i tempi in modo superegoico e pende sulla testa del dirigente, degli insegnanti dell’ intera scuola. E il programma che si deve adattare alla classe o la classe al programma? Si parte della costruzione di un gruppo, una classe non è necessariamente un gruppo così come aver fatto un figlio non necessariamente vuole dire essere genitore. La costruzione del gruppo in una scuola, risponde al concetto dell’essere tutti nella stessa barca, dove remano tutti. Non pensate neanche 45 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) per un attimo che sono una persona che deresponsabilizza l’insegnante e fa sparire il suo ruolo nell’ anonimato del gruppo. No, tutto il contrario. Credo che il compito dell’ insegnante sia quello di aiutare a creare gruppi solidali per cui possa essere un piacere andare a scuola. Perché la scuola è al centro della società, è il posto di raduno obbligato dei marinai che condurranno la barca nel futuro. La scuola come il suk arabo, è il mercato dove si compra e si vende di tutto in un vitale scambio di merce e di parole. In arabo la parola suk a volte identifica anche il centro di una città. Ma cosa si scambiano i bambini nella scuola suk? Si scambiano storie, racconti, oggetti, cazzotti, urla, baci, insulti. La scuola italiana è già interculturale. I governanti devono capire che questo meticciato è iniziato da tempo. Il meticciato nella lingua e nelle persone è un grande antidoto contro il retrovirus che ogni popolo cova: il razzismo. Oggi non si parla più di razza, ma subdolamente si reintroduce molte volte questo concetto usando la parola “cultura”. Bisogna stare attenti al modo in cui viene usata questa parola. Lo scrittore nazista Hans Jhost faceva dire ad un suo personaggio: “Quando ascolto la parola cultura, prendo in mano la pistola”. Tempo fa ho avuto una discussione con uno psicologo che seguiva una sig.ra del Senegal. La sig.ra in questione aveva tentato di uccidere la figlia adolescente perché secondo lei era posseduta da un demone che la abitava. Lo psicologo in questione, giustificando in qualche modo il violento passaggio all’atto della signora, disse: “Non è un vero e proprio tentativo di omicidio, si sa che questi popoli africani credono nella magia, fa parte della loro cultura”. Ho risposto che i popoli africani sono tanti e che se questa era una delle caratteristiche della loro cultura, sparivano come popoli perché ogni madre era autorizzata “culturalmente” ad eliminare i propri figli. No, non si trattava di una signora che credeva nella magia senegalese e che aveva compiuto un atto tipico della sua cultura, bensì di una signora con uno scompenso mentale che le aveva comportato un passaggio all’atto di tipo psicotico. Poiché si può essere senegalese e psicotico, una categoria non esclude l’altra. Meticcio issn 2035-584x 6.Meticci Tutti siamo meticci, figli alla nascita di due culture familiari diverse: la materna e la paterna, culture che faticosamente fanno sintesi in noi. Questa cultura ci precede, come ci precede il nome, segnando una traccia di destino inconscio con il quale dobbiamo fare i conti. Se l’identità ci viene donata dall’esterno, come possiamo parlare di identità solida, immutabile, di radici che ci legano al territorio? Gli uomini non sono alberi. Insieme alla voglia di sicurezza del territorio conosciuto, della certezza delle tradizioni e della storia, si agita in noi la voglia opposta di slegarci, viaggiare, cambiare, lasciare tutto quanto abbiamo conquistato. L’unica identità che ha la certezza assoluta è l’ identità del fanatico che semina morte. 7. Manuela, Cinzia, Carlo, Giorgio (e tanti altri) Quando arriva lo straniero, bisogna fare posto, accoglierlo. Nel mio caso sono stato accolto da persone sensibili che non mi hanno mai fatto sentire la mia diversità, che mi hanno dedicato molto tempo. Mi hanno accompagnato presentandomi la città e mostrandomi i suoi angoli nascosti. Erano i malati di mente con i quali ho lavorato all’inizio della mia immigrazione e che mi hanno accolto con pazienza e generosità. A loro dedico questo scritto. Aldo Raul Becce, psicoanalista. Nato in Argentina 54 anni fa. “Dalla parte di là”: fondatore de un servizio di psicopatologia in Buenos Aires. “Dalla parte di qua”: volontario del C.S.M di San Vito, Psicologo del servizio sociale del comune di Muggia, Professore di Pedagogia Interculturale,Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni e Presidente di Jonas Onlus Trieste. [email protected]. 46 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione * Laura Capuzzo Abstract In Italia non c’è una conoscenza adeguata della realtà di un territorio - la Venezia Giulia, l’Istria e giù, fino alla Dalmazia - che ha conosciuto i drammi della storia, come l’esodo istriano e le ripercussioni che quel fenomeno ha avuto sul destino degli italiani “rimasti”. Sia esuli che rimasti hanno dato vita nel tempo ad una vivace attività editoriale, che però, analogamente a quanto accade per la stampa italiana all’estero, ha un bacino di utenza limitato agli addetti ai lavori. Sono le impietose leggi di mercato ad imporre una nuova strategia della comunicazione, che sia in grado di trasferire la memoria adeguandola ai tempi. Si tratta di lavorare assieme - esuli e rimasti - per farsi interpreti di un’alternativa culturale e renderla, se possibile, strumento di sviluppo economico. Il primo passo da compiere riguarda la formazione dei futuri operatori della comunicazione su queste materie. In un’operazione di questo tipo determinante è il supporto della tecnologia e delle istituzioni. C oggi entrambe inserite nel grande disegno europeo, ma fino a non molto tempo fa divise appunto da quel confine amministrativo, per non parlare di altre separatezze di natura culturale e sociale, o addirittura derivate dalle tragedie della storia? Terza (e ultima) domanda: i giovani d’oggi, immersi nel fenomeno della globalizzazione, sono coinvolti in questo processo di conoscenza? Come possono esserlo? Di che strumenti possono avvalersi per contribuire al superamento di quelle divisioni, per favorire l’integrazione fra comunità diverse, senza rinnegare le vicende dei propri padri, ma anzi rendendole patrimonio condiviso? Non credo servano troppi sforzi per dare una risposta alle prime due domande: no, non c’è una conoscenza adeguata nei cittadini della penisola della realtà di questo territorio a cavallo del mondo latino e di quello slavo, in cui si intrecciano genti, lingue e culture diverse, tormentato dalla omincerò questo intervento introduttivo, partendo da alcune domande che forse a qualcuno potranno parere pleonastiche. Prima domanda: esiste una conoscenza adeguata, da parte di coloro che risiedono in Italia, della realtà di un territorio - la Venezia Giulia, l’Istria e giù, lungo la costa, fino alla Dalmazia - che si affaccia sulla parte nord-orientale del mare Adriatico e che fino ad una ventina di anni fa era spezzato in due da un confine destinato a separare non solo due Nazioni, ma due mondi, due concezioni del mondo, due sistemi politici ed economici? Ed ancora, seconda domanda: esiste una conoscenza adeguata dell’esistenza, in questo territorio, di minoranze autoctone, quella italiana in Istria e quella slovena in Italia, * Il presente articolo è l’intervento introduttivo, rivisto per la presente pubblicazione, alla Tavola Rotonda “Comunicazione e plurilinguismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico” tenutasi a Trieste il 30 ottobre 2009. Parole chiave Comunicazione; Informazione; Esuli; Istria; Italiani all’estero; Giuliano-dalmati; Minoranze; Università; Giovani; Stampa. Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) storia ma collocato dal nuovo ordine europeo, successivo al crollo del Muro di Berlino, in una posizione cruciale, al centro di un continente alla ricerca di una propria identità. Un territorio tormentato dalla storia, dicevo, segnato da fratture, da ferite laceranti, ancora vive negli animi e nelle menti, come quella del massiccio esodo che nel secondo dopoguerra interessò la popolazione italiana dell’Istria e del Quarnero. Le cifre di questo esodo sono a tutt’oggi fonte di discussione tra i molti studiosi che si occupano del tema, ma si calcola che il numero effettivo di coloro che scelsero di abbandonare la propria terra, possa oscillare tra le 250 mila e le 350 mila unità1. Un fiume di persone che si riversò in Italia a ondate, con qualsiasi mezzo a disposizione, che fu costretto a camminare per il mondo, prendendo in molti casi la strada dell’emigrazione verso Paesi stranieri. Portavoce e testimonianza delle lotte degli esuli per ricostruirsi una vita, furono i vari giornali pubblicati a partire dal 1945 e che, a prezzo di faticose ricerche, sono stati raccolti da Marcello Bogneri in un prezioso volume, uscito nel 1992 per le edizioni Lint2. Si va dai giornaletti stampati a Trieste, ma destinati alla diffusione clandestina in Istria, alle riviste scientifiche e di cultura, che continuano il lavoro – talvolta più che secolare – di singoli e di associazioni, senza soluzione di continuità. Non mancano i periodici collaudati e quelli che non sono sopravvissuti all’incalzare dei tempi, i bollettini ciclostilati ed i numeri unici, corredati da grandi firme, che vedono la luce in occasione di grandi ricorrenze. Ci sono le pubblicazioni rivolte all’intera comunità giuliano-dalmata e quelle rivolte ad una più ristretta cerchia, quella dei nati in una località precisa. Sono citate nel volume anche le testate d’oltreoceano, testimonianza di chi è rimasto fedele alle radici anche nelle Americhe ed in Australia. 1 Un’efficace sintesi del complesso fenomeno e delle sue dimensioni è fornita da R. Pupo, L’esodo forzoso dall’Istria, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana – Partenze, Roma, 2001, pp. 385-396. 2 M. Bogneri, La stampa giuliano-dalmata in esilio, Trieste, 1992. issn 2035-584x Gli sconvolgimenti demografici e le profonde fratture del tessuto regionale verificatesi in quegli anni contribuirono a segnare definitivamente anche il destino della comunità degli italiani “rimasti”, scopertisi all’improvviso minoranza e destinati a conoscere solo nel 1992, con la dissoluzione della Repubblica jugoslava e il riconoscimento internazionale dei nuovi Stati di Croazia e Slovenia, un periodo di rinascita, di speranza e di grandi attese. Anche la minoranza italiana in Istria ebbe ed ha una sua realtà informativa, che è stata sempre - come emerge dal monumentale lavoro di Ezio e Luciano Giuricin sulla storia della Comunità nazionale italiana in Istria, Fiume e Dalmazia3 uno dei motori di stimolo e di sviluppo, da una parte, ma anche un significativo fattore di condizionamento, dall’altra, del gruppo nazionale italiano. Quasi tutte le principali testate informative e radiotelevisive del gruppo nazionale sono sorte, originariamente, quali strumenti di propaganda, in lingua italiana, del regime jugoslavo. Ma progressivamente, nel tempo, accanto a questa funzione, sono riuscite a ritagliarsi ampi spazi di autonomia ed a sviluppare un’insostituibile azione di sostegno sociale, politico e culturale della minoranza. Sono riuscite a svolgere un prezioso ruolo di “collante” nazionale e, in molti casi, di “portavoce” dei diritti, delle rivendicazioni e delle istanze della comunità nazionale, contribuendo a coltivare nel frattempo un clima di convivenza, di tolleranza e di pluriculturalismo. Oggi la rete dei mezzi di informazione italiani in Istria comprende Radio/TeleCapodistria, attiva in seno alla struttura della RTV di Stato slovena, e la casa editrice EDIT-Edizioni Italiane di Fiume (che pubblica “La voce del popolo”, uno dei pochi quotidiani italiani esistenti fuori dai confini nazionali, oltre al quin3 E. e L. Giuricin, La Comunità nazionale italiana. Storia e Istituzioni degli Italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia (19442006), I, Rovigno, Centro di ricerche storiche, 2009, pp. 542-546 e pp. 549-562. V. anche M. Cherini, La minoranza etnica italiana in Jugoslavia. Analisi e prospettive, Trieste, 1983, pp. 41-56, e L. Cechet, L’informazione italiana nel mondo tra stereotipi e innovazione. Analisi di due casi vicini al confine, Istria e Svizzera, tesi di laurea inedita, Università di Trieste, a.a. 2004-2005 (relatore G. Battisti, correlatrice L. Capuzzo), pp. 156-222. Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione 48 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x dicinale “Panorama”, al giornalino per ragazzi “L’Arcobaleno”, alla rivista trimestrale di cultura “La Battana” e alla rivista pedagogica “Scuola Nostra”), nonché le redazioni italiane delle stazioni radio di Pola e Fiume della rete nazionale croata. A queste si aggiungono i bollettini delle varie Comunità degli italiani. Un patrimonio informativo cospicuo, quindi, quello formato dalla stampa degli esuli e dei “rimasti”, che è senz’altro indice di una intensa vitalità, ma che, riflettendo con più attenzione, mostra di soffrire dello stesso male che affligge, più in generale, la stampa italiana all’estero: una diffusione ridotta, un bacino di utenza limitato agli addetti ai lavori e, di conseguenza, una conoscenza molto parziale e circoscritta, al di fuori di quell’ambito, sia delle problematiche degli esuli che della presenza italiana in Istria. Nel circuito della comunicazione nazionale e internazionale questo genere di tematiche è marginale o addirittura ignorato. Lo constatava con amarezza nel 1992 Lino Vivoda a proposito della stampa giuliano-dalmata in esilio, così come il direttore dell’”Arena di Pola”, Pasquale De Simone, secondo il quale, in ultima analisi, si può parlare di uno «scarso apparire nel panorama della stampa nazionale, per la disseminazione di tanti rivoli che nulla dicono di noi nella sola maniera che conta: quella di testate che possano contare per forza e diffusione»4. Anche Ezio Mestrovich, in tempi a noi più vicini, osservava, in veste di opinionista della “Voce del popolo”5, che «la stampa in Italia dedica scarsa ed episodica attenzione alla minoranza italiana e quest’ultima ovviamente non ha influenza alcuna sulle scelte redazionali», ma poi proseguiva nel suo ragionamento con considerazioni proiettate verso il futuro, con proposte che mi sembra opportuno riportare integralmente, anche perché mi trovano perfettamente d’accordo. «La casistica che meglio conosco, riconducibile alla minoranza italiana e la sua stampa - diceva Mestrovich - mi porterebbe a proporre un giornalismo che tenesse conto, oltre che del suo pubblico di tradizionale riferimento, anche di fasce diverse di lettori; con aumentata attenzione all’ambiente di vita in cui la minoranza è esistenzialmente integrata, con altrettanta a quel florido transito di genti, culture e merci che percorre l’arco dell’Alto Adriatico, attraversa Croazia, Slovenia, il Nordest italiano e oltre. Proponendosi così, tale giornalismo, come strumento di conoscenze specifiche a un lettore riconducibile non esclusivamente alla minoranza, ma anche al corregionale croato e sloveno, al connazionale in Italia. E indicherei ancora l’opportunità - continuava - di unire le forze giornalistiche dei rimasti e degli esodati, le prime riunite nella casa editrice EDIT di Fiume, le seconde nei vari fogli legati alle città di provenienza di una generazione di esuli appartenente ora alla terza età». Concordo con Mestrovich e concordo con lui anche quando afferma che «equilibrare un’informazione votata e indotta al particolare local-minoritario con un’energica apertura a tematiche più vaste, avviare la collaborazione tra i potenziali giornalistici dei rimasti e degli esodati (in epoche precedenti spesso contrapposti dai rigori ideologici) non sono operazioni facili». Vi si frappongono ostacoli riconducibili a strutture, quadri, finanziamenti e, forse i più resistenti, a forme mentali ancorate a un modo tradizionale di fare informazione per la minoranza. Che però - va precisato - sta mostrando la corda nel confronto con la concorrenza. Sono le impietose leggi di mercato, prima ancora che le dichiarazioni di principio a favore delle realtà minoritarie, ad imporre una nuova strategia della comunicazione. Oggi, per esuli e rimasti c’è bisogno di interventi innovativi, di studiare nuove forme di comunicazione per trasferire la memoria adeguandola ai tempi6. C’è il 4 L. Vivoda, Presentazione, in M. Bogneri, Op. cit., pp. IX-XIV. 5 E. Mestrovich, Un caso particolare: la presenza italiana autoctona in Croazia e Slovenia, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata. Italiani all’estero e informazione nel FriuliVenezia Giulia, Trieste, Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia, 2000, fuori commercio, pp. 119-122. 6 Una lucida disamina della diversa impostazione che ha caratterizzato finora la progettualità di esuli e rimasti, e della necessità di superarla, è stata fatta da S. Forza, Esuli e rimasti: ora si programmi assieme, in “La Voce del Popolo”, 18 febbraio 2006. Secondo Forza, direttore dell’EDIT, «bisogna trovare il coraggio di pensare a nuovi progetti comuni, che consentano il raf- Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione 49 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) rischio, altrimenti, soprattutto per le nuove generazioni, di perdere la propria identità nazionale e di venir assimilati. E’ lo stesso rischio che corrono, più in generale, gli italiani all’estero, in mancanza di un dialogo costante con l’Italia della cultura, dell’informazione e dell’economia. Per i giuliano-dalmati in particolare, diventa urgente superare la frammentazione delle loro tre componenti (quella della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, quella degli esuli in Italia e quella dei tanti giuliano-dalmati sparsi nel mondo) e avviare o, meglio, perfezionare un percorso destinato ad inserirli con maggior forza all’interno di un fenomeno più ampio, quello della diaspora, della presenza italiana e dei corregionali nel mondo, nonostante le differenze della loro realtà rispetto ad altre situazioni riscontrabili nella mappa dell’emigrazione. In una società come quella attuale, che tende sempre più all’omogeneizzazione, esuli e rimasti insieme dovrebbero farsi interpreti analogamente a quanto dovrebbe accadere per i discendenti degli ex emigrati - di un’alternativa culturale, dovrebbero sottolineare con maggior evidenza di quanto già non avviene, oltre che la loro storia, le specificità culturali di cui sono portatori e renderle, se possibile, strumento di sviluppo economico. Il ruolo della comunicazione in un’operazione del genere è basilare, innanzi tutto per ricomporre le fratture della storia e, secondo l’etimo della parola, ‘collegare, mettere in comune’ le esperienze, e nello stesso tempo per interpretare al meglio quel ruolo di ‘ponte tra le culture’ che viene riconosciuto alle minoranze. Si tratta di far conoscere e farsi conoscere, di ragionare, come giustamente si è cominciato a fare in Italia in questi ultimi anni, in termini di presenza all’estero come risorsa per la lingua, la cultura, l’economia di un Paese o di una Regione. Il primo passo da compiere, allora, per soddisfare queste esigenze, riguarda gli operatori della comunicazione, soprattutto i giovani (e qui rispondo all’ultima delle tre domande che avevo posto all’inizio), i soggetti in forforzamento dell’identità italiana in Croazia e Slovenia e favoriscano agli esuli il miglior ritorno possibile. Ci servono progetti – conclude – per creare luoghi in cui poter vivere e “dove tornare”». issn 2035-584x mazione che saranno gli opinion maker di domani. Bisogna porsi infatti il quesito se gli operatori dei media siano al momento realmente preparati su argomenti complessi come questi, se cioè possiedono un’adeguata conoscenza della storia e delle problematiche attuali che investono il settore. Per poter offrire ai lettori contributi di qualche interesse, come sostengono anche altri autorevoli studiosi dei fenomeni migratori7, questi operatori andrebbero formati mediante apporti di competenze specifiche, offerte da specialisti a livello universitario e integrate dall’accesso alle informazioni quotidiane relative ai Paesi di maggiore presenza migratoria. Sempre in stretto collegamento con buoni corrispondenti locali. E’ una linea di comportamento che andrebbe seguita per disporre di operatori attrezzati e motivati. Formazione quindi di chi agisce nel campo della comunicazione, su queste materie e avvio di un confronto serrato tra mondo accademico, professionisti della comunicazione, istituzioni e realtà associazionistiche per definire le priorità. Le questioni da chiarire, infatti, sono tante, legate per esempio ai costi, agli enti delegati a questa azione di comunicazione, alla lingua da usare, alla distribuzione delle informazioni, ma soprattutto ai contenuti da veicolare per suscitare interesse ed attenzione. Serve progettualità, per favorire una crescita intellettuale che possa anche tradursi in una crescita territoriale. Per dare vita ad un’informazione capace di affermarsi in virtù delle proprie intrinseche valenze, e non soltanto o prevalentemente del codice linguistico e del sentimento. E’ fondamentale creare un volano di conoscenza, che aiuti a restituire consapevolezza della propria storia alle comunità locali e, nello stesso tempo, orienti verso un’identità aperta agli scambi e ai meticciamenti interculturali. Oggi a disposizione c’è anche uno strumento potente, il Web, che ha profondamente innovato rispetto al passato i rapporti tra individui e comunità distanti e che, secondo 7 V. l’interessante contributo di U. Bernardi, La condizione migrante e l’educazione alla interculturalità, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., pp. 111-113. Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione 50 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) studi recentissimi8, sta addirittura influenzando l’evolversi dell’identità nelle comunità italiane nel mondo, portando ad una presa di coscienza etnica. In un’epoca di identità sempre meno legate a luoghi fisici, uno dei non luoghi in cui l’identità si costruisce oggi è certamente il Web. L’identità della diaspora italiana muta e si rafforza attraverso le nuove opportunità di stabilire contatti rapidi e diretti e con il Paese d’origine e con gli altri membri della diaspora. In altre parole, Internet non è semplicemente una forma di accesso a informazioni su un soggetto dato, ma si sta rivelando una forza che concorre a ridefinire in profondità il soggetto stesso. Per concludere, mi richiamo ad una dichiarazione di Roberto Molinaro che, nelle intenzioni degli organizzatori, avrebbe dovuto essere oggi qui con noi e che molto opportunamente qualche anno fa, parlando del rapporto con le comunità dei corregionali all’estero, invitava ad abbandonare forme di adesione emozionale e nostalgica, per puntare alla «rifondazione di una entità etnica moderna dentro la geografia del mondo, che trova nella attualità dell’interesse le nuove ragioni dell’appartenenza. Per realizzare un circuito virtuoso tra la comunità regionale e quelle dei corregionali all’estero aggiungeva - il sistema della comunicazione, caratterizzato dalla non episodicità, dalla biunivocità e dalla reale accessibilità, diviene indispensabile e costituisce una priorità per le azioni da realizzare con il sostegno pubblico»9. Quando esprimeva per iscritto queste considerazioni, Molinaro era consigliere regionale del Centro popolare riformatore. Oggi è assessore regionale alla Cultura, con delega per i corregionali all’estero, è decisore pubblico e confidiamo, ai fini dell’attuazione di questi obiettivi, che non abbia cambiato idea…. issn 2035-584x Laura Capuzzo, allieva di Gianfranco Folena all’Università di Padova e di maestri di giornalismo come Sergio Lepri e Giovanni Giovannini, è dal 1979 giornalista dell’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana, alla quale ha dedicato la tesi di laurea, premiata nel ‘77 con il Saint Vincent di giornalismo e pubblicata nel ‘90 con il titolo di Notizie in viaggio. Dalle agenzie di quotidiani: il processo di riscrittura giornalistica, da Franco Angeli, Milano. È stata co-curatrice di Contarsi. Raccontarsi. Contare. La donna come protagonista dei media (Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, 1994) ed ha curato nel 2000 la realizzazione di La diaspora negata. Italiani all’estero e informazione nel Friuli - Venezia Giulia per conto dell’Ordine regionale dei giornalisti. Hariscopertovariincarichinegliorganismidi categoria a livello regionale e nazionale. Ha svolto docenze ed organizzato manifestazioni, in Italia e all’estero, su tematiche attinenti all’aatività giornalistica. Dal 1977 si occupa di comunicazione italiana nel mondo. Vive e lavora a Trieste. [email protected] 8 M. Tirabassi, Gli italiani sul Web, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana – Arrivi, Roma, 2002, pp. 717-738. 9 R. Molinaro, Verso la rifondazione di un’entità etnica moderna, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata cit., pp. 86-87. Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione 51 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo * Francesco Lazzari Abstract Parole chiave Le sponde dell’Adriatico da secoli registrano un andirivieni di genti e di culture e, tra queste, sono tanti e sono diversi i popoli che parlano italiano. Genti che non sempre sono riuscite a tessere scambi all’insegna della pace o almeno della tolleranza. Sospinti dalla storia molti di loro hanno dovuto attraversare i mari e abitare nuovi continenti. Eppure, la pluralità di differenze e gli arcipelaghi di esperienze, fonte spesso di conflitti e di stermini, possono altresì proporsi come fonte di confronti, di comprensioni e di cooperazioni in un processo di reciproca crescita. È questa la sfida che attende chi abita queste terre sul confine; fare del confine il filo rosso che tesse, meticcia e integra e non la lama che divide. Ove appunto lingua e cultura possono farsi strumenti attivi di promozione e di convivenza. Confine; Globalizzazione; Glocalizzazione; Lingua; Cultura; Unione Europea. 1. Terre sul confine D esidero esprimere tutta la mia più viva soddisfazione per la promozione di questa tavola rotonda che rappresenta, tra l’altro, la volontà, fattiva e concreta, ad aprire i cuori e le menti alla collaborazione e ad una migliore comunicazione e comprensione tra terre italiane, slovene e croate. Terre che da secoli registrano un andirivieni di genti e di culture. Genti che non sempre sono riuscite a tessere scambi all’insegna della pace o almeno della tolleranza. Sono tanti e sono diversi i popoli che parlano italiano e che abitano l’una e l’altra sponda dell’Adriatico: bisiacchi, chersini, croati, dalmati, fiumani, giuliani, goriziani, isontini, * Il presente articolo è l’intervento, rivisto per la presente pubblicazione, presentato alla Tavola Rotonda “Comunicazione e pluringuismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico” tenutasi a Trieste il 30 ottobre 2009. istriani, monfalconesi, sloveni, triestini ed altri ancora. Da queste sponde molti di loro, vista l’impossibilità di una coabitazione serena, hanno attraversato i mari e abitato continenti sconosciuti: dall’Australia al Canada, dall’Argentina all’Uruguay, dal Brasile al Cile, dal Sudafrica agli Stati Uniti, un esodo segnato da tante sofferenze e che non ha conosciuto confini… Se un primo flusso migratorio, registratosi intorno gli anni Venti - Trenta e nel primo dopoguerra, si è concentrato in particolare nella zona dell’isontino con molti che scappavano perché antifascisti e perché oppressi da un regime che non rispettava la loro identità linguistico - culturale, un secondo flusso, quello più consistente, conta l’esodo dei 300.000 in fuga dalla Yugoslavia titina, che non rispettava la loro identità linguistico - culturale e minacciava la loro stessa esistenza, dalle foibe, dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia... Di questi 300.000, Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 52 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) un terzo circa si è fermato a Trieste, un altro terzo si è distribuito nelle varie regioni italiane ed un altro terzo ancora ha attraversato l’Oceano alla volta del mondo, America Latina compresa. Emigrati due volte che hanno perso anche la loro terra di origine e di riferimento. Altri ancora, ed è un terzo flusso migratorio, sono partiti nel 1954 con la fine del governo militare alleato a Trieste e il ritorno dell’Italia. Nello stesso tempo ritengo altresì doveroso sottolineare come questa buona volontà di interscambio si sia ricorrentemente, anche se non sistematicamente, registrata con la condivisione di diverse attività; una collaborazione non sempre facile, a causa della storia che accomuna queste nostre genti, ma che, sono convinto, potrà rivelarsi arricchente per tutti nonostante le innegabili, ma superabili, difficoltà. Le nostre terre, le terre di cui parliamo oggi, sono terre di confine, sono terre sul confine. Tutti i confini, pur in certa misura superati come quelli politici con il far parte tutti dell’Unione Europea (la Croazia è Paese candidato), possono essere elementi dalle dimensioni duplici: di separazione e di frattura oppure di comunicazione e di interfecondazione. Tutto o molto dipende dagli attori implicati, se vogliono che quella storica separazione culturale, linguistica, sociale, di tradizioni, di costumi, etc. sia la linea di demarcazione tra sistemi aperti o chiusi. Come la sociologia ci insegna, la ricchezza, quella vera, appartiene ai sistemi aperti, che hanno chiarezza delle rispettive identità, unite al coraggio di meticciarsi, di scontrarsi - incontrarsi; senza negare le difficoltà, ma costruendo su queste attraverso il dialogo e il confronto1. Un mondo di isole separate e isolate in cui, però, potrebbe esserci più spazio e tempo per «costruire e ricomporre - diluire continuamente situazioni di insularità e di relazione tra isole distanti»2; isole socialmente unite dai viaggi 1 Cfr. tra gli altri: F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità. Analisi comparate e proposte socio - educative (2000), Padova, 2008. 2 A. Merler, M.L. Piga, Regolazione sociale insularità percorsi di sviluppo, Sassari, 1996, p.38, passim. Per una precisa ed ampia collocazione definitoria dei termini citati, si rimanda ampiamente al testo indicato. issn 2035-584x di quanti vi abitano, dalla mobilità geografica e, sebbene forse meno visibile, dalla mobilità sociale e culturale in cui i crescenti processi di globalizzazione sembrano rendere ancora più complicate tali relazioni. Una vita insulare che dovrebbe/potrebbe essere relazione e comunicazione e non certamente isolazionismo o isolamento dettati definitivamente dal dualismo dentro/fuori, dall’appartenere o dal non appartenere e ove il tutto si gioca «nel modo in cui viene compiuto il viaggio e il rapporto: con la conquista che nega di fatto l’insularità altrui, o con il rispetto dell’ospitalità che riconosce e accetta la pluralità delle specificità insulari»3. Pluralità di differenze e arcipelaghi di esperienze che con il loro sguardo a tutto campo possono permettere di andare oltre una mera visione bilaterale, polarizzata ed estrema, per suggerire un confronto a tutto orizzonte «formato dalle pluralità insulari e dagli interstizi - di strade, di parole, di mari, di monti, di boschi, di visioni, di deserti, di concetti, di lingue, di sentimenti… - che le separano e le uniscono: i viaggiatori, gli emigrati - immigrati, gli esuli, l’altro, possono viverle e non solo capirle, possono essere contemporaneamente parte di più isole, idealizzandole, odiandole, travisandole, lodandole, agognandole, lasciandole o quant’altro, ma sempre potendo optare fra più scelte. Che sono poi le scelte del viaggio, dell’itinerario, del percorso»4 sempre che sia fatta salva una condizione degna almeno di tutela della vita e dell’umanità. 2. I molti e complicati confini della glocalizzazione Reti di viaggi e di comunicazioni, di scambi e di scontri, di opportunità e di fallimenti in cui gli itinerari possono seguire opzioni diverse e a largo spettro5. I mutamenti nazionali, regionali e locali, peraltro, ci interpellano ogni giorno di più e ci 3 Ibidem, p.39. 4 Ibidem, p.43. 5 F. Lazzari, L’altra faccia della cittadinanza. Contributi alla sociologia dei processi migratori (1994), Milano, 1999. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 53 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) chiamano a misurarci con l’evoluzione di realtà, istituzioni e fattori esogeni del mutamento globalizzante di stili di vita, di sistemi, di allocazione delle risorse, di crescenti flussi internazionali di informazioni e di persone. La caduta del muro di Berlino nel 1989 (e del muro di Gorizia nel 20046) con le sue conseguenze sugli equilibri regionali e mondiali e la globalizzazione dell’economia e della finanza, della produzione e della cultura, non poteva non far sentire tutto il suo peso anche in un’equivalente globalizzazione delle relazioni etniche e nazionali più spinta e articolata. L’epoca attuale7, con la caduta o il superamento appunto dei suoi modelli socio - storici costituitisi in quest’ultima parte di secolo, appare unanimemente caratterizzata da nuovi processi di crescente «inter - dipendenza trans - societaria» mentre si assiste a continuità e rotture tra nazionale e mondiale, tra prossimo e lontano, tra passato e presente, tra spazio e tempo. Si materializzano interdipendenze in cui le relazioni economiche, politiche, produttive e culturali, etc. sono avvicinate e risentono le une delle altre, indipendentemente dalla distanza spaziale, grazie alle nuove possibilità offerte dai sempre più potenti mezzi di comunicazione, di informazione e di trasporto in cui l’informatizzazione e le tecnologie sempre più avanzate e sofisticate svolgono un ruolo decisivo. Il concorso di fattori interni ed esterni ai singoli gruppi, società, nazioni, regioni, con pesi ed incidenze variabili, definisce la loro collocazione nel sistema globalizzato dal quale emergono imperialismi, alleanze, dipendenze, periferie, centralità, dominazioni, uguaglianze, subalternità, interdipendenze e contraddizioni in un processo di relazioni transnazionali e di reti; contraddizioni e 6 M. Breda, Gorizia, cade l’ultimo muro d’Europa, «Corriere della Sera», 11 febbraio 2004. 7 Cfr. O. Ianni, L’era del globalismo (1996), Padova, 1999, Introduzione di S. Sassen, Presentazione, traduzione ed edizione italiana di F. Lazzari. Tra gli altri cfr. anche F. Lazzari, L’allargamento dell’Unione Europea tra dinamiche di globalizzazione e nuove politiche sociali, in Corsi di studio in servizio sociale Università di Trieste (cur.), Nuove solidarietà nell’allargamento dell’Unione Europea, Milano, 2006, pp.21 - 33. issn 2035-584x tensioni che interessano tanto le società nazionali quanto i modi di vita e di pensiero di realtà regionali e tribali, di individui e collettività, di Stati e nazionalità8. Certamente, «la società globale si costituisce fin dall’inizio come una totalità problematica, complessa e contraddittoria, aperta e in movimento»9. Dal momento in cui essa si sviluppa, con la sua economia politica e la sua dinamica socio - culturale, le storie nazionali tendono ad essere in qualche modo subordinate, integrate o assorbite dalla storia universale10. Nella misura in cui la globalizzazione ridefinisce gli Stati nazionali, inter - dipendenza e imperialismo sono ricreati, superati e mutano di figura subendo, tra le altre, le influenze delle crescenti forze transnazionali. In altre parole la globalizzazione integra, subordina ed assorbe gran parte dei processi, strutture e relazioni che caratterizzano tanto l’interdipendenza e l’imperialismo quanto il nazionalismo e il regionalismo. Si è cioè in presenza di una problematicità che si sta ancor più evidenziando, se mai ce ne fosse stato bisogno, con le ricorrenti tempeste finanziarie che investono quasi periodicamente le borse mondiali: una crisi che parte dal Messico, tocca l’Asia, poi il Brasile, come accaduto per esempio nel 1997, o dagli Stati Uniti, come nel 2007 e sino ad oggi, e che produce gravi conseguenze a livello planetario. La mondializzazione finanziaria, delle telecomunicazioni e dei mass media sta, infatti, creando un suo proprio Stato: uno Stato sovranazionale che dispone di proprie strutture, di proprie reti di influenza e di propri mezzi di azione11. Ed è così che le società contemporanee, le società reali, stanno diventando sempre più delle «società senza potere»12. «La mondia8 O. Ianni, L’era del globalismo, op. cit.; E. Morin, A.B. Kern, Terre - Patrie, Paris, 1993. 9 O. Ianni, Teorias da globalização, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro, 1996, p.204. ��Ibidem, p.207. 11 I. Ramonet, Désarmerlesmarchés, «Le Monde Diplomatique», 525, 1997. ������������ N. Abala, Les dangers de l’accord multilatéral sur l’investissement, «Le Monde Diplomatique», 528, 1998; G. de Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 54 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) lizzazione del capitale finanziario sta cioè collocando i popoli in una condizione di insicurezza generalizzata mentre sacrifica le nazioni e i loro Stati quali garanti del bene comune e luoghi legittimamente deputati all’esercizio della democrazia»13. Ed è così che l’incertezza sembra dominare ogni scenario contemporaneo. Nell’attuale stagione dell’esperienza umana, però, alla globalizzazione delle economie e dei mercati raramente sembra corrispondere un’internazionalizzazione dei diritti della persona. Si è in presenza di una realtà che, come effetto della mondializzazione, sta vivendo un rovesciamento di sovranità: il mercato accresce il suo potere mentre le competenze degli Stati subiscono costanti e crescenti erosioni. «È l’ordine gestionale ed economico che sembra prendere a poco a poco il sopravvento, che sembra imporre la sua legge e i suoi criteri, definito dagli arbitraggi che generano l’ordine giuridico». E a tutto questo ben poco sembra poter opporre la «democrazia politica», e ancor meno la società civile; il potere e il controllo si trovano altrove14. È un potere che sembra modificare l’uomo con un processo di riconfigurazione delle menti stesse e in cui i valori simbolici e culturali sembrano ridotti al nulla15. Si è appunto in presenza di un fenomeno caratterizzato da polivalenza, contraddittorietà, molteplicità di significati e dimensioni, ma anche da trappole concettuali, luoghi comuni, radicalismi, che interessa tutti e in particolare l’informazione e la comunicazione. Le principali teorie della globalizzazione, spaziano dalla teoria «economia mondo» di Wallerstein alla teoria «dei due mondi della politica mondiale», dalla teoria della «società mondiale del rischio» alla teoria della «struttura egemonica di potere» di Gilpin, dalla tesi Jonquières, Free Trade under Fire, «Financial Times», 11 ottobre 1999; S. George, À l’Omc, trois ans pour achever la mondialisation, «Le Monde Diplomatique», 544, 1999. �������������� I. Ramonet, Désarmer les marchés, op. cit., p.1; S. George, Le commerce avant les libertés. Sommet de l’Omc à Seattle, «Le Monde Diplomatique», 548, 1999. ������������ M. Ferro, Des sociétès malades du progrès, «Le Monde Diplomatique», 525, 1997, p.26, amplius. 15 D.R. Dufour, De la reducción de cabezas a la transformación de los cuerpos, «Le Monde Diplomatique», abril 2005, pp.16 - 17. issn 2035-584x della mcdonaldizzazione di Ritzer alla cultural theory e alle riflessioni sulla «società civile transnazionale». Il locale assume un nuovo significato nel contesto globale, ove appunto, come sottolinea Roland Robertson, locale e globale non si escludono, ma al contrario l’uno deve essere compreso come aspetto dell’altro. Si potrà così parlare di glocalizzazione, implicando appunto l’assunto della cultural theory in cui la cultura globale non può essere intesa staticamente, ma solo come processo contingente e dialettico (e per questo non riducibile economicisticamente ad una logica del capitale apparentemente univoca), secondo il modello della «glocalizzazione, nella quale elementi contraddittori sono compresi e decifrati nella loro unità»16. Ed è appunto all’interno di simili riferimenti concettuali che possono trovare composizione i cosiddetti paradossi della globalizzazione, quali l’universalismo e il particolarismo, i legami e le frammentazioni, la centralizzazione e la decentralizzazione, il conflitto e l’accordo, l’inclusione e l’esclusione. I concetti e la teoria di Robertson delle culture glocali vengono infatti ampliati da Arjun Appadurai17, che approfondisce teoricamente la relativa autonomia dell’economia glocale della cultura. A tal proposito Appadurai parla di ethnoscapes, «paesaggi di persone», che caratterizzano il mondo irrequieto e frammentato in cui si vive. Da queste persone (turisti, migranti, profughi, esiliati, lavoratori stranieri, uomini e gruppi in movimento, che costituiscono uno degli aspetti della cultura globale) e dalla loro «irrequietezza» fisico - geografica, provengono impulsi essenziali per un mutamento della politica interna e internazionale. Flussi e panorami a cui, secondo Appadurai, vanno ad aggiungersi i technoscapes, i financescapes, i mediascapes, gli ideoscapes, «pietre di costruzione ‘di mondi immaginari’ che in tutto il mondo vengono visti, scambiati e vissuti con diversi significati da uomini e gruppi». Scenari 16 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, 1999, p.69, p.185 e p.189. Vedasi anche la recensione dello scrivente in «Studi Emigrazione», 141, 2000, pp.185 - 189. 17 A. Appadurai, Modernità in polvere, Roma, 2001. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 55 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) glocali che possono intendersi come «una ‘immaginazione delle vite possibili’ estremamente ambigua, che permette una molteplicità di combinazioni, e con la quale vengono composte collezioni multicolori e variegate per i fini delle proprie identità di vita e di gruppo»18. Globalizzazione e localizzazione che oltre ad essere «due facce della stessa medaglia», secondo Zygmunt Bauman, «sono forze motrici e forme di espressione di una nuova polarizzazione e stratificazione della popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati» con la contestuale scomparsa di qualsiasi nesso, e dialettica, tra povertà e ricchezza, servo e padrone, e il conseguente rompersi del «vincolo che rendeva la solidarietà non solo necessaria, ma possibile». Il capitalismo globale sembra così dissolvere «il nucleo di valori della società del lavoro», rompendo pure «un’alleanza storica tra capitalismo, stato sociale e democrazia» e bloccando «l’iniziativa verso un nuovo contratto sociale»19. Se è vero, come si è detto, che l’architettura «del pensiero, dell’azione e della vita negli spazi e nelle identità nazional - statali si infrange contro la spinta di una globalizzazione economica, politica, culturale, biografica», è altrettanto vero che la «società mondiale si traduce nella nascita di possibilità di potere, spazi di azione, di vita e di percezione del sociale che spezzano e scompigliano la concezione ortodossa, nazional - statale, della politica e della società». Ed è proprio in questo che sta la differenza tra la prima e la seconda modernità: non più una politica che detta le regole, ma «una politica che muta le regole; una politica della politica (metapolitica)» appunto disputata tra attori nazional - statali e attori transnazionali, tra stati e nazioni, imprenditori e sindacati, burocrazie e società civili... La transnazionalizzazione del luogo crea così nuovi legami tra culture, persone e luoghi mutando pure l’habitat quotidiano e individuale stesso. 18 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione..., op. cit., pp.74 - 75, amplius. 19 Ibidem, pp.76 - 83, amplius. issn 2035-584x 3. Il ruolo dei media nella costruzione del Sé Proprio in un tale contesto, profondamente dinamico e interdipendente, i mass media assumono una crescente e travolgente importanza, sia per i linguaggi accattivanti utilizzati sia per le indicazioni e i modelli proposti20. Dalla televisione ad Internet, dalla carta illustrata alle nuove tecnologie le proposte sono innumerevoli e, spesso, le altre agenzie di socializzazione e di formazione quali la famiglia, la scuola e la società civile si trovano a vivere rapporti conflittuali di valori e di prospettive. Come si sa, per la sociologia i mass media, ed in particolare i cosiddetti new media, sono agenzie di socializzazione sui generis in quanto, diversamente dalle altre citate agenzie, non possono dirsi orientati da scelte ad hoc con riferimento ad uno specifico e mirato processo di socializzazione. Si rivolgono cioè in forma relativamente indistinta ai potenziali interlocutori senza riuscire a tener conto dei bisogni e delle necessità di ciascun fruitore. Offrono una socializzazione senza mediazioni, una sorta di autosocializzazione in cui la trasmissione di norme e valori appare spogliata di autorità21. Inoltre, come ricorda Popper, i mass media «non fanno a gara per produrre programmi di solida qualità morale, per produrre trasmissioni che insegnino ai bambini (e agli adulti) qualche genere di etica»: un compito importante ma difficile, «perché l’etica si può insegnare soltanto fornendo un ambiente attraente e buono e fornendo, soprattutto, buoni esempi»22, creando cioè situazioni che permettano di vivere e di sperimentare la cooperazione e la ricerca di senso. Per ribaltare una simile situazione bisognerebbe - ci ricorda sempre Popper - cambiare la destinazione d’uso di molti media, oggi frequentemente e prevalentemente - se non 20 F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità…, op. cit. 21 P. Donati (a cura di), Sociologia. Una introduzione allo studio della società, Padova, 2006; L. Gallino (dir.), Manuale di sociologia, Torino, 1994. 22 F. Erbani (a cura di), Cattiva maestra televisione. Scritti di K.R. Popper e J. Condry, Milano, 1994, p.15. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 56 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x esclusivamente - orientati alla vendita di effimero, di un’immagine, di un qualche prodotto più o meno inutile, in cui la quasi esclusiva formazione individuata è l’educazione del consumatore e l’orientamento ai valori del mercato, dimenticando quella del cittadino e della persona23 proiettata all’autorealizzazione in cooperazione con l’altro. La responsabilità dei mass media resta dunque di primo livello, fermi comunque restando i vincoli e le potenzialità di cui si è detto. Con una diversa loro collocazione nel processo di socializzazione - educazione - formazione si potrebbero realisticamente valorizzare le incommensurabili risorse esistenti e che la società può offrire. Una società, come sottolinea Gianni Rodari, che è una «scuola grande come il mondo», in cui «insegnano maestri, professori, avvocati, muratori, televisori, giornali, cartelli stradali, il sole, i temporali, le stelle», e in cui vi «sono esami tutti i momenti» e di «imparare non si finisce mai»24. Un rivolgimento di prospettiva, dunque, in cui sia effettivamente possibile - in tale processo di socializzazione e di ri - socializzazione - valorizzare i nuovi e i vecchi media e tutta la società in quanto società educante25. Un impegno di cui anche l’Unione Europea (Ue) si è fatta carico proclamando il 2008 l’Anno europeo del dialogo interculturale nel corso del quale si è cercato di dare concretezza ad alcuni importanti obiettivi: - promuovere il dialogo interculturale come processo attraverso il quale gli abitanti dell’Ue possano migliorare la loro capacità di adattarsi ad un ambiente culturale più aperto, ma anche più complesso, proprio in virtù del fatto che, tra i diversi Stati membri e all’interno di ciascuno di essi, coesistono identità culturali e tradizioni diverse; - dare priorità al dialogo interculturale quale opportunità per la costruzione, in Europa e nel mondo intero, di una società pluralista e dinamica e da essa trarne ricchezza; - sensibilizzare quanti vivono nell’Ue, in particolare i giovani, all’importanza di sviluppare una cittadinanza europea attiva e aperta al/sul mondo, rispettosa della diversità culturale e fondata sui valori comuni dell’Ue definiti dall’art.6 del Trattato Ue e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (libertà di informazione, diritto alla lingua e alla cultura, etc.); - porre in risalto il contributo dato dalle varie culture al patrimonio complessivo e ai modi di vita degli Stati membri26. Una vera e propria prospettiva d’azione in cui, peraltro, questa tavola rotonda a ragione si inserisce. Il diritto alla differenza presuppone ovviamente il diritto all’identità, visto che - come hanno messo in evidenza, tra gli altri, gli studi di Mead sull’altro generalizzato - la definizione di Sé non la si può avere che in rapporto all’Altro per affermare, per esempio, un’identità incerta o per difendere un’identità minacciata o per liberare un’identità oppressa o per ritrovare un’identità perduta. La formazione del Sé è qui intesa come un processo sociale che si sviluppa in rapporto all’Io - che esprime la risposta non organizzata dell’organismo agli atteggiamenti di altri - e in rapporto al Me - che individua l’insieme degli atteggiamenti organizzati di altri che a sua volta l’individuo assume e fa propri in quanto Io27. Infatti, grazie al processo evolutivo individuale, il Sé maturo emerge quando viene interiorizzato il concetto di altro generalizzato, di modo che la comunità eserciti un controllo sulla condotta dei suoi membri, proprio perché - secondo Mead - occorre essere membro della comunità per essere un Sé28. Ed è proprio per mezzo del processo di auto - interazione che, nella 23 F. Lazzari, Persona e corresponsabilità sociale, Milano, 2007. 24 G. Rodari, Una scuola grande come il mondo, in Id., Il libro degli errori, Torino, 1997, pp.161 - 162. 25 Per un approfondimento sul tema si rimanda, tra gli altri, a: F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità…, op. cit. 26 www.interculturaldialogue2008.eu. 27 G.H. Mead, Mente, sé e società, Firenze, 1965, p.189. Sull’interazionismo simbolico di Mead si veda anche: R.A. Wallace, A. Wolf (1985), La teoria sociologica contemporanea, Bologna, 2000. 28 G.H. Mead, Mente, sé e società, op. cit., p.178. Corsivo dello scrivente. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 57 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) concezione dell’interazionismo simbolico, avviene «l’assunzione di ruolo dell’altro»: cioè la capacità di ogni individuo di mettersi nei «panni dell’altro». In questo senso la comunicazione, qui intesa come auto - interazione che trova nel «colloquio interiore» una delle sue più importanti manifestazioni, diventa lo strumento attraverso il quale vengono esaminati i fatti, si determinano i comportamenti e si assumono i ruoli29. È così infatti che l’individuo, una volta in grado di instaurare una interazione simbolica - ove i simboli significanti sono gesti che hanno un significato -, possiede il Me e l’Io oltre che poter «assumere il ruolo dell’altro» e interiorizzare «l’altro generalizzato»: è il processo attivo dell’individuo che fa emergere il Sé sociale30. In altre parole, parafrasando Maritain, si tratta di stabilire interventi efficaci per un’adeguata liberazione di risorse personali31 proprio al fine di far emergere quel tesoro nascosto di cui ciascuno è portatore32. 4. Identità personale e identità sociale: un processo che si costruisce nella dialettica e nel confronto In altre parole emerge il convincimento che le persone non sono meri «attori sociali portatori di una molteplicità di posizioni e obbligazioni socialmente condizionate», ma che è «l’identità personale a fondare quella sociale e non viceversa». «Il sociale è cioè normativo perché i soggetti che agiscono sono portatori di una normatività interna che è predeterminata rispetto al sistema e contemporaneamente interattiva con la normatività di questo»33. Ne risulta che l’identità non può essere una struttura stabile della personalità, 29 R.A. Wallace, A. Wolf, La teoria sociologica…, op. cit., pp.215 - 225. 30 G.H. Mead, Mente, sé e società, op. cit., p.178. 31 J. Maritain, L’educazione al bivio (1943), Brescia, 1989. 32 J. Delors (ed.), L’educazione, un tesoro sommerso (1996), Roma, 1998. 33 I. Colozzi, È possibile affermare la dignità della persona nella società post - moderna, in A. Pavan, Dire persona, Bologna, 2003, p.429. Vedasi anche: M.S. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Milano, 1997. issn 2035-584x «bensì un’entità che si forma e si trasforma continuamente nel processo di interazione sociale»34 e in cui l’altro può avere la funzione di conferma, di negazione o di disconferma (nel senso di ignorare) del Sé, di quel sistema di rappresentazione, cioè, in base al quale «l’individuo sente di esistere come persona, si sente accettato e riconosciuto come tale dagli altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di appartenenza»35. È su questa base che ciascuno può confrontarsi serenamente con l’Altro, senza conflittualità distruttive. È fuor di dubbio, come confermano anche i più recenti studi di sociolinguistica, che la relazione cultura - linguaggio riveste un’importanza fondamentale nella costruzione di un equilibrato processo di sviluppo della persona. Il linguaggio è infatti «il più potente mediatore di orientamenti di pensiero culturalmente condivisi»36, è il veicolo principale per la trasmissione della cultura essendo «creatore e organizzatore dell’esperienza» e «sistema di comunicazione che usa suoni o simboli con significati arbitrari ma strutturati»37. Come sostengono gli studi di Sapir e Whorf38 e quelli di Bernstein39, la natura della lingua influenza la visione del mondo e quindi ogni 34 Voce Identità, in F. Demarchi, A. Ellena, E. Cattarinussi, Nuovo dizionario di sociologia, Milano, 1987, p.971. Centro nazionale di documentazione ed analisi sull’infanzia e l’adolescenza, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento affari sociali, Un volto o la maschera? I percorsi di costruzione dell’identità. Rapporto sull’infanzia 1997: identità e diversità etnica. Sostenere l’identità etnica dei bambini stranieri (da Educazione interculturale, Corso di formazione Rai Lab). 35 Voce Identità, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., p.970. Sul concetto di «disconferma dell’altro» si veda in particolare: G. Mengon (a cura di), Emigrazione e lingua, Padova, 1980; Comune di Milano, Under 18. Leggere il presente, pensare il futuro, Milano, 2006. 36 M.T. Moscato, Verso una pedagogia interculturale, «Dirigenti e Scuola», 3, 1989, p.8. 37 N.J. Smelser, Manuale di sociologia, Bologna, 1987, pp.217 - 218. 38 B.E. Sapir, Culture, Language and Personality, Los Angeles, 1957; B. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, 1970; M. Arcangeli, Lingua e identità, Roma, 2007. 39 B. Bernstein, Class, Codes and Control, London, 1975, voll.3. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 58 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x attività mentale40. Il linguaggio, oltre ad essere uno strumento del pensiero e un oggetto culturale, è un organizzatore cognitivo dei dati dell’esperienza, un mezzo per stabilire rapporti sociali, un veicolo di esperienze razionali e affettive, di sentimenti, pensieri, emozioni. Il linguaggio assume quindi una sua precisa importanza, vedendo la comunicazione linguistica e non linguistica come uno dei modi di interazione tra individui e gruppi. Frequentemente, inoltre, si può rilevare la presenza di una stratificazione sociale che corre parallela alla stratificazione sociolinguistica41. E se è accettabile considerare il linguaggio come organizzatore dell’esperienza, ne discende che «il linguaggio, come la cultura nel suo complesso, porta a significati comuni», ove appunto la «comunicazione dipende dalla condivisione di significati accettati, usati e compresi da entrambe le parti»42. Se codici socio - linguistici e culturali comuni rinsaldano i legami tra chi li condivide, è altrettanto vero, però, che essi possono sottolineare la separazione, l’estraneità e l’alterità di chi non li pratica. È così quindi che un linguaggio comune, sostiene Hertzler43, presuppone anche un certo livello di coesione sociale: crea legami di comprensione e di simpatia, aiuta le persone a coordinare le loro azioni, stimola un senso di identità di gruppo, etc., come peraltro possiamo constatare nelle terre del litorale adriatico che parlano italiano. A ragione si può dunque dire che la cultura è l’anima di un popolo44 e che la lingua è lo strumento del pensiero45. La cultura è «il motore e il regolatore della crescita umana»46, né si può pensare vi possa essere sviluppo autentico di una società senza cultura47. La cultura è la risposta ai problemi che l’uomo incontra nel suo vivere48, ci ricorda l’autore della Pedagogia degli oppressi, il brasiliano Freire49. È «un sistema che fa comunicare (che dialettizza) un’esperienza esistenziale con un sapere costituito», sostiene Morin50. «La cultura è quel che aiuta lo spirito a contestualizzare, globalizzare e prevedere. Non è frutto di accumulo, ma è una forza che si auto - organizza: coglie le informazioni principali, seleziona i problemi di fondo, utilizza principi di intelligibilità che colgono i nodi strategici del sapere»51. È strumento analitico in grado di cogliere i processi dinamici che tendono a modificare non solo la composizione dei processi culturali, ma anche la loro stessa struttura pluralistica. Sempre secondo Morin la cultura non va quindi identificata o confusa con le culture. La cultura è un sistema di dinamiche di molteplici culture, ciascuna non omogenea. In altre parole la cultura, sostiene Bourdieu, è un campo dai circuiti specifici capaci di veicolare valori arcaici e valori moderni anche tra loro conflittuali. È un ‘sistema significante’ attraverso il quale un sistema sociale viene trasmesso, riprodotto, ‘sperimentato ed esplorato’. È cioè una nozione capace di porre in relazione le esperienze soggettive, la produzione e la pratica culturale52. 40 Per una più ampia riflessione: L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio (1934), Bari, 1998; F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), Bari, 1987. 41 E. Rigotti, Linguaggio, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi, Nuovo dizionario di sociologia, op. cit. 42 N.J. Smelser, Manuale di sociologia, op. cit., p.218. ����������������� J.O. Hertzler, A Sociology of Language, New York, 1965. 44 Viene presentato, riveduto e ampliato, quanto esposto in F. Lazzari, Alcune riflessioni su cultura, lingua italiana e identità. Il caso dell’area francofona, «Studi Emigrazione», 99, 1990, pp.411 - 436 e Id., Cultura e scuola italiana all’estero: Riflessioni a margine del convegno di Montecatini, «Studi Emigrazione», 121, 1996, pp.110 129. T. De Mauro, M. Vedovelli, La diffusione dell’italiano nel mondo e le vie dell’emigrazione. Retrospettiva storico istituzionale e attualità, Roma, 1996. 45 Nuovi programmi della scuola elementare, Dpr n.104 del 12.2.1985, in G.U. n.76 del 29.3.1985; C. Scurati, P. Calidoni, Nuovi programmi per una scuola nuova, Brescia, 1985. ������������� E. Pisani, La main et l’outil. Le développement du Tiers Monde et l’Europe, Paris, 1984. 47 T. Verhelst, Sud - Nord: il diritto dei popoli alla differenza (1987), Torino, 1989. ������������� R. Garaudy, Pour un dialogue des civilisations, Paris, 1977. 49 P. Freire, La pedagogia degli oppressi (1968), Milano, 1971; Id., L’educazione come pratica della libertà (1967), Milano, 1973/1975. 50 Citato da E. Minardi, Cultura, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., pp.640 - 641. 51 E. Morin (1994), I miei demoni, Roma, 1999, pp.47 - 48. 52 E. Minardi, Cultura…, in F. Demarchi, A. Ellena, B. Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., p.641. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 59 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Cultura è un pensare, ma è anche un sentire, ricorda Sgroi53. Essa permette il riconoscimento reciproco delle rispettive diversità culturali in vista di un universalismo culturale, di un codice di comportamento sovraculturale. Sarà proprio dal confronto, attraverso l’uso del pensiero critico, che potranno scaturire nuove risposte e nuovi scambi reciprocamente arricchenti, capaci di far tesoro dei processi di incontro - scontro fra culture . E tale confronto, che può leggersi anche come conflitto - sottolinea Rifkin - assume, forse soprattutto oggi, anche la dimensione della lotta tra globalità e culture locali, tra reale e virtuale, tra civiltà e mercato; e se si vorrà salvare la potenza di espressione dei significati condivisi, anche le reti commerciali e virtuali e le culture dominanti dovranno trovare una controparte nella realtà e nelle esperienze, e relazioni sociali e culturali specifiche, territorialmente definite54. Si abbraccia cioè una visione di cultura capace di non sottostimare tensioni e conflitti, ma che, orientata da un approccio globale e integrato, sappia attentamente studiare gli squilibri - equilibri che possono aversi quando, per esempio, un gruppo minoritario, generalmente subalterno e/o periferico, si incontra (o si scontra) con quello dominante e centrale55. Alla ideologia dell’uniformità, dell’etnocentrismo e del relativismo culturale più o meno mascherati si tratta cioè di sostituire la cultura del confronto, dell’incontro - scontro, dei processi sinergici tra culture e popoli, tutti indistintamente avviati sullo stesso cammino di umanizzazione dell’uomo e di autentica promozione di ogni individualità e di ogni diversità. Diversità che non è affatto da considerarsi come esclusiva manifestazione di opposizione, incomunicabilità o conflitto fra culture e 53 E. Sgroi, Dal mono - culturalismo al multi - culturalismo: conflitti, sfide e nuovi assetti, relazione alla V scuola internazionale ‘I problemi della nuova Europa’ su ‘Il Mediterraneo che produce civiltà’, 15 - 19 dicembre 1997, Gorizia, 1997. 54 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, 2000. 55 Unesco, Conférence mondiale sur les politiques culturelles, Messsico, 26 luglio - 6 agosto 1982, «Problèmes et Perspectives», Doc. Clt - 82/Mondialcult/3. issn 2035-584x civiltà differenti. Dalla diversità - come si può constatare da tante esperienze - possono scaturire ricchezza e nuovi impulsi di vita56. È questa la sfida, credo, che attende chi abita queste terre sul confine. Fare del confine il filo rosso che tesse, meticcia e integra e non la lama che divide. Francesco Lazzari, professore di Sociologia, di Sistemi sociali comparati e di Sociologia dell’educazione all’Università di Trieste, è direttore del Centro studi per l’America Latina (Csal) e della rivista elettronica Visioni LatinoAmericane (www2.units.it/csal). È autore di numerosi saggi tra cui si segnalano: L’attore sociale fra appartenenze e mobilità. Analisi comparate e proposte socio - educative, Padova, 2000/2008; Persona e corresponsabilità sociale, Milano, 2007; Le solidarietà possibili. Sistemi, movimenti e politiche sociali in America Latina, Milano, 2004; L’altra faccia della cittadinanza. Contributi alla sociologia dei processi migratori, Milano, 1994/1999. 56 F. Lazzari, Persona e corresponsabilità sociale, op. cit. Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo 60 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Minoranze e comunicazione transfrontaliera: il ruolo di Radio e TV Capodistria Antonio Rocco Abstract Parole chiave Relazione presentata nel corso della tavola rotonda sul tema Comunicazione e plurilinguismo nel processo di integrazione europea. Il caso del Litorale adriatico. La storia ed il ruolo di Radio e TV Capodistria e la loro inclusione nei progetti tesi a valorizzare la multiculturalità ed il plurilinguismo del territorio in cui operano. Radio Capodistria; TV Capodistria; Comunità nazionale italiana; TV Transfrontaliera. R adio e TV Capodistria operano nell’ambito dell’Ente pubblico radiotelevisivo della Slovenia (RTV Slovenia). Si rivolgono in primo luogo agli appartenenti alla Comunità nazionale italiana che vivono in Slovenia ed in Croazia ma sono molto seguite anche dal pubblico italiano. Emittenti di antica memoria, hanno contribuito a segnare un’epoca ed una pagina importante della radio-tele diffusione in questo nostro lembo d’Europa. Radio Capodistria inaugura i programmi il 25 maggio del 1949. La storia di TV Capodistria inizia, invece, l’8 maggio 1971. Già dal 1968 però si pensa alla realizzazione di programmi televisivi in lingua italiana, con “La Costiera”, in onda sulle frequenze della TV di Lubiana. Le trasmissioni di Radio Capodistria all’inizio sono in tre lingue: slovena, italiana e croata. Dopo la firma del Memorandum di Londra, Radio Capodistria si unisce, nel 1956, con Radio Lubiana e abolisce il programma in lingua croata. Data la sua efficacia commerciale (per decenni è stata una delle stazioni radio maggiormente seguite in Italia), il segnale è irradiato in zone sempre più ampie. Nel 1979 il programma sloveno e quello italiano iniziano a trasmettere su frequenze separate. Radio Capodistria è stata una delle prime emittenti bilingui in Europa. Nella storia di Radio e TV Capodistria si compendiano le vicende degli ultimi sessant’anni di queste terre di confine. Dal secondo dopoguerra in poi, Radio e TV Capodistria, anche se in contesti diversi, hanno sempre svolto un ruolo da protagonista. Scriveva il grande scrittore istriano Fulvio Tomizza, in una memoria pubblicata in occasione del quarantacinquesimo anniversario di Radio Capodistria dove iniziò la carriera artistica nei primi anni cinquanta: A Capodistria, il centro più grosso della Zona B del progettato Territorio Libero di Trieste, affidata all’amministrazione jugoslava, sorse nel 1949 nientemeno che una stazione radio con programmi in sloveno, in italiano e più limitatamente in croato. L’intento politico credo fosse stato quello di dar voce pubblica a un territorio che ancora non apparteneva allo Stato jugoslavo, ma lentamente vi si preparava, contro il volere della maggioranza della popolazione […]. I suoi programmi italiani venivano ideati e realizzati da un gruppo di persone quanto mai eterogeneo […]. L’ambiente via via si depurò […] subentrarono forze nuove provenienti dalle cittadine istriane già passate alla Jugoslavia col Trattato di pace del ’47, giovani sopravvissuti al Minoranze e comunicazione transfrontaliera 61 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x primo grande esodo che ormai figuravano quali rappresentanti del gruppo italiano in Istria, decisi a difendere i loro diritti di originari istriani divenuti minoritari. Con il secondo esodo del ’55, che riguardava proprio la Zona B, Radio Capodistria si accinse ad assumere un nuovo volto, a svolgere una funzione quasi del tutto inattesa. Affiancata da una rete televisiva, divenne espressione di quanto di italiano rimaneva in Istria, e insieme, e più ancora, punto di raccordo per una visione conciliativa dell’intero territorio giuliano, per una convivenza tra simili e tra diversi che da Pola si spingeva fino a Gorizia. (Radio Koper-Capodistria: 45 let/anni, a cura di M. Vidovich, Capodistria, 1994). Il Programma radiofonico e quello televisivo per la Comunità nazionale italiana (come sono definite oggi le due emittenti dalla Legge sulla Radiotelevisione Slovenia) attuano il diritto costituzionale della minoranza italiana all’informazione pubblica nella propria lingua materna ed ai contatti con la Nazione madre. Svolgono un ruolo importante anche negli scambi culturali e nei contatti del gruppo nazionale con il popolo di maggioranza. Contribuiscono all’informazione, alla conoscenza reciproca ed allo sviluppo dei rapporti di buon vicinato ed alla collaborazione in un’area di contatto fra tre nazioni diverse: Slovenia, Italia, Croazia. Radio e TV Capodistria costituiscono uno dei maggiori fattori integrativi della Comunità nazionale italiana. La legge prevede esplicitamente che svolgano il ruolo: - di tutela, mantenimento e sviluppo dell’identità culturale, linguistica e religiosa della Comunità nazionale, - di comunicazione, contatto della minoranza con la matrice nazionale e culturale, - di sviluppo della convivenza e di un clima sociale tale da favorire l’inclusione attiva della Comunità nazionale in un contesto più ampio e negli scambi culturali con il popolo di maggioranza, - di tramite per i contatti e lo sviluppo dei rapporti tra la società civile, le istituzioni statali e le amministrazioni pubbliche del territorio in cui vive la minoranza e lo spazio culturale, sociale ed economico degli stati vicini, - di inclusione della Comunità nazionale negli scambi culturali e nella cooperazione tra gli stati vicini. A queste emittenti è affidato il ruolo di servizio pubblico. Un compito difficile che però è svolto con grande professionalità. Prova ne sono i tanti attestati di stima ed i riconoscimenti pubblici di cui sono state insignite. Radio Capodistria trasmette 24 ore su 24, tutti i giorni. Il programma notturno, dalle 24 alle 6, è ripreso da Radio Slovenia International. TV Capodistria, invece, trasmette in media 9 ore e mezzo al giorno di programmi in lingua italiana. I trasmettitori sono tutti collocati in territorio sloveno e permettono di coprire, in Slovenia, l’area fino a Lubiana, gran parte del Friuli-Venezia Giulia e dell’Istria occidentale. Il satellite è una novità importante che proietta le Emittenti in un’ottica europea ed ha regalato numerosi nuovi ascoltatori, come l’Internet, grazie al quale è stato possibile riallacciare i legami con tanti istriani sparsi per il mondo. Il programma di Radio e TV Capodistria si fonda su alcuni punti fermi: primo fra tutti l’informazione. Di fondamentale importanza le proposte che interessano e riguardano l’attività del gruppo nazionale italiano nel suo complesso. Altro aspetto importante quello della cultura che, oltre ad essere costantemente presente nei telegiornali e nei giornali radio, si concentra ampiamente negli spazi periodici ad essa dedicati. Ci sono, poi, le trasmissioni d’intrattenimento e musicali e lo sport. Con l’entrata della Slovenia nell’Unione Europea, il ruolo di Radio e TV Capodistria, accanto a quanto già detto, ricerca ulteriori spazi e nuovi orizzonti, con argomenti e temi legati non soltanto alle minoranze che in questa regione vivono ed operano, ma anche con altre realtà minoritarie e non europee. Particolarmente importante, infine, la collaborazione fattiva e qualitativa con la Comunità radiotelevisiva italofona, di cui sono soci fondatori insieme alla RAI, alla Radiotelevisione della Svizzera italiana, alla Radio TV di San Marino ed alla Radio vaticana. Tra le iniziative più importanti di questa associazione il seminario internazionale “Italicità e media nei Paesi dell’Europa sudorientale”, svoltosi nell’ottobre del 2008 a Tirana, in Albania. Minoranze e comunicazione transfrontaliera 62 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Nei Programmi italiani di Radio e TV Capodistria lavorano una cinquantina di giornalisti ed altrettanti redattori ed altro personale di programma. Un centinaio, invece, i collaboratori esterni in Slovenia, Italia, Croazia ed in alcuni altri paesi europei. Radio e TV Capodistria sono una realtà importante, non soltanto a livello locale ma anche su scala europea. Dimostrazione ne sono i tanti progetti internazionali nei quali sono attivamente inclusi. Si parte dalla ormai decennale collaborazione con la sede Rai per il Friuli Venezia Giulia nel quadro del progetto bilingue della TV Transfrontaliera, per arrivare al più recente “Caleidoscopio istriano”, una rubrica radiofonica settimanale trilingue realizzata in collaborazione con le redazioni italiana e slovena di Radio Capodistria e quelle italiana e croata di Radio Pola. Per due anni di seguito Radio Capodistria ha poi trasmesso, nel contesto del progetto “Etnoblog” di Trieste, “Colors”, una trasmissione che ha l’obiettivo di promuovere l’integrazione delle persone migranti e straniere attraverso lo sviluppo di forme di comunicazione e informazione attenente al dialogo interculturale. Tra le iniziative riconducibili al processo di integrazione europea anche la trasmissione, sempre da parte di Radio Capodistria, dei servizi dell’Agenzia Euroregione news di Udine e le informazioni sul traffico nel Nord-Est italiano “Viaggiando”. Radio e TV Capodistria sono impegnate negli ultimi anni anche nella realizzazione di documentari, in lingua italiana e slovena, sui personaggi di spicco dell’area transfrontaliera sloveno-italiana-croata e sui luoghi e le tradizioni delle minoranze italiana e slovena, documentari che sono trasmessi oltre che dalle stesse emittenti capodistriana anche dai programmi nazionali di Radio e TV Slovenia e da quelli della sede RAI per il Friuli Venezia Giulia. Nello spirito della multiculturalità e del plurilinguismo sono stati celebrati nel 2009 anche i sessant’anni di Radio Capodistria, con un convegno presso l’Università del Litorale e con due concerti, il primo di due musicisti istriani, Tamara Obrovac e Dario Marušić, ed il secondo di Eugenio Finardi e del cantautore sloveno Jani Kovačič. L’“avventura” di Radio e TV Capodistria, iniziata tanti anni fa, continua oggi grazie alla professionalità di coloro che ci lavorano ma anche e soprattutto grazie al sostegno dei tanti amici che, nonostante le avversità, continuano a seguirle e ad apprezzarle. Ciò conferma la bontà del “progetto” ma anche l’esigenza del territorio di avere emittenti credibili che attraverso l’ottica delle minoranze proiettano un’immagine molto più complessa della società in cui viviamo. Minoranze e comunicazione transfrontaliera 63 Antonio Rocco, vice Direttore Generale della RTV Slovenia per la Radio e la Televisione per la Comunità nazionale italiana autoctona [email protected] Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico * Giorgio Rossetti L ’incontro odierno propone un obiettivo tanto semplice da enunciare quanto arduo e complesso da conseguire: come la comunicazione possa agevolare un percorso di integrazione tra popolazioni di lingua, cultura e tradizioni diverse, che hanno vissuto momenti di contrapposizione anche aspra, violenta, quali li abbiamo conosciuti in quest’area. Prima di tentare una risposta, credo sia opportuno definire a grandi linee lo scenario più generale in cui si sono inserite e tuttora insistono le vicende di casa nostra. Certo, con le loro specificità, ma che a ben vedere non sono anomale rispetto al quadro generale. Parto da lontano, senza dilungarmi e dunque senza pretesa di completezza. In questi ultimi cinquant’anni in Europa si è prodotta una rivoluzione silenziosa che senza grandi sommovimenti ha completamente cambiato il rapporto fra Stato e individuo. In un recente convegno a Trieste1, Diego Marani, scrittore, vincitore di vari premi letterari, tra cui un Campiello, e responsabile dell’Unità “multilingualism policy approach to intercultural dialogue and social inclusion” della Direzione Cultura, Multilinguismo * Il presente articolo è l’intervento, rivisto per la presente pubblicazione, alla Tavola Rotonda “Comunicazione e pluringuismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico” tenutasi a Trieste il 30 ottobre 2009. 1 D. Marani, La cittadinanza consapevole e l’integrazione tra culture nell’Europa senza frontiere relazione svolta il 24 aprile 2009 nel quadro del corso Problemi della democrazia italiana nell’era della globalizzazione e dell’integrazione europea, promosso dal Centro studi Dialoghi Europei e Laboratorio democratico Bruno Pincherle. e Comunicazione della Commissione europea, aveva modo di affermare: “Fino alla Seconda Guerra Mondiale, l’appartenenza culturale e sociale si definiva sulla base della nazionalità e della lingua, entrambi elementi fondatori dello stato nazione. L’ideologia che la nutriva era sfociata poi nei nazionalismi devastatori della prima metà del Novecento”. Gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali non sono bastati a disperdere completamente questi riferimenti così profondi, ma ha avuto inizio una diffidenza nei loro confronti che nel corso degli ultimi decenni ha portato progressivamente all’indebolimento dello stato nazionale. L’internazionalizzazione dell’economia, o globalizzazione, la dimensione sovranazionale di alcuni fenomeni (l’ambiente, i flussi migratori, il terrorismo internazionale) hanno gradualmente reso lo stato nazionale inadatto ad affrontare i grandi problemi della modernità e sollecitato il rafforzamento e l’allargamento dell’Unione. Oggi lo stato nazionale attraversa la più grave crisi della sua bicentenaria esistenza: ha perso il controllo dell’economia, della moneta, della stessa difesa e come ogni fenomeno della storia sotto minaccia di estinzione, quando è incapace di trasformarsi si irrigidisce nelle sue contraddizioni. Ciò è tanto più evidente nei paesi che hanno acquisito più recentemente –dopo l’89 – la titolarità statale. Ora questo disorientamento dell’istituzione che più di ogni altra ha caratterizzato la storia moderna, causa confusione e incer- Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico 64 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x tezza, suscita paure e fomenta sentimenti aggressivi, di chiusura e di pregiudizio. La crisi economica che ha investito il mondo intero nell’ultimo anno e le mancate risposte hanno fatto il resto. Il cittadino disorientato cerca altri livelli di appartenenza, diffida della dimensione europea troppo lontana, vissuta come estranea, ostile, burocratica e ripiega sui localismi e regionalismi, recupera i dialetti e le lingue locali. Malgrado la libertà di circolazione, ognuno resta a casa propria, l’integrazione stenta, segna il passo: gli europei non si parlano e non si conoscono. Le frontiere cadono sulla carta, ma permangono nelle menti. A questo si deve aggiungere un’immigrazione che percependo la debolezza dello Stato che la ospita e l’ostilità alla sua integrazione, si rifugia nella propria identità in cui spesso la fede religiosa è centrale. In questo clima, il rischio di rigurgiti nazionalisti e di tensioni xenofobe è sempre latente. Abbiamo avuto modo di verificarlo anche a Trieste qualche tempo fa, o sul Carso sloveno, a Corgnale. Perché di questo veleno, dice Miran Kosuta, nessuno è immune. “Nemmeno noi sloveni, per quanto esigui di numero, facciamo eccezione. Di qua e di la del confine, a Trieste come a Lubiana, si stanno percuotendo il petto non pochi Tarzan nazionali. Mi spaventa il loro acuto, metà scimmiesco metà operettistico che potrebbe ridestare gli odii sopiti, le passioni represse, le oscure follie della giungla etnica”2. Per entrare nello specifico delle questioni di casa nostra, io temo che in questo clima Trieste, Capodistria, l’Istria intera rischiano di giocarsi la notevole chances che proprio l’Europa ha dato loro con l’allargamento: quella di essere l’avamposto strategico per l’integrazione dei Balcani occidentali e di essere già ora il cuore della nuova Europa. Quella di domani, non quella di ieri della Mitteleuropa. Altri sono i presupposti, oggi! Non mi riferisco tanto all’economia, quanto piuttosto all’integrazione delle diverse culture che qui, in questo particolare crocevia, si incontrano e si confrontano. E’ qui che le diverse identità, pur salde, tuttavia sfumano per integrarsi linguisticamente, culturalmente l’una con l’altra. Da un tassello identitario si passa ad un altro senza soluzione di continuità. Cito ancora Diego Marani: “Ogni volta che lasciavo casa per ritornare a Trieste, avevo la sensazione di attraversare via via diverse sfumature di italianità. Dalla mia italianissima Ferrara, sentivo già dopo Venezia che qualcosa cominciava a cambiare. Più mi avvicinavo al confine orientale, più l’italianità mutava, raggiungendo l’apice di rarefazione proprio a Trieste”3. “Questo era il luogo di massima estraneità, non più Italia, non ancora altrove. Ma ugualmente, oltre confine non mi veniva incontro una slavità netta. Anche lì era uno sfumare, sempre più intensamente sloveno viaggiando verso nord, istriano e dalmata viaggiando verso sud, ma diversamente croato viaggiando verso est. Come non rendersi conto che tutte le frontiere hanno questa ineguagliabile ricchezza? E soprattutto perché per secoli abbiamo voluto distruggerla? Questo prezioso ecosistema di popoli e di lingue è il nostro avvenire.” E così concludeva “Voi che avete il privilegio di viverci, sappiate conservarlo”. E’ del tutto evidente che su questo terreno le minoranze nazionali giocano un ruolo decisivo: sempre che si ammetta la loro soggettività ad esercitarlo e dunque cominciando col riconoscerle. Difficile ammettere questo ruolo, se si è accecati dal nazionalismo e dai pregiudizi sulla superiorità di una cultura rispetto all’altra, di cui peraltro nulla si sa perché nulla si vuol sapere. Devono passare oltre 50 anni perché i libri di Boris Pahor vengano letti in Italia, ma non perché suggeriti da noi triestini, bensì perché importati dalla Francia. In realtà così facendo noi neghiamo noi stessi, la nostra peculiarità triestina, che di questa commistione è fatta. Ha ragione Claudio Magris quando a proposito degli sloveni di casa nostra, li definisce un “nostro Doppio” “un alter ego rimosso, osteggiato, temuto, respinto, che si colloca al di là di una linea d’ombra raramente attraversata”. “Una mancanza – conclude Magris – che ha impedito a tutti noi, non solo agli sloveni, 2 M. Kosuta, Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, Reggio Emilia, 2005. 3 La cittadinanza consapevole e l’integrazione tra culture nell’Europa senza frontiere, vedi nota n.1. Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico 65 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) di sentirci e dunque di essere a casa nel nostro mondo, di vivere questa terra di frontiera come una casa natale in cui sentirsi armoniosamente familiari, ossia fratelli”4. L’occasione per questa bella riflessione di Magris è il libro di Miran Kosuta, Slovenica che ci offre il punto di vista del Doppio, del nostro alter ego di lingua slovena. Kosuta parla ad un certo punto di una “molteplice identità che segna indelebilmente ogni uomo di frontiera”. Usa il singolare per definire l’identità. Che è composita: io sono questo, ma in me c’è anche qualcosa dell’altro. In questo c’è la specificità della mia identità di frontiera. E ciò vale per noi tutti, non solo per gli sloveni. Anche quando Kosuta riflette sulla condizione più specifica di uomo della minoranza c’è qualcosa che ci riguarda, si ha la sensazione che dica cose non del tutto estranee anche a noi triestini di lingua italiana. “Qui, nella terra di nessuno, tra la mia cultura e quella confinante, trovo patria; fiorisce la mia unicità; da qui si inarcano i ponti verso l’una e l’altra delle sponde; qui sono – uomo di minoranza – veramente me stesso”5. Ma non è forse vero che anche noi, triestini di lingua italiana, solo qui finiamo per essere veramente noi stessi? Non è forse vero che a Roma, a Milano, a Bologna percepiamo la tranquilla identità nazionale dei nostri interlocutori come qualcosa di diverso dalla nostra identità composita, molteplice, irrequieta? E non è forse vero che ugualmente i nostri interlocutori percepiscono questa diversità e leggono la triestinità come un’identità specifica? Dovremmo cercare di superare la retorica della Trieste italianissima e delle altrettanto italianissime terre perdute dell’Adriatico. Non perché si debba disconoscere l’italianità, ma perché qui siamo qualcosa anche di più. La casa natale comune di cui parla Magris vale per gli italiani e gli sloveni di Trieste e vale per gli italiani, sloveni e croati dell’Istria, che in passato hanno saputo trovare un’armonia ed un equilibrio di rapporti senza rinnegare la propria identità ma integrandola con le altre, facendola diventare l’identità molteplice di Kosuta. 4 Claudio Magris, Introduzione a M. Kosuta, Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, cit. 5 Miran Kosuta, opera citata. issn 2035-584x Forse non era tutto oro, forse in parte è stata mitizzata nei ricordi di stagioni giovanili e più serene. Anche la letteratura può risentire della nostalgia. Certo è però che è stato il nazionalismo, ovvero i nazionalismi contrapposti, l’offesa dell’uno e la rivalsa dell’altro e la spirale senza fine che si è avviata, a distruggere tutto questo. Ecco perché oggi inquieta la serpeggiante tentazione di ritorno alle politiche di stato nazionale e lo scarso interesse per l’Europa; e allarmano i tentativi di incidente sul confine, con l’avvallo di uomini di governo. Questa è una terra in cui tre lingue, tre culture hanno saputo intrecciarsi, comprendersi, integrarsi senza che nessuna rinunciasse alla propria identità e – almeno per un periodo – senza che nessuna pretendesse di prevalere sull’altra. Molte cose sono cambiate tragicamente quando questo equilibrio quasi magico si è rotto e qualcuno ha preteso di essere non solo superiore agli altri ma l’unico soggetto titolato a dettare le regole, a imporre la propria lingua e la propria cultura. Ci basta ed avanza il prezzo fin qui pagato. Oggi dobbiamo tornare a parlare, a comunicare. E non è compito solo dei media, ma anche dei singoli, di ciascuno di noi. Comunicare in queste terre significa conoscersi e riconoscersi, accettarsi; forse sarà difficile parlare bene la lingua dell’altro, ma almeno dovremmo cercare di capirla, avere la curiosità di conoscerne le opere, l’ambiente culturale in cui maturano. Sono lustri che si parla di una TV senza confini, che ci faccia conoscere la realtà sociale e culturale di un’area plurima, che tuttavia rappresenta “in piccolo” la nuova Europa, quella delle cultura latina, sassone, slava. Quando arriverà, con programmi comuni per i territori di quella che vorremmo fosse l’Euroregione? Questo dovremmo avere l’ambizione di divenire: un laboratorio della nuova Europa. Abbiamo molte opportunità: ne avremo la forza e la volontà? Giorgio Rossetti, Presidente del Centro studi Dialoghi Europei Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico 66 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Informatica e retorica forense Paolo Moro Federico Puppo * Abstract In questo scritto, affronteremo alcune questioni relative al rapporto fra informatica e retorica forense, assumendo la centralità dell’esperienza processuale e della retorica, che è la logica sua propria. Ci occuperemo pertanto della topica – con riferimento all’informatica giuridica documentaria e alle possibile prospettive di sviluppo aperte dalla logica fuzzy –, interrogandoci nel contempo sulla struttura dialettica del processo – con riferimento al processo penale ed alle problematiche della computer forensic science. In tal modo, cercheremo Introduzione I n questo scritto affronteremo alcune questioni relative al rapporto fra informatica e retorica forense. Prima di entrare nel merito della questione, appaiono tuttavia necessarie alcune precisazioni volte, da una parte, a circoscrivere il campo della nostra indagine e, dall’altra, a chiarire lo sfondo filosofico-giuridico da cui muoveremo. Senza poterne in questa sede discutere, ci limitiamo ad enunciare che la prospettiva che ci appartiene discende dagli studî e dalle ricerche di Francesco Cavalla1, che vede nella retorica forense * Il saggio è frutto della collaborazione dei due Autori; si precisa, comunque, che i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti esclusivamente da Paolo Moro ed i restanti da Federico Puppo. 1 Tra le recenti pubblicazioni del quale di vedano F. Cavalla, voce Logica giuridica, in: “Enciclopedia filosofica”, 7, Milano, 2006, pp. 6635-6638; Id., Retorica giudiziale, logica e verità, in: Id. (a cura di), Retorica processo verità. Principî di filosofia forense, Milano, 2007, pp. 1784, cui ci sia concesso rimandare per ogni ulteriore approfondimento. Informatica e retorica forense di evidenziare, in modo critico e problematico, i nuovi orizzonti dischiusi dall’utilizzo di strumenti informatici all’interno dell’esperienza processuale. Parole chiave Informatica; Esperienza processuale; Retorica forense; Topica; Dialettica; Logica fuzzy. la forma peculiare in cui si declina la logica giuridica e la più idonea a garantire l’accertamento della verità. Ove per “verità” va intesa la conclusione non ulteriormente contraddicibile del confronto dialettico che le parti instaurano, nel processo, di fronte ad un soggetto terzo. In questo senso, per quanto ci riguarda, l’esperienza processuale è ciò che costituisce (ben più ed oltre il mero dettato normativo) il proprium del diritto2: e come si vedrà, 2 Anche in questo caso ci sia consentito rimandare, a titolo meramente esemplificativo, a F. Cavalla La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991 e P. Moro, La via della giustizia. Il fondamento dialettico del processo, Pordenone, 2001, che raccolgono la tradizione di pensiero che è passata attraverso la lezione di Sergio Cotta, Giuseppe Capograssi ed Enrico Opocher [si veda su ciò M. Manzin, Del contraddittorio come principio e come metodo/On the adversarial system as a principle and as a method, in Id., F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola/“Audiatur et altera pars”. The due process between principles and rules, Milano, 2008, pp. 3-21: 10 ss., che ci ricorda come, nel plesso indissolubile di retorica e dialettica, il contraddittorio appare, “più che una regola processuale, vero e proprio principio dell’ordinamento” (ibidem, p. 13; corsivo dell’Autore)]. 67 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) è da una problematica prettamente processuale che prenderemo le mosse del nostro intervento. L’intento di quest’ultimo è evidenziare le problematiche connesse all’utilizzo di strumenti informatici all’interno del contesto processuale, cercando ci comprendere se ed in che misura l’informatica sia compatibile con la forma di sapere classico che va sotto il nome di retorica (e che comprende la topica, la dialettica e la retorica propriamente detta3). In questo senso, tralasceremo questioni prettamente tecniche (non ci occuperemo, ad esempio, dei modelli dell’argomentazione con riferimento alle applicazioni dell’intelligenza artificiale4), che potranno essere affrontate solo una volta che sia stato chiarito in che misura l’utilizzo di strumenti tecnologici influisca, a volte anche in modo non manifesto, sulla forma retorica del contraddittorio. Dal nostro punto di vista non si tratta quindi soltanto di comprendere in che modo sia possibile sviluppare tecnologie informatiche, ma piuttosto riflettere sull’impatto che esse dispiegano sull’esistente: ciò in quanto – anche questo è bene esplicitarlo sin da subito – non crediamo affatto che scienza e tecnica siano strumenti neutrali rispetto alla realtà cui vengono applicate5. Un tanto chiarito (compatibilmente con lo spazio a disposizione), possiamo volgere la nostra attenzione al processo: inizialmente ci occuperemo della fase volta al rinvenimento degli argomenti, che va sotto il nome di topica e che implica l’utilizzo delle banche dati; di poi, riguardando il processo penale e la computer forensic science, cercheremo di vedere 3 Si veda su questo, oltre ai riferimenti contenuti alla n. 1, F. Cavalla, voce Topica giuridica, in: “Enciclopedia del diritto”, XLIV, Milano, 1992, pp. 720-739, che chiarisce i limiti di tutte quelle visioni contemporanee (tipicamente la “neoretorica” del Perelman e la “topica giuridica” del Viehweg) le quali, scindendo la retorica e la topica dalla dialettica, non sono in grado di comprenderne il valore aletico. 4 Per questi profili si rimanda, fra le altre, all’analisi di D. Tiscornia, Il diritto nei modelli dell’intelligenza artificiale, Bologna, 1996, in part. pp. 197 ss. 5 Ai fini di questo saggio usiamo “tecnica” e “tecnologia” in modo indifferente; sulla questione della non-neutralità della scienza e della tecnica si segnala, con riferimento a tematiche proprie anche del processo, il recente lavoro di F. Macioce, Il processo nell’era digitale. Problemi e prospettive, in: P. Moro (a cura di), Etica Informatica Diritto, Milano, 2008, pp. 114-130. Informatica e retorica forense issn 2035-584x come l’informatica applicata al processo possa influire sulla sua natura dialettica e sulla sua logica retorica6. 1. Topica e informatica forense Con l’espressione “topica giuridica” si intende definire precisamente l’arte di rinvenire (topiké téchne, ars inveniendi) un repertorio di luoghi argomentativi (tópoi o loci), come le norme di legge oppure le massime della giurisprudenza, che l’avvocato e il magistrato sono chiamati ad utilizzare come premesse del discorso giuridico nell’approntamento dell’atto processuale7. La topica giuridica si manifesta nella contemporanea era digitale come metodologia di preparazione ed elaborazione informatica del discorso giudiziario e si propone come fondamento logico dell’attività di recupero di argomenti da usare nel processo da parte di avvocati e magistrati mediante l’uso di programmi informatici o telematici di ricerca elettronica automatizzata (information retrieval). L’ambito specifico della topica forense, che caratterizza oggi la vita quotidiana degli studi legali e dei tribunali, nei quali si è ormai affermato definitivamente l’uso del personal computer, riguarda la cosiddetta “informatica giuridica documentaria” che, nella predisposizione degli atti in cui si articola il dibattito giurisdizionale, consente all’avvocato oppure al magistrato la ricerca dei tópoi (rintracciabili, per esempio, nella giurisprudenza, nella legislazione e nella dottrina) adatti a supportare le tesi sostenute in giudizio oppure a contraddire le tesi esposte dall’avversario. Non è contestato che la fondazione classica della topica nella storia del pensiero occidentale risalga ad Aristotele, nell’opera del quale le fina6 Segnaliamo come altri profili del rapporto fra applicazioni informatiche e processo penale siano stati indagati in F. Puppo, Alcune riflessioni sui limiti della c.d. giustizia automatica. L’esempio del decreto penale di condanna, in: P. Moro (a cura di), Etica Informatica Diritto, cit., pp. 152-192. 7 Sulle origini e sugli sviluppi della topica nella metodologia dell’argomentazione forense, cfr. F. Cavalla, voce Topica giuridica, cit., nonché Id., Dalla “retorica della persuasione” alla “retorica degli argomenti”. Per una fondazione logica rigorosa della topica giudiziale in: G. Ferrari, M. Manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, Milano, 2004, pp 25-81. 68 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) lità della topica sono quantomeno tre e ricalcano le funzioni della dialettica e della retorica le quali, per la formulazione delle premesse dei ragionamenti sillogistici che le qualificano, si valgono precisamente di luoghi (tópoi). All’inizio dell’ottavo libro dei Topici, Aristotele afferma che, per la formazione di un discorso argomentato dialetticamente, bisogna: a) ricercare i luoghi notevoli da cui prendere le mosse per il proprio attacco e, dunque, che siano capaci di resistere al domandare critico; b) ordinare gli argomenti ritrovati attraverso il vaglio critico di domande e di risposte; c) comunicare persuasivamente all’uditore una opportuna selezione dei tópoi adeguati al caso pratico8. Differentemente da quanto accadrà nella logica moderna, questa ricorrente e accomunabile triplicità di aspetti della metodologia dell’argomentazione viene pensata da Aristotele in una prospettiva globale, nella quale la topica assume una funzione soprattutto euristica, presentandosi originariamente come una via non precostituita di ricerca dell’argomentazione, pur possedendo anche uno scopo organizzativo e un’utilità pratica nella formazione del discorso in generale e di quello giuridico in particolare. a) Topica e ricerca. La possibilità di rinvenire tramite il computer le premesse utili per organizzare non solo il discorso in generale, ma anche quello giudiziario in particolare, si affida tradizionalmente al reperimento di enunciati puramente affermativi o confermativi della tesi che si vuole difendere, reperimento reso maggiormente rapido dalla consultazione di archivi informatici o telematici. Invece, la capacità dialettica di ritrovare argomenti (norme di legge oppure sentenze) utili per il processo implica per sua natura l’azione della confutazione e la soggezione ad essa. Ne consegue che la topica informatizzata ispirata alla dialettica richiede che gli argomenti rintracciati nelle banche dati giuridiche non solo siano opponibili a quelli sollevati o sollevabili dalla controparte nel processo per negarne la fondatezza, ma anche siano sottoposti alla critica che caratterizza per natura il dibattito giurisdizionale. 8 Cfr. Aristotele, Topici, VIII, 1, 155 b. Informatica e retorica forense issn 2035-584x Pertanto, in questa prospettiva dialogica, la ricerca elettronica dell’informazione giuridica non è completamente automatizzata né puramente casuale, ma si organizza liberamente e, anche se resa più veloce dal dispositivo informatico, rimane faticosa e complessa, implicando un’abilità che si acquista solo con l’esercizio. Una tale libertà critica, certamente riferibile alla topica aristotelica, si realizza nel modo migliore nell’informatica giuridica documentaria con l’accesso alla rete telematica. b) Topica e ordine. Nella sua funzione organizzativa, la topica giuridica classica non si identifica in una griglia formale e precostituita di concetti fondamentali dai quali desumere conseguenze certe, come accade nella concezione razionalistica moderna visibile anche nell’informatica giuridica documentaria, ma presuppone che la premessa rinvenuta nella ricerca abbia carattere dialogico, essendo sempre destinata ad una possibile contestazione, del tutto analoga a quella che avviene durante i dibattiti giudiziali. La libertà della ricerca della documentazione giuridica si mostra così pienamente soltanto nella rete telematica, che non è una base di dati organizzata e predeterminata, e consente di individuare previamente soltanto una schema critico dell’indagine. Infatti, la ricerca di luoghi argomentativi alternativi (per esempio, una giurisprudenza oscillante) e l’impossibilità di prevedere completamente le obiezioni della controparte o la decisione del giudice esigono di riferirsi allo schema del dialogo e del suo estrinsecarsi nel processo: il contraddittorio. Pertanto, lo schema relazionale della topica giuridica euristica orienta l’indagine telematica delle fonti quando, in forma elementare, seleziona dati disomogenei tra loro, apparentemente disorganizzati e privi di un filo conduttore, distinguendoli in un ambito comune. È quanto accade quando si consulta un qualsiasi motore di ricerca presente in Internet tramite parole chiave (keywords) e si ottiene una griglia di lettura formale che non è completamente precostituita dal programmatore, ma richiede almeno in misura minima l’intervento sogget69 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) tivo dell’operatore, quasi in contraddittorio con la rete: sicché, in un unico spazio di ricerca, questa via telematica offre l’opportunità di organizzare argomenti preesistenti in una sorta di catalogo euristico che, come si evince dal risultato dell’interrogazione, può indicare anche combinazioni concettuali, funzionando come un registro di soggetti (thesaurus). È vero che l’archivio digitale che costituisce la base del motore di ricerca si fonda sulla preliminare e costante ricerca operata dagli agenti di navigazione (spiders) i quali, per ogni pagina web, salvano parte del contenuto e il relativo collegamento in un catalogo indicizzato che definisce così il campo dell’indagine, ma è anche innegabile che questi limiti non infrangono la finalità organizzativa della topica euristica, giacché l’indicizzazione è in continuo aggiornamento e l’utente, una volta effettuata una ricerca, trova automaticamente solo un elenco di risultati in ordine numerico di rilevanza ed è chiamato in ogni caso ad approfondire la consultazione. c) Topica e repertorio. La funzione pratica della topica aristotelica si mostra nella ricerca e nell’istituzione di repertori argomentativi persuasivi con la raccolta di tesi difficilmente attaccabili e adeguate al singolo caso concreto nello specifico contesto del processo con l’utilizzazione della rete telematica. La selezione delle informazioni giuridiche utilizzabili nel discorso processuale costituisce la via che può essere percorsa sviluppando la tecnologia dei meta-motori di ricerca, che inglobano il lavoro svolto dai motori di ricerca accrescendo le potenzialità dell’interrogazione, ed elaborando i programmi che consentono di eseguire operazioni di filtro (filtering) dei dati ritrovati individuando aspetti simili di premesse opposte: quest’ultima evenienza si verifica all’interno di una base di dati quando si cerca una decisione che compone un precedente contrasto di giurisprudenza. Si risponde così dialetticamente all’esigenza pratica, avvertita già da Aristotele, di preparare per la discussione forense gruppi organizzati di argomenti che possano essere “universali”, cioè di utile applicazione in casi diversi. Informatica e retorica forense issn 2035-584x Peraltro, quando la ricerca digitale è il più possibile vicina alla completezza e, dunque, appare più precisa, il risultato di essa risulta non solo difficilmente contestabile, ma anche più adeguato al singolo caso controverso. In concreto, la precisione della giurisprudenza reperita in modo anche vago sia in una singola banca dati che, più generalmente, nella rete telematica aumenta quando la ricerca viene eseguita non su informazioni già selezionate o filtrate dal programmatore (come la massima della sentenza), ma più liberamente sull’intero testo (full text) disponibile (come la motivazione integrale della decisione). In questa prospettiva culturale dell’informatica giuridica, che appare obiettivamente prossima all’autentica logica forense, si coniuga la formalizzazione di sistemi esperti di intelligenza artificiale applicata al diritto con modelli argomentativi fondati su conoscenze sempre obiettabili o invalidabili, da considerare certe fino al prevalere di punti di vista contrari9. 2. Topica, informatica giuridica e logica fuzzy Un impulso alla topica giuridica telematica nell’attività di interpretazione ed amministrazione della controversia, che è inevitabilmente la vera radice dell’esperienza giuridica, può provenire dalla logica fuzzy che, a differenza dei tradizionali programmi cibernetici di intelligenza artificiale fondati sulle regole della conversione binaria, presuppone risultati sfumati e che si sovrappongono tra loro. La logica sfumata o fuzzy condivide con le metodologie dell’argomentazione, tra le quali la dialettica e la retorica, la convinzione che non sia possibile ottenere (e sia controproducente cercare) una formalizzazione del linguaggio, tale che ad ogni termine sia assegnato un significato rigorosamente univoco10, sicché anche le scienze esatte devono confrontarsi con 9 Cfr. G. Sartor, Intelligenza artificiale e diritto: un’introduzione, Milano, 1996, pp. 116-117. Più ampiamente, cfr. H. Prakken, Logical Tools for Modelling Legal Argument: a Study of Defeasible Reasoning in Law, Dordrecht, 1997, nonché Id., G. Sartor, Logical Models of Legal Argumentation, Dordrecht, 1997. 10 Cfr. F. Puppo, Per un possibile confronto fra logica fuzzy e teorie dell’argomentazione, in: “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, 2, 2006, pp. 221-271. 70 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) la vaghezza, essendo impossibile eliminare in tutti i discorsi e, a maggior ragione, nell’interpretazione giuridica, la polivalenza di senso e di significati che le espressioni linguistiche intrinsecamente recano11. Questa logica sfumata, che accoglie la vaghezza nel linguaggio come principio essenziale, presenta una felice ambiguità di fondo probabilmente utile per l’informatica forense, poiché, da una parte, essa si ricongiunge alla propria origine analitica ma, dall’altra, si avvicina alla dialettica. Infatti, come dimostrano applicazioni tecnologiche anche sofisticate dell’età contemporanea, la logica fuzzy continua ad obbedire al pregiudizio ipotetico ed assiomatico del metodo analitico, perché si realizza nei sistemi informatici attraverso la costruzione di un algoritmo programmato su un calcolatore digitale convenzionale, contemplando tuttavia una componente soggettiva, consistente nella traduzione numerica della vaghezza12. Tuttavia, è possibile accostare il giudizio di mediazione dialettica al risultato del ragionamento fuzzy attraverso l’elaborazione di programmi flessibili di informatica giuridica decisionale che tentino di evitare l’illusorio automatismo della giustizia cibernetica. In particolare, l’informatizzazione della composizione della disputa forense, che implica la formalizzazione della dialettica13, potrebbe essere realizzata selezionando gli aspetti comuni che, tra le opposte pretese, sono espressamente indicati dalle parti durante il processo e che consentono al giudice di accertare nella sentenza gli elementi di fatto e di diritto inopponibili e, dunque, pacifici per entrambe le parti della contesa. Per esempio, quando nel processo civile il convenuto in giudizio non contesta alcune delle ragioni di fatto dedotte dall’attore, tali elementi devono essere considerati pacifici e, dunque, comuni a entrambe le parti della 11 Cfr. C. Luzzati, La vaghezza delle norme: un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990. 12 Cfr. F. Puppo, Per un possibile confronto fra logica fuzzy e teorie dell’argomentazione, cit. 13 D. Marconi (a cura di.), La formalizzazione della dialettica. Hegel, Marx e la logica contemporanea, Torino, 1979. Informatica e retorica forense issn 2035-584x disputa, con obbligo per il giudice di accertare tali ragioni nella decisione che, su tale punto, è una mediazione. 3. L’informatica nel processo penale: la prova digitale La diffusione dei computer, della rete Internet e della posta elettronica ha portato il mondo digitale direttamente sulla scena criminis: le tecnologie digitali, infatti, possono essere sia strumenti per compiere un reato, sia le “vittime” di un reato, sia contenere le prove della commissione di un reato. Il diritto penale ha così dovuto confrontarsi con nuove figure di reato e, allo stesso tempo, la procedura penale ha dovuto fornire le regole per regimentare istituti che, toccati dalle nuove tecnologie, hanno mutato la propria natura. Ad esempio, ci si riferisce qui al campo delle c.d. prove digitali: vale a dire quegli elementi idonei ad accertare il reato che siano non solo da ricercare nei più vari supporti di memorizzazione dei dati informatici, ma siano da essi stessi costituiti. In via più generale, in questo contesto si parla comunemente di computer forensic science, “[which] is the science of acquiring, preserving, retrieving, and presenting data that has been processed electronically and stored on computer media”14. Come chiarisce fra gli altri Gerardo Costabile, Computer Crime Analyst della Guardia di Finanza di Milano, quello delle prove digitali è il settore in cui operano i cyber-investigatori, incaricati dagli Uffici del Pubblico Ministero di ricercare le tracce elettroniche ed informatiche della commissione di un delitto. La questione presenta aspetti tutt’altro che risolti, ma che qui ci dobbiamo limitare a menzionare: non esiste una normativa chiara che regoli questa fase istruttoria, non esistono indirizzi giurisprudenziali concordi, non esiste una standardizzazione delle procedure a livello operativo, venendo a mancare quella best practice della scienza cui occorre far riferimento in presenza di nuove prove scientifiche, come di certo sono quelle di cui qui stiamo trattando. ����� M.G. Noblett, M.M. Pollitt, L.A. Presley, Recovering and Examining Computer Forensic Evidence, 2000, p. 2, www.fbi.gov: Sito consultato il 08/04/2008. 71 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Non esistendo neppure una chiara definizione di “traccia elettronica o informatica” ne indichiamo una d’uso: “in generale, quando si parla di ‘digital evidence’ si vuole richiamare l’attenzione sulle informazioni ed i dati conservati o trasmessi dalle apparecchiature cosiddette digitali”15. E quando si ha a che fare con questo tipo di prove, uno dei problemi che vanno affrontati e risolti è quello di garantire, da parte della pubblica accusa, l’integrità dei dati raccolti, dovendo dimostrare in sede dibattimentale l’efficacia probatoria degli stessi passando attraverso il vaglio dell’esame della controparte. Dal momento che l’acquisizione di una prova digitale, per la natura sua propria, intaccando il supporto su cui è contenuta rischia di modificarla, si pretende che l’esame della Procura venga effettuato non sull’originale del supporto ma su una sua copia. In realtà, come noto, non si tratta di una semplice copia, ma di una beat strem image (o legal imaging) del supporto all’uopo sequestrato, la quale consente “di operare su un hard disk praticamente identico all’originale, sia in maniera logica che fisica, quindi anche su eventuali parti presumibilmente vuote dello stesso, che potrebbero contenere file o frammenti di file cancellati non sempre visibili con i normali strumenti di windows”16. Naturalmente, ciò richiede l’impiego di idonei strumenti software ed hardware al fine di non alterare la traccia informatica e così evitare dubbi circa l’integrità dei dati in questione: ad esempio, deve essere utilizzato un hard disk nuovo oppure sottoposto ad una previa operazione di wiper, dovendo altresì il sistema operare in modo non invasivo con l’ausilio di un blocco di scrittura. La cosa che più rileva ai fini del presente scritto è che quest’operazione di formazione della legal imaging va, se così possiamo dire, certificata e sigillata in modo univoco, tale per cui quella traccia, e solo quella, sarà l’oggetto del thema probandum. “Tale ‘marchio digitale’ sarà creato con un’operazione cosiddetta di hashing a senso unico, con algoritmo di classe MD5, che genera un’impronta della lunghezza di 128 bit (16 byte), L’impronta costituisce un riferimento certo alla traccia digi15 G. Costabile, Scena criminis, documento informatico e formazione della prova penale, 2004, p. 2, www.altalex. com: Sito consultato il 11/02/2008. 16 Ibidem, p. 3 Informatica e retorica forense issn 2035-584x tale, ma non ne consente una ricostruzione. Tale algoritmo è utilizzato a livello internazionale e garantisce un buon livello di sicurezza”17. Ma il punto è proprio questo: cosa significa “buon” livello di sicurezza? Dal momento che il “processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova” (art. 111, 4 Cost. It.), la quale ultima deve subire il vaglio elenctico della dialettica processuale, siamo sicuri che la procedura appena descritta possa essere accettata senza problemi? 4. Alcuni profili problematici Abbiamo visto in che modo agisce di regola il Pubblico Ministero nel momento in cui ricerca la prova digitale in sede di indagine; e abbiamo visto anche come le procedure comunemente utilizzate sono state sviluppate dovendo tenere presente l’inderogabile principio di integrità della prova raccolta: ciò al fine, come cennato, di superare il vaglio della difesa in sede processuale. Tenuto presente tutto ciò, le domande con cui si è chiuso il paragrafo precedente devono trovare risposta negativa. In altri termini, sebbene la procedura della creazione del c.d. “marchio digitale” sia garantita da sistemi software utilizzati a livello internazionale, non sono mancate alcune critiche, che incidono proprio sul valore processuale di quei procedimenti di ricerca della prova. In effetti, il software maggiormente utilizzato in questo campo, vale a dire “EnCase” prodotto dalla Guidance Software Inc. – “destinato all’uso professionale ed investigativo di numerose agenzie e forze dell’ordine in tutto il mondo e considerato in linea con gli standard internazionali per le analisi delle tracce informatiche”18 – è, senza che questo possa stupire più di tanto, un programma informatico protetto da copyright. Cosa che comporta, come noto, l’impossibilità di conoscere i codici-sorgente del programma, che restano nascosti a chiunque, e così pure agli esperti informatici nominati CTP dalla difesa o CTU dal giudice. Come è stato correttamente da altri evidenziato, “si tratta comunque di una questione che merita la massima attenzione e che dovrà nel futuro essere oggetto di approfondimenti ��Ibidem. ��Ibidem, p. 7. n. 3. 72 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) dottrinali”19: ma che, già adesso, è affrontata nella prassi. Infatti, proprio per evitare possibili eccezioni della difesa, la quale potrebbe lamentare (secondo noi sensatamente) la mancata trasparenza della “procedura di working dell’analizzatore”20 – e così impedire l’ingresso, all’interno del processo penale, di una prova digitale pregiudizievole per l’imputato –, “alcune squadre investigative si stanno orientando verso l’utilizzo di software a codicesorgente aperti (open source)”21. Dal nostro punto di vista, questa questione è strettamente correlata con la struttura dialettica del processo e con la logica retorica che la governa (senza però poter qui dilungarci troppo sulla natura di questa logica): cerchiamo di spiegare perché. 5. Informatica giuridica, retorica e struttura dialettica del processo Come noto, in via assai generale ma corretta (auspicando che ci sia perdonata una certa approssimazione), gli algoritmi possono essere definiti come “metodi per la soluzione di problemi. Possiamo caratterizzare un problema mediante i dati di cui si dispone all’inizio e i risultati che si vogliono ottenere: risolvere un problema significa ottenere in uscita i risultati desiderati a partire da un certo insieme di dati presi in ingresso”22. Si può anche affermare che “un algoritmo è la descrizione del processo per risolvere un problema, descrizione che riduca tale processo ad una pro19 L. Lupária, Il caso “Vierika”: un’interessante pronuncia in materia di virus informatici e prova penale digitale. I profili processuali, in: “Diritto dell’internet”, (2006), n. 2, pp. 155-160: 158, n. 26. 20 G. Costabile, Scena criminis, documento informatico e formazione della prova penale, cit., p. 7, n. 3. 21 L. Lupária, Il caso “Vierika”: un’interessante pronuncia in materia di virus informatici e prova penale digitale. I profili processuali, cit., p. 158, n. 26. Naturalmente, qui non si potrà neppure accennare ad alcuno dei profili relativi all’open source e al problema del copyright: per un’analisi di insieme si rimanda a A. Rossato, Diritto e architettura nello spazio digitale. Il ruolo del software libero, Padova, 2006; per un inquadramento giuridico della questione, si veda anche utilmente C. Cevenini, C. Di Cocco, G. Sartor (a cura di), Lezioni di informatica giuridica, Bologna, 2005, pp. 115-173. 22 M. Frixione, D. Palladino, Funzioni, macchine, algoritmi. Introduzione alla teoria della computabilità, Roma, 2004, p. 19 Informatica e retorica forense issn 2035-584x cedura effettiva”23; e che un programma informatico è la descrizione di un algoritmo in un linguaggio comprensibile dal calcolatore Il punto è che se non si è in grado di conoscere il codice-sorgente di un programma informatico non si è in grado di conoscere le istruzioni appartenenti al linguaggio di programmazione utilizzato per realizzare quel programma: qualcosa sul suo funzionamento (ma, verrebbe da dire, le ragioni intrinseche dello stesso) resta così celato e nascosto. Ma questo, in un contesto processuale, non è accettabile: nel processo, infatti, le parti sono chiamate a dare ragione delle proprie ragioni, dovendo provare la fondatezza delle pretese che sostengono e che portano avanti24. E ciò che risulta non disponibile alla discussione non può trovare cittadinanza nel processo. Nel nostro esempio, questa sorte potrebbe legittimamente toccare alla prova ostentata dal Pubblico Ministero perché non risulta del tutto controllabile la procedura informatica seguita nella ricerca della prova stessa: il programma con cui si ottiene la certificazione dell’autenticità della legal imaging dei dati analizzati non può infatti essere analizzato25. Si potrebbe così affermare che il software utilizzato è garantito dal solo fatto che... viene utilizzato in tutti i casi: un argomento che ci pare francamente tutt’altro che razionale e, piuttosto, basato sull’efficacia. Viceversa, nulla si potrebbe obiettare, neppure in sede di eccezione processuale, se fosse possibile accedere ai codici-sorgenti dei programmi di legal imaging perché un tanto basterebbe a rendere del tutto disponibile alla controparte il metodo tramite il quale si è pervenuti alla prova digitale. E solo in tal modo potrebbe appieno spiegarsi la garanzia del contraddittorio prevista dall’art. 111 Cost. It., che garan23 G. Sartor, Le applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale. La rappresentazione della conoscenza, Milano, 1990, p. 123. 24 Sulla natura dialettica del processo si veda su tutti P. Moro, La via della giustizia. Il fondamento dialettico del processo, cit.. 25 Ecco perché alcuno ha affermato che “non essendo possibile analizzare i codici-sorgente di questi programmi, la validità dei report da loro generati è fondata su un vero e proprio atto di fede” (così A. Monti, Attendibilità dei sistemi di computer forensic, 2003, p. 2, www.ictlex.net: Sito consultato il 08/04/2008). 73 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x tisce il principio ad un tempo logico, ontologico e deontologico del processo. Chi sottace o non è in grado di mostrare alla controparte le ragioni del proprio dire, infatti, si sottrae al dialogo, comportandosi in modo eticamente scorretto, in un processo che sarà di conseguenza ingiusto e che quindi non potrà essere detto tout court un processo26. Un’ultima considerazione, che esula dal campo propriamente giuridico (ma crediamo non da quello retorico), a conforto di quanto detto circa i limiti che può incontrare la persuasività di un discorso quando non sia possibile indagare fino in fondo le ragioni dello stesso. Come noto, uno dei problemi matematici che lungamente rimase irrisolto è il c.d problema dei quattro colori: per più di un secolo nessuno era stato infatti in grado di dimostrarlo, fino a quando, nel 1976, K. Appel e W. Haken, dell’Università dell’Illinois, annunciarono di trovato la soluzione. Ma ciò che più colpì la comunità dei matematici fu il modo in cui essi pervennero alla dimostrazione: infatti, parti importanti e cruciali della stessa furono effettuate da un calcolatore elettronico, dal momento che “la quantità di calcoli richiesta era tale da rendere impossibile il controllo di ogni passaggio da parte di un matematico umano […]. Fino ad allora, una dimostrazione consisteva in un ragionamento logicamente corretto mediante il quale un matematico poteva convincere un altro della verità di qualche asserzione. Leggendo una dimostrazione, un matematico poteva persuadersi della verità dell’affermazione in questione ed anche arrivare a capire la ragioni che ne sostenevano la validità […]. Invece, nella dimostrazione della congettura dei quattro colori l’uso del calcolatore era assolutamente indispensabile: la prova era imperniata proprio su questo. Per accettare la dimostrazione occorre essere convinti che il programma impiegato esegua ciò che i suoi autori affermano”27. Naturalmente, prima di pubblicare la dimostrazione, ci si premurò di controllare che la parte della dimostrazione svolta dal calcolatore fosse corretta: ma l’unico modo per farlo fu “mediante l’esecuzione su di un’altra macchina di un programma scritto in maniera indipendente. Una parte critica della dimostrazione rimaneva così nascosta agli occhi umani” 28. Il risultato fu che, per molti matematici, la dimostrazione fornita da Appel e Haken non poteva a rigore essere considerata una dimostrazione, dal momento che i risultati ottenuti non potevano in alcun modo essere verificati dall’uomo; e “data la complessità dei calcoli implicati, persino i sostenitori delle dimostrazioni assistite dal calcolatore devono ammettere che gli oppositori dispongono di qualche ragione a sostegno delle loro opinioni”29. Ma se una dimostrazione matematica non può essere pacificamente accettata ove non sia possibile seguire passo passo la dimostrazione, ci pare che, a maggior ragione, non possa essere accettato un discorso il quale, celando alcune sue ragioni, si sviluppi nel contesto controversiale del processo, in cui non si dispone di assiomi o ipotesi di partenza e quindi in cui si discute esattamente delle assunzioni di ciascuna parte. Da quanto detto, emerge peraltro una singolare simmetria: sia la dimostrazione del teorema dei quattro colori, sia l’autenticità della legal imaging possano essere accettate solo se si è convinti che i programmi rispettivamente impiegati eseguano ciò che i loro autori affermano. Ma, nell’esempio della prova digitale, se non si conoscono i codici-sorgenti dei programmi utilizzati, ciò non può succedere: a meno, come cennato, di non far ricorso ad un argomento ex auctoritate che ricorda molto da vicino la visione giuspositivistica del diritto simboleggiata dal motto hobbesiano “auctoritas non veritas facit legem”. 26 Per trovare le ragioni a sostegno di quanto detto, non si può far altro che rimandare, a titolo meramente esemplificativo, ai saggi pubblicati in M. Manzin, F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola/“Audiatur et altera pars”. The due process between principles and rules, cit. ����������� K. Devlin, Mathematics: The New golden Age, London, 1988 (= Dove va la matematica. Nuova edizione riveduta e ampliata, Torino, 20052), pp. 174-175. Corsivi nostri. 28 Ibidem, p. 175. 29 Ibidem, pp. 175-176. Informatica e retorica forense 74 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Parlando di computer forensic science e dei problemi connessi alla ricerca della prova digitale, crediamo di aver messo in luce come l’utilizzo di sistemi informatici possa influire direttamente sul processo e condizionare il discorso retorico che le parti conducono in esso, nel reciproco contestare le ragioni dell’altro. Peraltro, riteniamo che ciò sia dovuto anche al fatto che, come detto in principio, la prova digitale sia un esempio di nuova prova scientifica30. Non potendo qui dilungarci troppo sul punto, basti ricordare che, dal nostro punto di vista, quando il giudice si trovi di fronte a questo tipo di mezzo istruttorio, deve al massimo grado stimolare il contraddittorio fra le parti, dato che sono in discussione proprio gli strumenti tecnico-scientifici utilizzati nella fase d’indagine. In questi contesti, quindi, “ciò che risulterà determinante non sarà l’evidenza scientifica (e dunque, potremmo oggettiva) che spingerà il giudice a prediligere quello specifico ‘strumento di prova’ piuttosto che un altro, ma saranno le argomentazioni che le parti addurranno in contraddittorio a poterlo persuadere. La procedura, quindi, sarà in pieno retorica”31. Di conseguenza, se le parti non sono in grado di esporre criticamente tutte le ragioni della propria argomentazione, il giudice non può esercitare il vaglio dialettico cui è chiamato ai fini della pronuncia o della sentenza, che decide il caso, o anche solo di un’ordinanza, che, come nel nostro esempio, decide dell’ammissibilità di un’eccezione sollevata dalla difesa circa l’inutilizzabilità di una prova acquisita dalla pubblica accusa. Come detto, per noi il diritto è essenzialmente processo; e se il diritto è processo, allora la logica giuridica prende le forme della topica, della dialettica e della retorica. Crediamo quindi che un uso consapevole degli strumenti informatici in ambito giuridico non possa dimenticare ciò, in nome, maga30 Per un’indagine giuridico-filosofica sul tema, valga il rimando, su tutti, al recente S. Fuselli, Apparenze. Accertamento giudiziale e prova scientifica, Milano, 2008. 31 F. Puppo, La “nuova prova scientifica” nel processo penale. Alcune riflessioni sul rapporto tra retorica e scienza, in: M. Manzin, G. Ferrari (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, cit., pp. 355-372: 359-360. Informatica e retorica forense issn 2035-584x ri, della realizzazione dell’utopico modello sillogistico di positivistica memoria. Siamo convinti che “l’attualità del legame tra metodologia e informatica forense risiede proprio nel tentativo di rinvenire nella ricerca della verità un valore stabile della cultura giuridica odierna”32. E se l’informatica forense sarà in grado di misurarsi fino in fondo con questi principi, affrancandosi “dall’arroganza assoluta […] degli pseudo-cibernetici del diritto, di quelli che rinchiudono – per davvero o per finta – il cervello nei data-banks”33, allora potrà, fino in fondo, dimostrare e realizzare le proprie potenzialità. Non per nulla, la soluzione indicata per il problema rappresentato dal caso delle prove digitali, costituita dal ricorso all’open source, è a sua volta informatica: ma discende dalla natura retorica del diritto e da una riflessione su essa. Paolo Moro, Facoltà di Giurisprudenza di Padova, Sede di Treviso Federico Puppo, Facoltà di Giurisprudenza di Trento, Dipartimento di Scienze Giuridiche di Trento 32 P. Moro, L’informatica forense. Verità e metodo, Cinisello Balsamo, 2006, p. 173. 33 F. Cavalla, Retorica giudiziale, logica e verità, cit., p. 82. 75 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Note sul processo come algoritmo * Marco Cossutta Abstract Il lavoro qui presentato accentra la sua attenzione sulla questione dei metodi di soluzione dei problemi, con particolare riguardo alle metodologie svolte in ambito giuridico ed a quelle che informano il sapere matematico. Si constata che sussiste nell’alveo della cultura giuridica moderna una tensione a ricondurre il problema da risolvere nel campo del calcolo, sì da prendere a modello le metodologie proprie alle scienze cosiddette esatte. In questa prospettiva il processo giuridico tende a risolversi in un algoritmo applicativo della legge. Di converso si sofferma l’attenzione sulla constatazione che da più parti, non ultimo nel dettato costituzionale, si induca a considerare il processo il luogo del contraddittorio fondato sul metodo dialettico, sì da considerare il processo non solo il luogo in cui le parti dialogano sul tema controverso, ma anche il luogo ove, per mezzo del contributo delle parti, venga posta la regola per la soluzione del problema. Due prospettive contrapposte, l’una dialettica, l’altra logico-deduttiva, che offrono due diversi sviluppi al tema del processo. In conclusione si ritiene che, proprio avuto riguardo allo sviluppo d’una società pluralista, in metodo dialettico possa offrire delle soluzioni non chiuse all’interno di un sistema ipotetico, fondato nel presente caso sulla sacralità della legge, bensì aperte alle diverse istanze che promanano dalla realtà sociale. Sommario: 1 Sulla determinazione di significato dei termini del titolo; 2 Il processo quale attuazione della legge?; 3 Sull’attuazione automatica della legge; 4 Sulle radici della applicazione meccanicistica della legge; 5 Teoria ed ideologia del diritto; 6 L’individuo virtuale; 7 Per un ritorno all’interpretazione. dalla vita quotidiana; il processo giuridico si palesa, pertanto, come l’itinerario di soluzione giuridica di un problema. In proposito rileviamo, sulla scorta delle indicazioni tratte da Fazzalari1, che “il processo è il modello elettivo delle attività giurisdizionali”; al fine di circoscrivere il discorso, rico- 1. Sulla determinazione di significato dei termini del titolo. Assumiamo, all’interno di questo particolare universo di discorso, essere il processo un itinerario di risoluzione di un problema posto Note sul processo come algoritmo Parole chiave Algoritmo; Applicazione automatica della legge; Geometria legale; Informatica giuridica; Interpretazione giuridica; Processo; Retorica giuridica. * Il presente scritto riproduce la lezione tenuta nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studî del Salento il 23 novembre 2009. La pubblicazione dell’interveto è occasione per ringraziare il Preside della Facoltà di Giurisprudenza, il professore Raffaele De Giorgi, per il cortese invito e, con l’Amplissimo, il dottore Giovanni Pellerino per la cortese disponibilità dimostratami durante il soggiorno a Lecce. 1 Cfr. E. Fazzalari, sub voce Processo (teoria generale), in Nuovissimo digesto italiano. La voce è apparsa nel 1976. Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) nosciamo che il processo ed il procedimento appaiono specie di un genere comune, ma fra i due sussiste una profonda differenza; acciocché si palesi un processo, e non un mero procedimento, non basta che sussista una generica partecipazione del privato alla formazione del provvedimento; infatti, per Fazzalari, “occorre qualcosa di più e di diverso; qualche cosa che l’osservazione degli archetipi del processo consente di cogliere. Ed è la struttura dialettica del procedimento. La quale consiste non solo e non tanto in ciò che alla fase preparatoria del provvedimento partecipino anche gl’interessati, cioè, di norma, i destinatari degli effetti di esso, quanto e soprattutto in ciò che, nel processo, i poteri, le facoltà, i doveri attraverso il cui esercizio si attua questa partecipazione, sono distribuiti dalla norma fra i partecipanti in maniera da attuare una effettiva corrispondenza ed equivalenza fra le varie posizioni”. Stante all’insigne processualista, “alla struttura corrisponde lo svolgimento dialettico del processo: la simmetria delle posizioni soggettive, la loro mutua implicazione, la loro sostanziale parità si traducono, per ciascuno dei partecipanti, nella possibilità d’interloquire non episodicamente, e soprattutto, di esercitare un insieme – cospicuo o modesto non importa – di controlli, di relazioni e di scelte, e nella necessità di subire i controlli e le relazioni altrui”2. Tali concetti sono ripresi, fra i vari luoghi3, dallo stesso autore un decennio dopo, nel momento in cui ribadisce che il processo si caratterizza per la “struttura dialettica del procedimento, cioè, appunto, «il contraddittorio»”4. 2 Le citazioni sono tratte da ibidem, p. 1068 e p. 1072. 3 Cfr., fra gli altri, F. Gentile, La controversia alle radici dell’esperienza giuridica, in P. Perlingieri (a cura di), Soggetti e norma, individuo e società, Napoli, 1987, p. 151 (con contributi di C. Argiroffi; P. Barcellona; G. Capozzi; A. Carrino; A. Catania; F. M. De Sanctis; V. E. Cantelmo; P. Stanzione; G. Marino; L. Orsi) e F. Cavalla, Il controllo razionale tra logica, dialettica e retorica, in Atti del XX Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Padova, 1998, p. 41 (con contributi di M. Taruffo; B. Montanari; G. Fiandaca; P. Comanducci-R. Guastini; G. Pecorella; M. Jori; A. Pintore; D. Zolo; A. Margara; V. Albano; L. Alfieri; P. Borsellino; G. Incorvati; L. Ferrajoli; V. Villa; M. Fracanzani; M. A. Cattaneo; G. Insolera; P. Pittaro; G. Melis). 4 E. Fazzalari, sub voce Procedimento e processo (teoria generale), in Enciclopedia del diritto. La voce è apparsa nel 1986. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x Possiamo definire il secondo termine presente nel titolo, l’algoritmo, anch’esso come un procedimento volto alla soluzione di un problema sorto nella vita quotidiana; in particolare possiamo ritenere l’algoritmo un insieme ordinato, in sequenza, di tutte le regole precise, inequivocabili, analitiche, generali, astratte, formulate ex ante al caso da risolvere e senza alcun riferimento a questo, la cui scrupolosa e letterale applicazione pone infallibilmente in grado di conseguire il risultato voluto (il quale appare, proprio perché ottenuto con l’applicazione corretta delle regole racchiuse nell’algoritmo, valido)5. Se, per un verso, il processo e l’algoritmo appaiono accumunati dal medesimo intento di porre una soluzione ad un problema ed in questo paiono specie dello stesso genere, per altro, pare, che gli stessi divergano profondamente per ciò che concerne il metodo con cui tale soluzione viene perseguita: la struttura dialettica del processo si oppone al divenire logico-deduttivo dell’algoritmo. Che il processo si definisca per la presenza del contraddittorio inserito all’interno d’una struttura dialettica, la quale, viceversa, non informa l’algoritmo, non ci permette ancora di risolvere il problema del rapporto fra i due termini presenti nel titolo attraverso una reciproca esclusione, giustificata dal fatto che l’algoritmo non rimanda all’incedere dialettico. Questa constatazione ci permette soltanto di riconoscere come il metodo utilizzato per giungere alla soluzione non sia comune fra il processo giuridico, così come viene tratteggiato dal Fazzalari qui richiamato, e l’algoritmo; mentre comune rimane l’intendo di fondo, ovvero la ricerca della soluzione. Una drastica e, forse, aprioristica presa di posizione volta ad escludere una possibile relazione fra il processo e l’algoritmo ci viene, fra l’altro, inibita proprio dalla definizione dell’incedere dialettico, che, come noto, appartiene alla speculazione platonica: “per il fatto 5 Sull’argomento cfr. in primis R. Borruso – C. Tiberi, L’informatica per il giurista. Dal bit a Internet, Milano, 2001. In merito alle definizione dell’algoritmo mi permetto di rimandare, soprattutto per il riferimento a fonti matematiche, al mio Questioni sull’informatica giuridica, Torino, 2003. 77 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x che non si è abituati a condurre una ricerca mediante la suddivisione per specie, gli uomini riconducono immediatamente al medesimo punto ritenendole simili cose che sono tanto diverse tra loro, e, insieme, fanno anche tutto l’opposto, suddividendone altre non secondo specie; bisognerebbe invece, appena ci si accorge della partecipazione fra loro di molte realtà, non cessare di esaminarle prima di aver colto in questa partecipazione tutte le differenze, quante esse siano che si fondino sulle specie, e d’altra parte, quando vengono ravvisate in una molteplicità le svariatissime dissomiglianze ivi presenti, non dovrebbe essere possibile distogliersene sconcertati prima di aver raccolto, nella determinazione dell’essere corrispondente di un genere dato, tutto ciò che è congenere, racchiudendolo in una sola somiglianza”6. Conviene, pertanto, indagare ancora intorno al rapporto fra i due termini e non chiudere qui la nostra riflessione; infatti, la questione non può venire ancora risolta riconoscendo la contraddittorietà d’una comune presenza (o, meglio, d’un sovrapporsi) di processo ed algoritmo se, in autorevole dottrina, possiamo leggere che “difficilmente si possono ritenere esaustive le comuni definizioni della giurisdizione, che anzi in certo qual modo, in quanto presuppongono un sistema chiuso, sono la negazione della giurisdizione, e comunque ne sminuiscono la portata. La dimostrazione più evidente è data dalla definizione della giurisdizione come attuazione della legge […]. Il fatto è che nella riferita definizione la legge è concepita come una volontà esaustiva di tutta la realtà, un esterno comando, che è in rapporto meramente formale con la giurisdizione, la quale si limita appunto ad attuare quel comando. È come se si riducesse l’ordinamento ad uno spettacolare gioco delle parti, di cui una pone la legge, l’altra l’applica, l’una comanda, l’altra trasmette il comando e obbedisce o fa obbedire”7. La citazione tratta dall’opera di Salvatore Satta, ci permette di cogliere, per lo meno in ambito dottrinale, la presenza di due prospettive; per un verso la tendenza a cogliere il processo (per dirla con Fazzalari, il ”modello elettivo dell’attività giurisdizionale”) come luogo fondato ed indirizzato dalla dialettica fra le parti, per altro, invece, quale puro momento attuativo della legge, ovvero, richiamando la definizione di algoritmo, meccanismo logicodeduttivo atto alla soluzione di problemi (e ciò nonostante il preciso e forte richiamo al contraddittorio ora contenuto inequivocabilmente, a seguito della legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, nel testo dell’articolo 111 della Costituzione italiana). 6 Politico, 285 (citiamo avvalendoci della traduzione di Attilio Zardo in Platone, Opere complete. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico, Roma-Bari, 1987, p. 295). 7 S. Satta, sub voce Giurisdizione (nozioni generali), in Enciclopedia del diritto. 8 Cfr. il contributo di Paolo Moro, Il giurista telematico. Informatica giuridica ed etica della mediazione, nel volume da egli curato Etica Informatica Diritto, Milano, 2008 (con contributi di M. Cossutta; P. Heritier; F. Macioce; G. Marzotto, A. Montanari; F. Puppo; C. Sarra; R. Scudieri). Note sul processo come algoritmo 2. Il processo quale attuazione della legge? Sussiste, pertanto, all’interno della cultura giuridica una tendenza ad indicare nella legge il fulcro intorno al quale si dispiega l’itinerario processuale, sicché le parti risulterebbero ad essa, quanto meno, complementari. Se la giurisdizione si risolvesse nell’applicazione della legge, allora l’algoritmo ritroverebbe non sono legittimità, ma addirittura centralità all’interno del processo e la struttura dialettica risulterebbe non solo residuale, ma di fatto esiziale per il corretto svolgimento del processo. Per incidens va osservato come, all’interno di questa prospettiva, che taluni definirebbero legolatrica8, e che, di fatto, come vedremo in seguito, si coagula intorno all’idea del sillogismo giudiziario, le parti, le protagoniste del contraddittorio, comparirebbero soltanto nella premessa minore del sillogismo; questo è, infatti, informato dalla premessa maggiore, nella quale si racchiude la legge. L’azione delle parti trova così la sua qualificazione giuridica nello sviluppo del sillogismo, fondato dalla premessa maggiore, per tramite della formale sussunzione della fattispecie con- 78 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) creta in quella astratta; la legge che illumina i fatti della vita quotidiana e che, come un centro di forza centripeta, attira i fatti della vita a sé offrendoli quella giuridicità, che nel loro concreto svolgersi, sarebbe sconosciuta all’insieme dei quotidiani accadimenti. Sicché, si badi bene, la soluzione giuridica di un problema posto dalla vita quotidiana sarebbe già sussistente prima del suo verificarsi e sussisterebbe anche in assenza del suo verificarsi, perché la soluzione è, seguendo le indicazioni critiche di Satta, per questa prospettiva largamente dominante nella cultura giuridica moderna, racchiusa nell’articolo di legge. Si tratta solo di applicarlo. Ritengo che si posseggano, a questo punto, sia pur rapsodicamente disposti, tutti gli elementi per poter cogliere la portata di un’affermazione solo in modo apparente paradossale. Su una Appendice della Enciclopedia del diritto possiamo leggere: “senza nulla togliere all’importanza dell’informatica giuridica documentaria, il tema più importante dell’informatica giuridica deve, a nostro avviso, essere considerato quello dell’applicabilità automatica della legge” 9. 3. Sull’attuazione automatica della legge La questione qui sollevata è spinosa; come l’autore stesso sottolinea, siamo nel campo dell’utopia, nell’ambito dell’affascinante connubio tra progresso tecnologico e svolgersi dei fatti politici e giuridici, il cui approccio problematico ha visto sbocciare antiutopie come 1984 e Fahrenheit 451. È bene quindi procedere con ordine al fine di comprendere se e come certa tecnica possa essere posta al servizio dei fatti politici e giuridici; la tecnica inerente ai sistemi informatici si sviluppa per mezzo di algoritmi e, pertanto, il nostro discorso viene integrato da una nuova espressione: la legge-algoritmo10. 9 Così Renato Borruso, sub voce Informatica giuridica, in Enciclopedia del diritto. Appendice, p. 654, La voce è apparsa nel 1997. 10 Cfr. ibidem, p. 658. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x Senza soffermarci in ulteriori preamboli11, una legge-algoritmo risulta operativa, ovvero porta alla soluzione di un problema, se applicata automaticamente. Dobbiamo pertanto interrogarci sulla collocazione di questo particolare modo di applicare la legge all’interno della cultura giuridica. In particolare, al di là dei richiami già effettuati, va indagato il rapporto fra queste istanze, volte all’automatismo nell’applicazione della legge, ed il mondo del diritto. Va anticipato che il rapporto che si può intravvedere fra questi due poli appare, se non ottimale, certamente ben consolidato. A riprova di ciò richiamiamo un classico della cultura giuridica contemporanea: Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del diritto, corso di lezioni tenuto da Norberto Bobbio nell’anno accademico 1960-1961 e raccolto da Nello Morra12. Nel paragrafo 57 del Capo IV (La funzione interpretativa della giurisprudenza) possiamo leggere: “la concezione giuspositivistica della scienza giuridica è stata accusata di formalismo […] siamo di fronte a quello che abbiamo definito formalismo scientifico: il giuspositivismo ha una concezione formalistica della scienza giuridica in quanto nell’interpretazione dà assoluta prevalenza alle forme, cioè ai concetti giuridici astratti e alle deduzioni puramente logiche che si possono fare in base ad essi, a scapito della realtà sociale che sta dietro a tali forme, dei conflitti d’interesse che il diritto regola, e che dovrebbero (secondo gli avversari del positivismo giuridico) guidare il giurista nella sua attività interpretativa”13. A tale proposito va rilevato come la teoria da Bobbio definita dell’interpretazione logica o meccanicistica del diritto sia, per lo stesso, una delle sei concezioni fondamentali su cui si basa il positivismo giuridico (solo in modo sfumato si fa qui presente che l’autore utilizza il termine diritto e non legge, o, meglio, intende diritto per legge). 11 Per un approfondimento delle questioni concernenti il rapporto fra informatica e diritto, nonché per specifici ragguagli tecnici sui termini qui utilizzati si rimanda, fra le altre, alle opere di Borruso qui citate. 12 Verrà citata l’edizione Tornio, 1979. 13 Ibidem, p. 261. 79 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Certo, questa specifica concezione presenta per Bobbio dei problemi; infatti, a differenza di altre ( le teoria coattiva, quella legislativa e quella imperativa) la critica alla teoria dell’interpretazione logica o meccanicistica del diritto (parimenti a quelle alle teorie della coerenza e della completezza dell’ordinamento giuridico) è fondata. Osserviamo il perché di tale consistenza: per Bobbio “l’interpretazione del diritto fatta dal giudice non consiste mai nella semplice applicazione della legge in base a un procedimento puramente logico: anche se non se ne accorge, per giungere alla decisione egli deve sempre introdurre valutazioni personali, fare delle scelte, che non sono vincolate dallo schema logico che egli deve applicare”14. Ci permettiamo di rilevare che è proprio a causa di queste constatazioni che tale teoria è sorta, meglio, al fine di evitare il perdurare di una situazione di incertezza si è prodotta tale particolare teorizzazione (la quale non è descrittiva, bensì prescrittiva). La constatazione empirica della sua non applicazione, non inficia affatto l’aspirazione contenuta nella teoria (l’applicazione meccanica della legge), anzi, la rende ancora più necessaria. 4. Sulle radici della applicazione meccanicistica della legge Questa teoria, la quale mi pare possa logicamente derivare dalla teoria legislativa del diritto, le cui critiche, a detta di Bobbio, non sono fondate, ha radici antichissime e radici altrettanto antiche ha, quindi, la sua attuale riproposizione nei termini di legge-algoritmo. Pur non avanzando alcuna pretesa di completezza15 proviamo a abbozzare un itinerario ricostruttivo. Nella lettera dedicatoria a William Cavendish, scritta nel 1646 da Thomas Hobbes per la seconda edizione del De cive, leggiamo: “se 14 Ibidem, pp. 284-285. 15 Fra le sparse note che seguiranno, fra gli altri, non compaiono né il Jeremy Bentham dell’Introduzione ai principi della morale e della legislazione, trad. it. Torino, 1998 (ma 1789), né l’Austin della Delimitazione del campo della giurisprudenza, trad. it. Bologna, 1995 (ma 1832), che hanno influenzato non poco la fondazione del positivismo giuridico. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x la ragione delle azioni umane fosse conosciuta con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle grandezze nelle figure, l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si sostiene sulle false opinioni del volgo circa il diritto e il torto, sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe di una pace tanto costante, che non sembra si dovrebbe più combattere”16. Pare fuori dubbio che Hobbes abbia ripreso le sue massime dal Maestro del pensiero scientifico moderno, Galileo Galilei, che nel suo Il Saggiatore sottolineava, nel 1623, che il libro della natura è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intendere le parole umane17. E di fatti, quasi di rimando, Hobbes nel Leviathan, I, V, scrive: “per mezzo delle parole l’uomo è capace di ridurre le conseguenze che trova in regole generali, chiamate teoremi o aforismi, che è dunque capace di ragionare o di calcolare non solo sui numeri ma in tutti gli altri generi di cose che siano suscettibili di essere addizionate o sottratte l’una dall’altra. Questo privilegio è tuttavia bilanciato da un altro – è significativo constatare come già nell’aprile del 1651 si possano cogliere i prodromi del positivismo logico – : quello dell’assurdità a cui non è soggetta altra creatura vivente ad eccezione dell’uomo. E fra gli uomini vi sono esposti più di chiunque altro coloro che professano la filosofia. È infatti verissimo quello che Cicerone dice di loro in qualche luogo, che non ci può essere niente di tanto assurdo da non essere rintracciabile nei libri dei filosofi. E la ragione è evidente: nessuno di loro comincia il ragionamento partendo dalla definizione o dalle spiegazioni dei nomi che è in procinto di usare. Tale metodo è stato usato soltanto nella geometria le cui conclusioni sono perciò diventate indiscutibili”18. Se questa è l’impostazione di fondo allora appare conseguente l’affermazione di Leibniz, per il quale, nello studio Sulla scienza universale o calcolo filosofico del 1695, “quando sorgeranno delle controversie, non vi sarà maggior bisogno di 16 Citiamo dalla edizione curata da Tito Magri, Roma, 1992, p. 65. 17 Cfr. l’edizione curata Libero Sosio, Milano, 1965 18 Citiamo dalla edizione curata da Arrigo Pacchi e Agostino Lupoli, Roma-Bari, 1989, p. 37. 80 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamando se loro piace un amico): calcoliamo”19. È all’interno di questo quadro concettuale che giungiamo, nel secolo dei Lumi, passando per il Muratori censore Dei difetti della giurisprudenza, apparso nel 174220, al celeberrimo passo del Beccaria, per il quale “in ogni delitto si deve fare del giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta dell’incertezza, non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge”21. Al quale fa eco, nell’illuminismo partenopeo, Filangieri, che, commentando il dispaccio reale di Ferdinando IV di Borbone del 23 settembre 1774, sottolinea: “nei governi dispotici gli uomini comandano; nei governi moderati comandano le leggi […]. L’arbitrio giudiziario è quello che si cerca d’estirpare. Bisogna dunque torre a’ magistrati tutto quello che li rende superiori alle leggi. Ecco il fine di questa legge. Vediamone ora i mezzi. Il re vuole che tutto si decida secondo un 19 Ora in Scritti di logica, Bologna, 1968, p. 237 (l’edizione è curata da F. Barone); va rilevato che Leibniz fu acceso sostenitore dell’opportunità di rivolgersi al pensiero razionale per porre fine alle diatribe in materia religiosa e politica, da prima purificando il linguaggio ordinario, fonte di confusione in campi come la giustizia o la religione, ove accorrono idee chiare e, successivamente, attraverso la rappresentazione dei rapporti sociali in termini matematici, costruendo un’algebra capace non solo di porre una computazione universale, ma anche di ordinare gli universi di discorso politici e giuridici. Cfr. in argomento anche i contributi di Leibniz Principi ed esempi della scienza generale e Storia ed elogio della lingua caratteristica universale che sia al tempo stesso arte dello scoprire e del giudicare entrambi riproposti al lettore nella citata raccolta Scritti di logica. È cosa nota come l’opera di Leibniz influenzò il pensiero di Christian Wolff e con esso tutto il Settecento giuridico tedesco. 20 Cfr. l’edizione curata da Gianluigi Barni, Milano, 1958. 21 Il passo è tratto dal capitolo quarto de Dei delitti e delle pene, uscito anonimo a Livorno nel luglio del 1764 (già l’anno successivo, con il titolo di Traité des delits et des peines, viene editato in Francia). Citiamo dalla edizione curata da Giuseppe Armani, Milano, 1987, p. 15. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x testo espresso; che il linguaggio del magistrato sia il linguaggio delle leggi: che egli parli allorché esse parlano, e si taccia allorché esse non parlano, o almeno non parlano chiaro; che l’interpretazione sia proscritta; l’autorità dei dottori bandita dal foro, e il magistrato costretto ad esporre al pubblico la ragione della sentenza. Questi sono gli argini che il sovrano ha innalzati contro il torrente dell’arbitrio”22. Al di là degli esiti pratici del dispaccio reale, il quale venne ritirato nel 179123, risulta estremamente interessate ai fini del discorso sul rapporto fra processo ed algoritmo, rilevare come Beccaria voglia fare del giudice un sillogismo, ovvero trasformare l’organo giurisdizionale in un meccanismo di soluzione (giuridica) automatica di problemi posti nella vita quotidiana; il sillogismo perfetto, infatti, poste le premesse, si svolge automaticamente24. Certo né Beccaria, né Filangieri avevano, come si suol dire, sotto mano una premessa maggiore precostituita all’accadimento concreto rappresentato nella premessa minore, ovvero quella legge la quale di lì a poco informerà il mondo del diritto. La promulgazione del Code civil si compie, come noto, nel 1804. Le posizioni dei due illuministi, ed in particolare quella di Beccaria, più che descrittive di uno stato di fatto, appaiono piuttosto degli auspici, delle indicazione sulla retta gestione delle cose giuridiche. Quest’ultima si palesa come possibile con l’istituzionalizzazione della legge, compiuta, per l’appunto, dalla codificazione napoleonica. In questo contesto possiamo a pieno apprezzare la constatazione del Mourlon, sorta in seno alla école de l’exégèse, per il quale “per 22 Così nelle Riflessioni politiche sull’ultima legge del nostro Sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, citiamo dalla riproduzione parziale in P. Comanducci (a cura di ), Illuminismo giuridico. Antologia di scritti giuridici, Bologna, 1978, pp. 173-174. 23 Cfr. in argomento G. Gorla, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in “Il foro italiano”, XCIV (1969), V-1, cc. 112 e segg. 24 Su tale questione rimando al classico scontro fra l’Alfredo Rocco de La sentenza civile, Torino, 1906, pp. 5 e segg. e il Guido Calogero de La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, pp. 46 e segg. 81 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) il giureconsulto, per l’avvocato, per il giurista, un solo diritto esiste, il diritto positivo […]. Lo si definisce: l’insieme delle leggi che il legislatore ha promulgato per regolare i rapporti tra di loro […]. Dura lex sed lex: il buon magistrato umilia la propria ragione davanti a quella della legge; poiché egli è istituito per giudicare secondo essa e non per giudicarla. Nulla è al di sopra della legge. L’eluderne le disposizioni sotto il pretesto che l’equità naturale vi contrasta non è altro che prevaricarle. In giurisprudenza non c’è, non vi può essere ragione più ragionevole, equità più equa della ragione o dell’equità della legge”25. Sicché allora comprendiamo come mai, per certa prospettiva dottrinaria, il tema più importante dell’informatica giuridica sia proprio quello dell’applicazione automatica della legge, ovvero rendere il processo un algoritmo26. 5. Teoria ed ideologia del diritto Come già rilevato, la teoria sopra richiamata e brevemente schematizzata si fonda sul protocollo per il quale il diritto è la legge e, pertanto, la giurisdizione, come ebbe a sottolineare criticamente il Satta qui richiamato, in questa prospettiva è mera attuazione della legge. Un’attuazione che non può che avvenire automaticamente. All’interno di questo contesto trova credibilità, ovvero legittimità vuoi la legge-algoritmo, vuoi, al fine di darle attuazione, il processo-algoritmo. Queste teorizzazioni, sorte nel mondo del diritto e per il diritto, ritrovano ulteriore sostegno intrecciandosi con altre istanze culturali che abbracciano orizzonti ben più vasti e che hanno plasmato un certo modo di rappresentare il mondo. La scienza ed il metodo galileiano e cartesiano hanno accompagnato, come osservato, il sorgere del formalismo giuridico, il positivismo logico lo ha incoronato come unica forma di pensiero giuridico sensato, in quanto basato su proposizioni rappresentanti giudizi analitici o sintetici. 25 Il passo è riportato in J. Bonnecase, L’école de l’exégèse en droit civil, Paris, 1924, p. 150; citiamo dalla trad. it. proposta da N. Bobbio, Il positivismo giuridico, cit., p. 97. 26 Che poi è lo stesso che dire fare del giudice un sillogismo. Cfr. ancora R. Borruso, sub voce Informatica giuridica, cit., pp. 654 e segg. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x Non è possibile in questa sede specificare oltre tali argomenti, ciò non di meno appare pertinente una riflessione; è sufficiente questa sorta di autoevidenza logica per trasformare queste intuizioni, queste perorazioni, queste denuncie nella ideologia della più potente macchina politica (lo stato) che la storia dell’umanità ha mai conosciuto? Probabilmente no, forse c’è qualcosa d’altro che ha favorito e determinato questo incredibile successo (incredibile perché tali teorie hanno successo, vedi il richiamo alla recente voce di Renato Borruso, ancora oggi, quando le condizioni che hanno determinato il loro sviluppo e la loro affermazione sono ormai tramontate da quasi un secolo; incredibile perché ciò che è chiaramente storicizzato riesce ancora oggi ad imporsi come realtà astorica ed immutabile, transepocale)27. 6. L’individuo virtuale Il mos geometricus, perorato già chiaramente da Grozio nel 1625 con il suo De iure belli ac pacis, non può che portare alla costituzione, anche in ambito giuridico, d’un sapere virtuale (frutto del ragionamento per modelli)28. La legge supposta come generale ed astratta deve presupporre destinatari parimenti generali ed astratti, gli individui dello stato di 27 Sulle cause che hanno determinato il sorgere delle teoria proprie al positivismo giuridico e sulle ragioni del loro tramonto cfr., fra i molti, M. S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986 e N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1978. Nell’ambito della cultura giuridica italiana la crisi della concezione positivistica del diritto e dello stato viene magistralmente colta da Santi Romano nella sua opera su L’ordinamento giuridico, apparsa nel 1918. 28 I prodromi della modernità e virtualità ad essa intrinseca sono facilmente individuabili nel Defensor pacis di Marsilio da Padova, cfr. la trad. it. curata da Cesare Vasoli, Torino, 1960. Non appare di secondaria importanza far cenno che l’aggettivo virtuale non viene qui utilizzato nell’accezione derivata dal medievale virtualis ed impiegata nel lessico della scolastica quale sinonimo di potenziale, piuttosto nel significato, proprio alla scienza moderna, che qualifica entità le quali, pur non ritrovando alcun corrispondente nella realtà, vengono in ogni caso ipotizzate ed utilizzate al fine di compiere delle operazioni sulla realtà; infatti, l’individuo dello stato di natura è ipotizzato in funzione della fondazione della compagine statuale ed è pertanto virtuale, non in potenza. 82 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) natura, per l’appunto, di uno stato di natura che si ipotizza in funzione della protezione del proprium, in cui, come acutamente osserva Pietro Grossi, il me si confonde con il mio29. L’operazione d’astrazione del diritto e della persona umana giunge all’acme con due provvedimenti legislativi epocali: 1791 la legge La Chapelier, che determina l’abolizione immediata di ogni formazione sociale intermedia fra lo stato e la persona (con particolare riguardo ai ceti); 1804 ultimazione della promulgazione del Code Napoléon, caratterizzato vuoi dalla legge generale ed astratta, che regolamenta ogni recondito meandro della vita civile, e vuoi dalle credenze sulla unitarietà delle fonti, sulla completezza e coerenza dell’opera del legislatore, sul suo essere l’esclusivo faro di regolamentazione sociale. Ciò che qui più preme rilevare è che l’individuo astrattamente uguale viene posto di fronte alla legge astratta e generale, perché l’uguaglianza non si può amministrare che per mezzo dell’astrattezza. Infatti, se tutti gli individui sono uguali, essi devono essere operati per mezzo di procedimenti formali. Staccarsi da procedure formali implica valutare in maniera diseguale l’individuo, riportarlo ad una condizione non geometrica ma reale: implica riconoscerlo per quello che è, nella sua realtà, nel suo essere sociale (…un pover uom tu sei…, riconosce Giosuè Carducci nel 1887 Davanti a San Guido). Ma il punto di riferimento a cui tende l’individuo astratto, l’home delle Dichiarazioni, le quali fondano teoreticamente la codificazione e, frutto di queste, il sorgere compiuto del positivismo giuridico, altri non è che il proprietario, il borghese, l’assoluto protagonista dello stato monoclasse, del dispotismo legale, che, con atto formale, rende uguale il proprietario al proletario, il padrone al diseredato, il risparmiatore all’istituto di credito. Si crea pertanto una realtà virtuale30, regolata ed informata dal Codice civile, che, come ben sottolinea Irti, assurge al rango di norma costituzionale31. A questa realtà virtuale, che cela la concreta con29 Cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 96 e segg. 30 In argomento cfr. F. Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Padova, 2001. 31 Cfr. L’età delle decodificazione, cit., pp. 6 e segg. Note sul processo come algoritmo issn 2035-584x dizione sociale di disuguaglianza, ben si sposa il rigore logico della scienza formalistica, che occulta l’essere del diritto, così rappresentato ed utilizzato, strumento di dominio di una classe sull’altra. È stato sottolineato come in questo ambito politico-culturale “alla fine di un lungo periodo di pace e stabilità nella vita sociale, si poteva avere l’impressione che [… tale costruzione teorica …] rispondesse alle esigenze più profondamente sentite dai giuristi del tempo i quali concentravano il loro interesse sulla struttura logica e formale del diritto prescindendo, tanto dal contenuto economico e sociologico, che pareva allora solidamente determinato da quella struttura, quanto dai fini etici e politici intorno ai quali sembrava che gli studiosi fossero sostanzialmente d’accordo”32. 7. Per un ritorno all’interpretazione. L’epopea del diritto borghese, del diritto dello stato monoclasse, dispiegatasi dal 1804, all’apparire del Code Napoléon, inizia la sua china discendente già sessantacinque anni dopo, nel 1869 con la Gewerbe Ordnung per la Confederazione germanica, antesignana della celebre legge bismarkiana del 15 giugno 1883 sulla assicurazione obbligatoria per malattia ai lavoratori; ciò non di meno ha talmente determinato i pre-concetti giuridici da apparire eterna, dal porsi cioè come una realtà transepocale o, il che è sotto questo profilo la stessa cosa, come il compimento del processo inarrestabile del umano progresso33. Sicché pare che la fine della storia del diritto sia segnata dalla unicità della fonte giuridica, incarnata dall’organo statuale legislativo, dall’equazione fra diritto e legge, che implica la riduzione del primo alla seconda, e, per ciò che a noi qui più preme, dalla applicazione meccanica del diritto, il che equivale a porre l’equazione fra processo ed 32 Così R. Treves, Intorno alla concezione del diritto di Hans Kelsen, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XXXI (1952), n. 1, p. 182. L’autore si riferisce nel testo esplicitamente ai kelseniani Hauptprobleme apparsi nel 1911. In materia cfr. anche il contributo di M. Reale, Le basi filosofiche dell’interpretazione, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XLIII (1966), n. 1, pp. 222223. 33 Cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., pp. 189 e segg. 83 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) algoritmo, con conseguente riduzione del processo ad un meccanismo applicativo di algoritmi. La realtà appare ben altra se osservata senza le lenti dell’ideologia; il moto illumistico-borghese, il quale fuori di dubbio ha svolto un importante ruolo storico nel mondo occidentale (ma, per l’appunto, nella sua storia), ha preteso di cristallizzarsi in una sempre eterna teoria/ ideologia del diritto, che il sorgere dello stato pluriclasse ha spazzato dalla realtà storica, per relegarla, per l’appunto nella storia. Ciò non di meno, istanze riconducibili all’idea di interpretazione meccanicistica della disposizione legislativa, che si dipartono, come rilevato all’inizio, da una concezione logolatrica dei rapporti sociali, riaffiorano costantemente, quasi fossero, come si diceva sopra, istanze eterne. La prospettiva di incontro fra l’informatica giuridica e la giurisdizione proposta da Renato Borruso e qui richiamata, ne è epifenomeno. Lungo altri itinerari può dirigersi l’incedere dei giuristi consapevoli dei problemi legati ai potenziali conflitti in società pluraliste agli albori del terzo millennio; i giuristi, problematicamente consapevoli del riduzionismo operato negli ultimi duecento anni, possono porsi non già più come servi legum, ma attivi protagonisti dell’opera di ordinamento sociale, come le istanze critiche al formalismo hanno già a cavaliere fra Otto e Novecento testimoniato, sollecitando la riappropriazione e l’utilizzo dell’interpretazione quale fonte di un diritto non più racchiuso negli angusti spazi della statualità, ma aperto alle istanze che promanano dalla vita sociale. Il processo diviene in questo contesto il momento elettivo per la formazione ed applicazione del diritto e non già mero luogo di attuazione di comandi alla società eteronomi. Nell’ambito proprio al dire ed al contraddire, che si determina con l’ausilio della retorica forense, si manifesta l’esperienza giuridica connotata da una duplice ricerca: per un verso l’individuazione del problema, colto in tutte le sue sfaccettature e non semplificato attraverso l’esaltazione di alcuni suoi elementi, ipoteticamente e generalmente ritenuti essenziali; per altro l’identificazione di una concreta regola comune che possa, e non in via astratta e generale, dirimere la controversia. La soluzione giuridica del proNote sul processo come algoritmo issn 2035-584x blema si palesa, pertanto, affrontando lo stesso in tutta la sua complessità, inibendo l’istinto alla semplificazione che è intrinseco al metodo moderno di dominio sulla realtà, problematicizzandolo sin alle sue più profonde radici senza però isolarlo, ma ricollegarlo al contesto sociale che gli è proprio e ciò proprio al fine di giungere all’indicazione di regole che possano nel contempo sia risolvere il concreto e contingente problema, sia affermarsi come norme giuridiche nel contesto sociale ove operano. All’interno di una visione del diritto caratterizzata dall’esperire proprio a tutte le parti del processo, la giuridicità promana da basso e non è, pertanto, appannaggio esclusivo del sovrano che la fa discendere dall’alto con la posizione della (sacrale) legge. Qui, come ammoniva il Satta sopra richiamato, la giurisdizione non è applicazione della legge e, più propriamente, ricerca della regola giuridica propria alle parti ed al contesto sociale in cui le stesse (ed il problema fra di loro sorto) si collocano. Ecco allora che, riconoscendo l’intrinseca natura politica della giurisdizione, possiamo fare proprie le parole di Pietro Grossi, quando afferma di temere “l’inquinamento – ché sarebbe tale – di una nozione dell’interpretazione come attività puramente logica e dell’interprete come un automa senza volontà e libertà proprie, che constatiamo ancora dominante presso tanti giuristi beatamente e beotamente paghi ancor oggi di riaffermare entusiasti e inconsapevoli il principio di stretta legalità e l’immagine dello iudex come servus legis, che la propaganda giuridica borghese da due secoli ha loro istillato nel cervello”34. Marco Cossutta, professore associato di Filosofia del diritto nell’Università degli Studî di Trieste, ove dirige il corso di master in primo livello in Analisi e gestione della comunicazione organizzato in collaborazione con il CERMEG. Professore supplente di Informatica giuridica presso lo studio giuridico patavino, è autore di numerose pubblicazioni in ambito informatico-giuridico fra le quali si richiama la monografia Questioni sull’informatica giuridica, Torino, 2003. 34 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, p. 163. 84 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x “The Beatles”: da band sgangherata a mito, il contributo delle Relazioni Pubbliche Eugenio Ambrosi Abstract Quello che colpisce nel percorso artistico beatlesiano degli anni Sessanta è che hanno caparbiamente utilizzato inconsciamente un approccio strategico “glocale”, che oggi definiremmo “think global, act local”, già nel periodo 1960/67, il periodo che potremmo genericamente definire Periodo Epstein, il loro primo manager, che li scoprì a fine 1961 ed in 30 mesi li portò per mano da uno scantinato di Liverpool, il “Cavern Club”, al palcoscenico mondiale. Il tutto senza alcuna esperienza specifica e con una squadra fatta di amici ed amici degli amici, privi il più delle volte delle più basilari conoscenze in materia PR e globalizzazione C hi non conosce i Beatles? Negli anni Sessanta i “Fab Four” di Liverpool hanno avviato, a modo loro, un primo grande processo di globalizzazione all’interno del mondo occidentale: con la loro musica e la loro immagine identitaria hanno conquistato in maniera dirompente l’Europa occidentale e lembi di quella centro-orientale proprio lungo la “Cortina di ferro”: Germania orientale, Cecoslovacchia, Ungheria e soprattutto Jugoslavia; il Nord America e, in misura minore, il Sud America; l’Australia e soprattutto il Giappone, allora il paese asiatico più occidentalizzato. Portando in sempre nuovi mercati i loro dischi e la loro ideologia i Beatles si sono trovati a competere in un’arena competitiva di tipo mondiale: in quei tempi non c’era internet, non si viaggiava low cost, l’inglese era una delle tre/quattro lingue che si po”The Beatles” di pubbliche relazioni, comunicazione, spettacolo e business management. Ma nella ferrea convinzione che erano meglio di Elvis Presley e che, una volta cambiati gli abiti ed il look, sarebbero arrivati al top del top. Parola di Brian Epstein (e John Lennon). Parole chiave “The Beatles”; Addetto stampa; PR; Lovemark; Effetto Nostalgia; Globalizzazione. tevano studiare a scuola, la televisione era in bianco e nero, generalmente statale e le radio commerciali, a parte il Nord America, non erano molto diffuse. C’erano però i Rolling Stones, c’era Elvis Presley e c’erano altri gruppi musicali che come loro divennero alfieri di una nuova cultura giovanile. C’erano infatti tantissimi giovani, in giro per il mondo, che per la prima volta cominciavano ad avere coscienza ed identità del loro ruolo, che grazie allo sviluppo economico diventavano anche una categoria sociale in grado di pesare sul mercato, che proprio nella musica trovavano uno strumento di amicizia, un canale di comunicazione, un’occasione di creare comunità. Il loro staff, completamente o quasi a digiuno di teoria e pratica di relazioni pubbliche, ufficio stampa, ufficio promozione e marketing, riuscì con loro a creare un mito. Impresa che nessuno è mai più riuscito neanche lontanamente ad avvicinare e che 85 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) difficilmente potrà essere ripetuta nella società del XXI secolo. Quarant’anni dopo i Beatles sono ancora sul mercato, il loro mito non pare prossimo a venir meno e, incredibile a dirsi, ogni volta che i loro dischi vengono rispolverati e tirati a lucido per essere immessi sul mercato finiscono immancabilmente per vendere milioni di copie, conquistano le vette delle hit parade, tornano a fare parlare di sé e c’è sempre qualcuno che rispolvera frasi e motti ormai adusi: Beatles are back; Beatles forever; Beatlemania, sorta di parola d’ordine che rimette in moto un giro virtuoso artistico, emotivo, commerciale. Quello che colpisce nel percorso artistico beatlesiano degli anni Sessanta è che hanno caparbiamente utilizzato inconsciamente un approccio strategico “glocale” che oggi definiremmo “think global, act local” nel periodo 1960/67, il periodo che potremmo genericamente definire “Periodo Epstein”, il loro primo manager, che li scoprì a fine 1961 ed in 30 mesi li portò per mano da uno scantinato di Liverpool, il “Cavern Club”, al palcoscenico mondiale. Brian Epstein morì in circostanze mai del tutto chiarite nell’agosto del 1967, mentre il mondo intero era per la prima volta globalizzato dalla musica dell’album Sgt Pepper’s. Nei 30 mesi che seguirono, l’era della “Apple Corps ltd”, attraverso la nuova società ed il nuovo management perseguirono un approccio strategico globale, il “think global, act global”. Come noto, l’approccio strategico glocale presuppone oggi che ci sia la capacità di orientarsi tanto alla standardizzazione del prodotto che all’adattamento dell’offerta. Brian Epstein quasi cinquant’anni fa si muoveva e muoveva i suoi “boys” nell’ottica che avrebbero superato Elvis Presley, allora re incontrastato del rock. Quando li proponeva ad ignoti impresari di balere e sale da ballo aziendali qua e là per l’Inghilterra, li proponeva come se avessero già l’imprinting e l’eredità del “king of rock” e loro si esibivano per un palcoscenico senza confini, che li proiettava in prospettiva su ben altri palcoscenici. Il terzo tipo di approccio strategico, quello locale, “think local, act local”, fu solo sfiorato dai ”The Beatles” issn 2035-584x Beatles quando George Martin, il produttore musicale della EMI che li seguiva dall’inizio e li seguì fino al 2005, e Brian Epstein vollero che incidessero negli studi EMI di Parigi due loro pezzi in tedesco per il mercato che li aveva visto agli albori esibirsi nei locali del malfamato quartiere a luci rosse di Sankt Pauli. Narra la cronaca che i Beatles non volevano farlo e che George Martin dovette andarli a prendere fisicamente in albergo, dargli una strapazzata e portarli in sala di registrazione. Mai più incisero canzoni in altre lingue, eccezion fatta per il refrain di Michelle in francese ed un paio di parole in un improbabile spagnolo nell’ultimo Abbey Road. In questo primo decennio del nuovo secolo/millennio il forte sviluppo delle tecnologie e dei mezzi di comunicazione e la conseguente integrazione economica hanno portato all’omogeneizzazione dei bisogni, delle preferenze, dei modelli di consumo1, all’emergere di un consumatore sempre più definito dalla complessità sociale, politica, istituzionale e tecnologica e sempre meno dalle differenze geografiche. La tipica domanda che tra Beatles fans ci si faceva e si fa tuttora è la classica: “Ma tu chi preferisci dei quattro?” Ed ancora: “quale è la tua canzone preferita?”. A ben vedere, la monotona ripetizione del quesito porta ad una doppia interessante considerazione: ognuno di noi è diverso, unico, per certi versi anche speciale; ma, siamo tutti uguali2, “we want the Beatles” come scandivano le folle di fans in attesa dei loro concerti. La EMI e la “Apple Corps”, insieme alla “Atv/Sony Music”, hanno oggi la possibilità di comunicare e promuovere il prodotto Beatles adottando una strategia globale pura, caratterizzata cioè dalla possibilità di soddisfare le esigenze della domanda attraverso un’offerta standardizzata e invariata rispetto alla sua collocazione geografica3. 1 Cfr. A. Di Gregorio, La comunicazione internazionale di marketing, Torino, 2003, pag. 5, secondo il quale tutto ciò ha portato alla nascita del ”consumatore universale” o globale. 2 Cfr. R. Walker, Murketing, Milano, 2009, pag. 23. 3 Cfr. A. Di Gregorio, cit., pag. 6. 86 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Il mondo è un unico grande mercato al quale si può proporre un prodotto standard ma, nel caso dei Beatles, di qualità. E la qualità, come vedremo, non è solo definita su standard oggettivi ma è anche oggetto di analisi, riflessione, contrattazione da parte dei Beatles, i due residui e le due vedove, il cui potere di interdizione è assoluto: se qualcosa non va ad anche uno solo dei partner, non se ne fa nulla. Nella recente preparazione di un videogioco messo in vendita a fine 20094, la vedova di John Lennon, Yoko Ono, ha preteso il restyling del cartoon perché non le piaceva la resa grafica dell’ex marito; Harrison ha bloccato la realizzazione di un articolato progetto celebrativo del gruppo5 finché il vecchio titolo originario, The long and winding road, non è stato modificato, perché non accettava che la sua storia fosse contrassegnata con il titolo di una canzone di Mc Cartney. A gennaio 2008 è stato messo sul mercato il catalogo beatlesiano, qualsiasi azienda può chiederne l’utilizzo per proprie operazioni promozionali, ma i quattro si riservano di poter dire di no all’investitore. Potere di veto che si estende all’intero merchandising beatlesiano: Mc Cartney ad esempio è oggi vegetariano ed ha recentemente autorizzato una grande azienda all’uso del logo per cinture e corde di chitarra a patto che fossero fatte di materiale sintetico. Nel 2000 è stato pubblicato il libro The Beatles Anthology, la storia dei Beatles in 340.000 parole o giù di lì. Il libro, in un format assolutamente uguale, è stato tradotto in alcune decine di lingue, tutte versioni proposte negli scaffali delle librerie del mondo intero nello stesso giorno6. 4 Il videogioco “Rock Band” è stato messo in vendita il 9.9.2009, giornata scelta in ossequio ad una citazione (... number nine ...number nine ... number nine ...) della canzone “Revolution number 9” del White Album, è stato uno dei giochi best seller natalizi ed ha materializzato il sogno di tanti di poter suonare, quantomeno virtualmente, con i loro idoli. 5 Anthology, questo il nome poi concordato dai quattro aventi diritto, ha prodotto, nel tempo, una serie di videocassette/DVD, un libro e tre doppi CD tutti incentrati sui dieci anni di vita del gruppo (1960-1970). 6 The Beatles (a cura di) The Beatles Anthology , Milano, 2000. ”The Beatles” issn 2035-584x L’agire globale di EMI ed Apple è agevolato dal fatto che il marchio Beatles fa ormai corsa a sé, non ha più un concorrente definito come potevano essere negli anni Sessanta i Rolling Stones; ma, soprattutto, dal fatto che esiste una comunità virtuale, ma non troppo, di Beatles fans organizzata in Fan Club e soprattutto oggi in social network che, attraverso “Youtube”, “Yahoo”, “Facebook” mettono in rete letteralmente milioni di fans, il cui passaparola nella comunità virtuale come in quella reale è diventato uno strumento di informazione, comunicazione, promozione incredibilmente efficace ed efficiente, capace di promuovere un concerto di beneficenza, di sostenere una Convention, di fare vendere un CD o un libro o quant’altro. Ho detto marchio ma pensavo brand se non addirittura a lovebrand: sicuramente, negli anni Sessanta non si parlava di brand e difficilmente si sarebbe potuto farlo: i Beatles avevano una loro identità ben precisa, anche se in costante evoluzione, erano vivi e vegeti, interagivano con il loro pubblico e poi con l’universo toto. Oggi, come già detto, ne rimangono due su quattro, avanti negli anni (Mc Cartney in occasione di una recentissima esibizione a New York sul tetto degli studi dell’”Ed Sullivan Show” è stato definito un arzillo rockettaro), prossimi al ritiro definitivo dalle scene (almeno così ha detto ancora Mc Cartney nella primavera 2009), per cui di loro rimane sostanzialmente un’identità pubblica7, trasfigurata dalla storia ormai divenuta leggenda intorno al loro mito. Altro elemento che facilita questo agire globale è il fatto che i Beatles non hanno oggi alcuna connotazione che li mette contro qualcuno o qualcosa: superata la crisi del 1966 per la frase di John sui giovani, i Beatles ed il cristianesimo con la comprensione e la benedizione da parte dell’”Osservatore Romano” a fine 2008; ricevute le scuse del governo israeliano per il rifiuto alla loro tournè nel 1964; dopo che Mc Cartney ha suonato in 7 Cfr. Al riguardo M. Nesurini, in Good Morning Mr. Brand, Milano, 2007, pag. 70, secondo il quale un simile mito si autoalimenta e si sviluppa attraverso quello che si dice, si scrive, si registra di loro, delle loro vite personali ed artistiche, singole ed associate. 87 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) praticamente tutte le piazze dell’Europa centroorientale ed in numerose piazze africane ed orientali; spiegato in qualche modo ai propri figli ed al mondo intero il perché ed il percome del loro uso di droghe e che è comunque meglio non farne uso, praticamente i Beatles sono di tutti, per tutti, con tutti. I Beatles quindi comunicano con se stessi per com’erano allora e sono rimasti nella memoria collettiva ed individuale. I Beatles sono un prodotto universale per un target anch’esso universale, la cui strategia di comunicazione si focalizza periodicamente sul marchio Beatles più che sul singolo prodotto messo in vendita. Relazioni pubbliche e nostalgia IBeatlescometalinoncisonopiù:sopravvivono due arzilli vecchietti e due vedove, per cui non rimane che l’idea dei Beatles che ciascuno di noi si è fatta nel tempo, probabilmente abbastanza simili l’uno con l’altro. Come noto, ognuno vive la musica in una maniera assolutamente personale, eppure chi ha vissuto il periodo dei Beatles se ne è fatta una memoria in qualche modo collettiva, tant’è che i Beatles rimangono tuttora popolari non solo in virtù della loro musica e dei loro album. I Beatles sono stati sempre all’avanguardia, negli anni Sessanta come nei Novanta come in questo decennio d’inizio secolo, hanno saputo sfruttare al meglio le novità che la tecnologia metteva loro a disposizione ed hanno saputo farsene un’immagine e nel tempo anche costruirsi un qualche senso del passato grazie alla continua discussione che su di loro e sulle loro cose si è sviluppata negli anni, utilizzando quale veicolo per costruire e portare avanti la loro memoria libri, convention, commemorazioni, film, mostre, esposizioni permanenti. Le cose che hanno fatto nella loro breve carriera, ad esempio gli album e le loro copertine, sono come delle pietre miliari che marcano il loro percorso ed il nostro, una memoria collettiva amichevole verso la generazione che li visse e le nuove generazioni, in grado di cementare tra di loro queste diverse generazioni. ”The Beatles” issn 2035-584x Questa memoria li fa sopravvivere non come un’eredità musicale ma come una leggenda che affonda le sue radici nella mitologia del loro passato e che ebbe un enorme sussulto con l’assassinio di John Lennon nel 1980. A quel punto i Beatles furono definitivamente presi in carico dalla storia, i superstiti si scrissero anche canzonette per ricordare e rimpiangere i tempi passati e gli sbagli occorsi, in tanti scrissero libri su di loro ed anche loro ne scrissero. Il concetto di nostalgia è qui centrale: è la memoria di un’esperienza di vita vissuta con i Beatles negli anni Sessanta, da non confondersi con il concetto di “retro”, che è invece il tentativo di ricostruire oggi qualcosa che si muove o ricorda i Beatles. I due concetti sono tra loro opposti ma possono camminare insieme; anzi, retro si appoggia alla nostalgia, poiché è guidato dalla speranza di ripetere un’esperienza simile a quella del passato. La “Beatlemania” ed il suo tempo sono stati qualcosa di unico, di estremamente eccitante, chi l’ha vissuta ha avuto la fortuna di fare parte quale testimone diretto e protagonista pure lui. Quando invece negli ultimi anni si sono pubblicate l’Anthology o le varie raccolte successive erano sforzi di “retro”, non operazioni di nostalgia8. Anche se è vero che attraverso Anthology e la sua trasmissione televisiva una nuova generazione ha conosciuto i Beatles e si è avvicinata a loro. Ed anche se è vero che, in generale, le due dimensioni si incrociano e rafforzano vicendevolmente. Più in generale, affrontare il tema della memoria popolare significa confrontarsi con il fatto che la memoria di un certo periodo, di un evento, di un fenomeno culturale per quanto rilevante è spesso oscurata da pulsioni di nostalgia. Come pure che eventi di tipo retro influiscono nella capacità delle nuove generazioni di conoscere ed apprezzare quelli che li hanno preceduto. 8 E’ questa almeno l’opinione di R. D. Driver, in The Beatles image: mass marketing 1960s british and american music and culture, or being a short thesis on the dubious package of the Beatles, Graduate Faculty of Texas TechUniversity, 2007, pag. 14. 88 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Così negli anni Novanta ci furono contemporaneamente artisti Britpop che ripresero le canzoni dei Beatles e i Beatles superstiti che con la loro Anthology diedero una versione beatlesiana alternativa di molte loro canzoni. Il mercato rispose e premiò i Beatles e, quindi, l’ansia di nostalgia che percorreva la società. Le relazioni pubbliche e la musica Innanzitutto, la musica è costituita da più musiche: in primis, possiamo parlare di musica classica, lirica, leggera; la musica classica comprende a sua volta la musica sinfonica e quella cameristica, alla lirica appartiene anche l’operetta mentre ancora più complessa è la realtà della musica leggera, che spazia dal jazz al bebop, dal rock al pop ed a tutte le loro evoluzioni9. E’ evidente che tale diversità comporta anche per il professionista la necessità di adattarsi al genere che si vuole promuovere, ai diversi tempi e modi tipici del genere considerato, al tipo di informazione che si vuole fornire ai media. Nel nostro caso possiamo limitare l’approfondimento al campo della musica leggera, a quello del rock/pop in particolare, dove il soggetto da promuovere è tipicamente un artista ovvero un gruppo, in questo caso composto generalmente da tre a cinque elementi che suonano strumenti diversi: cantante, solista, sezione ritmica, sezione di accompagnamento. Le relazioni pubbliche in questo caso vengono svolte dall’addetto stampa, singolo o associato, e dalla casa discografica; nonché, in caso di partecipazioni ad eventi importanti quali festival, tournée, cartelloni stagionali, da parte degli uffici stampa e pubbliche relazioni degli enti proponenti. Nei media lo spazio per la musica rock e pop è disponibile nelle apposite pagine riservate agli spettacoli; ma nel caso dei Beatles e di altre simili icone pop non è infrequente che notizie loro collegate trovino spazio in prima pagina, nella cronaca, nell’economia, nella cultura. Il “Corriere della Sera” e “la 9 Per un’analisi più approfondita Cfr. R. Canziani, Comunicare spettacolo, Milano, 2005, pag.173. ”The Beatles” issn 2035-584x Repubblica”, per limitarci al caso italiano, ad esempio sono particolarmente attenti a tutto ciò che riguarda i Beatles ed a quello che si chiama “effetto nostalgia” e non di rado loro foto o aneddoti che li riguardano vengono utilizzati per arricchire pezzi di varia natura: negli ultimi mesi, così, i Beatles sono stati chiamati in causa per la nuova corsa al vinile, ai videogames, all’MP3, alle droghe –marijuana in testa-, al vintage nella moda maschile, al look pelato, ai ritocchi digitali, ai divorzi ed ai litigi, ai vegetariani ed agli Ufo, alle automobili ed alle lingue straniere, alle aste su “e-Bay” ed alla web-mania, alla meditazione trascendentale ed alla religione, alla messa al bando dalle autorità di Goa degli hippies. Tutto questo indaffararsi attorno alla memoria ed al mito dei quattro boys di Liverpool facilita enormemente i lavoro di chi deve lanciare e promuovere la musica Beatles, il logo Beatles, il merchandising Beatles, fino al recente marketing beatlesiano, cioè l’uso dei Beatles, in particolare la loro musica, per vendere altri prodotti. Rispetto agli anni Sessanta, oggi abbiamo a disposizione le risorse praticamente infinite del web, dove la musica è presente in modo massiccio, sia negli spazi prettamente musicali che in quelli informativi che in quelli comunicativi dei social forum, “Facebook” ed “Youtube” in primis, che ampliano a dismisura le opportunità che negli anni Sessanta davano ai Nostri la rete dei Beatles Fan Club, le fanzine ciclostilate, le riviste specializzate per teenager. In questi spazi di aggregazione e confronto circolano più di una leggenda metropolitana sui Beatles, la più famosa delle quali è certamente quella relativa al sosia che sostituirebbe Mc Cartney dalla fine del 1966, quando il beatle sarebbe morto decapitato in un incidente stradale nella periferia di Londra10. Il caso venne fuori da una radio commerciale americana un paio di anni dopo, per cui il povero Brian Epstein non dovrebbe esserne stato afflitto, lui che era completamente contrario ad inventare una notizia o forzare un 10 Dal 1968 ad oggi sono innumerevoli gli autori che hanno affrontato la questione, per tutti, Cfr. G. Cartocci, Il caso del doppio Beatle, Roma, 2005. 89 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) qualche evento che potesse portare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica sui suoi ragazzi, tecnica11 questa ricorrente negli anni Sessanta ed anche dopo. La promozione dei Beatles avvenne attraverso un uso per certi versi dilettantesco dei canali e degli strumenti allora tradizionali: stampa quotidiana e periodica, stampa specializzata, radio e televisione, pubblica e commerciale, cinema; attraverso strumenti che proprio loro innovarono profondamente quali la rete dei Fan Club (potremmo considerarli antesignani dei social network?), i tour mondiali, un look in continua evoluzione a rimarcare l’essere gruppo prima e le singole individualità poi, la fotografia, il videoclip (che essi sostanzialmente inventarono nella forma attuale), la stessa lingua veicolare inglese, in grado di superare le barriere culturali esistenti. Oggi internet cambia le regole del gioco, le versioni online di quotidiani e riviste specializzate hanno un potere di penetrazione ben superiore a quello del passato, l’irrompere di “Youtube” ha rivoluzionato la fruizione della musica da vedere, già rivoluzionata da “MTv,” i cui prodromi per alcuni critici sono stati creati proprio dai Beatles. “E-Bay” a sua volta permette di “vincere” elementi conoscitivi ed identitari altrimenti difficilmente ottenibili e motori di ricerca come “Google” e “Yahoo” permettono di cercare ed ottenere informazioni come mai è stato possibile nella storia del genere umano. Certo, non c’è più da promuovere un concerto o una tournée dei Beatles; ma il recente lancio dei “Beatles Box” rimasterizzati come pure del videogame “Rock band: The Beatles” 12o dell’ipod con l’opera omnia beatlesiana13 pare in qualche modo fare il verso al buzz marketing che oggi va di moda ma che trova la propria origine sociologica nella teoria della comunicazione a due stadi14: il flusso delle comunicazioni viaggia dai media passando 11 Al riguardo, Cfr. R. Canziani, op. cit., pag. 182. 12 Vedi nota 4. 13 Messo in vendita il 7 gennaio 2010 esclusivamente su prenotazione, è costituito da una grande mela verde con la chiavetta inserita nel picciolo. �������������������� Al riguardo, Cfr E. Katz, P. Lazarsfeld, Personal Influence, issn 2035-584x per gli stakeholder e gli opinion leader, che a loro volta diventano diffusori dei messaggi. E’ un impegno comunicativo usato per generare un evento dall’impatto elevato, per creare un picco di attenzione e conversazione attorno ad un prodotto o ad un brand. Il meccanismo15 è stato spiegato come l’evoluzione vitale di un virus, da cui marketing virale: l’inoculazione del virus è vista come la conoscenza del prodotto, poi l’incubazione corrisponde all’uso che ne fanno i primi consumatori ed infine la diffusione e l’infezione corrispondono al passaggio del prodotto sul mercato. Le strategie utilizzate da Apple ed EMI in questi mesi hanno affiancato all’utilizzo di canali e strumenti di comunicazione tradizionali anche il ricorso a canali e strumenti innovativi. Così facendo Apple ed EMI hanno dimostrato di saper proseguire nel solco di quel continuo essere all’avanguardia che ha caratterizzato la nascita e l’affermarsi dei Beatles nel corso di quelli che, anche grazie a loro, alla loro tenacia e forza di volontà, alla loro genialità e creatività, al loro talento, sono unanimemente conosciuti e ricordati come i favolosi anni Sessanta. Per descrivere la parabola mediatica dei Beatles si dovrebbero utilizzare due distinte rappresentazioni. La prima è quella relativa agli anni Sessanta, con il gruppo in attività e quindi direttamente corresponsabile della strategia informativa, comunicativa e promozionale che li ha portati, con la celebre frase di Lennon, “to the top of the top”, affidata alla creatività, al fiuto ed alla buona volontà, più che all’esperienza e professionalità, di Brian Epstein, fino che ne è stato manager (agosto 1967); e quindi alla “Apple Corps Ltd”, più organizzata ma creata quando ormai i quattro ragazzi erano diventati adulti ed il lavoro di gruppo li affascinava sempre meno, quando le tournée ed i concerti con le folle scatenate ed urlanti di teen agers erano ormai un lontano e per alcuni fastidioso ricordo. La seconda è quella avviatasi nel primo decennio del terzo millennio e tuttora in corso, che vede impegnate la “Apple Corps Ltd” e la New York, 1955. 15 Sul tema si rimanda all’analisi di G. Arnesano, Viral marketing, Milano, 2007, pag. 38. ”The Beatles” 90 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) EMI a gestire un mito che ha creato un impero artistico ed economico in cui qualsiasi decisione sostanziale deve essere presa con il consenso esplicito dei due Beatles rimasti e delle vedove dei due scomparsi. Le difficoltà che ne derivano sono evidenti, non solo agli occhi attenti dei fans, e le relative strategie promozionali devono tenere conto di tale situazione; oltretutto, il patrimonio artistico lasciato dal gruppo non pare in grado di fornire nuove sostanziali “chicche” per un pubblico di ammiratori e collezionisti che oramai, grazie o a causa del potere di internet, mette in circolazione anche gratuitamente tutto ciò che in passato era a disposizione solo di pochi, fortunati estimatori. A fronte quindi di un mercato artistico necessariamente in fase di ripiegamento su se stesso, l’uso da parte del marketing dei richiami, degli stimoli, delle sensazioni del vintage e della nostalgia offre al mondo beatlesiano nuove, indubbie potenzialità di sviluppo. Le casse della Apple, in questo, caso, e quelle di Mc Cartney, Starr, Yoko vedova Lennon ed Olivia vedova Harrison ringraziano e continueranno a farlo, “many years from now”. Questa seconda fase è per certi versi la più affascinante, ma ad essa si rimanda ad altra occasione. Nelle pagine che seguono, invece, si analizzerà brevemente il “modus operandi” dello staff che seguì in quei favolosi Anni Sessanta l’esplodere della Beatlemania. Le Relazioni Pubbliche negli anni Sessanta L’evoluzione delle Relazioni Pubbliche è stata studiata da alcuni autori statunitensi a partire dalle sue radici più lontane per arrivare alle sue origini più recenti, Cutlip e Center16, Grunig e Hunt17 sono concordi nel riportare le origini delle R.P. al concetto di “informazioni per influenzare il punto di vista e le azioni delle persone”18. 16 I due sono autori di un manuale divenuto una pietra miliare per i cultori delle relazioni pubbliche, Cfr. S. M. Cutlip, A.H. Center, Nuovo manuale di relazioni pubbliche, Milano, 1983. 17 Cfr. J. E., Grunig, T. Hunt, Managing Public relations, HB J Publisher, Orlando, 1984, considerato il primo classico studio sulle relazioni pubbliche. 18 Cfr. l’analisi di E. Invernizzi, Manuale di relazioni pubbliche, Milano, 2005, pag. 12. ”The Beatles” issn 2035-584x In quei tempi, specie a cura di Cutlip, furono anche codificate cinque tecniche di propaganda19: - creazione di un’organizzazione di attivisti - uso di diversi mezzi di comunicazione - impiego di simboli e slogan - creazione di pseudo-eventi - orchestrazione del conflitto. In particolare Grunig ha elaborato quattro modelli di relazioni pubbliche, ciascuno dei quali coglie un modo ben definito di fare relazioni pubbliche20. - Modello “Press agentry-Publicity”, attività di comunicazione volta a raggiungere obiettivi di promozione e propaganda; comprende l’attività svolta per attirare l’attenzione dei media sul soggetto o sull’organizzazione del cliente; - Modello “Public information”, obiettivo dell’attività è quello di fornire al pubblico il massimo delle informazioni; informazioni veritiere, con comunicazione ad una via, senza feedback; - Modello “Two-way asymmetric”, attività concentrata su attività di comunicazione a due vie i cui flussi sono però asimmetrici, in quanto il flusso dell’emittente verso il ricevente è dominante rispetto a quello inverso; - Modello “Two-way symmetric”, attività di comunicazione a due vie con flussi sostanzialmente simmetrici, in quanto l’emittente fa suoi gli obiettivi del pubblico, specie degli stakeholders, mediandoli con i propri. I quattro modelli risultarono di volta in volta prevalenti nel tempo, anche se ognuno di essi ha continuato ad esistere nei periodi successivi e talora esiste tuttora. Così il modello “Press Agentry-Publicity”, affermatosi nella prima metà dell’Ottocento, il cui più affermato interprete fu Phineas Barnum, il cui motto era: “l’importante è che se ne parli, anche se se ne parla male; il pubblico è stupido e non ci si deve preoccupare di cosa pensa l’opinione pubblica”. Il modello rimase predominante sino alla fine del secolo, quando si sviluppò il secon19 Ibidem, pag. 14. 20 Ibidem., pag. 15. 91 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) do, il “Public information”21, la cui bussola era il concetto che il pubblico deve essere informato, e quindi verità e massima trasparenza nei suoi confronti. Questo modello restò in auge sino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando cominciò a sviluppasi il modello “Two-way asymmetric”22 basato sull’indagine della pubblica opinione per conoscerne gli atteggiamenti e le aspettative prima di progettare una campagna di R. P.. Il suo principio ispiratore era che il pubblico deve innanzitutto essere compreso ed i suoi bisogni tenuti nella giusta considerazione. A questo modello nel secondo dopoguerra comincia ad affiancarsene un altro, il cosiddetto “Two-way symmetric”, di cui Cutlip e Center sono probabilmente i principali interpreti: le R.P. consistono nella comunicazione delle idee e delle informazioni di un’organizzazione ai pubblici e nella comunicazione delle idee di questi pubblici, delle informazioni e delle opinioni all’interno dell’organizzazione emittente. Tuttora questi quattro modelli convivono, ovviamente con alterne fortune23, ragion per cui tutto fa pensare che anche negli anni Sessanta, il decennio in cui i Beatles nascono, raggiungono il top del top del successo, si sciolgono, le R.P. si svolgessero con una contaminazione di modelli e, all’interno di questi, di tecniche di propaganda. In quegli anni il modello “Press agentryPublicity” era diffuso soprattutto nella promozione delle attività sportive ed artistiche come pure per la promozione di prodotti svolta direttamente dagli uffici pubblicità delle imprese. Grunig stimava che l’attività così svolta dalle organizzazioni del settore coprisse circa il 15% del mercato, mentre un altro 20% era coperto dal ricorso al modello “Two-way asymmetric” da parte delle società di consulenza di R.P. 21 E’ opinione diffusa che il suo massimo esponente fu Ivy L. Lee, al riguardo Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center Allen, op. cit., pag. 60-62. 22 In questo caso massimo esponente fu Edward Bernays, autore dell’approccio scientifico alla materia ed inventore del termine “consulente in relazioni pubbliche”: al riguardo, cfr. . Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center Allen, op. cit., pag. 66. 23 Ibidem, pag. 21. ”The Beatles” issn 2035-584x Il rimanente mercato era appannaggio di pubbliche amministrazioni, organizzazioni non profit, enti di formazione, con un buon 50% di mercato coperto con il ricorso al modello Public information. Secondo quanto ripreso da Cutlip e Center24 sembrerebbe il modello “Press Agentry – Publicity” quello sostanzialmente utilizzato dal team per promuovere i Beatles, quantomeno sino alla morte del manager Brian Epstein, mentre gli anni della Apple potrebbero aver visto associate attività afferenti a questo modello con altre riconducibili al modello “Two-way asymmetric”. Brian Epstein ed il team che raccolse intorno a sé, come si vedrà più avanti, era in buona misura autodidatta, per cui il ricorso a tecniche consolidate e semplici era probabilmente il più immediato e facilmente utilizzabile. La Apple invece era una società ben più strutturata, quand’anche naive ed hippy in numerose sue espressioni, per cui è probabile che tecniche di conoscenza del mercato di riferimento siano state sviluppate, anche se non se ne trova traccia nella numerosa pubblicistica analizzata. Per quanto concerne la “Press agentry – Publicity”, le attività afferenti a questo ambito, alla promozione ed alla pubblicità del prodotto non sono facilmente distinguibili tra di loro, attività necessarie nel mondo dello spettacolo: l’accostamento della persona o del prodotto ad una celebrità, regalare prodotti sotto forma di premi, meglio se nel corso di uno spettacolo, meglio ancora se spettacolo televisivo, riuscire a fare pubblicare gratis dai media notizie su una persona o un prodotto, attirare l’attenzione quanto più possibile, suscitare fiducia del pubblico verso i produttori ed ottenere il loro favore e la loro comprensione. Ladies and gentlemen: “The Beatles!” A Liverpool, porto di arrivo di navi e musica d’oltreoceano, erano fioriti i gruppi musicali imitatori di Elvis. Tra questi si fece in qualche modo notare un gruppo che si esibiva per pochi spiccioli nelle ba���������������������������������������� Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center Allen, op. cit., pag. 35-36. 92 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) lere di Liverpool e dintorni, sale da ballo parrocchiali e piccoli teatrini locali: il nome variò più volte nel tempo, “Quarrymen” (dal liceo Quarry di Liverpool), “John and the Moondogs”, “Tony Sheridan and The Beatles”, “The Silver Beatles”, “The Beatles”. Il gruppo comincia ad avere una sua fisionomia più precisa in occasione della prima tournée ad Amburgo, 17 settembre 1960, con Pete Best alla batteria e Stuart Sutcliffe alla chitarra basso insieme alle altre tre chitarre John Lennon (ritmica), Paul Mc Cartney (basso) e George Harrison (solista). Qui comincia il viaggio che trasforma una sgangherata rock’n’roll band nel mito che fu, che è, che presumibilmente sarà. E qui inizia una breve analisi per individuare in che modo il gruppo ed il suo management lavorò per creare un’immagine identitaria in grado di reggere il confronto con la musica indimenticabile che il duo “Lennon&McCartney” sfornava a ritmo sostenuto e che la band denominata The Beatles interpretava in maniera perfetta, sublime, ineguagliabile, indimenticabile. Un’analisi che si conclude volutamente con la morte di Brian Epstein, il collasso della “Nems Limited”, la società da lui formata per gestire il business dei Beatles e la nascita della “Apple Ltd”, società voluta dai quattro Beatles sia per dare spazio alla propria individualità artistica che stava emergendo, sia per motivi banalmente fiscali, sia per l’insoddisfazione che stava crescendo in loro a fronte dell’incapacità dimostrata nel tempo dal loro manager di gestire in maniera adeguata su scala globalizzata il business che così bene aveva saputo gestire a livello nazionale. Quello che oggi è lapalissiano, e cioè che lo show business richiede capacità gestionali elevate con particolare attenzione al ruolo della promozione, della pubblicità, della comunicazione ed allo loro gestione professionale, allora non era di apparente immediatezza. Nell’intero team che negli anni della Beatlemania gestì lo sviluppo di un impero artistico e commerciale non vi era un solo vero esperto della materia: erano l’amicizia e la lealtà l’incipit della collaborazione ed il collante del gruppo, oltre che una fiducia senza limiti nelle capacità dei quattro ragazzi di arrivare al ”The Beatles” issn 2035-584x top del top. Perché, come diceva sempre Brian Epstein nel presentare i suoi Beatles anche al proprietario o gestore di una sperduta balera dello Yorkshire, “sono speciali, diventeranno più grandi di Elvis”. “The Sgt Pepper’s lonely hearth club band” Il quinto Beatle Brian Epstein, 27 anni, direttore della “Nems – “North End Music Stores di Whitechapel” a Liverpool, sedeva alla cassa quando Raymond Jones, 18 anni, in jeans e giubbotto di pelle nera, intorno alle tre di sabato 28 ottobre 1961, entrò nel negozio e chiese un disco, “My Bonnie”, registrato in Germania. Jones non sapeva che in quel preciso istante innescava un cataclisma che avrebbe sconvolto la società contemporanea. Brian Epstein non era nessuno, era un tipo con giacca e cravatta, razionale, e proprio per questo adatto a fare da ponte tra “genio & sregolatezza” dei ragazzi e le logiche organizzative dello show business25, riuscendo ad introdurre ed imporre una logica di disciplina e di operatività per obiettivi tipica del mondo imprenditoriale. Le foto professionali in studio e sul palco, i programmi di sala prefissati, le divise con giacca e cravatta, le conferenze stampa per presentare ufficialmente le iniziative dei suoi ragazzi “crearono per sempre un divario tra i concetti di “rappresentazione” e di “realtà” per quei quattro scapestrati di dubbia educazione familiar-sociale e posero le basi per la tecnica della comunicazione d’immagine applicata al neo-nato mondo beat, dove era necessario occuparsi di un gruppo di persone e non di una persona sola, sperimentando la soluzione innovativa più sorprendente: omogeneizzare il profilo individuale dei quattro in un profilo comune unico, poi culminato nella pettinatura caratteristica (“the mop top”, la zazzera)”. Anche se quello che riuscì ad applicare nel piccolo inglese non gli riuscì nel grande del mondo, con i Beatles per la prima volta “globalizzato”. 25 Simili considerazioni sulle competenze di Brian Epstein sono più che consolidate, per tutti Cfr. S. Pettinato, Nel nome dei Beatles, Milano, 1997, pag. 70. 93 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Fino ad allora i Beatles si segnavano da soli su un taccuino le serate per le quali i vari impresari e gestori di locali li prenotavano, in maniera improvvisata, di volta in volta: quando arrivò Brian, l’ingaggio del “Cavern” raddoppiò di colpo da 7 sterline e 10 a 15. Firmato il contratto (24 gennaio 1962), ispirò il proprio modus operandi alla massima cui si ispirava nel vendere mobili: “Se fai vedere qualcosa di bello alla gente, lo compreranno”26, imponendo cambiamenti radicali al gruppo, nel look, nello stile, nel modo di comportarsi. Portò efficienza ed organizzazione, preparò con cura i programmi dei concerti, aumentò il cachet del gruppo e scelse solo un certo tipo di locali; ripulì il loro aspetto nel vestire ma anche nel comportamento sul palco, ridusse la durata delle esibizioni ad un’ora massima con preselezione dei pezzi più graditi al pubblico. Rifiutò sempre l’accusa (anche di Lennon) di aver tradito lo spirito del gruppo per cercare redditizi compromessi commerciali, affermando di aver solo proiettato l’immagine di ciò che già esisteva. E comunque gli piaceva, come ricorda George Martin, “quel trafficare caotico, giocare con i paesi e le date, l’eccitazione del potere”27. Brian Epstein era assolutamente all’oscuro di cosa significasse gestire un gruppo rock ma affascinato dalla prospettiva si buttò nell’avventura, anche per liberarsi dall’abbraccio della famiglia che cominciava ad andargli stretto. Ma in breve capì che anche un gruppo rock aveva bisogno di pubblicità e lui fu il primo nel “Merseyside” ad offrire ai suoi ragazzi non solo un manager in grado di trovare serate e raccogliere i compensi ma anche una vera e propria attività di PR, in grado di pensare al look ed al business, alla radio ed alla televisione. Fu lui, insomma, l’organizzatore ed il promotore che modellò la loro immagine pubblica, che selezionò tournée e spettacoli dal vivo, apparizioni alla radio ed alla televisione, che trovò un contratto discografico ed uno televisivo. 26 Anche in questo caso, si tratta di citazioni ricorrenti nella storiografia beatlesiana, per tutti, Cfr. M. Hertsgaard, La musica e l’arte dei Beatles, Milano, 1995, pag. 87. ������������������ Ibidem, pag. 89. ”The Beatles” issn 2035-584x Ma è indubbio che nonostante il suo grande fiuto promozionale e la devozione totale al gruppo sprecò una serie incredibile di opportunità commerciali, privando i Beatles di milioni di sterline che avrebbero potuto guadagnare dai contratti per i dischi e per i diritti di autore, dai contratti per i film e per i concerti, dal merchandising e da chissà cos’altro ancora. In altre parole, nello show business globalizzato Epstein non era cresciuto in maniera proporzionale ai suoi ragazzi, che oltretutto erano a loro volta cambiati in un contesto artistico a sua volta in grande fermento ed evoluzione, ognuno prendendo un po’ alla volta una sua strada artistica e personale, in un processo di allontanamento che avrebbe portato di lì a qualche anno alla definitiva separazione. Quando morì nell’agosto del 1967 i Beatles, insoddisfatti degli aspetti finanziari del loro impero, avevano già fondato la Apple ed in molti si chiedevano che ne sarebbe stato di Brian Epstein, il cui contratto con i Beatles era pure in scadenza di lì a poco (9 ottobre 1967). “Non ce l’avremmo mai fatta senza di lui, e viceversa”, disse una volta John Lennon28. Di formazione teatrale, Epstein impose ai rudi Beatles un cambio immediato di look: via i giubbotti di pelle nera, il ciuffo alla Presley, i fili delle corde delle chitarre che pendevano alle estremità: “Se volete essere presentabili tagliate quei fili, e fate un po’ di ordine; per essere presentabili smettetela di mangiare sul palco, di bestemmiare, di fumare”. Pur lasciando spazio alla loro individualità cominciò a pensare ad una divisa diversa dai loro jeans ineleganti e addirittura impose loro un profondo inchino al termine dei pezzi musicali: ricorda Paul29 che “una delle più grandi cose che ci ha detto Brian di fare fu proprio quell’inchino, l’inchino alla “Beatles from the waist”. Disse che sarebbe venuto molto bene, era la sua formazione teatrale che lo guidava”. Se sei a teatro e vuoi esprimere a qualcuno che è bravo, devi averlo davanti. Se se ne fossero andati appena finito di suonare, invece, i fans ne avrebbero perso il contatto visivo e non solo. ������������������ Ibidem, pag. 84. ������������������ Cfr. D. Geller, In my life, Thomas Dunn Books, New York 2000, pag. 49.. 94 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Altra invenzione scenica imposta da Epstein, visivamente accattivante30, fu la mossa di Mc Cartney e Lennon che, cantando gli “ooooo” in falsetto in alcuni pezzi, scuotevano contemporaneamente i capelli pettinati a caschetto: Starr ed Harrison all’inizio ne risero, per Lennon l’idea avrebbe invece funzionato e così fu: ogni volta che i Beatles eseguivano i loro “ooooo” accompagnati dallo scuotimento di testa il livello di entusiasmo tra il pubblico saliva immediatamente. Questa mossa, sempre più perfezionata nel corso dei primi concerti, era resa possibile anche dalla particolare disposizione scenica dei quattro: il manico del basso-violino “Hofner” di Mc Cartney girato verso destra (era mancino) ed al suo fianco, testa a testa, con il manico della chitarra solista “Gretsch” verso sinistra, Harrison; sul retro appariva Starr alla batteria “Ludwig” con la caratteristica T allungata verso il basso, divenuta nel tempo quasi logo ufficiale del gruppo, su una pedana di un metro di altezza, elemento rassicurante che domina dall’alto il tutto (la batteria, oltretutto, è lo strumento che dà tempo e ritmo al fluire musicale), mentre a destra la figura di Lennon si stagliava con la chitarra ritmica, una “Rickenbacker” bianca e nera con il manico a sinistra. Disposizione che rendeva scenico anche l’inchino, profondo, dei quattro, incluso Starr che si piegava seduto sulla sua batteria: “tenevamo l’inchino contando: uno, due, tre… e lo facevamo tutti assieme contemporaneamente” confessò una volta Mc Cartney31. Ricorda John che Epstein andava in giro ad ingraziarsi tutti quanti, quelli dei giornali e quelli che avevano considerazione di lui. 30 Anche I. Mac Donald, The Beatles, L’opera completa, Mondadori, Milano 1994, pag. 82, riprende temi ampiamente conosciuti sulle modalità del profondo cambiamento che i Beatles vissero nei primi mesi di quello che abbiamo chiamato Periodo-Epstein. 31 Cfr. L. Lange, The Beatles Way, Essere Felici, Diegaro di Cesena 2002, pag. 133: si tratta di un manuale che trae spunto dale vicende beatlesiane per dettare un vero e proprio decaologo per vivere bene ed avere successo nella vita. L’analisi che l’autore fa del cambiamento di look del gruppo è da questo punto di vista particolarmente interessante. ”The Beatles” issn 2035-584x Un po’ alla volta iniziò a fare il PR del gruppo, cercare di farsi pubblicità era per lui come un gioco, ricorda ancora John: li portava in giro da un ufficio all’altro dei giornali locali e delle riviste musicali chiedendo che scrivessero articoli su di loro, ai quali chiedeva di farsi belli per i reporter, anche per quelli più snob che non perdevano l’occasione di far sentire loro il favore di cui li gratificavano dedicandogli la propria attenzione. Il 1 gennaio del 1962 proprio Epstein procurò loro un’audizione a Londra alla “Decca”, rimasta famosa non tanto per il livello delle incisioni (era comunque l’alba del nuovo anno …) quanto per il rifiuto a scritturarli di Mike Smith, che sentenziò “I gruppi con tre chitarre hanno fatto il loro tempo, signor Epstein!” e divenne così famoso come l’uomo che perse i Beatles. Quella mattina, bighellonando per Londra, incontrarono un gruppo musicale che indossava stivaletti con un elastico sui fianchi, li facevano in un negozio della Charing Cross Road chiamato “Anello & Davide”: di lì a breve il mondo li avrebbe conosciuti come gli stivaletti alla Beatles. Il look alla Beatles andava definendosi: via i giubbotti di pelle ed i jeans, largo ai pullover a collo alto e poi ai completi in mohair di Beno Dorn, un piccolo sarto del Wirral londinese. La prima donna Astrid Kirchherr, fotografa di Amburgo, ebbe una love story con Stuart Stu Sutcliffe32, membro originario della band, e frequentando il gruppo cominciò a criticare l’abbigliamento, a cominciare dagli stivali a cow boy e giubbotti di pelle, poi il taglio di capelli e l’uso abbondante di brillantina, molto stile teddy boy: con molta difficoltà giunse a convincere Sutcliffe ad adottare un taglio particolare, detto alla francese: gli tirò giù tutti i capelli con la spazzola ed a colpi di forbice aggiustò i capelli e li tagliò. George 32 Tra le numerose biografie dei Beatles, sul ruolo della Kirchherr Cfr. H. Davies, The Beatles, The authorized biography, London, 1981, pag. 103. 95 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Harrison contribuisce a ricostruire l’origine del famoso caschetto alla Beatle: l’ispirazione venne ad Astrid vedendolo uscire da una piscina, con l’acqua che aveva fatto scendere i suoi capelli tenuti all’indietro da manate di brillantina: “No, lasciali così, stai bene!”33. Quando prese in mano la macchina fotografica e cominciò a fotografarli, pretese da loro vestiti più ricercati per le sessions fotografiche in bianco e nero che avrebbero ispirato la copertina del loro secondo album “With the Beatles”. Famosa al riguardo la battuta di Lennon:” OK, ragazzi, indosserò un completo: posso mettermi anche un preservativo se qualcuno mi paga”. Cambiarono così più volte la loro uniforme, dapprima indossando pantaloni neri attillati di pelle di nappa, stivali da cowboys comprati ad Amburgo e “cappellini a figa” rosa, questi ultimi però trovati a Liverpool. Poi, passarono alle famose giacche senza colletto, anche in questo caso grazie ad una ispirazione di Astrid: se ne era cucita una, rielaborando un’idea in voga di Pierre Cardin, che a Stu piaceva tanto al punto che se ne fece fare una per sé. Gli altri lo presero in giro, all’inizio, per via di quella “giacca della nonna”. Ma poi… Fu lei il primo fotografo professionista a riprenderli ed utilizzò con loro la tecnica delle riprese in bianco e nero con il volto illuminato a metà che poi in tanti avrebbero ripreso. Indubbiamente, fu anche lei la prima ad intuire il loro potenziale fotogenico, elemento poi di assoluto valore. Alla fine del 1962 i Beatles suonarono al Cinema Embassy di Peterborogh e conobbero Ted Taylor, dell’omonimo gruppo: “Vi vedo un pò pallidi, ragazzi, là fuori sul palco dovreste truccarvi un pò”. I Beatles protestarono, poi però si misero cerone di scena e Lennon anche l’eye liner nero. In quel periodo Epstein aveva cominciato a promuoverli in proprio e scoprì un vero e proprio contrabbando di manifesti del suo gruppo: la società che si occupava dei manifesti, allora, decise di farne uno ufficiale: manco a dirlo, in ognuno dei quattro riquadri 33 Ibidem, pag. 58. ”The Beatles” issn 2035-584x del poster il volto di un Beatle appariva con tanto di linea nera attorno agli occhi ben evidente. Ricapitolando: stivaletti alla Beatles, completi Cardin alla Beatles, camicia con bottone alto e cravatta, capelli alla Beatles, inchino alla Beatles: i quattro, in scena e fuori erano ormai un’altra cosa. Si era avverato il monito di Brian Epstein: per avere successo “indossate un abito e cambiate pettinatura”. Le idee non gli mancavano e cominciò così a costruire una squadra da mettere al servizio del progetto. Una squadra di persone di cui lui ed i ragazzi si sarebbero fidati e che a loro volta avevano fiducia e rispetto al limite della devozione in loro. Nessuno dei quali era un esperto del settore di cui si occupava, così come peraltro nessuno dei Beatles aveva studiato musica. Gli altri George Martin ricorda34 che Epstein venne al negozio “HMV” di Oxford Street con una copia dell’acetato dell’audizione “Decca”, se ne fece fare una copia ed al tecnico incuriosito spiegò che erano i Beatles e che lui cercava di fargli avere un contratto. Il tecnico lo introdusse da Sid Coleman, music publisher della EMI, che a sua volta, saputo di un precedente rifiuto della EMI stessa, lo introdusse da lui, George Martin, che dirigeva la “Parlophone”, etichetta del gruppo non particolarmente interessata alla musica rock. Martin aveva fiuto commerciale e capì che quei ragazzi avevano qualcosa di particolare, di speciale. Incredibile a dirsi, all’epoca della Beatlemania Martin lavorò per i quattro sulla base di un precedente contratto EMI che non gli fruttò, letteralmente, un penny in più dello stipendio contrattuale: 3. 200 sterline l’anno. Poi, concordi i Beatles, alla scadenza del contratto quinquennale si mise in proprio, prestando la sua collaborazione anche ben oltre lo scioglimento del gruppo, artefice e protagonista di tutto quello che 34 Anche in questo caso per le memorie di Martin Cfr. D. Geller, op. cit., pag. 45. 96 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) è maturato nel mondo musicale Beatles sino al 1999, quando si ritirò per problemi all’udito. Norman Smith fu lo studio engineer del gruppo, uno dei protagonisti della rivoluzione musicale beatlesiana. Approdato alla EMI all’inizio dei Sessanta, avviò il cambiamento del modo di registrare in studio, proprio al sopraggiungere del “Mersey Sound”. Neil Aspinall, compagno di scuola di Harrison e Mc Cartney ed amico di Pete Best fu il primo ad essere associato al gruppo quando questo, reduce dalla tournée di Amburgo del 1962, si trovò nella necessità di muoversi sempre più spesso da una città all’altra per tenere sempre più numerosi concerti. Aspinall aveva un furgone e bisogno di soldi, così divenne il road manager del gruppo, lasciò gli studi di ragioneria e cominciò a seguire il gruppo in modo permanente. Appassionato di rock’n’roll, cominciò così un sodalizio che lo avrebbe poi portato, nel 1968, alla morte di Epstein e nel caos anche finanziario che travagliò gli affari del gruppo, a divenire il manager della Apple. Mal Evans era amico dei Beatles dal tempo del “Cavern”, dove fu assunto quale buttafuori grazie ad una raccomandazione di Harrison. Dopo tre mesi, Brian Epstein gli offrì di lavorare per il gruppo come equipment road manager al posto di Neil Aspinall, che nel frattempo aveva assunto incarichi più importanti nella nascente organizzazione. Girò il mondo al seguito dei Beatles, delle cui tournée scriveva sul “Beatles Monthly”. Negli anni successivi divenne uno dei loro assistenti personali, sino a quando, morto Epstein ed arrivato Klein, se ne andò in America. Tony Barrow fu un altro acquisto di quei tempi. I Beatles avevano appena inciso il secondo 45 giri, Please please me, e stavano per apparire, per la prima volta, in uno spettacolo della “London TV”. Eppure erano praticamente degli sconosciuti35. 35 Tra i pochi biografi che trattano in maniera esauriente il ruolo di Barrow, Cfr. H. Davies, op.cit., pag. 186. ”The Beatles” issn 2035-584x Epstein allora scrisse al critico musicale del “Liverpool Echo”, Tony Barrow, in arte Disker, che oltre alle recensioni discografiche per il quotidiano scriveva commenti e contributi vari per le copertina della “Decca”. “Brian non aveva idea di come si fa a promuovere un disco, per cui suggerii di mettersi in contatto con l’Ufficio per le Relazioni con la Stampa. Lui ammise allora di non avere ancora un addetto stampa, stava ancora mandando in giro comunicati scritti a mano di proprio pugno. E mi chiese se potevo aiutarlo. E così, seduto alla mia scrivania “Decca”, scrissi e mandai fuori il primo comunicato stampa ufficiale dei Beatles!”36. Barrow si dichiarò dunque disponibile ma ad un patto: che si trattasse di una collaborazione professionale indipendente quale PR Barrow non poteva mandare in giro dagli uffici “Decca” materiale promozionale di un disco “Parlophone”, per cui si avvalse di Tony Calder, che aveva lasciato la “Decca” per mettere su un ufficio di PR insieme ad Andrew Loog Oldham, ben contenti di diffondere i comunicati stampa ed organizzare interviste per Epstein37. Di lì a poco Oldham si chiamò fuori (per andare a gestire un nuovo gruppo, i Rolling Stones) e Brian Epstein offrì a Tony Barrow di tenergli l’ufficio PR di Londra ad uno stipendio pari al doppio di quello che percepiva alla “Decca”, offerta difficilmente rifiutabile. Nei primi sei mesi di lavoro Tony riuscì a vedere pubblicato qualcosa sui Beatles una sola volta, quando Maureen Cleave, dell’”Evening Standard”, scrisse di quanto stava accadendo a Liverpool intorno ad un nuovo gruppo con la frangetta in avanti alla francese. Ben presto Epstein allargò la scuderia della NEMS ad altri artisti, per seguire i quali Tony lasciò l’incarico di addetto stampa dei Beatles a Brian Sommerville e Derek Taylor, pur continuando a dare una mano al gruppo in più occasioni. Ad esempio, fu sua l’idea del flexi natalizio per i membri del Beatles Fans Club. 36 Ibidem, pag. 186. 37 Cfr. B. Harry, The ultimate Beatles Enciclopedia, Zurich, 1992, pag. 63: il mito dei Beatles è oggetto anche di approfondimenti a tutto campo in alcune pubblicazioni enciclopediche,tra le quail quella di Harry è propbabilmente la più completa. 97 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Andrew Oldham era a Birmingham il 13 gennaio del 1963 quando i Beatles presero parte al loro primo programma televisivo di successo, il “Thank Your Lucky Stars” della ABC38. Quel giorno Epstein si lamentò del fatto che la “Parlophone” non lo aiutava molto nella promozione del gruppo e gli chiese di battere per loro da cima a fondo Londra. Tony Barrow, nel tempo libero dalla “Decca”, gli dava una mano come PR, ma aveva bisogno di qualcuno che fosse solo suo. Detto e fatto39. Oldham lavorò per i Beatles quattro mesi a Londra40 come loro addetto stampa; Peter Jones del “Record Mirror” era suo amico e gli permetteva di superare il parziale ostracismo di cui era vittima sul ben più importante settimanale “NME”. Proprio Peter Jones gli fece conoscere i Rolling Stones ancora sconosciuti e senza manager, per i quali abbandonò i Beatles. Brian Sommerville dopo aver trascorso 14 anni nella Royal Navy, si dimise e si gettò nelle PR. All’età di 32 anni incontrò Brian Epstein in un pub di Liverpool; fecero amicizia e quando Epstein gli propose di andare a lavorare con lui a Londra accettò di buon grado. Di lì a poco Epstein decise di riorganizzare l’attività di PR della “NEMS”, affidando a Tony Barrow il resto della scuderia “NEMS” e mettendo Sommerville a seguire a tempo pieno i soli Beatles: “il lavoro più ingrato che si possa desiderare”, come ebbe a dichiarare, impegnato a dire di no ogni giorno a decine di giornalisti, fotografi, cameramen che volevano i Beatles. Fu lui ad avere l’idea di sponsorizzare la tournée dei Beatles a Parigi con la “British European Airways”, primo sponsor ufficiale del gruppo: i Beatles si affacciarono dall’aereo a Parigi e scesero la scaletta portando a tracolla una borsa da viaggio con il marchio “BEAtles” ed in cambio andarono gratis 38 Al riguardo Cfr. la sua biografia A. L. Oldahm, Stoned, Roma, 2001, pag. 180. ������������������� Ibidem, pag. 182. ��������������������� Cfr. A. L. Oldham, Foreword in Days of Beatlemania, Mojo, december 2002, pag. 4. ”The Beatles” issn 2035-584x su e giù per Londra, nelle tre settimane di tournée francese. L’ingaggio all’”Olympia” era modesto, per cui quel benefit fu particolarmente utile ed apprezzato. Dopo appena dieci mesi Sommerville lasciò l’incarico: il loro contratto era stato stipulato sulla parola, Epstein ne voleva uno inoppugnabile, cercando di inserirvi clausole che Sommerville ritenne inaccettabili. Litigarono e Sommerville se ne andò. Derek Taylor giovane giornalista del “Daily Express”, il 30 maggio del 1963 era stato inviato a coprire uno spettacolo all’”Odeon Theater” con i Beatles e Roy Orbison. Al termine di uno spettacolo trascinante, con ragazzine che non volevano smettere di urlare il loro entusiasmo, dettò al telefono la sua recensione: il mondo aveva trovato i suoi veri eroi popolari del secolo, macché: di ogni tempo, dipingendo nel cielo un arcobaleno dorato con pentole d’oro ad ogni estremità41. Conosciuto in quell’occasione Brian Epstein, accettò di aiutarlo nella stesura del suo libro biografico A cellarful of Noise. Al terzo giorno di lavoro Epstein gli chiese di unirsi a loro, Taylor si licenziò e si unì al gruppo come assistente personale di Brian Epstein ed addetto stampa dei Beatles alla “NEMS”, divenendo in breve il più amato PR man dell’intero business musicale. Ma fu un amore di breve durata: Brian Epstein, al ritorno dal primo tour negli USA, lo accusò di aver usato la limousine che era stata noleggiata per lui: Taylor negò, ci fu un diverbio, si licenziò. Nell’ottobre del 1964 il suo posto quale assistente personale di Epstein fu preso da Wendy Hanson (90 parole al minuto a macchina e 140 stenonografiche), quale addetto stampa fu ingaggiato a tempo pieno Tony Barrow. Taylor restò nel giro delle PR e poi tornò con i Beatles, su loro richiesta, alla Apple Corps, dove rimase sino al 1° gennaio 1970. Ken Mansfeld era a capo delle Relazioni artistiche della “Capitol” americana e responsabi41 Ancora una volta, ci soccorre H. Davies, op. cit., pag 110, con una colorita rappresentazione di uno di quegli spettacoli che fecero esplodere la Beatlemania in Inghilterra. 98 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) le della promozione per la West Coast e come tale, quando nel 1965 i Beatles fecero il secondo tour americano, curò i loro rapporti con la stampa nell’area di propria competenza. Tony Bramwell, amico d’infanzia di George Harrison, impiegato della NEMS dopo che Epstein aveva contrattualizzato i Beatles, ne divenne amico e li accompagnò spesso in tournée come autista, scrivendo cronache per il “Beatles Montly”. Dopo la morte di Brian Epstein, che l’aveva fatto manager della “NEMS Presentations and Subafilms”, produzione di spettacoli e film, fu messo a capo della “Apple Promotion”, dove rimase sino al 1970, per poi spostarsi a Los Angeles a gestire per breve tempo la “Apple Music”42. Sean O’Mahony fece partire il “Beatles Monthly” nell’agosto 1963 e quattro mesi dopo ne vendeva già 330.000 copie al mese. Formalmente, era separato dall’attività del “Beatles Fan Club” ma traeva giovamento dall’euforia e dalla curiosità dei fans. Costava due scellini a copia e in America era venduto come supplemento del periodico “Datebook”, nel resto del mondo in abbonamento postale. Non aveva rapporti diretti con la “Nems”, era pubblicato dalla “Beat Publications”, che però pagava la “Nems” stessa per l’autorizzazione allo sfruttamento dell’immagine. La “Nems” al riguardo non cercava profitti dal “Beatles Monthly”, però pretendeva la qualità del prodotto, ad esempio richiedeva la presenza di molte immagini a colori, “le più belle, molto migliori di quelle che apparivano sui quotidiani” a parere di Hunter Davis43. issn 2035-584x dedicò loro, nella sua rubrica “Over the Mersey Wall”, un ampio servizio di lancio della loro prima apparizione al programma televisivo “Thank your Lucky Stars”. Harrison seguì per un certo tempo il gruppo, li accompagnò nella prima tournée USA e raccolse per il “Liverpool Echo” una serie dei suoi articoli nel volumetto promozionale natalizio Around the world with the Beatles. Andò in pensione sul finire degli Anni Sessanta, quando i Beatles erano ancora in piena attività discografica. Peter Brown era uno dei migliori amici di Epstein, seguì giorno dopo giorno sino alla fine della Apple gli affari dei Beatles, poi seguì le PR del Principe di Galles44. Sin dall’inizio cominciò ad affiancare Epstein nel gravoso doppio impegno di condurre il negozio e gestire il crescente impegno del management dei Beatles, sempre più in movimento tra Liverpool e Londra. Una volta che i Beatles cominciarono a girare, Brown lasciò il negozio e si concentrò sul management del gruppo, assistente personale di Epstein, interessandosi di un po’ di tutto, dagli aspetti contrattuali all’organizzazione di eventi sociali. Alla morte di Epstein divenne general manager della “Beatles & Co” e quindi dirigente della “Apple Corps.” Alistair Taylor fu il primo assistente personale di Epstein nel negozio di famiglia. Lo seguì a Londra, incaricato quale general manager dell’organizzazione, ruolo che svolse sino alla morte di Epstein. Per un breve periodo guidò la “SIELKIE”, una delle etichette tardive della “NEMS”. Alla morte di Epstein, su richiesta di Lennon, divenne Office Manager della Apple, incarico che svolse per alcuni anni. George Harrison, giornalista, omonimo del più giovane dei Beatles, era stato contattato da Brian Epstein alla ricerca di recensioni sul “Liverpool Echo”, di cui lo stesso era critico musicale, ma invano. Ma dopo che Tony Barrow / Disker, che oramai lavorava a part time per i Beatles, il 5 gennaio fece una lunga recensione del disco che sarebbe uscito di lì a pochi giorni, anche l’omonimo del “Liverpool Echo” saltò sul treno dei Beatles e La “NEMS - North End Music Store Enterprises Ltd”, ricorda Brian Epstein45 fu fondata a Liverpol nel 1962 per gestire gli affari degli artisti della scuderia creata da Epstein; indubbiamente, la fondazione della “NEMS” fu motivata anche da motivi fiscali, il gettito delle ����������������� Cfr. B. Harry, op. cit., pag. 119. ������������������ Cfr. H. Davies, op. cit., pag. 278. 44 Cfr. D. Geller, op.cit., pag. XV. ������������������� Cfr. B. Epstein, ib., pag. 96. ”The Beatles” Le società 99 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) entrate stava aumentando a dismisura e creava problemi, per cui insieme al fratello Clive, che ne divenne direttore, nel luglio Epstein registrò la società che in breve fu costretta, decisione quasi indispensabile, a trasferirsi a Londra, in Argyll Street W.1, giusto dietro il “London Palladium”. Con il suo staff Epstein cominciò a concentrarsi di più sulla promozione e sul benessere dei suoi artisti: soldi venivano da tutte le parti, dai concerti come dalle apparizioni televisive, dai dischi e dalle radio, dai film e dal merchandising, la vendita di talco, chewing gum, chitarre, tutto prodotto alla luce del sole, che può portare profitti, giorno dopo giorno con sempre nuovi prodotti, caratterizzati dalla loro estrema caducità: passata la novità, cade l’interesse. La “Northern Songs Ltd” fu la seconda società a vedere la luce nel mondo degli affari beatlesiano. Il primo 45 giri, Love me do, inciso il 5 settembre 1962, aveva avuto scarsa promozione e da molte parti si sussurrò che sarebbe salito al 17 posto della classifica dei 45 giri più venduti solo grazie alle migliaia di copie acquistate da “NEMS”, voce smentita decisamente da Epstein46: “il disco era di per sé sufficiente a convincere della validità del gruppo e quel rumore che giunse fino all’insostenibilità, per cui avrei comprato ingenti quantità del disco, come si fa a pensarlo? Non avevo certo tutti i soldi necessari per spingere così in su il disco e comunque non l’avrei fatto. I Beatles hanno avuto un successo naturale, senza trucchetti di sorta, vorrei che fosse chiaro a tutti”. George Martin qualche dubbio al riguarda ce l’ha47 e ricorda che Epstein era arrabbiato con lui: “Non abbiamo avuto alcun aiuto dai tuoi pubblicitari per il disco, nessuna promozione”, minacciando di rivolgersi allo studio “Hill&Range”, due pubblicitari americani di stanza a Londra. 46 Si tratta di uno dei tanti classici misteri beatlesiani: Epstein era proprietario della NEMS, il negozio di dischi più importanti del Merseyside, e ben sapeva come fare salire un disco nella hit parade, cosa peraltro da lui sempre smentita. Cfr. B. Epstein, The Beatles, A cellarful of noise, New York, 1965, pag. 61. 47 Ancohe in questo caso per i ricordi di Martin Cfr. D. Geller, op. cit., pag. 61. ”The Beatles” issn 2035-584x Martin lo sconsigliò vivamente, per loro sarebbe stato uno tra i tanti clienti, e gli suggerì una rosa di tre nomi. Dick James, ex cantante, apprezzato e benvoluto publisher, il primo di questi ad essere contattato, fiutò subito l’affare, si mise al lavoro duramente per promuovere Please please me, il secondo 45 giri, e li portò per la prima volta alla grande televisione48. In breve, suggerì a Epstein di smettere di lavorare canzone dopo canzone e di stringere un affare “a corpo” con gli autori delle canzoni del gruppo, una società in compartecipazione che gestisse il futuro fluire delle loro canzoni: la “Northern Songs Ltd”, che vide la luce nel gennaio 1963. Una compartecipazione alquanto azzardata ed infelice: 50% alla “Dick James Music” e l’altro 50% diviso tra “Lennon & Mc Cartney” (20% cadauno) ed Epstein (10%). Allora i gruppi non si scrivevano le canzoni, guadagnavano buoni diritti di riproduzione ed incisione e nessuno nell’occasione poteva aspettarsi quel che poi successe: con il senno di poi, per George Martin, Epstein fu un vero idiota49. Fatto sta che attraverso la “Northern Songs Ltd” Dick James controllò le canzoni del duo, mentre Epstein dimostrava maggiore interesse per la “Jaep Music Company”, controllata insieme allo stesso James, che gestiva le canzoni degli altri gruppi della scuderia Epstein. Il quale Epstein a lungo si dichiarò fortunato di tale partnership. Quando la “Northern Songs Ltd” fu fondata nel 1963 ed ottenne il controllo dei diritti della musica dei due prolifici Beatles, James passò in breve dall’essere uno dei tanti della scena artistica inglese ad essere il più importante del mercato. Quello fu il momento in cui tutto cominciò a cambiare nel mondo della musica, secondo Don Arden 50“gli autori 48 I Beatles avevano già partecipato a programmi minori su alcune television indipendenti, ma il 4 ottobre 1963 “debuttarono” sulla BB nel programma Ready, Steady, Go!, esibendosi dal vivo per un’audience ed un mercato tipicamente giovanili. 49 Ancora una volta Cfr. D. Geller, op.cit., pag. 61. 50 Cfr. A. Oldham, op. cit., pag. 272, la cui esperienza è particolarmente interessante, atteso che lasciò dopo pochi mesi I Beatles per fare da manager ad un nuovo gruppo che proprio lavorando per i boys di Liverpool 100 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) cominciarono a mettere in discussione gli accordi ed i manager hanno messo a rischio l’esistenza stessa degli editori. I Beatles sono stati come Pearl Harbor e molte navi affondarono. L’industria musicale cambiò”. Nel 1965 la società fu quotata in borsa: James si ritrovò con il 37% insieme a Charles Silver, il contabile della società; Lennon e Mc Cartney il 15% ciascuno, Epstein il 5%, NEMS 7,5 e Harrison e Starr lo 1,6 % ciascuno. Nonostante proteste e tentativi varii, Lennon e Mc Cartney non riuscirono mai a prendere il controllo delle loro canzoni. A loro insaputa nel 1968 James e Silver vendettero la loro quota azionaria all’”Associated Television Corporation”: Epstein era morto e temevano che l’arrivo alla Apple del nuovo manager, Allen Klein, avrebbe potuto creare loro problemi. Klein infatti di lì a poco cercò di creare un consorzio per acquistare il 20% delle azioni che, sommato al 32% dei Beatles, avrebbe permesso di controllare la società. Ma il tentativo fallì per il rifiuto di Lennon a farsi fregare un’altra volta da quei signori in abito e panciotto che sedevano nella city51. La “Publicity Ink” fu una organizzazione di promozione fondata nel 1963 da due studiosi di Rabelais e membri dell’associazione della stampa, che si si offrirono ad Epstein per promuovere i Beatles (e gli altri artisti “NEMS”) per 100 sterline l’anno attraverso montature pubblicitarie, trovate ingegnose, litigi e scenate, qualsiasi cosa insomma in grado di portarli sui giornali: ma nonostante le birre bevute insieme, Brian Epstein non accettò simili mezzucci per fare girare il nome dei Beatles. Però non si può non ricordare che altri lo facevano: in occasione del loro primo atterraggio negli USA, corse voce che il loro promoter locale, Nicky Byrne, avesse promesso una maglietta nuova fiammante a tutti i ragazzi che sarebbero andati all’aeroporto ad acclamare i Beatles. La “Stramsact” e la “Seltaeb” sono le due società che proprio Nicky Byrne aveva costituito aveva conosciuto, i Rolling Stones. 51 Cfr. B. Harry, op. cit., pag. 363: questa espressione, secondo alcuni biografi ancora più colorita, era tipica della mentalità di John Lennon. ”The Beatles” issn 2035-584x nel 1963 in Inghilterra e negli USA per gestire le licenze di produzione, al di qua e al di là dell’Oceano, di prodotti Beatles, che sempre più venivano richiesti dal mercato dei teenager. Inglese con quartiere generale negli USA, Byrne era stato avvicinato dal legale di Brian Epstein, David Jakobs, che gli aveva proposto di prendere in mano la questione, ritenendolo la persona adatta ad affrontare il mercato del merchandising. Apparentemente riluttante, Byrne si lasciò convincere ed allestì una cordata di amici per creare due società, la “Stramsact” e la “Seltaeb” per l’appunto. I Beatles stavano per sbarcare in America e Byrne, avvicinato dalla “Capitol Records” che gli offrì 500.000 dollari in una banca alle Bahamas per farsi da parte pur mantenendo la metà delle royalties, capì subito in che miniera d’oro era finito. Rifiutò, si diede da fare per organizzare la presenza dei fans in delirio all’aeroporto di New York ad attendere i Beatles e cominciò ad incassare milioni di dollari, lasciando ai Beatles il solo 10% dell’affare. Quando Epstein realizzò che a loro spettava il 10% e non il 90% che lui aveva originariamente pensato, chiese al proprio legale di andare a fondo della vicenda: al termine di una lunga e complessa vicenda legale l’accordo fu rinegoziato, ai Beatles venne riconosciuto il 46% delle royalties, ma nel frattempo Epstein aveva riorganizzato la “NEMS” e iniziato a trattare direttamente con le aziende interessate al merchandising di parrucche e chitarre di plastica, pupazzi e gadget di varia natura. Ma nel frattempo ci avevano anche rimesso suppergiù cento milioni di dollari: “alla fine non valeva la pena di fare causa a tutti. Era solo colpa di Brian. Era un ingenuo. L’ho sempre detto: un ingenuo” commentò Peter Brown, l’assistente di Epstein52. Nel caos totale nessuno si arrischiò più ad investire nel nuovo business del merchandising. Una perdita enorme per il gruppo, di immagine oltre che di guadagni, tanto più che di lì a breve, con il finire dei tour e dei concerti dal vivo, venne meno anche la rincorsa agli oggetti beatlesiani. 52 Al riguardo Cfr. M. Hertsgaard, op. cit., pag. 91, la cui ricostruzione della vicenda Seltaeb è particolarmente puntuale. 101 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Gli altri Altre categorie di interesse per il gruppo erano dei song-pluggers e dei disc jokeys: i primi devono essere uomini affascinanti, esperti del settore, amici di tutti, che devono riuscire a piazzare un disco in una trasmissione televisiva o in un programma radiofonico. Persone diligenti e piene di entusiasmo, Epstein si domandava come avrebbe fatto senza di loro. I disc jokeys sono tutt’altra cosa, se i primi sono uomini senza volto, loro vivono e lavorano esprimendo la loro personalità. Magari vanagloriosi, hanno meno potere di quel che credono ma, secondo Epstein, gradevoli in quanto allegri estroversi e gradevoli compagni. Alan Freeman, particolarmente competente, professionale e pieno di entusiasmo, era innamorato della musica e delle classifiche dei dischi; così come Jimmy Faville, che diceva sempre quel che gli passava per la testa, in maniera anche violenta, faceva previsioni assurde e di pessimo gusto. Ed ancora Brian Matthew, uno dei DJ più seri, secondo Epstein, che si mise in società con lui in una piece teatrale a Bromley; e David Jacobs, fascinoso e telegenico, uomo e DJ immacolato e molto gentile. E’ quello che aveva il miglior look e, contemporaneamente, particolarmente modesto. Modesto era però anche il loro peso sui gusti della gente, ben altro peso aveva (ed ha) la stampa, che solo un pazzo, secondo Epstein, poteva sottostimare. Essi hanno potere e lo adoperano esattamente quando, come e dove ad essi piace. Anche se, a differenza di quel che altri andavano affermando, secondo Epstein essi nulla avevano a che fare con l’esplosione dei Beatles. In effetti, il “Mersey sound” risuonò 18 mesi prima che una sua qualche eco giungesse ad un qualche ufficio stampa nazionale anche se, una volta scoperto ciò che stava avvenendo nel campo della musica popolare, risposero in modo splendido e ne parlarono con vigore: punto di svolta il 27 dicembre 1963, quando il “Times” di Londra fu il primo a pubblicare ”The Beatles” issn 2035-584x un articolo sul valore musicale del gruppo. Il critico musicale del giornale, William Mann, giudicò “Lennon e Mc Cartney i migliori musicisti inglesi del 1963” 53, trovando addirittura inferenze della canzone Not a second time con “Il canto della terra” di Gustav Mahler. Due giorni dopo il critico del Sunday Time si spinse oltre: i due erano i più grandi compositori dopo Beethoven! Certo, il rapporto di Epstein con i giornalisti era pragmatico: non si vergognava apparentemente, se ce ne fosse stato bisogno, di manipolare la stampa, la stessa cosa che avrebbero fatto loro con lui se glielo avesse permesso. Se c’era spazio su una pagina di giornale, avrebbe fatto l’impossibile per riempirlo con una sua storia. In fin dei conti, tutti facevano parte di un grande gioco: pubblico, artisti, manager, stampa, l’intera industria dell’intrattenimento, tutti uniti per “la grande causa del farsi acclamare tutti quanti”. Bill Harry, ricorda Brian Epstein, energico direttore del settimanale “Mersey Beat” e profondo conoscitore della scena beat locale, spingeva forte i Beatles, aiutandoli anche nella vendita dei biglietti per i loro spettacoli al Nord. In effetti Harry avrebbe voluto pubblicare una rivista di jazz ma i suoi amici John Lennon e Stuart Sutcliffe lo convinsero a fondarne una che promuovesse la scenario rock’n’roll locale: nacque così la rivista, denominata “Mersey Beat” per la copertura geografica (la foce del fiume Mersey) e lo specifico musicale (il nascente beat). Il 6 luglio 1961 uscì il primo numero, un’immagine grafica innovativa, 5.000 copie di tiratura distribuite tra negozi, agenti, locali di strumenti musicali e dischi, balere. Lo stesso Brian Epstein ne vendeva dozzine di copie nel suo negozio musicale ed i giovani Beatles andavano spesso in redazione a dare una mano, Lennon addirittura vi teneva una sua rubrica, dopo il successo che aveva avuto un suo lungo racconto “Being a short diversion on the origin of the dubious Origins of Beatles. Translated from the John Lennon”, talora sotto lo pseudonimo di “Beatcomber” 53 Ibidem, pag. 80. 102 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) trovatogli da Bill Harry (“Beachcomber” era una rubrica umoristica del Daily Express). Lennon utilizzò spesso il “Mersey Beat” anche per fare inserzioni pubblicitarie a pagamento. Da parte sua Brian chiese ed ottenne di potere pubblicare una rubrica, “Stop the world – and listen to everything in it”, di recensioni discografiche a firma Brian Epstein della “NEMS”. La rivista lanciò il “Mersey Beat Poll” che, il 4 gennaio 1962, vide i Beatles vincitori tra non poche critiche di partigianeria lanciate alla redazione. Il disc jokey locale Bob Wooler, autorevole ed influente oltre che collaboratore della rivista, segnalò a Harry l’ira degli altri gruppi, che parlavano della rivista come del “Mersey Beatle”: detto fatto, Bill Harrry creò l’inserto “The Mersey Beatle”. Con la sua rivista Harrry fece sviluppare tutto il mondo musicale locale, fece conoscere i gruppi e gli avvenimenti, i concerti ed i dischi, divenne un po’ il quartiere generale del beat che aveva ormai soppiantato il rock’n’roll: in breve tempo la rivista si espanse su un grande territorio, da Birmingham a Manchester, da Bristol alla Scozia, dando vita ad almeno 18 supplementi locali, innovando il giornalismo musicale (la prima guida delle band, la “Top 100 Chart”, l’elenco settimanale dei nuovi dischi) e divenendo il numero uno del suo settore in Inghilterra. Nel settembre 1964 Brian Epstein rilevò la rivista, garantendo a Bill Harry la massima indipendenza editoriale e, al caso, il necessario sostegno economico. La rivista aumentò di prestigio, full color, la prima rivista musicale inglese ad essere distribuita in USA. Ma l’iniziale promessa di Epstein venne progressivamente meno, chiese ed impose cambiamenti editoriali per espandere su Londra il peso della rivista, che nel frattempo aveva assunto il nome di “Music Echo”, divenendo fin troppo omologo ai suoi concorrenti londinesi. E Bill Harry, nonostante la rivista avesse raggiunto le 75.000 copie di vendita, si dimise dall’incarico. Di lì ad un anno il “Music Echo” era già in crisi, incapace di combattere i settimanali londinesi sul loro terreno di gioco. ”The Beatles” issn 2035-584x Ray Coleman, giornalista, una volta specializzatosi in giornalismo musicale, dopo la fusione di “Disc” e “Music Echo” (erede di “Mersey Beat”) voluta dal proprietario Brian Epstein, divenne editore di “Disc&Music Echo” per poi approdare, negli anni Settanta, al “Melody Maker” in qualità di editore capo. Scrisse spesso dei Beatles e fu lui a realizzare l’intervista (18 gennaio 1969) in cui John dichiarò che la Apple era un fallimento e che in sei mesi li avrebbe trascinati tutti a fondo. Brian Mathew fu forse il giornalista che più di chiunque altro lavorò con i Beatles dei primi anni. Li portò ben 10 volte al “Saturday Club”, prestigioso programma radiofonico della BBC, tra il 16 marzo 1963 ed il 26 dicembre 1964; li ospitò 4 volte all’”Easy Beat” e furono i primi ospiti del suo nuovo show “Top Gear” il 14 luglio 1964. Realizzò con loro numerose interviste e li seguì nel primo tour americano per la BBC. Sempre per la BBc realizzò, nel 1972, la serie radiofonica in 13 puntate “The Beatles Story”. The Beatles Fans Club Nella strategia promozionale di Brian Epstein, la creazione della rete dei “Beatles Fan Club” fu probabilmente la trovata più ingegnosa e rivoluzionaria per l’epoca, tanto più che fu messa in cantiere prima ancora della pubblicazione del loro primo disco. Il primo “Beatle Fans Club” sorse infatti nel 1962 e fu condotto da Roberta “Bobbie” Brown dalla sua casa di Wallasey, in Buchanan Road, che raccolse intorno a sé un gruppo di fan del gruppo e si impegnò a dare loro puntuali informazioni sull’attività dei quattro. E non solo: subito dopo la sua costituzione, il Club si fece carico di prestare assistenza all’organizzazione di un “Party di bentornati a casa” dopo la terza tournée ad Amburgo. Freda Kelly cominciò a dare una mano a “Bobbie” e quando Brian Epstein attrezzò un ufficio per la gestione degli affari “NEMS” sopra il negozio di dischi nel centro di Liverpool, affidò a Frieda Kelly per 6 sterline e 10 scellini la settimana il compito di scrivere a macchina lettere. In una piccola stanza senza finestre Kelly si 103 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) mise al lavoro insieme ad un’altra ragazza, spendendo parte del tempo a cercare soldi per comprare francobolli e spedire così sempre più numerose lettere di risposta ai “fans: “Per la verità Paul a quel punto faceva una rapida colletta tra i ragazzi e raccoglieva la somma che mi serviva. Epstein ad un certo punto dispose che i soldi delle iscrizioni al Fan Club gli sarebbero serviti per pagare le fatture dei francobolli e delle stampe. E così non dovetti più mendicare soldi dai ragazzi”. Lo sviluppo dell’attività del Club trasse giovamento dalla nascita del “The Beatles Book”, il mensile ufficiale lanciato nell’agosto del 1963: nuovi membri giunsero al Club dai nuovi lettori mentre i vecchi membri trovarono una newsletter loro dedicata all’interno del mensile, che comunque dedicava ampio spazio alla vita del Club. Nel giugno 1963 Barrow decise che ci voleva una Segreteria Nazionale del Club a Londra, nella sede di Monmouth Street, 13. Prima di allora i fans del sud avevano come riferimento Bettina Rose, nel Surrey, mentre a quelli del nord pensava da Liverpool Freda Kelly. A capo della nuova struttura fu messa “Anne Collingham”, persona assolutamente virtuale, un avatar ante litteram, idea di Tony Barrow presa non certo per ingannare i fans. Chiaramente, all’aumentare del numero di iscritti aveva corrisposto un aumento del numero di impiegati ed assistenti a tempo pieno, per cui era sempre più difficile la gestione della corrispondenza, per cui mettere tutte le lettere in capo ad un’unica figura inesistente sembrò la cosa più logica: Anne era il nome di sua moglie, mentre a Collingham abitava la sua assistente personale 54. Ma c’era anche un’altra ragione: l’attività era sempre più frenetica e sempre più chiamate arrivavano all’unico numero telefonico “COVent Garden 2332”, sia che fossero per il Fan Club sia che fossero per l’ufficio stampa. Quando qualcuno chiedeva di Anne Collingham non vi era dubbio di cosa stesse cercando, e veniva immediatamente 54 Cfr. T. Barrow, Their Fan Club, in S. O’Mahoney (a cura di) The best of the Beatles Book, , Londra, 2005, pag. 74: anche la vicenda dell’avatar “Anne” del BFC è un classico della storiografia beatlesiana. ”The Beatles” issn 2035-584x smistato ad una sua assistente. Chissà perché, “Anne” era sempre molto impegnata, al punto che nessuno riuscì mai a parlare con lei. A Natale del ’63 Epstein fece un’eccezione alla regola per la quale il Club non vendeva gadgets e, per aiutare un parente proprietario della “Weldons of Peckham”, che produceva uno stemma bicolore ricamato in oro e rosso, mise in vendita per i fans del Club un pulloverino polo nero con cucito sul petto quello stemma, al prezzo di 1 sterlina e 75, spedizione postale inclusa. La fotografia pubblicitaria di una bella brunetta diceva “Anne Collingham indossa il pullover ufficiale”, ma si trattava di Mary Cockran, che lavorava al Fans Club ed era stata usata anche come modella per disegnare il capo. L’esplosione della Beatlemania nell’autunno del 1963 aumentò vertiginosamente il numero dei fans e mise in pericolo quel rapporto anche personale che aveva legato i quattro ai loro fans. Il Club fece da parte sua l’impossibile per affrontare le migliaia di lettere che sommergevano quotidianamente il secondo piano del palazzo di Monmouth Street, 13. Due cose aiutarono a recuperare la fiducia dei membri del Club: a Natale fu inviato a tutti i fans che avevano aderito al Club entro novembre, e solo a loro in esclusiva, il primo disco natalizio; mentre a dicembre fu organizzata una doppia Fan Club Convention dei Beatles People, ben promosse attraverso la newsletter del Fans Club: sabato 7 dicembre all’”Odeon Theatre” di Liverpool ed al “Wimbledon palais” di Londra sabato 14, per complessive 6.000 presenze, quando il Club ne contava ormai oltre 30.000, che esplosero a 80.000 l’anno seguente nel solo Regno Unito. Ricorda Tony Barrow: “Quando aprimmo il portone, fu come con i saldi di gennaio di “Selfridges” moltiplicati per dieci! Dopo un rapido confronto con Mal Evans, Neill Aspinall e il press officer Brian Sommerville decidemmo di mettere da parte i pochi poliziotti presenti e di auto-organizzarci, in modo da permettere a tremila scatenati, in gran parte ragazze, di toccare i loro idoli, fotografarli e farsi fotografare con loro, chiedere autografi, guardarsi negli occhi con i boys, bersi un sorso di Coca Cola dalla loro bottiglietta”. 104 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Ma per i ragazzi fu anche l’occasione, autografando un po’ di tutto, di vedere quanta spazzatura di pessima qualità veniva venduta con le loro immagini, anche lì di fuori, a prezzi astronomici, con i fans disposti a comprare di tutto a qualsiasi costo pur di portarselo poi a casa firmato dai loro beniamini. Il problema del merchandising e del suo controllo era lì evidente e sotto gli occhi dell’intero management del gruppo”55. Nonostante il lievitare degli iscritti i conti non tornavano né tornarono mai, essendo ben superiori agli introiti del tesseramento le spese per la stampa della newsletter tre/ quattro volte l’anno più il flexi disc natalizio (era infatti stampato su plastica con doppia busta in cartoncino). Per non parlare delle lettere di risposta ai sacchi di corrispondenza che quotidianamente arrivavano. L’aumento del lavoro creò in un’occasione un vero e proprio disastro: miglia e migliaia di lettere si erano accumulate e non c’era tempo né personale per aprirle. Assente Tony Barrow, all’estero con i Beatles, un suo assistente decise di mandare al macero migliaia di lettere mai aperte; avrebbe dovuto farsi autorizzare da uno dei responsabili ma nessuno era in zona e l’ufficio straripava, al limite dell’ingovernabilità, e così parti l’ordine di portare al macero una marea di posta mai aperta, contenente ovviamente un po’ di tutto, assegni e versamenti degli iscritti inclusi. Al danno si unì la beffa: più di uno vide nella discarica quelle lettere ancora chiuse ed i giornali si impadronirono in un battibaleno della vicenda: ecco come i Beatles trattano i loro fans! Tony Barrow rientrò precipitosamente e riuscì a chiudere la vicenda, ovviamente dando disposizioni perché simili episodi non potessero ripetersi. Con la fine delle tournée, nel 1966, anche il Club ridusse le proprie dimensioni e quindi la propria attività; Dopo lo scioglimento, finito il sogno, il Club ridusse progressivamente l’attività e chiuse i battenti nel marzo 1972. ������������������ Ibidem, pag. 74. ”The Beatles” issn 2035-584x Eugenio Ambrosi, direttore del Servizio Corecom FVG, docente di comunicazione pubblica presso il Master in “Analisi e gestione della comunicazione” dell’Università degli studi di Trieste è fan beatlesiano e come tale ha promosso ed organizzato numerosi eventi Bibliografia G. Arnesano, Viral marketing, Milano, 2007 T. Barrow, Their Fan Club, in O’Mahoney S. (a cura di) The best of the Beatles Book, Londra, 2005 R. Canziani, Comunicare spettacolo, Milano, 2005 G. Cartocci, Il caso del doppio Beatle, Roma 2005 S. M. Cutlip, A. H. Center, Nuovo manuale di relazioni pubbliche, Milano, 1983 A. Di Gregorio, La comunicazione internazionale di marketing, Torino, 2003 R. D. Driver Richard, The Beatles image: mass marketing 1960sbritish and american music and culture, or being a short thesis on the dubious package of the Beatles, Graduate Faculty of Texas, Tech University, 2007 H. Davies, The Beatles, The authorized biography, London, 1981 B. Epstein, The Beatles, A cellarful of noise, New York, 1965 D. Geller, In my life, New York, 2000 J. E. Grunig, T. Hunt, Managing Public relations, Orlando, 1984 B. Harry, The ultimate Beatles Enciclopedia, Zurich, 1992 M. Hertsgaard, La musica e l’arte dei Beatles, Milano, 1995 E. Invernizzi, Manuale di relazioni pubbliche, Milano, 2005 L. Lange, Beatles Way, Essere Felici, Diegaro di Cesena, 2002 I. Mac Donald, The Beatles, L’opera completa, Milano, 1994 M. Nesurini, Good Morning Mr. Brand, Milano, 2007 A. Oldham, Stoned, Roma, 2001 S. Pettinato, Nel nome dei Beatles, Milano, 1997 R. Walker, Murketing, Milano, 2009 Emerografia A. Oldham, Foreword in Days of Beatlemania, Mojo, dicembre 2002 105 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ M. Cristina Barbieri Abstract Parole chiave Lo scritto prende in considerazione i casi giudiziari Englaro e Welby, muovendo dalla sentenza della Corte di Cassazione sul primo dei due casi per enuclearne i principi che ne informano lo schema argomentativo, principi sottesi anche alla sentenza sul caso Welby. L’uno e l’altro caso vengono presi in considerazione sotto il profilo penalistico, considerando anche la recente conclusione in sede penale del caso Englaro. Lo scritto si sofferma sulle differenze ‘fattuali’ tra i due casi e sulle conseguenze giuridico – penali che ne derivano sul piano della ‘posizione di garanzia’ del medico. Englaro; Welby; Autodeterminazione; Trattamenti medici; Diritti fondamentali; Libertà personale. Introduzione I due casi di cui ci si occupa in queste pagine hanno creato indubbiamente un turbamento nell’opinione pubblica, obbligata a riflettere sul momento di morire, sul significato delle cure mediche, sul valore delle scelte individuali. A più di due anni dall’emanazione delle due sentenze sui casi che hanno provocato reazioni scomposte in un parlamento in larga parte impreparato ad affrontare tematiche giuridiche così complesse, una riflessione si impone ancora al giurista, e in particolare al penalista, nella speranza che i problemi posti dal ‘finevita’ possano essere affrontati in futuro con la razionalità e l’umanità che meritano. I due casi, Welby e Englaro, presentavano profili problematici differenti sotto l’aspetto giuridico, sia civilistico sia penalistico. Mentre il caso Englaro ha trovato una progressiva elaborazione in sede civile nell’arco di quasi dieci anni, il caso Welby ha avuto la sua soluzione in un tempo piuttosto rapido tra giudizio civile e penale, trovando però nel solo giudizio penale una sede di approfondimento dei problemi. Accomunati dall’assenza di una legge apposita che ‘consentisse’ di porre fine ai trattamenti medici, i due casi hanno trovato una soluzione nelle sentenze della magistratura, che ha saputo così svolgere fino in fondo il proprio compito di applicare le leggi esistenti.1 1 E’ bene chiarire infatti che la sent. Cass. Sez. I civile n. 21748 che aveva dettato le condizioni per la sospensione del trattamento di Eluana Englaro non ha agito esercitando una arbitraria supplenza giudiziaria: contro tale pronuncia e contro la decisione della Corte d’Appello di Milano che autorizzava la sospensione del trattamento è stato sollevato un conflitto di attribuzioni che la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile con Ord. 8 ottobre 2008, n. 334 pubblicato in “Cassazione penale”, 2009, pp. 876 ss. Cfr. sul punto R. Romboli, Il conflitto tra poteri dello Stato sulla vicenda E.: un caso di evidente inammissibilità, in “Foro Italiano”, 2009, I, cc. 49 ss. R. Bin, Se non sale in cielo, non sarà forse un raglio d’asino? In www. forumcostituzionale.it parla di “ricorso privo di qualunque fondamento giuridico”. Anche l’impugnazione proposta contro il decreto autorizzativo della Corte d’Appello di Milano dal Procuratore generale alle Sezioni Unite I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 106 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Tuttavia crediamo che sia rimasta nell’opinione pubblica, ma anche nell’opinione di qualche giurista, l’idea che, in nessuno dei due casi la magistratura abbia agito ‘secondo le regole’, che non abbia, fuor di metafora, rispettato la legge penale, arrogandosi un potere di decidere, in violazione della divisione dei poteri, anche contra legem. Spesso infatti si sono ‘sbandierati’ i tre possibili reati previsti nel codice penale che possono venire in considerazione: l’art. 575, omicidio volontario, l’art. 579, omicidio del consenziente, l’art. 580 Istigazione e aiuto al suicidio, quasi che la magistratura ne ignorasse l’esistenza2. Ora che entrambi i casi si sono conclusi con il riconoscimento della piena liceità del comportamento di interruzione del trattamento medico, vorremmo in questo breve lavoro ripercorrere i momenti principali di queste due vicende umane e giudiziarie, per darne una valutazione più distaccata di quanto non sia avvenuto quando la vicenda giudiziaria era ancora in corso, cercando di individuare, in modo sintetico, quali sono le ripercussioni che queste vicende hanno lasciato, quali problemi restano ancora irrisolti e quali rischi di nullificazione dei risultati raggiunti possono profilarsi. Dedichiamo dunque la prima parte di questo breve lavoro al caso Englaro, la seconda al caso Welby, la terza alle considerazioni conclusive. I §1. La lunga lotta per il diritto. E’a tutti noto che la vicenda giudiziaria di Eluana e Beppino Englaro si è instaurata per iniziativa di quest’ultimo che, dopo aver ottenuto l’interdizione della figlia ed esserne stato nominato tutore ai sensi degli artt. 357 e 424 c.c., nel lontano 1999 presentò al Tribunale di Lecco un ricorso con il quale chiedeva l’autorizzazione alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale (NIA) e di tutte quelle cure della Corte di Cassazione è stata dichiarata inammissibile: Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 13 novembre 2008, n. 27145, in “Foro italiano”, I, 2009, c.35. Sulla legittimità della ‘creatività’ dei giudici S. Bartole, Il potere giudiziario, Bologna, 2008, p. 15. 2 Cfr. il commento ‘a caldo’ di F. Gazzoni, La Cassazione riscrive la norma sull’eutanasia, in www.judicium.it/ news_file/news_saggi.php . issn 2035-584x che, come ad es. le vitamine, assicuravano alla figlia Eluana, in condizioni di Stato Vegetativo Permanente (SVP) dal gennaio 1992 la sopravvivenza su un piano puramente biologico. Il Tribunale di Lecco con decreto depositato il 2 marzo 1999 dichiarò inammissibile il ricorso con una motivazione, che può essere definita una motivazione basata su standard3: “La richiesta contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento vigente, rispetto ai quali ogni forma di eutanasia appare non altro che un inaccettabile tentativo di giustificazione della tendenza della comunità, incapace di sostenere adeguatamente i singoli costretti ad una misura di estrema dedizione nei confronti dei malati senza speranza di guarigione, a trascurare i diritti dei suoi membri più deboli ed in particolare di quelli che non siano più nelle condizioni di condurre una vita cosciente, attiva e produttiva; l’art. 2 Cost. tutela il diritto alla vita come primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, la cui dignità attinge dal valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui si esplica la sua esistenza; l’indisponibilità del diritto alla vita da parte dello stesso titolare, desumibile dall’art. 579 c. p. che incrimina l’omicidio del consenziente, rende inconcepibile la possibilità che un terzo rilasci validamente il consenso alla soppressione di una persona umana incapace di esprimere la propria volontà; nel caso in esame la sospensione dell’alimentazione artificiale si risolve nella soppressione del malato per omissione nei suoi confronti del più elementare dei doveri di cura e di assistenza” A distanza di quasi otto anni, nel terzo procedimento proposto da Beppino Englaro, il giudizio arriva alla Corte di Cassazione sez. I civile 3 Il giudice adotterebbe, secondo la teoria cd. della ‘giustificazione basata su standard’, un criterio decisionale che esiste nella “coscienza sociale collettiva, o semplicemente nel senso comune”. Ma, la giustificazione basata su questo criterio, anche se vero, non è adeguata se il giudice non la arricchisce delle “ragioni che fondano l’impiego del criterio nel caso particolare”: M.Taruffo, La giustificazione delle decisioni fondate su standard, in M. Bessone, R. Guastini (a cura di), La regola del caso. Materiali sul ragionamento giuridico, Padova, 1995, pp. 278 ss. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 107 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) che con la sentenza 4 ottobre 2007, n. 21748, da cui estraiamo una massima, segna una svolta nella lunga vicenda giudiziaria: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione e idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia, e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa” La massima estratta, contenente il punto di diritto, non apre che uno spiraglio sulla complessità della lunga motivazione della sentenza che, per ricchezza di contenuti e per sensibilità, non solo giuridica, si pone come una delle sentenze issn 2035-584x più significative emanate nel nostro paese4. Lo schema decisionale che sottosta a questa sentenza può essere, in questa sede, solo accennato: la Corte opera un bilanciamento di interessi nel quale prevale il diritto all’autodeterminazione nel rifiuto dei trattamenti medici sul diritto alla conservazione della vita, prevalenza che si dà in presenza delle sole condizioni del caso deciso dalla Corte 5. Il diritto a rifiutare un trattamento medico è infatti un diritto soggettivo perfetto che, fondantesi sull’art. 32 della Costituzione, non può non ricevere immediata tutela. “Anche in tale situazione, pur a fronte dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”6. Uno degli aspetti che ha suscitato più critiche è la riconosciuta estensione dei poteri del tutore fino alla decisione della sospensione di un trattamento essenziale per la vita del tutelato. A questo proposito è bene osservare che la legittimazione del tutore a chiedere un’autorizzazione alla sospensione di trattamenti anche vitali non era peraltro più stata messa in discussione dal tempo del primo decreto con cui la Corte d’Appello di Milano nel 20017 , pur rigettando nel merito il ricorso proposto contro il decreto del Tribunale di Lecco, aveva appunto ritenuto che il tutore che, ai sensi dell’art. 357 c.c. ha la 4 Cfr. S. Rodotà, Chi decide sul morire, in Repubblica, 25 ottobre 2007, p. 26 5 Sul bilanciamento di interessi cfr. R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Baden Baden, 1985, pp. 82 ss.; R.Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, pp. 39 ss. 6 Così la sentenza p. 38 del testo originale. Cfr. per tutti R.Romboli, Il caso Englaro: la Costituzione come fonte immediatamente applicabile dal giudice, in “Quaderni costituzionali”, 2009, p. 91. 7Cfr. Corte d’Appello di Milano 31 dicembre 1999, in “Foro Italiano”, 2000, I, cc. 2022 ss con nota adesiva di G. Ponzanelli, Eutanasia passiva: sì, se c’è accanimento terapeutico e, parzialmente critica, di A. Santosuosso, Novità e remore sullo “stato vegetativo persistente”. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 108 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) “cura” della persona, fosse la figura legittimata dalla legge a chiedere anche un provvedimento così personale come la cessazione delle cure mediche quando questo corrispondesse alla volontà a suo tempo espressa dal soggetto tutelato. Del resto, il criterio del “miglior interesse”, cui la Corte di Cassazione esplicitamente si riferisce, è quello che anche attualmente viene considerato come il criterio che deve orientare le scelte dell’amministratore di sostegno8 e non può che improntarsi, qualunque sia l’oggetto della decisione, alle aspirazioni, ai desideri, alla personalità della persona di cui ci si prende cura. La possibilità di “dare voce” attraverso la tutela, e ora attraverso l’amministrazione di sostegno, anche a chi non può più esprimersi sembra alla Corte di Cassazione un dato da cui non si può prescindere per fondamentale rispetto del principio di uguaglianza. Diversamente, le persone che non possono esprimere una volontà attuale riguardo ai trattamenti medici, sarebbero completamente soggette alla volontà dei medici e al loro operato, in palese contrasto con quanto richiesto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997 e resa esecutiva con la legge di 8 Sulla figura dell’amministratore di sostegno ci limitiamo a rimandare a S. Delle Monache, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2004, pp. 29 ss., in particolare p. 47 dove l’Autore afferma che il riferimento, di cui all’art. 410 c.c., alle “aspirazioni” della persona sottoposta all’amministrazione di sostegno, in stretta relazione con la “cura” della stessa “non potrà che riflettersi sulla valutazione relativa alla corrispondenza all’interesse del medesimo dell’atto dell’amministratore: valutazione che perciò è da escludere possa essere condotta alla stregua di meri parametri oggettivi”. Si vedano inoltre con riferimento agli albori della riforma P. Cendon, Infermi di mente e altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile, in “Politica del diritto”,1987, pp. 621 ss. e A.Venchiarutti, La protezione civilistica dell’incapace, Milano, 1995, p. 365-367 in cui l’Autore manifestava le sue perplessità sull’interdizione a favore dell’introduzione di un istituto meno invalidante; oggi, de iure condendo, P.Cendon, S. Rossi, L’amministrazione di sostegno va rafforzata, l’interdizione abrogata, in “Politica del diritto”., 3/2007, pp. 503 ss. issn 2035-584x autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001, n. 145, che all’art. 6 recita: “quando, secondo la legge, un maggiore d’età non ha, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, la capacità di esprimere un consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge” A questo proposito, la Corte di Cassazione aveva in un precedente giudizio richiesto ai ricorrenti di integrare il contraddittorio nominando un curatore speciale che dovesse accertare l’eventuale esistenza di un conflitto di interessi tra tutore e tutelato. La Corte di Cassazione prende dunque “sul serio” la Convenzione e i diritti che essa attribuisce alla persona, potendo anche contare su molti elementi di diritto interno che, in tempi diversi, hanno enunciato il principio secondo il quale deve essere sempre acquisito il consenso informato del paziente e nessun trattamento medico può essere iniziato o proseguito contro la volontà dello stesso. 9 Certo, per un malato che si trovasse nelle condizioni di Eluana Englaro, non poteva essere acquisita una volontà attuale. Per questa ragione la Corte dà molta importanza alla ricostruzione della volontà della persona, raccomandando proprio nel ‘punto di diritto’ che si portino elementi di prova “chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, cor9 I riscontri normativi che riportiamo di seguito dovrebbero far comprendere come siano estremamente infondate le critiche secondo le quali la Corte di Cassazione avrebbe deciso ‘scavalcando il legislatore’: art. 1 l.13 maggio 1978, n. 180 in materia di “accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”; art. 33 l. 23 dicembre 1978 n. 833, “istituzione del servizio sanitario nazionale”; art. 6 l. 19 febbraio 2004 n. 40 relativa alle “Norme in materia di procreazione assistita”; art. 3 l. 21 ottobre 2005 n. 219 sulla “Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati”. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 109 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) rispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”. In questo modo la Corte vuole dare risalto alla persona, alla sua esperienza di vita, e va da sè che la prova testimoniale nel giudizio civile sembra a questo proposito affatto inadatta a ricostruire il mondo di esperienza10 di una persona e a far emergere così le sue affermazioni da quella rete di affetti che hanno costituito la sua vita di relazione e a cui ha affidato il proprio convincimento. 11 Il tutore non sostituisce, in questo modo, la propria visione alla visione del tutelato, agisce non ‘per l’incapace’ ma ‘con l’incapace’.12 La strada scelta dalla Corte di voler far dipendere dalla ricostruzione della volontà della persona la sospensione del trattamento 10 R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, Milano, 1994, pp. 277 ss. agli ‘interessi di esperienza’ si riferisce la Corte a p. 50, 7.4 della motivazione. 11 Nella prospettiva civilistica in difesa della ricostruzione effettuata dalla Corte di Cassazione cfr. F. D. Busnelli, Il caso Englaro in Cassazione, in “Famiglia, persone e successioni”, dicembre 2008, pp. 966 ss. A conferma della nostra convinzione sulla idoneità della prova testimoniale a ricostruire la volontà rimandiamo a M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in A. Cicu, F. Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, III, t. 2, sez. I, Milano, 1992, pp. 121 ss.; pp. 136 ss.; pp. 253 ss.; pp. 281 ss. L’obiezione sollevata contro la ricostruzione della volontà riguardante proprio la difficoltà di portare una prova appare, secondo noi, quindi superabile: cfr. invece S. Seminara, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in “Diritto penale e processo”, 12/2007, p. 1566; F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nel malato in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica, in www.forumcostituzionale.it, p. 18, sito consultato il 10 marzo 2010, ritiene estremamente problematica la soluzione adottata dalla Corte di affidare al tutore, o comunque al rappresentante, la scelta sull’interruzione del trattamento, pur sulla base della ricostruzione della volontà del paziente, preferendo invece la soluzione ‘inglese’ che affida interamente ai medici la decisione di dismettere il trattamento sulla base della ritenuta sua ‘futilità’: cfr. Airedale N.H.S. Trust–v-Bland, 4 February 1993 in www.swarb.co.uk/c/hl/1993airedale_bland.html. Sul caso Bland si veda A. Ashworth, Principles of Criminal Law, Oxford, 19952, pp. 416 ss. 12 Così testualmente la sentenza della Corte di Cassazione a p. 45 del testo originale. issn 2035-584x della NIA è una scelta che, a suo tempo, anche il Bundesgerichtshof – la Corte di Cassazione tedesca - aveva intrapreso. E’ del 2003 la prima sentenza del BGH13 con cui si riconobbe la piena legittimità sul piano civile della interruzione della NIA su richiesta del rappresentante del paziente e fondata sulla di lui pregressa volontà, anche non tradotta in uno scritto. E questa sembra, a leggere per bene la sentenza, anche l’unica possibilità che lasci la Corte di Cassazione per raggiungere il risultato della �� sospensione del trattamento. 14 Diversamente invece si erano espressi i Lords quando nel 1993 nel “leading-case Bland” avevano ritenuto che, in assenza di una volontà espressa sul punto dal paziente prima di cadere in SVP, il parere dei medici, e quindi la prognosi dello stato di ‘irreversibilità’ e la ritenuta ‘futilità’ del trattamento di NIA, sarebbe stata determinante15. La Corte d’Appello di Milano nel luglio 200816 svolge, come richiesto dalla Corte di 13 BGH, Beschluss v. 17. 3. 2003, in “Juristen Zeitung”, 2003, p. 734, con nota di A.Spickhoff, p. 739. 14 Sui rapporti tra ricostruzione della volontà e dichiarazioni anticipate di trattamento in rapporto ai principi enunciati dalla Corte si Cassazione si veda F.D. Busnelli, Il caso Englaro, cit, pp. 967-968. 15 Si veda la nota 11. 16 Corte d’Appello di Milano, sez. I, 25 giugno / 9 luglio 2008 in “Corriere giuridico”, n. 9/2008, pp. 1281 ss.. La Corte non ritiene invece di esperire un nuovo accertamento diagnostico sulla paziente, potendo contare sui ripetuti a distanza di anni accertamenti effettuati dal medico curante Prof. Carlo Alberto Defanti. Per un commento al decreto della Corte d’Appello di Milano si veda F. Viganò, L’interruzione di trattamenti di sostegno vitale dall’angolo visuale del penalista: riflessioni sul caso di Eluana Englaro, in “Diritto penale e processo”, 2008, pp.1085 ss. Una descrizione della situazione clinica di Eluana Englaro si può trovare in C. Lalli, Qualche domanda a Carlo Alberto Defanti su Eluana Englaro, in www.personaedanno.it; della letteratura scientifica ci limitiamo a citare The vegetative State:guidance on diagnosis and managment. Report of a working Party of the Royal College of Physicians, in “Clinical medicine”, 3/2003, pp. 249-254. Per ulteriori riferimenti bibliografici scientifici e per una descrizione clinica delle cure prestate a un paziente in SVP tratta dalla succitata fonte ci permettiamo di rimandare a M.C. Barbieri, Stato vegetativo permanente: una sindrome ‘in cerca di un nome’ e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sent. Cass. 4 ottobre 2007, sez. I civile sul caso di Eluana Englaro, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, in particolare pp. 392 ss. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 110 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Cassazione, una istruttoria volta ad accertare la corrispondenza alla personalità di Eluana delle dichiarazioni da lei a suo tempo effettuate in occasione della morte di un amico, dichiarazioni già provate attraverso dichiarazioni testimoniali giudicate attendibili dalla Corte d’Appello nel 2006, ma che quella stessa Corte aveva disatteso perché pronunciate ‘in giovane età’. Proprio questo aspetto aveva ‘cassato’ la Suprema Corte, inserendo nel punto di diritto l’obbligo del giudice del rinvio di accertare la corrispondenza di quelle dichiarazioni alla personalità di Eluana. §2. I profili penalistici del caso Englaro. Certo la sentenza della Corte di Cassazione lasciava impregiudicati i risvolti penalistici. Ma nel momento in cui il supremo giudice civile indica le condizioni alle quali il giudice del rinvio può autorizzare la sospensione della NIA a un malato in SVP implicitamente sottende che il fatto che verrà autorizzato non può costituire un reato.17 Ma questo non spiega ancora perché le persone che avrebbero dovuto dar corso all’interruzione della NIA qualora, come poi avvenne, i giudici del rinvio si fossero decisi per l’autorizzazione, non avrebbero commesso un reato. In altri termini, restava da capire se il fatto non avesse integrato una fattispecie tipica, oppure se pur corrispondendo a un fattispecie tipica, dovesse considerarsi giustificato, o ancora se dovesse considerarsi tipico, non sorretto da cause di giustificazione, ma non colpevole. Va precisato che l’unica imputazione possibile per un caso come quello della sospensione della NIA ad Eluana Englaro è l’omicidio volontario, di cui all’art. 575 c.p. Infatti è da escludersi l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. perché l’integrazione di questa norma presuppone l’esternazione di una volontà attuale. L’ufficio delle Indagini preliminari del Tri- Per approfondimenti sul problema si veda il bel libro di C. A. Defanti, Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, 2007. 17 Già in questa prospettiva si erano mossa la House of Lords, sapendo che la pronuncia nel senso di autorizzare la sospensione della Nia in sede civile aveva come logico presupposto che il fatto autorizzato non costituisse un reato: cfr. Airedale N.H.S. Trust–v-Bland, cit., p. 19. issn 2035-584x bunale di Udine l’11 gennaio 201018 ha emesso decreto di archiviazione nei confronti di Beppino Englaro e delle altre dodici persone imputate di concorso in omicidio volontario aggravato, medici e personale paramedico, ritenendo che i fatti oggetto di giudizio fossero giustificati ai sensi dell’art. 51 c.p, “per la necessità di superare l’altrimenti inevitabile contraddizione dell’ordinamento giuridico che non può da una parte attribuire un diritto e dall’altra incriminarne l’esercizio”. Ora, l’art. 51 recita : “non è punibile chi ha commesso il fatto nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica”, e indica dunque due modelli di cause di giustificazione. Tra le due è all’adempimento del dovere che il decreto si riferisce, anche se non viene detto esplicitamente. Lo si evince comunque dalle premesse, dal momento che il decreto richiama i punti salienti della sentenza della Corte di Cassazione civile del 2007 ponendo l’accento sull’ormai assodato riconoscimento dell’esistenza nell’ordinamento giuridico di un diritto della persona a rifiutare un trattamento medico a cui, per logica conseguenza, dovrebbe corrispondere un dovere (del medico) di darvi attuazione, senza incorrere in conseguenze penali, nel momento in cui fosse accertata la volontà di esercitare un siffatto diritto. E’ però l’esplicita citazione della sentenza 23 luglio 2007 sul caso Welby, che ha deciso quel caso con il non luogo a procedere proprio con questa formula giustificatoria dell’adempimento del dovere, a togliere ogni dubbio sul punto, e ad indurre a ulteriori considerazioni. Sembra infatti che la formula dell’adempimento del dovere sia destinata così ad assumere il ruolo di formula giustificatoria standard per tutti i casi in cui un medico ottemperi alla richiesta legittima di un paziente di porre fine a un trattamento medico, indipendentemente dalla considerazione del modo in cui un medico intervenga per porre fine al trattamento. §3. Comportamento attivo e comportamento omissivo del medico. Da un punto di vista 18 Il testo del decreto si può reperire in www.personaedanno.it I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 111 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) medico, ma anche forse guardando alla ‘natura della cosa’, l’interruzione di un trattamento attuata con una condotta omissiva o con una condotta commissiva è del tutto equivalente. Per il diritto penale invece condotta attiva e condotta omissiva, nel momento in cui provocano un evento, come la morte nei casi che consideriamo, portano a un accertamento di responsabilità seguendo percorsi ricostruttivi differenti. L’art. 40 c.p. c. 2 infatti declina in modo differente l’imputazione del nesso causale nel caso di condotta omissiva: “Non impedire un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Gli aspetti tecnici dell’equivalenza causale del non impedire al cagionare e dell’obbligo giuridico di impedire l’evento creano una nuova tipicità per il fatto omissivo, che comporta innanzitutto una differenziazione in capo al soggetto che pone in essere la condotta: non può essere chiunque a porre in essere l’omissione penalmente rilevante che provoca l’evento, ma solo chi aveva un obbligo giuridico di impedire lo stesso. All’interno dunque della figura della posizione di garanzia, termine usato per indicare la situazione di chi ha l’obbligo giuridico di impedire l’evento, si muovono le dinamiche degli obblighi di protezione di un bene da parte di aggressioni che il suo titolare non è in grado di fronteggiare, o di obblighi di controllo di determinate fonti di pericolo19. La posizione di garanzia del medico è certo una delle più classiche, ma allo stesso tempo costituisce oggi un esempio paradigmatico di come i suoi contorni e il suo contenuto debbano essere compresi insieme all’evolversi della posizione soggettiva del paziente, al 19 Sulla posizione di garanzia ci limitiamo a ricordare tra i contributi più recenti F. Mantovani, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2001, pp. 337 ss.; F. Giunta, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in “Diritto penale e processo”, 1999, pp. 620 ss.; I. Leoncini, Obbligo di garanzia, obbligo di attivarsi e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999; e, risalendo nel tempo, G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano,1979 e G. Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983. issn 2035-584x quale l’ordinamento non assegna più un ruolo meramente passivo, che secondo la Corte di Cassazione finirebbe per trasformarsi in “soggezione”20, ma un ruolo di soggetto consapevole dei propri diritti. Soggetto attivo di quell’alleanza terapeutica che vede medico e paziente legati da un rapporto, alla ricerca di uno scopo condiviso, in cui trovino spazio i doveri dell’uno e dell’altro, ma dove i doveri del medico oggi non possono più travalicare il rispetto della libertà e dignità del paziente, come si può ricavare dall’art 32 della Costituzione e come espressamente indicano gli artt. 3, 4, 35, 38, 39, 48, 51 del Codice di Deontologia medica. Questa premessa si è resa indispensabile per comprendere alcuni aspetti fondamentali della vicenda Englaro. La sospensione del trattamento medico - nel caso di Eluana Englaro la NIA - consisteva infatti di una mera condotta omissiva. La mancata sostituzione da parte dei medici delle sacche contenenti le sostanze chimiche che, somministrate alla paziente tramite sonda nasogastrica consentivano di tenerla in vita, non è infatti situazione diversa da quella di un medico che ometta di continuare a sottoporre a dialisi un paziente che dichiari di non voler continuare nella terapia. Di fronte alla accertata volontà del paziente di non voler continuare un trattamento, viene meno l’obbligo del medico di continuare a praticare quel trattamento. Su questo punto la migliore dottrina penalistica non ha da tempo dubbi: “…se il paziente, adeguatamente informato, pretende o acconsente, in piena coscienza, all’interruzione della cura e alle sue conseguenze mortali, nulla questio: il medico deve senz’altro considerarsi esonerato dall’obbligo di cura”21. 20 Citazione da p. 30 del testo originale. 21 F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in “Rivista italiana di medicine legale”, 1984, p. 1018; cfr. anche F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”,1997, pp. 91-92. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 112 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) La posizione di garanzia del medico viene dunque meno quanto all’obbligo di salvaguardare ad ogni costo la vita del paziente quando questi esprima una volontà contraria. Le ragioni e i fondamenti giuridici per cui anche un paziente nelle condizioni di Eluana Englaro dovesse poter ‘far sentire la propria voce’ sono già stati sopra richiamati. Si comprende pertanto perchè la Corte di Cassazione abbia voluto dare questo grande risalto all’accertamento della volontà della persona e valorizzare una sorta di ‘giudizio sostitutivo’22. Venendo meno l’obbligo giuridico di impedire la morte del paziente, il fatto del medico non costituisce un fatto tipico e la formula assolutoria di conseguenza dovrebbe essere “perchè il fatto non sussiste”. 23 All’opposto, adottare la formula assolutoria dell’adempimento del dovere come causa di giustificazione, come è stato fatto dal Tribunale di Udine, significa da un lato sorvolare sull’aspetto della ‘realtà dei fatti’ – il comportamento dei medici è una pura omissione di trattamento- e dall’altro lato non vedere che una tale causa di giustificazione non può essere attribuita indifferentemente a tutti i soggetti che concorrono nel fatto: si sarebbe dovuto differenziare infatti tra la posizione del tutore, dei medici, e del personale ausiliario. E la modulazione dei diversi obblighi di ciascuno, che sono evidentemente di natura diversa, avrebbe potuto trovare una adeguata collocazione e un approfondimento all’interno delle diverse posizioni di garanzia, del tutore e del medico. In definitiva ci sembra che appiattire le diverse ‘assenze di responsabilità penale’sot22 Il giudizio sostitutivo fu adottato, proprio per casi di pazienti nelle condizioni di Eluana Englaro, per la prima volta negli Stati Uniti d’America. Per l’evoluzione della giurisprudenza americana si può confrontare C. Baron, Life and Death Decision-Making. Judges v. Legislators as Sources of Law in Bioethics, in A. Santosuosso, G. Gennari, S. Garagna, M. Zuccotti, C.A. Redi, (a cura di) Science, Law and Courts in Europe, Pavia, 2004, trad. italiana Decisioni di vita o di morte. Giudici vs. legislatori come fonti del diritto in bioetica, in “Ragion pratica”, 19/2002, p. 142; una rassegna anche in F. Viganò, Decisioni mediche di fine vita e ‘attivismo giudiziale’, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, pp 1595 ss. 23 Così anche F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, cit., p. 14. issn 2035-584x to l’etichetta della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere mortifichi la stessa posizione del medico il cui operato pienamente legittimo anche sul piano della deontologia medica viene invece dall’ordinamento considerato comunque conforme a una fattispecie tipica di reato, seppur giustificato. L’esito penalistico della vicenda Englaro, rispetto alla profondità di riflessione della sentenza della Corte di Cassazione civile ci sembra quindi piuttosto deludente e un’occasione mancata per la Fortbildung del diritto cui anche ogni giudice può contribuire. II §1 La specificità del caso Welby. Come si sarà potuto dedurre da quanto detto sopra, il caso Welby presentava aspetti fattuali e profili giuridici differenti da quelli del caso Englaro. Piergiorgio Welby infatti soffriva di distrofia muscolare, una patologia altamente invalidante durante il decorso della quale, a seguito di una crisi respiratoria che lo aveva condotto in coma, era stato rianimato e destinato da quel momento a vivere attaccato a un respiratore, macchina che gli ‘insuflava’ aria nei polmoni, ormai incapaci di svolgere il loro compito di ‘organi respiratori’. La piena coscienza di sè e del mondo esterno gli aveva permesso di continuare una vita di relazione, pur con tutte le difficoltà del caso, fino a che il decorso peggiorativo inevitabile della malattia lo aveva costretto in una situazione in cui gli era divenuto impossibile svolgere quelle attività che fino a quel momento avevano dato un senso pieno alla sua vita, come leggere, collegarsi a internet, scrivere. Inoltre poteva essere alimentato solo artificialmente e anche questo, oltre alle difficoltà respiratorie che comunque, nonostante l’ausilio del respiratore, aumentavano sempre di più e che lo avrebbero portato incontro a una morte per soffocamento, aveva fatto crescere in lui il proposito di chiedere ai medici di poter porre fine alle sue sofferenze. Chiedeva dunque ai medici il ‘distacco’ del respiratore, in definitiva l’unico trattamento medico che lo tenesse in vita, e una sedazione I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 113 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) che gli consentisse di non avvertire la sensazione della morte per soffocamento. 24 In questo caso la sospensione del trattamento avrebbe dovuto consistere in una, sia pur blanda, condotta attiva: lo spegnimento di una macchina. Il Tribunale civile di Roma a cui Piergiorgio Welby presentò ricorso per accertare il suo diritto a rifiutare un trattamento medico e per autorizzare di conseguenza il medico curante a staccare il respiratore, pur riconoscendo che sussistesse il diritto di autodeterminazione del paziente e quindi il diritto a rifiutare un trattamento medico ritenne di non poter assecondare la richiesta del ricorrente in quanto “trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento” e in assenza di “una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito” ciò non può che comportare “l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito”25. I fatti che seguirono sono noti. Piergiorgio Welby ottenne la disponibilità e l’assistenza del dott. Mario Riccio, anestesista rianimatore, che, dopo un colloquio prolungato con il paziente volto a attestare la sussistenza della sua determinazione a interrompere il sostegno vitale, pose in essere l’atto del distacco del respiratore, previa sedazione volta a preservare l’equilibrio psicofisico del paziente nel momento del passaggio. Nel procedimento penale avviato al Tribunale di Roma nei confronti del dott. Riccio viene formulata l’imputazione del reato di omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p., essendo stato Piergiorgio Welby perfettamente cosciente e nel totale possesso delle sue facoltà mentali al momento della richiesta. 24 La ricostruzione della vicenda è contenuta in Sentenza del Tribunale di Roma, Ufficio per le Indagini preliminari 23 luglio 2007 n. 2049, pp. 13 ss del testo originale. La sentenza è pubblicata in “Cassazione penale”, 2008, pp.1791 ss con nota di C. Cupelli, Il “diritto” del paziente (di rifiutare) e il “dovere“ del medico (di non perseverare), e in “Diritto penale e processo”, pp. 59 ss con nota di A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza. 25 Cfr. ordinanza del Tribunale civile di Roma, I sez., 16 dicembre 2006, p. 11 testo originale. issn 2035-584x Come abbiamo anticipato, il procedimento penale a carico del dottor. Riccio si conclude con una sentenza di non luogo a procedere per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. Il giudice effettua una lunga premessa sulla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale attestante la natura di diritto fondamentale della persona del diritto a rifiutare le cure mediche, concludendo, in contrasto con le precedenti pronunce civili e con le affermazioni del giudice delle Indagini Preliminari, per la necessità di dare immediata tutela a tale diritto, anche in assenza di una legge apposita che ne regoli l’attuazione. Attestata la corrispondenza dell’operare del medico a quanto richiesto dal paziente, e attestata la non eziologia causale della sedazione sull’evento morte – fatto che avrebbe mutato la responsabilità del medico in omicidio volontario, in quanto non corrispondente il fatto a una semplice interruzione di cure – non può che constatare che ricorrono gli estremi della fattispecie penale dell’art. 579 c. p., omicidio del consenziente, ma che al contempo tale atto sia giustificato dalla scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c. p. La “norma giuridica” in cui deve trovare la sua fonte tale dovere è, ad avviso del giudice, l’art. 32 della Costituzione c. 2 ove enuncia che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, soluzione che a suo tempo la dottrina penalistica aveva suggerito26. Tale dovere assume un particolare significato in quanto incombente solo sul medico, che è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, e non invece su qualunque persona che su richiesta dello stesso ponesse in essere l’operazione di spegnimento del respiratore e di distacco dal corpo dello stesso27. Il giudice giustamente riconosce dunque la specificità dell’operare del medico, in quanto professionista e garante, il solo alla cui con26 F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., p. 95. 27 Sentenza del Tribunale di Roma 23 luglio 2007, p. 44 del testo originale. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 114 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) dotta possa essere riconosciuto il significato di una ‘sospensione del trattamento’. Nell’affermare questo il giudice richiama e interpreta il Codice di Deontologia Medica che vieta da un lato al medico di intraprendere qualunque atto diretto a cagionare la morte del paziente anche su sua specifica richiesta, integrando altrimenti in questo caso un atto eutanasico, ma che dall’altro lato impone al medico di astenersi dal praticare trattamenti che incidano sulla capacità di resistenza psico-fisica del paziente stesso28. Ritiene tuttavia il giudice di non poter negare la “realtà dei fatti”, in quanto il comportamento di spegnimento di un respiratore è una condotta dotata di efficacia eziologica attiva rispetto all’evento morte e, come tale, non può che integrare la fattispecie tipica dell’art. 579 c. p. nella sua forma attiva, scriminata dall’adempimento del dovere. Va detto che questa soluzione, pure essendo stata in larga parte bene accolta dalla dottrina29, ha suscitato qualche rilievo. Alcune voci hanno infatti dubitato che l’art. 32 Cost. , pur enunciando un principio incontestabile, possa costituire una fonte idonea a individuare il dovere del medico. 30 A nostro parere, queste perplessità possono essere affrontate e superate solo considerando la norma nella sua struttura e nella sua funzione al fine di individuarne un ambito di applicazione. Non possono, a nostro avviso infatti semplicemente essere portati come argomento contrario la ratio storica dell’art. 32 c.2 della Costituzione e il dettato letterale, che si riferirebbero ai ‘trattamenti obbligatori’31. 28 L’art. 18 del Codice deontologia medica recita infatti testualmente: “I trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di alleviarne le sofferenze”. 29 A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita”, cit., pp. 59 ss.; C. Cupelli, Il “diritto” del paziente (di rifiutare), cit, pp. 1791 ss.. F.Viganò, Decisioni mediche, cit., p. 1605. 30 S. Seminara, Le sentenze sul caso Welby e sul caso Englaro, cit., p. 1564. 31 Così invece L. Eusebi, L’eutanasia come problema giuridico, in Ragion pratica, 19/ 2002, p. 103 e Laicità e dignità umana nel diritto penale, in Scritti per Federico Stella, Milano, 2006, p. 215; A. Berardi, Una breve disamina dei casi Welby e Englaro, in “Tigor: rivista di scienze della comunicazione”, A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre) issn 2035-584x L’ambito di una applicazione di una norma deve poter essere determinato anche a distanza di molto tempo dalla sua emanazione valutando se un nuovo assetto di quegli stessi interessi che erano sottesi alla sua emanazione può essere coperto dalla stessa. 32 Che la nostra Costituzione sia anche in parte già cambiata proprio per l’uso che dei suoi principi e delle sue norme ne hanno concretamente fatto gli operatori giuridici è stato ben messo in luce dalla dottrina costituzionalista33. Per quanto riguarda appunto il problema dei trattamenti medici indesiderati dal paziente sembra evidente che se questi vengono praticati o continuati contro la sua volontà, diventino in qualche misura dei trattamenti ‘obbligati’. Inoltre si deve osservare che se al medico fosse imposto per legge di non interrompere un trattamento medico essenziale per la sopravvivenza del paziente, ipotesi non del tutto improbabile viste le reazioni parlamentari in costanza dei due casi di cui ci occupiamo34, questi si trasformerebbero in ‘trattamenti sanitari obbligatori’, in netto contrasto con i soli presupposti a cui l’art. 32 della Costituzione ricollega la possibilità di prevederli da parte della legge, vale a dire nel rispetto della persona umana. h t t p : / / w w w. o p e n s t a r t s. u n i t s. i t / d s p a c e / handle/10077/3411 incidentalmente, ma in un contesto diverso, fa riferimento al fatto che l’art. 32 Cost. vieterebbe soltanto i ‘trattamenti obbligatori’ F.Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, cit, p. 7. 32 F. Müller, Juristische Methodik, Berlin, 2004,pp. 139 ss. 33 R. Bin, Diritti e argomenti, cit., pp. 136-137 S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, 2004, pp. 15-16. 34 In diversi disegni di legge sulle ‘direttive anticipate’ proposti nell’inverno del 2009 erano contenute norme in questo senso, come, correlativamente, norme volte a impedire l’inserimento nelle direttive anticipate di disposizioni in ordine al rifiuto di trattamenti medici ‘salva-vita’. Tra i tanti disegni di legge presentati, solo quello a firma del senatore Ignazio Marino riflette consapevolmente i principi contenuti nella sentenza n. 21748 della Cassazione: cfr. sul punto anche F. D. Busnelli, Il caso Englaro, cit, p. 569. Precedentemente a questo disegno di legge solo quello a firma di Grillini, Belillo, Turci,Turco, presentato alla Camera dei Deputati il 26 settembre 2006 disciplinava compiutamente il problema della disattivazione del sostegno artificiale. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 115 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Da ultimo non può essere trascurato che lo stesso comportamento del medico che non ottemperi alla volontà del paziente di sospendere un trattamento medico non può essere considerato a priori un fatto lecito. Infatti, almeno in situazioni come quella di Piergiorgio Welby, è astrattamente configurabile il sequestro di persona di cui all’art. 605. La forma libera che caratterizza questa norma permette di farvi rientrare anche la forma omissiva – il non liberare il paziente dal respiratore - e l’estensione del bene giuridico tutelato fino a comprendere la libertà da intrusioni nella propria sfera personale35 permette di tutelare anche le persone prive permanentemente della capacità di movimento. Se questa ipotesi incontrasse opinioni contrarie in dottrina, difficilmente si potrebbe però contrastare l’idea che sussista almeno una illiceità civile. E in entrambi i casi sarebbe molto difficile poter sostenere una giustificazione in capo al medico rintracciabile nel dovere o nel diritto di curare. In definitiva, e concludendo sul punto, la formula dell’adempimento del dovere come causa di giustificazione invocata dal giudice per il non luogo a procedere nei confronti del dott. Riccio ci sembra, allo stato attuale della legislazione e del dibattito dottrinale, l’unica soluzione ragionevolmente possibile, perché saldamente fondata su una motivazione coerente e rispettosa della legge. E per questo va, a nostro avviso, sostenuta36. issn 2035-584x §2 Limiti e aporie del sistema in margine al caso Welby. Ma, proprio per il fatto di essere stata adottata anche per la soluzione penalistica del caso Englaro, con tutti i dubbi che abbiamo sollevato, deve essere considerata un nuovo punto di partenza per ulteriori riflessioni. Riflessioni che, certo potrebbero appa- rire in parziale contraddizione con quanto esposto sopra, ma che invece semplicemente muovono da una diversa prospettiva, cioè dalla prospettiva di una possibile alternativa decisionale più consona alla realtà sociale dell’operato del medico. Fondamentalmente, ciò che non soddisfa è che, a fronte di una evoluzione del diritto civile nel senso della progressiva affermazione del diritto di autodeterminazione del paziente, la rigidità strutturale del diritto penale e una innegabile impasse legislativa impediscano di dare una risposta convincente nel momento in cui si deve valutare l’operato del medico che ottemperi alla legittima richiesta del paziente di sospendere le cure che lo tengono in vita. E’innegabile infatti che la fattispecie di omicidio del consenziente come imputazione per il medico non convinca nessuno, se non chi voglia ragionare solo nella logica rigida della ‘corrispondenza alla fattispecie tipica’37. Ed è altrettanto innegabile che non è nel codice penale che la attività quotidiana di un professionista come il medico deve cercare la fonte dei suoi doveri professionali nonché incontrare dei limiti, indubbiamente condizionanti, allo svolgimento di un’attività doverosa sul piano professionale, nonché giuridico. Nel caso specifico del medico che stacchi il respiratore (un ‘classico’ tra gli esempi del c.d. ‘diritto penale della medicina’)38 i tentativi di riqualificare il comportamento da commissivo a omissivo, per poterlo ‘attirare’ nella sistematica del reato omissivo e quindi della posizione di garanzia si sono originati, proprio da osservazioni simili, in ordinamenti che contemplano nel codice penale fattispecie simili al nostro art. 579 c.p. : es. § 216 StGB -Tötung auf Verlangenomicidio su richiesta. 35 Questo aspetto è ancora di recente ribadito da F. Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio) delle Sezioni Unite, in “Cassazione penale”, 2009, p. 1827 nota a Cass. Sezioni Unite Penali 18 dicembre 2008, n. 2437, ivi, p. 1793 ss. 36 Cfr. anche C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno artificiale tra agire e omettere, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2009, p. 1175; F. Viganò, Decisioni mediche, cit, p. 1605. 37 Già S. Canestrari, Le nuove tipologia di eutanasia: una legislazione possibile, in “Rivista italiana di. medicina legale”, XXV, 2003, p. 753 aveva sottolineato i limiti di una argomentazione che si attenesse rigorosamente a schemi ‘tecnico-giuridici’ “in quanto tale atteggiamento condurrebbe a legittimare l’obsolescenza della disciplina attualmente vigente risalente al 1930”. 38 C. Roxin, Zur strafrechtlichen Beurteilung der Sterbehilfe, in C. Roxin, U. Schroth, Medizinstrafrecht. Im Spannungfeld von Medizin, Ethik und Strafrecht, 20012, München, 2001, p. 101. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 116 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) La dottrina italiana non è disposta, in linea di massima, ad accettare il punto di vista di quella parte della dottrina tedesca che, in questa ipotesi, parla appunto di omissione mediante commissione, o della necessità di guardare al senso sociale dell’interruzione (attiva) del trattamento39. E, tuttavia se l’ordinamento giuridico deve essere strutturato, e dal cittadino visto, come insieme di norme di comportamento, non può che notarsi che, nella soluzione adottata nel caso Welby, la successione di norme di comportamento che si presentano al medico è quantomeno poco coerente. Se si muove infatti dall’interno della posizione di garanzia del medico il complesso diritti/doveri si presenta nei termini che esponiamo di seguito. La premessa è che il diritto del paziente a rifiutare un trattamento medico già iniziato debba avere una piena operatività. Non può negarsi inoltre che all’interno della posizione di garante del medico, proprio in conseguenza di quel diritto venga meno almeno l’obbligo di proseguire il trattamento, l’obbligo di impedire hic et nunc quell’evento, ma che contestualmente però il dovere di rispettare la volontà del paziente comporti il dovere di cagionare quello stesso evento, in attuazione del diritto del paziente. Trasferendo il tutto nella prospettiva dell’adempimento del dovere in funzione scriminante, per rendere lecita la condotta attiva, significa dire che il medico ha comunque il dovere di cagionare - ex art. 51 c.p./art. 32 Cost ciò che non è più obbligato a impedire ex art. 40 c.p./art. 32 Cost. Il che fa ben capire perché Karl Engisch usasse il termine Paradoxie in uno dei saggi più significativi su questo problema. 40 Paradosso che non sarebbe tale se le indicazioni di comportamento venissero considerate nell’ottica della modulazione dei doveri professionali del medico. 39 S.Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e eutanasia, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1995, p. 695 ritiene necessario un intervento del legislatore; F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit, pp.94-95. 40 K. Engisch, Konflikte, Aporien und Paradoxien bei der rechtlichen Beurteilung der ärztlichen Sterbehilfe, in Festschrift für Eduard Dreher zum 70° Geburtstag, Berlin, 1977, pp. 309 ss. issn 2035-584x Di recente la dottrina sembra più orientata all’apertura verso soluzioni che, improntate a una visione più ermeneutica che analitica, consentano di interpretare la tipologia dei fatti sopra descritta come una omissione di trattamento e conseguentemente a non ritenerla ‘tipica’ ai sensi dell’art. 579 c.p. in quanto non volta a ‘uccidere’ o, per usare le parole del codice a ‘cagionare la morte’, ma a ‘lasciar morire’4142. Il superamento di simili aporie richiede molto lavoro di seria riflessione e impegno da parte della dottrina e dalla giurisprudenza, soprattutto in un momento in cui il rischio di una legislazione involutiva, che potrebbe azzerare i progressi compiuti dalla giurisprudenza civile e penale sui diritti del paziente e sui doveri del medico, è concreto. Il disegno di legge già approvato in Senato il 26 marzo 2009 “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento ” con l’affermare che “nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato” sembra voler proprio limitare la necessità del consenso del paziente all’intrapresa del trattamento medico, e non invece a ritenerlo necessario durante il perdurare del trattamento. Oltre all’indubbia ricaduta nel paternalismo, se fosse così, sarebbe di immediata evidenza la disparità di trattamento che verrebbe a verificarsi tra chi è sottoposto a un trattamento medico a somministrazione periodica, come ad es. la dialisi, e chi invece è sottoposto a un trattamento che si effettua in modo continuativo attraverso una macchina come il respiratore. Nel primo caso il medico, che non potrebbe in nessun caso ‘abbandonare’ il paziente, non potrebbe però neppure farlo ‘tradurre’ coattivamente in una struttura sanitaria ed obbligarlo a continuare il trattamento, e tutto questo senza incorrere in alcuna responsabilità penale. 41 F.Viganò, Decisioni mediche di fine-vita, cit., p. 1604; C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno artificiale, cit., pp. 1164 ss. 42 Sulla cattiva sofistica dell’equiparazione del ‘desistere dall’ulteriore agire’ e ‘l’agire’, cioè ‘dell’uccidere’ al ‘lasciar morire’ H. Jonas, Tecnica, medicina e etica. Prassi del principio responsabilità, Torino, 1997, p.197. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 117 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Nel secondo caso invece, se il medico non fosse più tenuto a rilevare un perdurante consenso del paziente e quindi a rispettarne il dissenso, la posizione di ‘minorità’ del paziente dovuta all’impossibilità di ‘staccarsi’ dalla macchina, lo obbligherebbe a subire un trattamento altamente invasivo della propria sfera fisica. Per converso, se il medico decidesse, in presenza del dissenso del paziente, di interrompere tale trattamento, essendo precisato in quello stesso testo all’art. 1, c.1, lett c che “l’attività medica nonché di assistenza alle persone (è) esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute” non potrebbe più invocare evidentemente l’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c.p. e incorrerebbe quindi in una sicura responsabilità penale per omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. Quest’ultimo articolo, così come l’art. 575 e 580 c.p. sono infatti ‘simbolicamente’ richiamati proprio nella stessa norma. Ma al di là del fatto che queste norme debbano essere riconosciute come applicabili nel caso concreto ad opera dell’attività giudiziale e non certo per richiamo legislativo, resta il fatto che limitare con legge l’attività medica “alla tutela della vita e della salute” significa sovrapporsi e prevaricare le regole del Codice di Deontologia medica che riguardo ai compiti del medico sono certamente più articolate. L’art. 3 del Codice di Deontologia Medica infatti estende il dovere del medico alla tutela della “salute fisica e psichica” e precisa che la salute deve essere intesa “nell’accezione più ampia del termine, come condizione di benessere fisico e psichico della persona”. 43 L’art. 18 recita che “i trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psicofisica del malato possono essere attuati...solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico o di alleviarne le sofferenze”. 43 Cfr. nella dottrina civilistica le significative osservazioni di P. Zatti, Il diritto a scegliersi la propria salute (in margine al caso San Raffaele), in “Nuova giurisprudenza civile commentata”, 2000, II, pp. 3 ss.: “Se invece il concetto di salute si apre agli aspetti interiori della vita come sentiti e vissuti dal soggetto...Salute diviene un concetto che esprime anzitutto una percezione di sè come soggetto integro”. issn 2035-584x Se quel testo verrà dunque approvato anche alla Camera, ci darà una legge che renderà ancora più incerta per un medico la linea da seguire, e questo non potrà che rendere un cattivo servizio alla certezza del diritto, nonché diffondere una diffidenza che porterà a risolvere ogni problema ‘lontano dalle aule giudiziarie’. III Considerazioni conclusive. Quando un ordinamento giuridico viene obbligato a riflettere su di sè e sui propri strumenti da casi come quelli di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, l’uscita dalla fase acuta di queste situazioni induce sempre a una considerazione di quanto è stato aggiunto al diritto e di quanto può essere fatto in futuro per affrontare in modo razionale simili situazioni. Le due sentenze – Cass. Sez. I civile 4 ottobre 2007 n. 21748 e Tribunale di Roma 17 ottobre 2007 – intervenute rispettivamente sul caso Englaro e sul caso Welby hanno indubbiamente segnato un passo avanti nel riconoscimento dei valori della laicità nel diritto e, più in generale, hanno riconosciuto l’esistenza di un pluralismo dei valori nella società in cui viviamo, un pluralismo dei valori ‘normativo’44, che viene dunque riconosciuto nelle posizioni soggettive giuridiche. Nei momenti più drammatici della vicenda umana di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby si è acceso il dibattito, nonché lo scontro parlamentare, sulle direttive anticipate. L’esperienza di questi due casi e i punti fermi che si sono raggiunti devono mettere sull’avviso il legislatore sul fatto che una futura eventuale legge sulle direttive anticipate, avvertita da molti come una necessità, non potrà che tenere in grande considerazione il percorso argomentativo della sentenza della Corte di Cassazione sul caso Englaro. Diversamente, se si arrivasse a promulgare una legge limitativa del diritto del cittadino di 44 La contrapposizione è a un pluralismo dei valori ‘sociologico’: G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2005, pp. 89. Cfr. i riferimenti in Cass. Sez. I civile 4 ottobre 2007 n. 21748 p. e in Tribunale di Roma 17 ottobre 2007, Riccio, punto e) della motivazione. I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 118 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) disporre anche in ordine ai trattamenti sanitari essenziali per la propria sopravvivenza, questa si esporrebbe a seri dubbi di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 32 c. 2 e 13 della Costituzione. Il diritto a non subire trattamenti medici contro la propria volontà e il diritto all’inviolabilità del proprio corpo sono principi scolpiti nella Costituzione quali diritti fondamentali della persona e costituiscono un limite invalicabile45. Allo stesso modo una legge sulle direttive anticipate che escludesse il potere del rappresentante legale del paziente di chiedere ‘nel migliore interesse’ del tutelato anche l’interruzione di trattamenti essenziali per la sopravvivenza dello stesso si esporrebbe a fondati dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo del mancato rispetto dell’art. 3 della Costituzione. Proprio l’impossibilità di transigere sul rispetto di tutti questi principi fa dubitare della necessità assoluta di una regolazione normativa che, risultato di inevitabili mediazioni, potrebbe calpestare diritti fondamentali46 che, come la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale47 hanno chiaramente enunciato, sono tali da dover ricevere invece diretta attuazione in sede giudiziale anche in assenza di una legge che ne disciplini l’esercizio. La scienza penalistica dal suo canto non può che continuare nell’approfondimento dello studio delle posizioni di garanzia, e in particolare di quella del medico, nella prospettiva di costruire, proprio muovendo dal complesso delle regole deontologiche, una regolamentazione ‘integrata’ e altamente specialistica. 48 45 Tali principi sono stati recentemente ribaditi da Cass. Sezioni Unite Penali 18 dicembre 2008, n. 2437, cit., p. 1793 ss., che riconosce anche che il concetto di salute trascende la mera sfera fisica: cfr. p. 1804. 46 Inevitabile riferirsi a R. Dworkin, Taking rights seriousely, London, 20042, pp. 131 ss. 47 Sent. Corte cost. 347/1998, n. 4 del considerato in diritto. 48 Questa era l’impostazione del Progetto Grosso che, come è noto, conteneva nell’articolato le diverse posizioni di garanzia. Se si guarda alla relazione al progetto Grosso si vede come compito dei riformatori sarebbe stato quello di inserire nel codice i presupposti e le condizioni di operatività delle singole tipizzate posizioni di garanzia, non certo quello di codificare gli specifici dove- issn 2035-584x Da ultimo preme mettere in risalto che le conquiste finora raggiunte in ordine alla libertà di autodeterminazione nel campo del trattamento medico non rappresentano l’introduzione di un generico ‘diritto a morire’. In altri termini, non segnano affatto l’anticamera dell’introduzione dell’eutanasia. E testimonianza ne sono i paesi, come il Regno Unito o la Germania, dove il diritto a rifiutare le cure mediche si è da tempo affermato e nei quali l’eutanasia non è stata introdotta. La morte di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro non rappresentano forme di eutanasia, ma, per usare un termine preso a prestito dalla lingua tedesca, Sterbehilfe, un aiuto nel morire, perchè la morte possa assumere quel significato di scelta consapevole, che solo la singola persona le può dare, all’interno della propria vita. Maria Cristina Barbieri, ricercatrice di diritto penale nell’università di Trieste ri del medico: cfr. Relazione sull’articolato in I Lavori della commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1°ottobre 1998, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2001, pp. 592 ss. L’art. 16, Capo III dell’articolato stabilisce una riserva di legge per le posizioni di garanzia, ma, al secondo comma, specifica che: “i doveri inerenti alle posizioni di garanzia sono determinati in conformità alla disciplina speciale (corsivo nostro) delle situazioni considerate (ibidem, p. 664). I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’ 119 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x L’autonomia illusoria. Il diritto di autodeterminazione tra le maglie dell’eterodeterminazione Letizia Mingardo Abstract Di fronte all’avanzare delle biotecnologie, la capacità individuale di decidere della propria vita e della propria salute è avvertita come componente irrinunciabile nella vita di ciascuno. ‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e ‘volontà’ sono endoxa spesi costantemente nell’attuale dibattito biogiuridico, ma non per questo privi di ambiguità e profili problematici. Nel presente contributo ci si domanda quale concezione di autonomia individuale e quale visione antropologica siano sottese all’appello al diritto di autodeterminazione. Dall’esame di alcune recenti questioni biogiuridiche, emerge la diffusione di una declinazione dell’autonomia in termini individualistici, razionalistici e volontaristici. Il modello antropologico di riferimento appare quello del moderno homo faber, teso a massimizzare l’utile in un mondo concepito come insieme di oggetti manipolabili. Il carattere di assolutezza attribuito alla volontà 1. Premessa D a decenni, soprattutto nelle società occidentali, si assiste a una crescente accelerazione del progresso scientifico, favorita da un legame sempre più stretto tra sapere teorico e applicazione pratica. Si è accresciuta non solo la conoscenza scientifica, ma anche la possibilità tecnica e tecnologica di intervenire sul reale e sul vivente. Lo sviluppo della tecno-scienza in ambito biomedico, in particolare, dischiude opportunità e rischi che suonano inediti all’uomo di oggi e sui quali riflette, con la sua vocazione interdisciplinare, la bioetica. La ����������������������������������������� «���������������������������������������� sfida tecnologica����������������������� »���������������������� investe anche l’espe1 rienza giuridica , chiamando il giurista a fornire soluzioni a problemi nuovi, attraverso quello che viene ormai comunemente chiamato ‘bio1 Cfr. S. Cotta, La sfida tecnologica, Bologna, 1968. L’autonomia illusoria individuale dal pensiero giuridico moderno, tuttavia, non risulta in grado di proteggere l’autodeterminazione dall’eterodeterminazione. Come si evince, ad esempio, tanto dalle tesi dei sostenitori del cd. diritto a non nascere, quanto dalla dottrina del ‘giudizio sostitutivo’ (volta a ricostruire l’ipotetica volontà sulle cure del paziente incosciente), il richiamo al diritto individuale alla autodeterminazione può nascondere il diritto di altri a decidere sulla vita o la salute dell’individuo. All’insegna di un diritto alla (auto)determinazione. Parole chiave Autonomia; Autodeterminazione; Eterodeterminazione; Volontà; Modernità; Dibattito biogiuridico. diritto’2. Uno strumento che è stato definito «cieco» in assenza della riflessione bioetica, così come questa rischia di risultare «vuota» senza l’ausilio del diritto3. Si parla spesso, a tale proposito, di problematiche del tutto originali e ‘di frontiera’, ma, a ben guardare, l’era tecnologica pone in forme nuove interrogativi antichi4. I dilemmi biogiuridici e bioetici, �������� «������� se esa2 Cfr. C. Casonato, Introduzione al biodiritto, Torino, 2009. Per una riflessione sui principi informatori del biodiritto, cfr. F. Mantovani, Principi personalistici di biodiritto, in “Archivio giuridico”, 2007, n. 2, pp. 163-185. 3 D. Gracia, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, Cinisello Balsamo, 1993, p. 685. Sul problema dei rapporti tra bioetica e diritto, cfr. altresì P. Borsellino, Bioetica tra autonomia e diritto, Milano, 1999, p. 191 ss., nonché P. Zatti, Maschere del diritto e volti della vita, Milano, 2009, p. 5 ss. 4 Osserva Eligio Resta: «mentre, con una certa enfasi, si esaltano le cesure rispetto al passato operate dalla tecnica (…), al diritto si rivolgono sempre più forti richieste di indi- 120 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) minati nella loro radice e ragion d’essere ultima»5, propongono domande ricorrenti per la filosofia, e per la filosofia del diritto in special modo. Interrogarsi sulla liceità degli interventi tecno-scientifici dell’uomo sulla vita, infatti, significa interrogarsi sul senso della vita umana e sul fondamento del suo valore, «sui limiti della disponibilità e indisponibilità dell’uomo rispetto alla vita (propria e altrui), sui confini della libertà e della responsabilità dell’uomo nei confronti degli altri»6. I giuristi, dunque, sono stimolati «non solo ad abbandonare la loro neutralità assiologica, ma soprattutto a ritornare alle origini della loro stessa disciplina: riprendere l’esame della funzione propria del divieto, del senso incluso nelle nozioni giuridiche, della finalità del diritto»7. 2. Autonomia, un concetto ambiguo Fra tutti, un tema risulta particolarmente sollecitato dal potenziarsi della tecnica: quello inerente la capacità di governarsi da sé, di ‘darsi una regola’, il tema, in altre parole, dell’autonomia individuale8. Di fronte al rischio di predominio sull’uomo di una tecnica «�������������������������������������������� in-cosciente�������������������������������� »������������������������������� , che, assorbita dall’apprestamento dei mezzi e dimentica del fine, finisce col porsi essa stessa come fine piuttosto che come mezzo, oggi viene sempre più rivendicare i limiti e di esplicitare confini normativi dentro i quali definire le possibilità. La tradizione giuridica, dalla quale la tecnica prende distanza travolgendone tutti i riferimenti, mostra consapevolezza di tali problemi; e non da oggi. Il rapporto che il diritto ha da sempre stabilito con la ‘vita’ è meno ingenuo di quanto possa apparire» (E. Resta, Diritto vivente, Roma-Bari, 2008, p. 81). 5 F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia, 2007, p. 10. 6 Ibidem, pp. 10-11. 7 C. Labrusse-Riou, Destino biologico e finalità del diritto, in S. Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Roma-Bari, 1993, pp. 375-385:381. 8 Per una introduzione al dibattito contemporaneo sull’autonomia, cfr. R. Giovagnoli, Autonomia: questioni di contenuto, in “Ragion pratica”, 2006, n. 2, pp. 555-572; nonché E. Santoro, Per una concezione non individualistica dell’autonomia individuale, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1991, n. 3, pp. 268-311. Su temi e problemi dell’autonomia in bioetica, cfr. P. Cattorini, E. D’Orazio, V. Pocar (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della vita umana, l’autonomia degli individui, Milano, 1999. L’autonomia illusoria issn 2035-584x cata la centralità del soggetto libero e capace di decisione autonoma9. Il potere della tecnica medica viene subordinato alla essenziale autonomia del paziente: «������������������������������������������� questi si presenta come l’autentico soggetto etico poiché da una parte è oggetto di cure mediche (come corpo) e dall’altra parte gli è riconosciuto il primato di decidere di sé, cioè della propria vita e del proprio corpo, in quanto l’istituzione non deve contrapporre alcuna istanza alla libera volontà del paziente»10. Tale primato nel decidere della propria vita e della propria salute assume la veste giuridica del diritto alla autodeterminazione ed è evidente quanto l’appello a tale diritto permei l’attuale dibattito biogiuridico, tanto nelle discussioni intorno alla vita umana nascente, quanto in quelle intorno alla vita umana morente. ‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e ‘volontà’ si presentano nell’argomentare biogiuridico come veri e propri endoxa di aristotelica memoria, «opinioni comuni, professate dai più o dai più autorevoli, attorno alle quali sembra formarsi il consenso»11. Al pari di altri endoxa biogiuridici, tali concetti costituiscono ����� «���� ideali punti di partenza per l’argomentazione»12. 9 Tale rischio risulta sì avvertito, ma non sufficientemente indagato: spesso, in risposta alla minaccia che la tecnica reca alla soggettività dell’uomo, ci si appiglia a un gioco di rimandi alle norme giuridiche, alla morale, alla società, all’utilità, che è solo apparentemente risolutivo (queste considerazioni si devono alla lettura, in bozza, del contributo di M. Manzin, Mizzi e i mostri. Riflessioni su secolarizzazione e bioetica nell’età della incoscienza della tecnica, di prossima pubblicazione, a cura di Laura Palazzani, negli atti del Convegno Filosofia del diritto e secolarizzazione: profili giuridici, etici e bioetici, tenutosi a Roma, alla LUMSA, il 26 settembre 2009). 10 R. Kirchmayr, Morire da soli. La medicalizzazione come supplemento di cura, in “Aut aut”, 2008, n. 340, pp. 37-58:41. 11 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche. Argomentazione e decisione nel dibattito biogiuridico, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche. Opinioni comuni e valori condivisi nel dibattito biogiuridico, Milano, 2009, pp. 9-54:19. Per l’importanza degli endoxa nel discorso giuridico, cfr. F. Cavalla, voce Topica giuridica, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1992, pp. 720739; nonché G.M. Azzoni, Endoxa e fonti del diritto, in G.A. Ferrari, M. Manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, Milano, 2004, pp. 123-155. 12 F. Zanuso, Laicità e laicismo nell’argomentazione biogiuridica, in F. Cavalla (a cura di), Retorica Processo Verità. Principi di filosofia forense, Milano, 2007, pp. 227-254:228. In generale, sull’argomentazione bioetica, cfr. C. Viafora, S. Mocellin (a cura di), L’argomentazione del giudizio bioetico. Teorie a confronto, Milano, 2006. 121 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Tuttavia, connotati come sono da una strutturale vaghezza di significato, essi risultano «per lo più ambigui e atti, quindi, a costituire la premessa per un argomentare eristico»13. La natura di luogo comune ‘apparente’ si manifesta in particolar modo nel principio di autonomia, il cui effettivo significato non può che determinarsi in base alla concezione antropologica adottata di volta in volta dagli interlocutori. È stato osservato, per l’appunto, come «����������������� ������������������ la reale pregnanza» di questo peculiare endoxon sia «������������� �������������� legata al significato dell’auto e del nomos, ovvero sia alla concezione antropologica che fonda il discorso e al concetto di regola e regolarità che vi è sotteso»14. Così, il richiamo �������������������������������� «������������������������������� altamente evocativo e persuasivo» al rispetto dell’autonomia, effettuato soprattutto (ma non solo) dai sostenitori della cd. bioetica prochoice, «������������������������������������������������ ������������������������������������������������� rischia di rendere “torbide” le acque del dibattito proprio laddove si pretende di offrire un trasparente criterio di avvaloramento dell’esperienza»15. ‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e ‘volontà’ sono, dunque, luoghi comuni massimamente spesi, ma non per questo privi di ambiguità e profili problematici. Riconoscere l’indubbia importanza dei criteri di autonomia e autodeterminazione lascia impregiudicata una serie di questioni: disporre della propria vita e del proprio corpo assecondando solo personali progetti esaurisce il senso dell’autonomia o dell’autodeterminazione? L’autonomia e l’autodeterminazione comprendono anche la possibilità di disporre di altre vite e di altri corpi e di decidere, per sé o per altri, la prospettiva dell’essere tecnicamente prodotto o condizionato16? Se, come generalmente si riconosce, la sfera dell’autogoverno coincide con la libertà di agire indipendentemente da cause esterne determinanti, assume primaria importanza ���� «��� essere sicuro che solo la mia voce esca dalle mie 13 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 19. 14 Cfr. F. Zanuso, Neminem laedere. Verità e persuasione nel dibattito bio-giuridico, Padova, 2005, pp. 105-106. 15 Ibidem, p. 106. Per una ricostruzione della contrapposizione fra bioetica pro-life, fautrice del concetto di sacralità della vita (e solitamente associata alla bioetica cattolica), e bioetica pro-choice, fautrice del concetto di qualità della vita (e solitamente associata alla bioetica laica), cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2005. 16 Cfr. A.C. Amato Mangiameli, Corpi docili. Corpi gloriosi, Torino, 2007, p. 143. L’autonomia illusoria issn 2035-584x labbra»17. Ma ciò è realmente garantito dalla concezione di autonomia e autodeterminazione che traspare dalla esperienza giuridica al confronto con le biotecnologie? 3. Una eco moderna Per tentare di rispondere a queste domande, sembra utile volgere lo sguardo al passato, per cercare nel nostro patrimonio giuridicoculturale quel carico di significati, non sempre evidenti, che gli argomenti impiegati nell’attuale dibattito biogiuridico portano con sé. In effetti, oggi nessuno contesta l’esistenza del diritto alla vita e del diritto alla salute, di cui ogni uomo sarebbe titolare in quanto uomo; ma solo la consapevolezza delle premesse culturali di tale convinzione può svelare come nell’era tecnologica si intenda realmente il rapporto fra l’individuo e la sua stessa vita, e con quali conseguenze. Infatti, sebbene si parli abitualmente di diritto alla vita e alla salute, si può notare come questi vengano spesso pensati come se si trattasse di diritti sulla vita e sulla salute: corpo, salute e vita sono considerati beni a disposizione del soggetto titolare, ad esclusione di altri soggetti, come avviene nella relazione giuridica di proprietà18. La cultura giuridica contemporanea si dimostra in questo frangente fortemente tributaria del pensiero della modernità. In particolare, è la moderna Scuola del Diritto Naturale a creare quel contesto unitario che finisce col concepire la titolarità del singolo di un naturale diritto sulla vita. Il giusnaturalismo, che vede nella legge naturale un sistema di valori di riferimento, oggettivo e conoscibile, ha dell’uomo una visione individualistica, razionalistica e volontaristica: l’essere umano è pensato in grado di conoscere la verità, tramite la ragione, e di raggiungere ciò che è bene per sé, tramite la volizione19. 17 Ibidem, p. 144. 18 Cfr. F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita: sulle origini del problema dell’eutanasia, in G. Bax, E. Berti, F. Casson, La vita: realtà e valore: studi in onore di mons. Girolamo Bortignon, Padova, 1990, pp. 169-192 (cfr. altresì Id., Diritto alla vita, diritto sulla vita. Alle origini delle discussioni sull’eutanasia, in “Diritto e società”, 2008, n. 1, pp. 1-64; il saggio è stato recentemente ripubblicato in F. Zanuso ( a cura di) , Il filo delle Parche, cit., pp. 59-89). 19 Su origini e temi del pensiero giusnaturalista, cfr. F. Todescan, Etiamsi daremus. Studi sinfonici sul diritto naturale, Padova, 2003. 122 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Il mondo considerato quale insieme di oggetti diventa completamente disponibile al moderno homo faber20. Ed è la proprietà, assunte le vesti di diritto soggettivo, a farsi paradigma dell’affermazione della sovranità del volere individuale sugli oggetti21. D’altra parte, la libertà, intesa come assenza di vincoli esterni al volere, garantisce l’autonomia del soggetto, che può essere legittimamente compressa solo ove sia lesiva della libertà e dell’autonomia altrui22. Risulta, dunque, insindacabile ogni decisione del singolo che non danneggi gli altri, anche quando tale decisione riguardi la sua stessa vita o la sua salute. Così, il rapporto tra l’uomo e la sua sfera biologica si delinea in epoca moderna seguendo i canoni dell’oggettivismo, del razionalismo e del volontarismo: l’individuo può dirsi libero se dominante il mondo che lo circonda (compresa la sua stessa corporeità), e se incondizionato nel suo volere23. Si tratta di una visione antropologica e di un patrimonio concettuale che si sono depositati pressoché inalterati nelle legislazioni contemporanee24. 20 Per le radici neoplatoniche del moderno atteggiamento tecnico-dominativo dell’uomo sul mondo, favorito da un pensiero dualista che separa nettamente il Principio e le cose, cfr. M. Manzin, Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, Milano, 2008. 21 Si passa dal concetto medievale di dominium, «���������� ����������� espressione di un mondo permeato dal Sacro», al concetto moderno di proprietà, «espressione di un mondo secolarizzato»; il diritto di proprietà viene ������������������������������ «����������������������������� inteso come potere di un soggetto, anzi, come il potere per eccellenza dell’individuo; non regola che l’uomo legge nelle cose perché nelle cose scritta, ma sua creatura, finalizzata al consolidamento della sua posizione di superiorità, facendo dell’avere una, anzi, la prima, dimensione dell’essere del soggetto» (F. Gentile, Esperienza giuridica e secolarizzazione, Milano, 1993, pp. 28-29). 22 Sulla libertà concepita, in senso moderno, come liberazione, ossia come «la condizione in atto (in ‘movimento’) di eliminazione dei vincoli di volta in volta determinati», cfr. M. Manzin, Libertà e liberazione: due paradigmi a confronto, in “Diritto & Questioni pubbliche”, 2006, n. 6, pp. 101111:103 (ora in G. Maniaci, G. Pino, A. Schiavello (a cura di), Differenza culturale e minoranze nello spazio pubblico europeo, Palermo, 2007, pp. 135-147), il testo è disponibile alla URL: http://www.dirittoequestionipubbliche.org. 23 Osserva Martin Heidegger: �������������������������� «������������������������� l’uomo decide in proprio del modo in cui deve situarsi rispetto all’ente ridotto ad oggetto. Ha così inizio quel modo di esser uomo che consiste nel prender possesso della sfera dei poteri umani come luogo di misura e di dominio dell’ente nel suo insieme» (M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1984, p. 93). 24 P. Sommaggio, Il dono preteso. Il problema del trapianto di organi: legislazione e principi, Padova, 2004, p. 224. Per una ri- L’autonomia illusoria issn 2035-584x Queste ultime continuano per molti aspetti a considerare il corpo (vivente o in stato di morte, intero o in parti) come una res; inoltre, tendono a configurare il rapporto che il soggetto (privato o pubblico) intrattiene con la ‘bio-materia’ secondo lo schema giuridico della proprietà. Su tale rapporto la volontà soggettiva è incline a esercitare un dominio che si pretende incontrastabile. Nell’intreccio fra le componenti razionali e le componenti volitive della deliberazione, il ruolo della ragione sembra farsi subordinato a quello della volontà: hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas25. Tuttavia, tale presupposto individualistico dell’uomo ‘padrone di se stesso’ non evita, anzi alimenta, grazie alla sua connaturata ambiguità, la discussione su chi debba essere il titolare dei diritti umani (se il singolo o la comunità) e a quali limiti (sempreché si considerino necessari) debba essere sottoposto il loro esercizio26. Lo stato civile della collettività organizzata viene così concepito alternativamente come «����������������������������������������������� l’organismo che è al servizio della volontà individuale», oppure come «l’autorità nella cui libertà ogni individuo deve identificarsi»27. Ecco delinearsi due prospettive le cui matrici culturali affondano, rispettivamente, nel pensiero di Locke e di Rousseau: mentre la prima individua flessione specifica sulla configurazione giuridica del rapporto dell’individuo con se stesso nel sistema del diritto penale, cfr. M. Romano, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, n. 3, pp. 984-1003. Per una riflessione sullo stesso tema, ma inerente il sistema del diritto civile, cfr. G. Cricenti, Il lancio del nano. Spunti per un’etica del diritto civile, in “Rivista critica del diritto privato”, 2009, n. 1, pp. 21-39. 25 Per Paolo Moro, il noto brocardo di Giovenale descrive espressivamente il senso e la portata del primato della volontà umana che surroga la ragione (P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche, cit., pp. 131-153:144). Sul rapporto tra volontà e ragione nell’esperienza giuridica, cfr. E. Opocher, Lezioni metafisiche sul diritto, a cura di F. Todescan, Padova, 2005, pp. 45-69 in particolare (in tema di validità assiologica del diritto e di diritto e libertà). 26 Francesco Gentile parla di ����������������������������� «���������������������������� aporia dell’individualismo�� »� per sottolineare come l’antropologia moderna finisca per perseguire la reificazione dell’uomo attraverso la umanizzazione delle cose. L’Autore evidenzia come questo fenomeno, solo apparentemente paradossale, risulti manifesto nella società tecnologica, cfr. F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1983, pp. 223-229. 27 F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita, cit., p. 183. 123 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) nel singolo l’unico soggetto legittimato a disporre del proprio corpo e della propria salute, la seconda riconosce nella collettività il soggetto deputato a regolare l’esercizio individuale del diritto alla vita e alla salute, nel nome degli interessi sociali. Tali prospettive tornano a riemergere con vigore all’interno dell’attuale dibattito biogiuridico in tema di autonomia e autodeterminazione. Ciò si riscontra tanto nelle questioni di fine vita, quanto in quelle di inizio vita: si pensi, ad esempio, alle discussioni sulla legittimità delle direttive anticipate di trattamento sanitario (può il singolo disporre liberamente della propria vita o la collettività deve imporre dei limiti?)28, o alle discussioni sulla titolarità del materiale biologico embrionale utile alla ricerca (spetta all’embrione stesso, ai genitori, agli scienziati, alla collettività?). Il problema è che finché si resta fedeli ai presupposti dell’antropologia moderna non si può non ammettere che la legittimazione a disporre del bene-vita finisca col ricadere sulla volontà del più forte, sia essa singola o collettiva. Tale volontà «pretende e spesso ottiene di arrogarsi la titolarità di un bene che è pensato come disponibile e fungibile»29. In questo modo, risulta impossibile fondare un criterio univoco che imponga di reprimere la volontà che non tenda più alla conservazione della vita e della salute; né si riesce ad affermare che la libertà pretenda l’intangibilità della vita per la natura intrinseca di tale bene: «��������������������������������������� ���������������������������������������� giacché si è indotti a ritenere piuttosto che la vita è inviolabile perché (e, dunque, finché) il soggetto lo vuole»30. Il contesto culturale appena descritto favorisce una crescente amplificazione del potere e delle pretese della volontà individuale. La tendenza ad assolutizzare il principio di autonomia risulta manifesta in più punti dell’attuale panorama bioetico. Ad esempio, si possono citare quelle teorie che subordinano l’attribuzione di personalità al concepito a un atto di 28 Cfr. T. Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009. 29 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 49. Per una critica della concezione antropologica moderna che ricorre nella legislazione e nella giurisprudenza in tema di diritti indisponibili, cfr. P. Moro, I diritti indisponibili. Presupposti moderni e fondamento classico nella legislazione e nella giurisprudenza, Torino, 2004. 30 F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita, cit., p. 177. L’autonomia illusoria issn 2035-584x volontà della madre, il quale risulta in grado di creare la persona: ������������������������� «������������������������ la decisione sulla natura di (futura) persona dell’embrione non può che essere rimessa all’autonomia morale della donna, in forza della natura appunto morale e non semplicemente biologica dell’atto con cui la madre lo concepisce (letteralmente) come persona»31. Tali teorie tendono a giustificare ed estendere la liceità delle pratiche abortive e delle pratiche di utilizzazione degli embrioni a fini medico-scientifici. Ad ulteriore esempio, si possono citare le istanze volte a ottenere il riconoscimento giuridico di un diritto alla eutanasia o al suicidio assistito32. L’aspetto rilevante consiste non tanto nella volontà eutanasica o suicidiaria in sé (tutt’altro che sconosciuta all’essere umano), ma nella sua aspirazione a configurarsi come diritto soggettivo positivo: non si reputa più sufficiente che l’ordinamento lasci l’individuo libero di darsi, nel privato, la morte; piuttosto, si ritiene lo Stato tenuto a predisporre un apparato in grado di assecondare le richieste in tal senso, pena la violazione del diritto alla autodeterminazione33. 4. Padroni di sé, soggetti ad altri La volontà individuale, insindacabile e autosufficiente, sembrerebbe priva di limiti di principio. Tuttavia, nell’esaminare alcuni fra i casi recentemente affrontati dalla cd. biogiurisprudenza34, si può intravedere nella esaltazione dell’autodeterminazione un esito aporetico: contro le sue stesse aspirazioni, il diritto di autodeterminazione non riesce a porre l’individuo al riparo da qualunque ingerenza esterna, ma, anzi, finisce surrettiziamente col consentire l’innescarsi di dinamiche eterodeterminative. Questo esito si appalesa tanto nella prospettiva individualistico-libertaria di un diritto all’au31 L. Ferrajoli, Teoria del diritto, vol. 1 di Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Roma-Bari, 2007, p. 352. 32 Cfr. G. Dworkin, R.G. Fey, S. Bok, Eutanasia e suicidio assistito: pro e contro, Torino, 2001. 33 Per una riflessione critica sul continuo emergere di nuovi diritti umani, cfr. M. Manzin, La barba di Solženicyn e la frammentazione dei diritti umani, in “Persona y Derecho”, 2008, n. 58, pp. 455-472; F. Riccobono, Soggetto Persona Diritti, Napoli, 1999, p. 75 ss. 34 Cfr. S. Amato, Biogiurisprudenza. Dal mercato genetico al self-service normativo, Torino, 2006. 124 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) todeterminazione proprio del singolo, tanto nella prospettiva ‘sociale’ di un diritto all’autodeterminazione che finisce per slittare in capo … alla collettività. Quanto al primo profilo, si rifletterà sul tema della ricostruzione della volontà individuale presunta; quanto al secondo, si accennerà al tema delle ripercussioni delle esigenze sovra-individuali nell’esercizio dell’autonomia. Si considerino i meccanismi di ricostruzione della volontà presunta del nascituro o del paziente, che possono nascondere dietro l’appello al diritto alla autodeterminazione del singolo la decisione di altri. A questo proposito assumono rilievo paradigmatico le tesi dei sostenitori della sussistenza nell’ordinamento italiano di un diritto a non nascere se non sano (passate al vaglio della Cassazione in questi ultimi anni); così come assume rilievo la dottrina del cd. giudizio sostitutivo, volta a demandare a un ‘decisore surrogato’ la ricostruzione della volontà ipotetica del paziente incosciente (filtrata in una recente pronuncia della Cassazione). In tema di danni da procreazione, le fattispecie più controverse riguardano i casi in cui la patologia che colpisce il nato non è direttamente causata dalla condotta del medico, ma è dovuta a tare genetiche non diagnosticate durante la gestazione35. In ambito anglosassone si discute, a tal proposito, di wrongful life, che involgerebbe una tutela risarcitoria rivendicabile dal figlio stesso sia nei confronti del medico, responsabile di una erronea assistenza ai genitori, sia nei confronti degli stessi genitori, colpevoli di non avere effettuato un aborto che avrebbe evitato al figlio la nascita e una vita infelice36. Il punctum dolens della questione, delicata sia dal punto di vista giuridico che da quello etico, coinvolge il concetto problematico di ‘vita come danno’: può un bambino essere considerato un danno per sé stesso e/o per i suoi genitori? Non venire al mondo è preferibile ad una vita malata? Può essere giustificata l’eliminazione di un feto nel suo stesso interesse37? 35 Cfr. P. Rescigno, Danno da procreazione e altri scritti tra etica e diritto, Milano, 2006; A. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999. 36 Cfr. A. D’Angelo, Wrongful birth e wrongful life negli ordinamenti inglese e australiano, in A. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, cit., pp. 155-177; L. Bregante, Dignità del bambino e diritto alla pianificazione familiare negli USA, ibidem, pp. 179-208. 37 Cfr. E. Picker, Il danno della vita. Risarcimento per una vita non desiderata, Milano, 2004. L’autonomia illusoria issn 2035-584x La Cassazione italiana, che si è trovata ad affrontare la questione, ha affermato che, pur essendo ipotizzabile un diritto a nascere sani, non è altrettanto configurabile un diritto a non nascere se non sani. Quest’ultimo, infatti, si presenterebbe come un nonsense logico-giuridico, un ‘diritto adespota’, il cui soddisfacimento negherebbe la stessa soggettività di chi lo aziona38. La giurisprudenza italiana, dunque, ha recisamente negato la sussistenza di tale diritto. Ma se si sposta l’attenzione alla pretesa risarcitoria presentata dai genitori in qualità di rappresentanti legali del figlio (la domanda di risarcimento per i danni subiti dal minore per il fatto di essere vivo, gravemente malato), si nota come l’invocato diritto a non nascere veda solo nominalmente il figlio quale suo titolare. Il giudizio ex ante e in sostituzione del nascituro circa la meritevolezza o meno della sua vita, più che comportare una rappresentazione della volontà del figlio, sembra configurarsi come una vera e propria sostituzione nella sua volontà39. Allora, posto che in nessun modo può dirsi conoscibile l’opinione del nascituro sulla desiderabilità o meno di venire al mondo, l’appello al diritto del nascituro ‘a non nascere’ non fa che nascondere la pretesa di vedere riconosciuto un vero e proprio diritto dei genitori ‘a non far nascere’40. Una dinamica non dissimile si può notare in tema di autodeterminazione terapeutica del paziente incapace. Una recente e innovativa sentenza della Cassazione ha indicato i criteri che consentono al tutore di un paziente in stato vegetativo permanente di ottenere dal giudice, in contraddittorio con il curatore speciale, l’autorizzazione a sospendere i trattamenti di idra���������������������������������������������������������������� Cass. Civ., sez. III, sent. ���������������������������������� 29.7.2004, n. 14488, in “La nuova giurisprudenza civile commentata”, 2005, n. 1, pp. 418-433, con nota di E. Palmerini, La vita come danno? No…, sì…, dipende, pp. 433-444 (conforme è Cass. Civ., sez. II, sent. 14.7.2006, n. 16123). Nel 2009 la Cassazione ha avuto l’occasione di riprendere, e ribadire, parte delle medesime argomentazioni, pur in relazione a una diversa fattispecie, in cui il comportamento colposo del medico era stato causa diretta delle malformazioni del bambino (cfr. Cass. Civ., sez. III, sent. 11.5.2009, n. 10741, in “La Responsabilità Civile”, 2009, nn. 8-9, pp. 706-714, con nota di L. Viola, Il nascituro ha il diritto di nascere sano, ma non quello di non nascere, pp. 714-719). 39 Cfr. F. Bacchini, Il diritto di non esistere, Milano, 2002. 40 Cfr. F. Reggio, La vita come danno. Alcune note in margine ad una recente sentenza in tema di ‘diritto a non nascere’, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche, cit., pp. 155-174. 125 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) tazione e alimentazione artificiali che tengono in vita l’incapace. Le due condizioni individuate, che devono essere cumulativamente sussistenti, sono l’irreversibilità accertata dello stato vegetativo permanente e la riconduzione dell’istanza di sospensione dei trattamenti alla volontà del paziente, desunta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dal suo complessivo sistema di vita41. Il secondo requisito, relativo alla ricostruzione della volontà, configura l’aspetto più delicato della pronuncia. Esso appare parzialmente mutuato dalla dottrina nordamericana del substituted judgement (giudizio sostitutivo), la quale consente di individuare un ‘decisore surrogato’ che, rivestiti i ‘panni mentali’ del paziente incosciente (impossibilitato a esprimersi), decida per lui se proseguire o interrompere il sostegno vitale artificiale42. Nello specifico, il punto più problematico consiste nell’ammettere che, in mancanza di precise direttive anticipate di trattamento sanitario, la volontà di rifiuto dei trattamenti salva-vita possa essere desunta anche solo dal complessivo sistema di vita e valori del paziente. Vi è chi ha sottolineato come il rischio sia quello che, sulla base di un «����������������������������������������� ������������������������������������������ concetto di autonomia assolutamente autoreferenziale» e di una «presunta idea di dignità», il sostituto si ‘appropri’ della volontà del paziente, sfruttando ������������������������������������� «������������������������������������ elementi di valutazione fragili, manipolabili, ma soprattutto extra-giuridici e irrilevanti per il diritto», quali sono gli orientamenti di vita del soggetto o sue precedenti esternazioni vaghe ed estemporanee43. ��������������������������������������������������������������������� Cfr. Cass. Civ., sez. II, sent. 16.10.2007, ����������������������������������� n. 21748, in “Corriere giuridico”, 2007, n. 12, pp. 1676-1686, con nota di E. Calò, La Cassazione “vara” il testamento biologico, pp. 1686-1695. 42 Per una disamina della giurisprudenza nordamericana sul tema, cfr. G. Ponzanelli, Il diritto a morire: l’ultima giurisprudenza della corte del New Jersey, in “Foro italiano”, 1988, pt. IV, coll. 291301; Id., Nancy Cruzan, la Corte suprema degli Stati uniti e il “right to die”, in “Foro italiano”, 1991, pt. IV, coll. 72-75; A. Santosuosso, Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan, in “Foro italiano”, 1991, pt. IV, coll. 66-72; G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in “Diritto e questioni pubbliche”, 2007, n. 7, pp. 143-179 (il testo è disponibile alla URL: http://www.dirittoequestionipubbliche.org). 43 G. Gambino, La sentenza della Cassazione su Eluana Englaro: il diritto “oltre” il testamento biologico e il consenso informato, in “L’Arco di Giano”, 2007, n. 54, pp. 15-30:2628. Contra, per la piena rilevanza giuridica degli elementi individuati dalla Cassazione come utili a ricostruire la volontà del paziente, cfr. M.C. Barbieri, Stato vegetativo L’autonomia illusoria issn 2035-584x Ciò può comportare che quella che prima facie appare come una ricostruzione della volontà effettiva del paziente, a tutela della sua autodeterminazione, sia, in realtà, la vera e propria costruzione, da parte di terzi, di una volontà ipotetica, non necessariamente esistente in quei termini e, dunque, in buona sostanza, fittizia44. Dunque, l’autodeterminazione e l’autonomia, oggi pur tanto invocate e perseguite come baluardo della dignità umana45, rischiano di sciogliersi nella inconsapevole delega ad altri del potere di prendere decisioni sulla propria vita e salute. Come si anticipava, questo fenomeno può essere osservato anche sotto un altro profilo, quello che fa capo a esigenze lato sensu sovra-individuali, in grado di limitare l’esercizio dell’autodeterminazione46. Vi è chi nota come, rispetto al passato, il fondamento volontaristico sia «������������������� �������������������� oggi esposto a maggiori rischi, sia perché appare vulnerabile alle pressioni, all’ignoranza, agli eccessi, alle contrattazioni economiche, sia perché appare sensibile a una nuova visione prevalentemente sociale dei diritti dell’uomo». Quest’ultima, infatti, nel campo della ricerca scientifica, «spinge più di ieri all’accantonamento della volontà del paziente» in nome dei vantaggi ricavabili dalle nuove applicazioni biomediche per la collettività47. permanente: una sindrome ‘in cerca di un nome’ e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza Cass. 4 ottobre 2007 sez I, civile sul caso di Eluana Englaro, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, n. 1, pp. 389-421. 44 Cfr. R. Campione, Stato vegetativo permanente e diritto alla identità personale in un’importante pronuncia della Suprema Corte, in “Famiglia e Diritto”, 2008, n. 2, pp. 136-145; P. Stanzione, G. Salito, Il rifiuto presunto alle cure: il potere di autodeterminazione del soggetto incapace, in “Iustitia”, 2008, n. 1, pp. 55-80; nello stesso senso, A. Berardi, Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro, in questa stessa Rivista, 2009, n. 2. 45 Sull’attuale operare del concetto di dignità quale topos argomentativo, cfr. U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, 2009. Per una disamina giusfilosofica sul tema, cfr. altresì P. Becchi, Il principio dignità umana, Brescia, 2009. 46 Si pensi alle tesi foucaultiane sul controllo della sfera biologica individuale da parte della biopolitica e dei biopoteri (M. Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1974-1985, Milano, 2001; Id., La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979, Milano, 2005). 47 L. d’Avack, Verso un antidestino. Biotecnologie e scelte di vita, Torino, 2004, p. 85. 126 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Conformemente, altri individuano nel sistema economico, nel sistema amministrativo e nei sistemi di comunicazione di massa le principali «forze anonime di eteronomia» dei nostri tempi, in grado di compromettere seriamente l’autonomia individuale48. Si pensi, in particolare, alla burocratizzazione del principio del consenso informato, la quale induce il soggetto a delegare allo Stato (al giudice, al legislatore, al burocrate) la tutela della propria libertà e della propria salute49. 5. autonomia e libertà Molti sono i fenomeni che si accompagnano alla assolutizzazione del principio di autonomia: affievolimento della tutela giuridica della vita, crescente contrattualizzazione del rapporto medico-paziente, graduale espunzione della considerazione dei principi di beneficialità e giustizia dalle deliberazioni bioetiche50. E, non da ultimo, quello svuotamento dello stesso diritto all’autodeterminazione fin qui descritto, che rappresenta un vero e proprio scacco per l’autonomia: proprio nel momento in cui più pretende di affermarsi, essa corre il rischio di perdersi nelle maglie dell’eterodeterminazione. Si è sostenuto come questo esito si verifichi in ragione della concezione antropologica individualistica e volontaristica che assiste il concetto odierno di autodeterminazione. Si tratta di una antropologia di matrice moderna che intende l’uomo come un essere originariamente autosufficiente e irrelato, unica fonte dei suoi propri poteri e doveri51. La conseguente declinazione in senso solipsistico dell’autonomia, unita ad una visione radicalmente individualistica della libertà, conduce il singolo, inconsapevole dei suoi limiti e dei legami che lo avvincono ne48 B. Melkevik, Vulnerabilità, diritto e autonomia. Saggio sul soggetto di diritto, in M. Pasquazi, L. Scillitani (a cura di), Filosofia sociale. Scritti in memoria di Luigi Pasquazi, Milano, 2007, pp. 105-132:121 ss. 49 P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, cit., p. 144. 50 Cfr. M. Ronco, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale della vita, in “Cristianità”, 2007, nn. 341-342, pp. 11-34. 51 Cfr. F. Cavalla, La pretesa indebita alla “società dei perfetti”, in E. Opocher (presentazione di), La società criticata. Revisione fra due culture, Napoli, 1974, pp. 331-346. L’autonomia illusoria issn 2035-584x cessariamente all’altro da sé, a vivere nel mondo seguendo la sola verità dei rapporti di forza52. E allora sarà, di volta in volta, in ogni ambito, la volontà del più forte a prevalere, sia essa quella individuale o quella collettiva: ���������������� «��������������� questo è il destino delle pretese che si illudono di tutelare la libertà supponendola incarnata nella volitività e nei desideri soggettivi e su questi presumono di poter fondare le scelte bioetiche nell’ambito dei cc.dd. diritti riproduttivi e in quello relativo alle scelte tragiche di fine-vita»53. Nella loro perenne attualità, gli insegnamenti di ascendenza classica possono contribuire a superare questa impasse. La consapevolezza classica della presenza di un principio, inobiettivabile, che è in ogni cosa e che non si esaurisce in nessuna di esse, conduce, attraverso il rifiuto tanto degli atteggiamenti dogmatici che di quelli scettici, a riconoscere come destituita di fondamento la premessa individualistica: «dissolta la presunzione di tutto sapere o di tutto ignorare, gli uomini non appaiono più come esistenze individualmente autosufficienti: anzi si rivelano tanto strutturalmente bisognosi di vero e di bene, e perciò votati a cercarlo, che nessuno può, in linea di principio, rinunciare a domandare, e incessantemente, all’altro il fondamento di ogni parola pronunciata. I soggetti, in altri termini, appaiono stretti originariamente da un vincolo che li costituisce nel dialogo: il principio del quale non è nulla di pienamente disponibile per la volontà e per la ragione dei singoli»54. Il riconoscimento della struttura ontologicamente relazionale dell’essere umano non può che avere ricadute importanti in campo giuridico: ‘valori’ e ‘diritti dell’uomo’ escono «dal convenzionalismo, dalla genericità e 52 Osserva Maurizio Manzin che la concezione moderna della libertà come ‘eliminazione dal vincolo’ comporta sempre un rischio: «ad ogni atto teso alla rescissione di un vincolo seguono effetti imprevisti, e talvolta per nulla desiderabili; in ogni caso, il limite pòsto dal vincolo tende sempre a ripresentarsi in forme diverse, imponendo alla libertàliberazione il carattere di una praxis incessante (come Marx aveva peraltro individuato), una sorta di “rivoluzione continua” nella quale vincolo e liberazione si susseguono perpetuamente» (M. Manzin, Libertà e liberazione, cit., p. 105). 53 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 49. 54 F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991, p. 20. 127 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) molteplicità babelica delle loro determinazioni empiriche o ideologiche���������������� »��������������� quando si conformano alla «struttura antropo-ontologica, sinolica e relazionale dell’individuo»55. Sul fronte del dibattito in tema di autodeterminazione da più parti si tenta un recupero della dimensione relazionale dell’autonomia. In molti avvertono l’insufficienza delle concezioni intellettualistiche e individualistiche, e sottolineano «il ruolo ineliminabile che la relazione gioca sia nella concezione personale del sé che nello stesso auto-governo»56; vi è chi riflette «sul valore indisponibile e relazionale della volontà, proponendo di ripensare il consenso all’atto medico in una concezione dialogica dell’uomo come quella inaugurata in Occidente dal pensiero classico»57; vi è chi suggerisce, quindi, di ripensare alla relazione medico-paziente come una relazione dialogica in cui, alla ricerca di una composizione tra il principio di beneficialità e il principio di autonomia, la verità si costituisce mediante il movimento dialettico di domanda e risposta e mediante il riconoscimento dell’alterità dell’altro58. In particolare, in riferimento alle direttive anticipate di trattamento sanitario, vi è chi propone di ������������������������������������������������� «������������������������������������������������ prevedere nella stesura delle direttive il coinvolgimento di più persone: non nel ruolo di censori, e neanche tanto in quello di certificatori, ma in funzione di ciò che si potrebbe definire deliberazione autoesaminata, e insomma per imporre al disponente … una sorta di onere di dialettizzazione delle proprie determinazioni» 59. Recuperata una visione relazionale dell’autonomia, il cd. testamento biologico può essere inteso come una preziosa possibilità di mantenere il dialogo paziente-medico nonostante l’incapacità del malato, una opportunità di ricondurre ad unità la persona nel tempo, consentendo una comunicazione fra il suo (silenzioso) presente e il suo passato. 55 S. Cotta, Soggetto umano. Soggetto giuridico, Milano, 1997, p. 109. 56 R. Giovagnoli, Autonomia: questioni di contenuto, cit., p. 557. 57 P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, cit., p. 153. 58 Cfr. F. Borgia, Hans-Georg Gadamer: dove si nasconde la salute, in “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, 2005, n. 1, pp. 141-160. 59 D. Carusi, Tutela della salute, consenso alle cure, direttive anticipate: l’evoluzione del pensiero privatistico, in “Rivista critica del diritto privato”, 2009, n. 1, pp. 7-20:20. L’autonomia illusoria issn 2035-584x La direttrice sembra essere chiara: recuperare la dimensione relazionale dell’autonomia, riconoscendo l’originarietà e l’indisponibilità di ciò che precede ed anticipa la stessa volontà individuale (e ne costituisce la fonte). Tuttavia, resta da sottolineare come non esistano, e non possano esistere, ricette precostituite: in ogni punto dell’esperienza si è chiamati a determinare il principio di autonomia e il diritto alla autodeterminazione in senso relazionale, oppure in senso solipsistico60. D’altra parte, è l’uomo stesso ad essere, costantemente, «in bilico, oscillante tra la realizzazione e la distruzione di ciò che lo costituisce nel suo essere più proprio, tra la realizzazione e la dissoluzione di questo apice del suo essere, che è la libertà»61. Letizia Mingardo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Giurisprudenza all’Università di Padova (tesi in Filosofia del diritto, Supervisore prof. Francesco Cavalla). Collabora con il Cermeg Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica. 60 «������������������������������������������������ ������������������������������������������������� Ciò che appare come Principio, per sua essenza, compare come ciò che richiede all’uomo una decisione, la decisione appunto di riconoscere la presenza del Principio. La realtà necessaria che anticipa ogni atto gli richiede necessariamente la decisione di riconoscerla: in ogni punto dell’esistenza è presente tale richiesta; in ogni punto dell’esistenza la decisione può esserci o non esserci» (F. Cavalla, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Padova, 1996, p. 90). 61 F. Chiereghin, Dall’antropologia all’etica. All’origine della domanda sull’uomo, Milano, 1997, p. 140. Osserva Stefano Fuselli: «l’uomo è per se stesso, cioè in quel rapporto con quanto lo costituisce in modo proprio ed esclusivo, sempre rimesso alla possibilità di perdere la propria umanità. Dal momento che anche la possibilità concreta di negarsi in quanto uomo è costitutiva del suo essere uomo, l’uomo è allora responsabile della sua umanità, nel senso che può adottare atteggiamenti e comportamenti per i quali ne va della sua stessa umanità, ne va di se stesso in quanto uomo» (S. Fuselli, La lanterna di Diogene: alla ricerca dell’uomo negli esperimenti di ibridazione, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche, cit., pp. 91-109:104). 128 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Libertà di migrazione: da diritto fondamentale a reato di clandestinità? Note su alcune ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale in merito all’articolo 10 bis del D. L. n. 286 del 1998 Marco Cossutta Abstract Parole chiave Il contributo analizza alcune ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale sul reato di clandestinità. Dalle stesse emergono punti di criticità rispetto all’assetto costituzionale della fattispecie in questione, dalla lesione del fondante principio di solidarietà, al depotenziamento dell’effettivo godimento di diritti umani, al rovesciamento dei canoni informanti la materia penale nel vigente ordinamento, alla infrazione di vicoli internazionali. Al fine di vagliare la capacità persuasiva delle argomentazioni proposte dai giudici di merito, si richiamano alcuni indirizzi assunti dalla Consulta in materia di migrazione. Al di là di ogni possibile ipotesi in merito alla futura pronuncia della Corte, si rileva come l’operato del legislatore, in una democrazia costituzionale e non maggioritaria, sia vincolato da principî invalicabili, i quali debbono informare anche le scelte in politica migratoria. Diritti dello straniero; Funzione della pena; Migrazione; Politiche penali; Reato di clandestinità; Tutela dei diritti umani; Vincoli internazionali. Le reazioni critiche all’articolo 10 bis. L ’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del reato di clandestinità, avvenuto con l’articolo 16 della legge n. 94 del 15 luglio 2009, del quale avevamo fatto cenno sullo scorso fascicolo di codesta Rivista1, ha suscitato, accanto a prese di posizione critiche2, un notevole dibattito dot1 Cfr. Alcune digressioni sull’esecuzione della pena con particolare riguardo al cittadino straniero. Dalla comunicazione interculturale alla funzione rieducativa della pena ed al pieno sviluppo della persona umana, nel fascicolo 2 del 2009 di “Tigor. Rivista di scienze della comunicazione”. http://www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/3400 2 Richiamiamo, anche per la rilevanza dello stesso nella redazione di alcune ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale, l’Appello dei giuristi contro il reato di clan- Libertà di migrazione In memoria degli ospiti dell’Hôtel International, “un piccolo albergo in una laterale dell’Avenue Wagram, dietro Palace de Ternes” Erich Maria Remarque, Arc de Triomphe). destinità del 30 giugno del 2009: “il disegno di legge n. 77-B attualmente all’esame del Senato prevede varie innovazioni che suscitano rilievi critici. In particolare, riteniamo necessario richiamare l’attenzione della discussione pubblica sulla norma che punisce a titolo di reato l’ingresso e il soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato, una norma che, a nostro avviso, oltre ad esasperare la preoccupante tendenza all’uso simbolico della sanzione penale, criminalizza mere condizioni personali e presenta molteplici profili di illegittimità costituzionale. La norma è, anzitutto, priva di fondamento giustificativo, poiché la sua sfera applicativa è destinata a sovrapporsi integralmente a quella dell’espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce l’assoluta irragionevolezza della nuova figura di reato; inoltre, il ruolo di extrema ratio che deve rivestire la sanzione penale impone che essa sia utilizzata, nel rispetto del principio di proporzionalità, solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiun- 129 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) gimento dello scopo. Né un fondamento giustificativo del nuovo reato può essere individuato sulla base di una presunta pericolosità sociale della condizione del migrante irregolare: la Corte costituzionale (sent. 78 del 2007) ha infatti già escluso che la condizione di mera irregolarità dello straniero sia sintomatica di una pericolosità sociale dello stesso, sicché la criminalizzazione di tale condizione stabilita dal disegno di legge si rivela anche su questo terreno priva di fondamento giustificativo. L’ingresso o la presenza illegale del singolo straniero non rappresentano, di per sé, fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l’espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali. L’introduzione del reato in esame, inoltre, produrrebbe una crescita abnorme di ineffettività del sistema penale, gravato di centinaia di migliaia di ulteriori processi privi di reale utilità sociale e condannato per ciò alla paralisi. Né questo effetto sarebbe scongiurato dalla attribuzione della relativa cognizione al giudice di pace (con alterazione degli attuali criteri di ripartizione della competenza tra magistratura professionale e magistratura onoraria e snaturamento della fisionomia di quest’ultima): da un lato perché la paralisi non è meno grave se investe il settore della giurisdizione del giudice di pace, dall’altro per le ricadute sul sistema complessivo delle impugnazioni, già in grave sofferenza. Rientra certo tra i compiti delle istituzioni pubbliche “regolare la materia dell’immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati” (Corte cost., sent. n. 5 del 2004), ma nell’adempimento di tali compiti il legislatore deve attenersi alla rigorosa osservanza dei principi fondamentali del sistema penale e, ferma restando la sfera di discrezionalità che gli compete, deve orientare la sua azione a canoni di razionalità finalistica. «Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che […] non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto di tentazioni, volte a nascondere la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli». Le parole con le quali la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità del reato di «mendicità» di cui all’articolo 670, comma 1, cod. pen. (sent. n. 519 del 1995) offrono ancora oggi una guida per affrontare questioni come quella dell’immigrazione con strumenti adeguati alla loro straordinaria complessità e rispettosi delle garanzie fondamentali riconosciute dalla Costituzione a tutte le persone”. Per la disamina di ulteriori interventi critici in argomento si possono consultare, fra gli altri, i siti della Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (www.asgi.it) e di Magistratura Democratica. (www.magistraturademocratica.it). Libertà di migrazione issn 2035-584x trinale3. Al di là di queste reazioni, va altresì sottolineato come l’articolo in questione, ora numerato come il 10 bis del Decreto legislativo n. 286 del 1998 (d’ora in avanti richiamato anche come Testo unico), sia stato oggetto in anche in ambito giurisprudenziale di forti perplessità. Queste si sono istituzionalizzate in ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale contenenti i forti dubbi di legittimità costituzionale riscontrati in fase processuale dalla magistratura di merito. Appare pertanto interessate osservare le motivazioni per i quali le autorità giudicanti hanno ritenuto che la sussistenza di un vizio materiale inficiante la legittima presenza del reato di clandestinità nel nostro ordinamento non fosse manifestamente infondata. A tale proposito verranno qui richiamate le ordinanze dei Giudici di pace di Pesaro, del 31 agosto 2009, di Pordenone, del 8 ottobre 2009, di Cuneo, del 16 ottobre 2009, e di Agrigento, del 15 dicembre 2009 e del Giudice del lavoro di Voghera, del 20 novembre 20094. Anche alla luce del vasto dibattito dottrinali in materia, appare rilevante enucleare le motivazioni che hanno indotto i giudici di merito a promuovere il rinvio alla Corte costituzionale al fine di osservare le argomentazioni addotte in favore dell’illegittimità della disposizione in questione. L’ordinanza di Pescara (la lesione del principio di solidarietà) Utilizzando un criterio cronologico l’esame inizierà dall’ordinanza emessa dal Giudi3 In proposito richiamiamo il numero monografico della rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, XI (2009), n. 4, con contributi di L. Pepino, L. Miazzi, A. Sciortino, G. Palombarini, S. Rodotà, C. Renoldi, G. Savio, P. Bonetti, P. Morozzo della Rocca, M. Paggi, A. Casadonte e M. Pipponzi, M. Pastore, L. Miazzi e G. Perin, S. Furlan, A. Simoni. Una vasta eco ha ritrovato la legge n. 94 del 2009 nelle relazioni presentate al Convegno della Associazione Italiana dei Costituzionalisti tenutosi a Cagliari 14-17 ottobre 2009 sul tema Lo statuto costituzionale del non cittadino, con relazioni di V. Ondina, P. Stancati, B. Caravita di Toritto, B. Pezzini, E. Grosso, B. Nascimbene, A. Pugiotto, G. F. Ferrari (la pubblicazione provvisoria delle relazioni è consultabile sul sito www.associazionedeicostituzionalisti.it) 4 Le ordinanze sono visionabili sul sito www.asgi.it 130 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ce di pace di Pesaro; questa presenta notevole interesse per le argomentazioni proposte, le quali però appaiono, nel loro complesso, più legate a rilevi di politica penale e, in generale, a questioni socio-politiche, che a considerazioni proprie a questioni di legittimità costituzionale, le quali pur ritrovano richiamo nell’ordinanza stessa. Per quanto riguarda il primo ordine di questioni, il giudice di merito rileva anzitutto essere tale figura di reato “incompatibile con la civiltà del nostro Paese”. A tal fine all’interno dell’ordinanza vengono riprodotti “il testo dell’appello 30.6.2009 di insigni giuristi, appartenenti ad aree culturali e ideologiche diverse […] e le considerazioni provenienti da aree significative del volontariato sociale, laiche e religiose”5. 5 Dell’appello dei giuristi abbiamo dato conto nella nota 2. Il secondo documento citato si riferisce ad un appello del 5 luglio del 2009, per il quale “come cittadini italiani riteniamo che il provvedimento varato oggi al Senato sia un vero e proprio «atto eversivo» verso la civiltà del diritto espressa nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (la dignità della persona umana), nella Costituzione italiana (articoli 2 e 3), in tanti testi delle Nazioni Unite il cui spirito è presente nella Dottrina Sociale della Chiesa, orientata ad affermare il «bene comune», che è il bene di tutti e di ciascuno, sintesi di libertà e giustizia. Come credenti nel Dio che tutti ama e nel Vangelo di Cristo nostra pace pensiamo che per i cristiani nessuno sia straniero e, soprattutto, che nessuno straniero sia di per sé un delinquente. Chi ostenta i valori cristiani conosce le parole di Cristo «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25). Rinnoviamo l’appello ad operare con urgente fermezza per respingere la deriva autoritaria e totalitaria basata sulla logica dello straniero-nemico che nasconde i veri pericoli della criminalità organizzata, della corruzione economica e politica, del degrado etico e che alimenta la paura, eccita gli animi al peggio, diffonde modelli di violenza e prepara a mali più grandi. Dolore e orrore. Il 2 luglio 2009 è stata votata una legge che rompe l’unità della famiglia umana e ne offende la dignità, prende piede l’idea che esistano esseri umani di seconda e terza categoria, un popolo di «non persone», di esseri umani, uomini e donne invisibili. È una perdita totale di senso morale e di sentimento umano; questo accade, nel nostro paese che ha prodotto milioni di emigrati. La legge «porterà solo dolore». Il dolore nasce dall’orrore giuridico e civile del «reato di clandestinità», dall’idea del povero come delinquente e della povertà come reato. La legge votata non è solo contraria alla nostra Costituzione ma a tutta la civiltà del Diritto. Punisce una condizione di nascita, l’essere straniero, invece che la commissione di un reato. Dichiarare reato una condizione anagrafica. Libertà di migrazione issn 2035-584x Al di là del merito dei appelli e della loro irrituale proposizione all’interno di un’ordinanza, va rilevato che in questi è chiaramente individuabile il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 519 del dicembre del 1995 in merito all’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, ex comma primo dell’articolo 670 del Codice penale6. Su questa sentenza e basata in gran parte l’argomentazione in favore della illegittimità costituzionale del reato di clandestinità. Tale ipotesi verrà ripresa di lì a poco, sia pure con sfumature diverse, anche dal magistrato di Voghera; risulta pertanto utile soffermarsi brevemente sulla pronuncia della Corte di tre lustri fa. In questa la Corte costituzionale, in riguardo al bene giuridico protetto da tale figura di reato (la tranquillità ed il decoro della civile convivenza), aveva sottolineato come, e su questo punto il Giudice di Pesaro costruirà la similitudine, “l’ipotesi della mendicità non invasiva integra una figura di reato ormai scarsamente perseguita in concreto, mentre nella vita quotidiana, specie nelle città più ricche, non è raro il caso di coloro che – senza arrecare alcun disturbo – domandino compostamente, se non con evidente A questo punto, quanti stranieri frequenteranno un servizio sociale o si rivolgeranno, se vittime della «tratta», ad associazioni volontarie o istituzionali, forze di polizia comprese, oggi messe in un angolo dalla diffusione delle cosiddette «ronde»? Quanti stranieri andranno a far registrare una nascita, si presenteranno in ospedale per farsi curare? Quali gravi conseguenze questo potrà produrre sulla salute di tutti i cittadini è già stato evidenziato da moltissime associazioni di medici. La legge è pericolosa perché accrescerà la clandestinità che dice di combattere, favorirà il «si salvi chi può», darà spazio alla criminalità organizzata, aumentando l’insicurezza di tutti. Non c’è futuro senza solidarietà. La legge tra l’altro è inutilmente crudele. Ci fa tornare ai tempi della discriminazione razziale. È una forma di accanimento contro i poveri anche se la povertà più grande oggi è la nostra: povertà di coraggio, di umanità, di capacità di scommetter sugli altri, di costruire insieme una sicurezza comune. La sicurezza basata sulla paura sta diventando un alibi per norme ingiuste e dannose, per scaricare il malessere di molti italiani sugli immigrati, capro espiatorio della crisi, bersaglio facile su cui sfoghiamo il tramonto di ogni etica condivisa e della testimonianza cristiana. La tutela della vita e della dignità umana va assunta nella sua interezza per tutti e in ogni momento dell’esistenza”. 6 L’intero articolo ritrova la sua abrogazione con la successiva sentenza n. 205 giugno 1999. 131 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) imbarazzo, un aiuto ai passanti. Di qui, il disagio degli organi statali preposti alla repressione di questo e altri reati consimili – chiaramente avvertito e, talora, apertamente manifestato – che è sintomo, univoco, di un’abnorme utilizzazione dello strumento penale”. La Consulta, forse influenzata dal ricordo dalle immagini del pensionato Umberto Domenico Ferrari, interpretato dal professore di glottologia dell’Università degli Studi di Firenze Carlo Battisti, che con una dignitosa ritrosia chiede la carità nella memorabile opera cinematografica «Umberto D.» diretta da De Sica, riconosce che “gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che – senza indulgere in atteggiamenti di severo moralismo – non si può cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte a «nascondere» la miseria e a considerare le persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi un sorta di recupero della mendicità quale devianza, secondo linee che il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale, preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la istituzione di stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti”. E continua, “ma la coscienza sociale ha compiuto un ripensamento a fronte dei comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una ordinata convivenza, e la società civile – consapevole dell’insufficienza dell’azione dello Stato – ha attivato autonome risposte, come testimoniano le organizzazioni di volontariato che hanno tratto la loro ragion d’essere, e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà”. Nella sentenza compare a questo punto una frase che è bene tenera a mente perché verrà implicitamente ed in negativo utilizzata, dal Giudice di Pordenone, per ravvisare un ulteriore aspetto di anticostituzionalità nell’articolo 10 bis; la Corte, infatti, rileva: “d’altra parte, i paventati effetti di ulteriore affollamento delle carceri e d’un accrescimento del carico penale sono irrealistici e comunque potranno essere scongiurati se e in quanto si consoliderà l’inLibertà di migrazione issn 2035-584x dirizzo del legislatore verso la «depenalizzazione»”. In buona sostanza, pur non ritenendo rilevante l’osservazione per la quale gli istituti di pena sono già così affollati che appare del tutto irragionevole pensare di comprimervi dentro anche i rei di accattonaggio, la Corte invita il legislatore a ripensare, anche sotto questa luce, le sue politiche penali. La Consulta conclude che “in questo quadro”, il quale comprende sia la mutata percezione sociale dell’accattone, sia la constatazione della sua non pericolosità sociale, sia, da ultimo, aggiungiamo noi, l’irragionevolezza di sovraccaricare il sistema penale nel suo complesso con dei poveracci che chiedono la carità senza disturbare nessuno, “la figura criminosa della mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun modo necessario il ricorso alla regola penale. Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull’ordine pubblico, può dirsi invero seriamente posta in pericolo dalla mera mendicità che si risolve in una semplice richiesta d’aiuto”. Fin qui il Giudice delle leggi del 1995, che abroga il primo comma dell’articolo 670 del Codice penale. Su questa falsariga il Giudice di Pesaro ritiene anzitutto che il reato di clandestinità operi una “gravissima lesione del principio di solidarietà umana e sociale che permea l’intera Costituzione e che è espresso in particolare negli artt. 2, 3, 4”. Di medesimo avviso appare anche il magistrato di Voghera, il quale, sia pur attraverso altre argomentazioni, le quali avremo modo d’osservare, ritiene anch’egli che tale reato sia “in contrasto con l’impegno dello Stato di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo e con il principio di solidarietà sociale, entrambi sanciti dall’art. 2 della Costituzione”. Ciò che però più conta per il Giudice di Pesaro, sempre in tema di solidarietà sociale, è la ratio della disposizione, la quale permette di riconoscere che “un criterio di razionalità, di perversa razionalità, c’è e consiste nell’obiettivo e nella predisposizione di strumenti idonei a rendere la vita impossibile all’immigrato non regolare, a fare terra bruciata intorno a lui, a 132 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) minare radicalmente la possibilità stessa della solidarietà nei suoi confronti [… tale progetto si attua con] la configurazione del concorso nel reato ex art. 110 CP a carico di tutti coloro che esprimono nei confronti del c.d. «clandestino» concreta e fattiva solidarietà, accogliendolo, ospitandolo, aiutandolo a trovare alloggio, a nutrirsi e a fare qualche attività per sostentarsi […]. La contravvenzione con ammenda salatissima, inutile e inefficacie per l’immigrato irregolare, è invece efficacissima nei confronti di tutti gli altri”7. Si rileva altresì che l’obbligo di denuncia del clandestino da parte di pubblici ufficiali e di incaricati di pubblico servizio fa sì che lo stesso non possa usufruire del godimento di diritti sociali (dall’assistenza sanitaria all’istruzione) sanciti dall’ordinamento internazionale, più precisamente per il magistrato in questione, dai “principi del diritto internazionale generalmente riconosciuto”. Per tanto, “ed in sintesi, la norma introdotta viola la Costituzione perché favorisce e induce a comportamenti e a prassi che contrastano e mettono a rischio il principio fondamentale della solidarietà umana e sociale, che la Costituzione, al contrario, pone come valore primario da realizzare e promuovere (in particolare artt. 2 e 3)”. Prima di passare alla argomentazioni in materia di violazione del principio di solidarietà sociale addotte dal magistrato del lavoro di Voghera, è bene riassumere tutte le cause di illegittimità costituzionale che, a detta del giudice di Pesaro, inficiano l’articolo 10 bis. Oltre al già rilevato contrasto con il principio di solidarietà che investe gli articoli 2 e 3 del dettato costituzionale, si ravvisa una violazione del principio di ragionevolezza (“razionalità finalistica, adeguatezza dei mezzi ai fini, proporzionalità, rispetto sostanziale dei valori della Costituzione”) che deve informare “l’esercizio dell’attività legislativa in materia penale”; si ravvisa anche la lesione del principio d’uguaglianza e del principio di personalità della responsabilità penale (articoli 3 e 27 della Costituzione) “sanzionando penalmente in modo indiscrimina7 L’articolo 110 del Codice penale prevede che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilità”. Libertà di migrazione issn 2035-584x to gli stranieri che soggiornano illegalmente nel territorio dello Stato, presumendone arbitrariamente riguardo a tutti l’esistenza di una condizione di pericolosità sociale”; la violazione dell’articolo 10 dato che, secondo i parametri assunti dal magistrato pesarese, la configurazione come reato del soggiorno non regolare dello straniero contravviene di “principi affermati in materia di immigrazione nel diritto internazionale generalmente riconosciuto” ed infine vi sarebbe ancora violazione degli articoli 3 e 27 non prevedendo la disposizione il giustificato motivo dell’ingresso o della permanenza irregolare sul suolo dello stato quale causa “esimente codificata”, allo stesso modo in cui è prevista dall’articolo 14 del Testo unico per lo straniero clandestino che si trattenga nel territorio dello stato in violazione dell’ordine di espulsione impartito dal Questore. L’ordinanza di Voghera (titolarità versus godimento dei diritti) L’ordinanza del Tribunale di Voghera concentra l’attenzione dell’osservatore anzitutto sulla mancanza di “deroghe all’obbligo di denuncia da parte dell’autorità giudiziaria cui lo straniero privo di titolo di soggiorno si rivolga per la tutela dei propri diritti (come invece previsto con riguardo agli operatori sanitari dall’art. 35, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286), ritenendo che ciò pregiudichi il diritto alla tutela giurisdizionale”. Rammentiamo che la vicenda sorge all’interno d’una controversia di lavoro (accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e risarcimento di danni patiti in conseguenza di infortunio occorso nello svolgimento della prestazione e di licenziamento intimato verbalmente), ove l’attore, trovandosi in una condizione di clandestinità, non si è presentato all’udienza (a detta del giudice ricorrente, al fine di evitare una “pressoché certa condanna e probabile espulsione” ex articolo 10 bis). Per il magistrato del lavoro, la non previsione legislativa di “una deroga all’obbligo di denuncia da parte dell’autorità giudiziaria nell’ambito di processi che attengono alla tutela di diritti dello straniero privo di titolo di soggiorno, appare in conflitto 133 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) innanzitutto con l’art. 24, commi 1 e 2, della Costituzione”; si tratterebbe pertanto, in primis, di un pregiudizio della tutela giurisdizionale. Per inciso, va rilevato che l’argomentazione qui presentata pare debole; tant’è vero che il clandestino ha intentato causa contro il datore di lavoro (in nero) e che il tribunale ha fissato l’udienza per l’interrogatorio libero delle parti; la spada di Damocle dell’incriminazione ai sensi dell’articolo 10 bis ha fatto desistere l’attore dal presentarsi in udienza, ma certamente non il tribunale dall’adempiere agli accertamenti del caso. Sicché il diritto statuito dal primo comma dell’articolo 24, parimenti al diritto di difesa ed alla parità delle parti sancito dall’articolo 111 del dettato, non subiscono pregiudizi (allo stesso modo in cui non sono pregiudicati i diritti della difesa del contumace o ancora il diritto di agire in giudizio a tutela di propri diritti o interessi legittimi, di colui che, per altri motivi, non si presenti in udienza per non correre il rischio di vedersi, per altri fatti imputatigli, suo malgrado trattenuto). Certo è anche che, come rileva il giudice del lavoro, la figura di reato in oggetto pregiudica non poco le concrete possibilità di far valere in giudizio i propri diritti, primi fra tutti il godimento dei diritti sociali, a chi versa nella condizione di clandestinità, condizione che denota una situazione di disagio sociale e come tale meritevole di solidarietà. Da qui il richiamo al principio di solidarietà che verrebbe anch’esso leso. Infatti, argomenta più compiutamente il magistrato, la statuizione di un reato per un comportamento che viene giudicato dalla stessa Corte costituzionale non sintomatico di una particolare pericolosità sociale (il richiamo è alla sentenza n. 78 del 2007, sulla quale ritorneremo) senza prevedere la deroga di cui sopra, che permetterebbe “di garantire il pieno esercizio di tutti i diritti di rango costituzionale”, comporta “un’irragionevole disparità di trattamento tra situazioni egualmente meritevoli di tutela”. Sicché, se riproduciamo correttamente il ragionamento del Giudice di Voghera, nonostante la conclamata non pericolosità sociale del comportamento, la possibilità di provvedere in modo diverso di fronte alla situazione di clandestinità, vedi l’espulsione ammiLibertà di migrazione issn 2035-584x nistrativa dello straniero, viene introdotto, contro il principio di ragionevolezza, il reato di cui all’articolo 10 bis, il quale di per sé non solo non tutela beni giuridici o ne sanziona l’offesa (data l’assenza di pericolosità sociale del comportamento racchiuso nella figura di reato), ma, di converso, lede diritti costituzionali quali, nello specifico, l’azione di tutela dei propri diritti e, più in generale, il principio di solidarietà nonché precise norme di diritto internazionale pattizio in materia di esercizio della difesa dei diritti propri al lavoratore e del godimento dei diritti sociali; per questi motivi, la irragionevole ed ingombrate figura di reato deve venire abrogata dall’ordinamento giuridico italiano. Nuovamente pare di dover riconoscere la debolezza degli argomenti, dato che la presenza del reato in oggetto nell’ordinamento italiano solo in maniera lata ed indiretta inibisce l’esercizio di diritti fondamentali sanciti dal diritto interno e da quello internazionale (infatti, sia pur latitante a seguito di un mandato di cattura, chiunque può presentare istanza per far valere i propri diritti o interessi legittimi, sarà la condizione di latitanza a determinare l’arresto dello stesso, ma non è la condizione di latitante ad inibire l’esercizio di diritti riconosciti)8. Può spiacere che in queste condizioni soggiacciano persone deboli e, nella maggior parte dei casi, soggettivamente non pericolosi socialmente, quali sono gli immigranti clandestini, i quali si ritrovano in condizioni non dissimili da quelle proprie ai conclamati membri della criminalità organizzata, ma non pare che di per sé l’introduzione di tale reato possa arrecare danno al godimento di diritti fondamentali (anche nel citato mondo della salute, “bene primario ed assoluto dell’individuo, tutelato dall’art. 32 della Costitu8 Va in proposito richiamato l’articolo 17 del Testo unico il quale prevede che “lo straniero sottoposto a procedimento penale è autorizzato a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l’esercizio della difesa, al sono fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza”. Pur richiamando espressamente il procedimento penale, la disposizione in oggetto non pare sia assoggettata da quanto stabilito dall’articolo 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, e che pertanto possa ritrovare, per analogia, applicazione anche negli altri riti del processo. 134 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) zione”, il clandestino viene prima curato, quindi gode a pieno titolo di questo diritto, e poi, una volta sanato, si ritrova, se non abbastanza lesto, a dover intraprendere a ritroso e questa volta con il viatico delle pubbliche autorità, la via che lo ha condotto in Italia). Sicché non pare che, per questi motivi la disposizione in oggetto produca effetti in diretto e palese contrasto con i principi espressi dagli articoli 117 e 10 del dettato come, invece, il Tribunale di Voghera afferma. Ma quel che rileva, prima di passare alla questione della pericolosità sociale, da cui la richiamata sentenza n. 78 del 2007, la cui disamina risulta centrale al fine di fondare o meno il vizio di ragionevolezza della disposizione dell’articolo 10 bis, vi è un altro problema adombrato dalla ordinanza di Voghera. Nella stessa, infatti, il magistrato rileva come la norma censurata, che qui appare in contrasto con il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione, determinando “la disparità di trattamento nell’accesso alla tutela giurisdizionale e al diritto alla difesa” (la qual cosa non si ritiene, da parte dello scrivente, pienamente condivisibile), è “fondata sulla mera condizione personale dello straniero, costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato, che è poi la condizione tipica del migrante economico e, dunque, anche una condizione sociale”. Legando questa constatazione alla mancanza di pericolosità sociale del comportamento, sopra ipotizzata attraverso il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale, si palesa all’orizzonte una figura di reato connotata dalla presenza del cosiddetto tipo d’autore, ovvero la statuizione nell’ordinamento di una situazione di pericolosità sociale oggettiva, nella quale verserebbe, al di là cioè delle personali inclinazioni di un soggetto, chiunque si trovasse nella condizione descritta dalla fattispecie astratta; in questo contesto il soggetto risulta pericoloso socialmente in quanto appartenete ad una data categoria e soltanto per tale appartenenza è destinatario di misure repressive9. 9 Per un primo approccio al tema in oggetto si rimanda a L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo Libertà di migrazione issn 2035-584x L’ordinanza di Cuneo (i limiti della ragionevolezza e della razionalità finalistica) All’articolo 3 della Costituzione si richiama anche il Giudice di pace di Cuneo, il quale, nell’ordinanza del 16 ottobre 2009, sottolinea, sulla scorta dell’istanza di remissione alla Corte costituzionale di illegittimità dell’articolo 10 bis, presentata il 15 settembre dello stesso anno della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino al Giudice di pace torinese, essere tale disposizione in contrasto con il predetto articolo del dettato in quanto irragionevole; infatti, la potestà legislativa “trova limiti insuperabili nell’osservanza dei principi fondamentali del sistema penale stabiliti dalla Costituzione e nell’adozione di soluzioni orientate a canoni di ragionevolezza e razionalità finalistica; la irragionevolezza della nuova fattispecie criminosa è chiaramente evidenziata dalla carenza di un pur minimo fondamento giustificativo: la penalizzazione di una condotta dovrebbe intervenire, come extrema ratio, in tutti i casi in cui non sia possibile individuare altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo”. L’ordinamento ha a disposizione strumenti idonei a limitare la presenza sul suolo nazionale di clandestini, in primis l’espulsione amministrativa, già prevista nel Testo unico. Si rileva, intatti, sempre sulla scorta della Procura torinese, che “la effettiva espulsione in via amministrativa costituisce causa di non procedibilità dell’azione penale, il che rende plasticamente evidente quale penale, Roma-Bari, 1990, ove l’autore rileva che i modelli di diritto penale autoritario “raggiungono […] la forma più perversa nello schema penale del cosiddetto tipo d’autore, ove l’ipotesi normativa di devianza è simultaneamente «senza azione» e «senza evento offensivo». La legge, in questo caso, non proibisce né regola comportamenti, ma prefigura status soggettivi direttamente incriminabili; non ha funzione regolativa, ma costitutiva dei presupposti della pena; non è osservabile o violabile dall’omissione e dalla commissione di fatti da essa difformi, ma è costitutivamente osservata o violata da condizioni personali conformi o difformi”, così a p. 77 del citato testo. Su questo tema appare utile, fra le molte, anche la lettura dello studio di A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, 2000, che, nel discutere di migranti e di devianti, concentra la sua analisi su forme di controllo sociale di natura attuariale. 135 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) sia l’interesse primario del legislatore; infine, non è richiesto alcun nulla osta dell’Autorità Giudiziaria per l’esecuzione dell’espulsione via amministrativa, al chiaro scopo di non creare intralci alla predetta operazione. Orbene, l’evidente finalità della nuova fattispecie incriminatrice, strumentale all’allontanamento dello straniero irregolare dal territorio dello stato, ne sottolinea l’assoluta inutilità e, dunque, la mancanza di una ratio giustificatrice, perché lo stesso obiettivo era perfettamente raggiungibile prima dell’introduzione della nuova figura di reato, mediante l’adozione dell’espulsione coattiva in via amministrativa ai sensi dell’art. 13 co. 4 D. L.vo n. 286/98”. Come rileva anche il magistrato di Pesaro, l’articolo 3 verrebbe poi violato in considerazione di una irragionevole disparità di trattamento operata dall’articolo 10 bis rispetto al precedente articolo 14, quinto comma del Testo unico; quest’ultimo prevede la punibilità dello stranero espulso solo se si trattiene sul territorio dello stato “senza giustificato motivo”, mentre l’articolo 10 bis non prevede alcuna clausola giustificativa o, per usare le parole della Corte costituzionale della sentenza n. 5 del 2004, “valvola di sicurezza”. L’articolo in questione pertanto “non appare conforme alla Costituzione, in quanto punisce indiscriminatamente tutti i soggetti irregolarmente presenti nel territorio dello Stato, senza tenere conto dell’eventuale esistenza di situazioni legittimanti tale presenza, differentemente dall’altra ipotesi di reato di cui sopra”. Dopo un richiamo alla violazione dell’articolo 97, dovuto alla inutile ed ingiustificata sopraposizione di due tipi di procedure (provvedimento amministrativo e processo giudiziario) per ottenere l’espulsione dello straniero irregolare dal territorio dello stato, viene fatta menzione dal Giudice di pace di Cuneo alla violazione degli articoli 24 e 27 del dettato, nella parte in cui statuiscono il diritto di difesa e la presunzione di innocenza dell’imputato. Tali diritti verrebbero palesemente violati nel momento in cui l’esecuzione del procedimento amministrativo di espulsione determina una sentenza di non doversi procedere dal parte del giudice di merito, ma solo quando la misura dell’espulsione ha già avuto esecuzione. All’imputato, meglio all’indagato, è preclusa ogni Libertà di migrazione issn 2035-584x possibilità di difesa; si palesa pertanto “in concreto una discrezionalità legislativa che si è, nel complesso, orientata ad un principio di presunzione di colpevolezza, in netto contrasto con l’art. 27, II comma della Costituzione”. Quest’ultimo rilevo del Giudice di pace di Cuneo induce a riflettere, cosa del resto ripresa, sia pure in differente maniera, dal giudice del lavoro di Voghera, sul problema relativo alla mera titolarità e non al pieno godimento dei diritti in ambito giurisdizione che investe il clandestino e, più in generale, lo straniero extracomunitario in Italia10. I rilevi del Giudice di pace di Cuneo in merito alla violazione degli articolo 24 e 27 del dettato, anche se succintamente argomentati, paiono fondati e fanno palesare una sorta di ordinamento penale speciale dello straniero clandestino rispetto a quello in vigore per i cittadini comunitari ed i cittadini stranieri regolari. Di ciò si ha sentore nella sentenza n. 22 del 2007, ove compare l’espressione “«diritto penale speciale» in conflitto, per sua stessa natura, con i parametri costituzionali”11. Va ribadito che in una ancor più recente sentenza la Corte stessa ha riconosciuto ancora una volta, avuto riguardo all’articolo 10 del detta10 Sull’argomento si sofferma specificatamente Andrea Pugiotto nella sua relazione su “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello straniero al Convegno nazionale della Associazione Italiana dei Costituzionalisti, richiamato in nota 3. 11 Cfr. ibidem, nonché G. Savio, Il diritto degli stranieri e i limiti del sindacato della Corte costituzionale: una resa del giudice delle legge?, in “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, IX (2007), n. 1, il quale sottolinea che “la Corte deve aver pensato che sia giunta l’ora di una revisione organica e completa della materia, che superi i limiti angusti connessi ad una visione del fenomeno migratorio in termini esclusivamente di ordine pubblico. E questa è una questione politica. Quando si legge che la Corte «non può, in ogni caso, procedere ad un nuovo assetto delle sanzioni penali […] giacché mancano nell’attuale quadro normativo in subiecta materia precisi punti di riferimento che possono condurre a sostituzioni costituzionalmente obbligate», vuol dire che è la normativa sull’immigrazione ad essere intrinsecamente in contrasto con i parametri costituzionali, poiché non offre, al suo interno, punti di riferimento costituzionalmente orientati tali da consentire un riassetto mirato a correggere le asimmetrie esistenti”, p. 84. Sulla sentenza in oggetto si può consultare anche il commento di D. Brunelli, La Corte costituzionale “vorrebbe ma non può” sulla entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa, in “Giurisprudenza costituzionale”, LI (2007), n. 1, pp. 181-189. 136 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) to, l’obbligo di “garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall’appartenenza a determinate entità politiche” ed il divieto di introdurre “discriminazioni nei confronti degli stranieri”, così la sentenza n. 306 del luglio 2008. L’ordinanza di Pordenone (il problema della offensività della condotta) Le osservazioni prodotte dal Giudice di pace di Pordenone appaiono parimenti utili al fine di indagare la presunta anticostituzionalità dell’articolo in questione; il magistrato rileva, da prima, che la figura di reato prevista dall’articolo 10 bis, che pur presenta tutti i crismi relativi al principio di legalità, appare carente sotto il profilo del principio di colpevolezza e del principio di offensività. Se, per quanto concerne la questione relativa alla colpa, il giudice si limita a rilevare che “la funzione educativa della pena verrebbe compromessa nell’ipotesi di previsione di una sanzione penale a carico di un soggetto resosi responsabile di una mera disobbedienza, in quanto il soggetto abbia commesso un fatto inoffensivo non riuscirebbe a comprendere la ragione della punizione” (va rilevato che nell’ordinanza non si fa menzione alla sentenza della Corte costituzionale n. 364 del marzo 1988), il principio di offensività, ovvero l’assenza di un atto di per sé lesivo proprio alla condizione di clandestinità, attira specificatamente al sua attenzione. In proposito rileva, per un verso che “affinché possa configurarsi un reato, occorre un comportamento che, oltre a corrispondere alla fattispecie descritta dalla norma, sia colpevole ed offensivo, idoneo, cioè, a ledere o porre in pericolo un bene costituzionalmente significativo o comunque non incompatibile con la Costituzione”, per altro che la Corte costituzionale con sentenza n. 78 del 2007, ha definito che “«il mancato possesso del titolo abilitativo alla permanenza nello Stato» da parte dello straniero non può considerarsi reato, in quanto non è di per sé idoneo a produrre una particolare pericolosità sociale”; tutto ciò implica che per la Corte “la mera Libertà di migrazione issn 2035-584x condizione di clandestino non può considerarsi idonea a porre seriamente in pericolo la sicurezza pubblica”. Sottolineando anche che l’ordinamento giuridico può prevedere una sanzione penale solo in mancanza di alternativi strumenti idonei ad arginare il fenomeno in oggetto, “mentre nel caso di specie, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella dell’espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce la sua assoluta irragionevolezza”, il magistrato pordenonese, richiamando la sentenza n. 519 del 1995, ritiene che “il legislatore, quindi, non può delineare fattispecie incriminatrici che prescindano dall’esistenza dell’offesa ad un bene giuridico”. Infatti, per il magistrato autore dell’ordinanza, “il concetto di bene giuridico […] impone un limite nelle scelte del legislatore”. Su questo punto, come vedremo in seguito, consente ampiamente anche il Giudice di pace di Agrigento. Dal Tribunale della città friulana ci giungono altre due considerazioni che rendono l’illegittimità di tale disposizione non manifestatamente infondata. Per un verso, l’applicazione della disposizione legislativa “rischia di aggravare la crisi degli uffici giudiziari” perché “la macchina giudiziaria verrà onerata di un carico di lavoro tale da incidere pesantemente sul buon funzionamento degli uffici”, pertanto, l’articolo 10 bis sarebbe “in evidente contrasto con l’art. 97 Cost.”; per altro, l’impossibilità di far ricorso nel reato di ingresso e soggiorno clandestino, da parte del contravventore, all’articolo 162 del Codice penale, il quale permette, attraverso il pagamento delle eventuali spese processuali e di un terzo della pena pecuniaria comminata di estinguere il reato. Tale mancanza di previsione darebbe vita a un conflitto con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 del dettato costituzionale. Forse dal divieto di oblazione della contravvenzione, previsto dal legislatore, che porterebbe all’estinzione del reato, si può dedurre che la ratio legis sottendente al reato di clandestinità sia quella di dover arginare un grave pericolo sociale, così grave da impedire al legislatore di consentire al contravventore di poter estin137 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) guere il reato con il semplice pagamento in via preventiva di un terzo dell’ammenda massima prevista. Se così fosse, la ipotetica discriminazione rilevata dal giudice pordenonese ritroverebbe giustificazione nella oggettiva pericolosità sociale del comportamento, il quale però, due anni prima della statuizione della fattispecie in questione, era stato altrimenti definito dalla Corte costituzionale stessa; d’altro canto, non si comprende la ragione del perché il legislatore, a fronte di un così grave pericolo sociale, non abbia rubricato la condizione di clandestinità fra i delitti e non, come avvenuto, fra le contravvenzioni, e non abbia pertanto comminato, accanto alla sanzione pecuniaria, anche la pena detentiva della reclusione. Al di là di queste considerazioni, che verranno riprese in fase conclusiva, va rilevato che il magistrato pordenonese, nel concentrare di fatto la sua ordinanza sulla mancanza di ragionevolezza del provvedimento legislativo, che istituisce il reato di clandestinità, e questo punto si ritrova evidenziato sia pur declinato in diversa maniera, anche nelle ordinanze di Pesaro, Voghera e di Agrigento, parimenti alla lesione del principio di uguaglianza, che tutte le ordinanze hanno, da diversi punti di vista, posto in rilievo, abbia a sua volta posta la questione relativa alla lesione dell’articolo 97 della Costituzione, nella parte in cui statuisce il principio di buon andamento delle pubbliche amministrazioni. A prima vista tale rilevo appare, come quello proposto dall’ordinanza di Cuneo, se non totalmente incongruo, quanto meno debole; in proposito va sottolineato come la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 2004 abbia ribadito che “la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, pur potendo riferirsi anche all’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, mentre e del tutto estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale”. Pertanto, sotto questo profilo non vi sarebbe spazio per un rilevo di illegittimità costituzionale, che non sia manifestatamente infondato. Libertà di migrazione issn 2035-584x Va però rammentato, a parziale sostengo della tesi uscita dal Tribunale di Pordenone, come la stessa Corte, nella qui più volte richiamata sentenza n. 519 del 1995 abbia, proprio avuto riguardo all’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, fatto menzione alla necessità di un processo di depenalizzazione al fine di scongiurare un “accrescimento del carico penale”; è ben vero che la Corte in tale sentenza ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 670, secondo comma, in riferimento al primo comma dell’articolo 97 del dettato, e pertanto, con ogni probabilità, rigetterà lo specifico rilevo al predetto articolo del magistrato pordenonese, ciò non di meno la questione sollevata, se non palesa rilevanza di legittimità costituzionale, quanto meno riveste un’indubbia centralità nell’ambito delle politiche legislative. L’ordinanza di Agrigento (i vincoli internazionali) Chiusa la digressione, esaminiamo le motivazioni che hanno indotto il Giudice di pace di Agrigento ad addire alla Corte costituzionale. Se nell’ordinanza del dicembre dello scorso anno si ritrovano, in buona sostanza, questioni già sollevate dalle ordinanze precedentemente esaminate, vi è in questa un elemento innovatore, che va con attenzione esaminato. Per quanto riguarda le prime questioni, vanno richiamate dall’ordinanza le osservazioni in merito alla violazione del principio di offensività della legge racchiuso negli articoli 25 e 27 del dettato dai quali si desumerebbe, con particolare riguardo a pronunce della Corte, il non essere “invero, consentito, che – per finalità di mera deterrenza – siano introdotte sanzioni che non si ricollegano a fatti colpevoli ma, piuttosto, a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore, anche potenziale, per un determinato bene giuridico che si deve proteggere”. Non essendo, come più volte rilevato, per la Corte costituzionale “il mancato rispetto delle norme sull’ingresso o sulla permanenza nel territorio dello Stato […] di per sé indice di pericolosità sociale”, il magistrato deduce che l’incriminazione per un reato che è “espressio138 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) ne di una condizione individuale, la condizione di migrante […] assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante, tra le altre cose, con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali”. Implicitamente ricollegandosi alle osservazioni del giudice pordenonese, ritiene che la sanzione penale sia soltanto una extrema ratio, che interviene nel caso in cui lo scopo protettivo non possa altrimenti venire raggiunto. In presenza del provvedimento amministrativo di espulsione questa appare priva di fondamento; infatti, “appaiono evidenti sia la piena corrispondenza della sfera applicativa della nuova figura di reato con l’area dei casi per i quali era già – ed oggi continua ad essere – prevista l’espulsione amministrativa o di respingimento differito e sia il carattere obiettivamente superfluo della sanzione penale, testimoniato dalla chiara volontà legislativa di privilegiare risultati (l’effettivo allontanamento dello straniero clandestino o irregolare) ottenibili attraverso l’uso di strumenti amministrativi già esistenti prima della riforma, alla cui concreta operatività ostavano non già carenze normative bensì difficoltà di carattere amministrativo/organizzativo”. La norma si palesa pertanto in violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e sussidiarietà della legge penale (ex articoli 3, 25 e 27 della Costituzione). Il principio di uguaglianza verrebbe violato vuoi attraverso la “applicazione della condanna penale nei confronti di un soggetto la cui condotta in nulla si discosta da quella di un altro soggetto, il quale, tuttavia, per il verificarsi di condizioni che prescindono dalla sua volontà e dalla sua azione (l’esecuzione del provvedimento di espulsione e di respingimento nei suoi confronti) e, comunque, in assenza di una valida ragione che giustifichi al disparità di trattamento, deve essere prosciolto”, vuoi per la mancanza di previsione nell’articolo 10 bis, a differenza dell’articolo 14, comma quinto ter, dello stesso testo unico, di “giustificati motivi che potrebbero determinare le condotte punite”. Libertà di migrazione issn 2035-584x L’elemento innovatore, a cui si era fatto cenno, riguarda l’argomentazione prodotta in proposito della violazione dell’articolo 117 della Costituzione, con esclusivo riguardo al comma primo, il quale dispone, come noto, che la potestà legislativa si eserciti nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Argomento questo già presente nelle ordinanza di Pesaro e di Voghera, ma qui sviluppato con particolare originalità e cogenza. L’ordinanza del Giudice di pace di Agrigento richiama il Protocollo addizionale della Convenzione della Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, sottoscritto nel corso della conferenza di Palermo, tenutasi il 12-15 dicembre 2000. All’articolo 5 del succitato Protocollo gli stati firmatari si impegnano acciocché “i migranti non diventino assoggettati all’azione penale fondata sul presente Protocollo per il fatto di essere stati oggetti delle condotte di cui all’articolo 6”, ovvero di essere stati oggetto di “traffico di migranti” nelle sue varie articolazioni. Ai sensi dell’articolo 16 del Protocollo qui richiamato, “ogni Stato parte prende […] misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo”. Il magistrato rileva che, rebus sic stantibus, l’articolo 10 bis, introducendo il reato di clandestinità contravvenga con quanto previsto dall’articolo 5 del Protocollo, ovvero l’impegno assunto a non assoggettare ad azione penale quanti sono stati oggetto di “traffico di migranti”, e che, pertanto, il legislatore ordinario con la legge 94 del luglio 2009 sia venuto meno al vincolo costituzionale contenuto nell’articolo 117. Posta la questione in altri termini, il legislatore ordinario avrebbe aggirato la limitazione di sovranità consentita con l’adesione al Protocollo e prevista all’articolo 11 del dettato. Va in ogni caso rilevato che il richiamo al Protocollo fa emergere dal genere clandestini una sola particolare specie, ovvero esclusivamente coloro che sono stati oggetto di traffico da parte altrui; lo scopo del Protocollo, come 139 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) recita l’articolo 2 dello stesso, è ”di prevenire e combattere il traffico di migranti, nonché quello di promuovere la cooperazione tra gli Stati Parte a tal fine, tutelando al contempo i diritti dei migranti oggetto di traffico clandestino”. Sicché dallo stesso risulterebbero esclusi coloro che siano entrati e soggiornino illegalmente sul territorio dello stato senza, per così dire, aver usufruito di servizi da parte della criminalità organizzata. Certo è che, al di là di ogni constatazione quantitativa sul fenomeno, dovrebbero essere non assoggettati all’azione penale i clandestini che sono stati oggetto di “traffico di migranti”, e, pertanto, una figura di reato che indistintamente ricomprende tutti i clandestini appare, alla luce di quanto sopra esposto, costituzionalmente illegittima. Le argomentazioni qui proposte appaiono, a prima vista, forti e verranno riprese in fase di conclusioni. Su alcuni orientamenti della Consulta Appare d’uopo cercare di riassumere le posizioni sopra espresse e richiamate dalle varie ordinanze di rinvio al fine di compararle con gli orientamenti della Consulta in materia. Per intanto rileviamo che i magistrati di Pordenone e di Cuneo, sostanzialmente con motivazioni simili, richiamano la violazione dell’articolo 97 della Costituzione contente il principio di efficacia ed efficienza della pubblica amministrazione, il quale verrebbe inficiato da un’irragionevole mole di lavoro riversatasi sulla autorità giudiziaria a seguito della istituzione del reato di clandestinità, reato, come sopra osservato inutile, in quanto le medesime finalità possono, nell’ordinamento vigente, venire perseguite per mezzo di provvedimenti amministrativi, quali l’espulsione intimata dal Questore. In proposito, come già osservato, la Corte ha ribadito, nella sentenza n. 5 del 2004, che “la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, pur potendo riferirsi anche all’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento Libertà di migrazione issn 2035-584x sotto l’aspetto amministrativo, mentre è del tutto estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale”, sicché questioni di legittimità costituzionale come quelle proposte nelle ordinanze di Pordenone e di Cuneo andrebbero dichiarate, secondo questo consolidato indirizzo, come non fondate. Si rammenta che in occasione dell’abrogazione dell’articolo 670, primo comma del Codice penale, la Corte, nella qui richiamata sentenza 519 del dicembre 1995, ritenesse irrealistici “i paventati effetti di ulteriore affollamento delle carceri e d’un accrescimento del carico penale” e dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’articolo 670 in riferimento all’articolo 97 del dettato. Pare pertanto che anche questa volta il rilievo sollevato ritrovi il diniego della Corte. Un forte portato emotivo assume il riferimento effettuato dai magistrati di Pesaro e di Voghera al principio di solidarietà fondante l’ordinamento costituzionale italiano e sul quale la Corte si è ampiamente soffermata nella più volte citata sentenza n. 519 del 1995. In proposito ad un necessario allargamento del principio di solidarietà anche agli stranieri che versano in una condizione di clandestinità si può senza ombra di dubbio richiamare, per la speculare similitudine con il nostro caso, la sentenza n. 269 del 16 dicembre 1986, ove in merito al problema della presenza nell’ordinamento di disposizioni inibitorie del fenomeno emigratorio, retaggio di una politica demografica posta in essere a cavallo delle due guerre mondiali, la Corte riconosceva, anzitutto, che “non va dimenticato che l’emigrante è soggetto economicamente debole, che versa in situazioni di particolare bisogno e che, pertanto, è razionale che sia tutelato dallo Stato contro speculazioni, inganni ed errori”, ma soprattutto e con veemenza, richiamandosi anche ai lavori della Costituente, come “la libertà d’emigrazione è costituzionalmente, ed in maniera espressa, sancita; allorché, come è stato esplicitamente dichiarato da alcuni Costituenti, essa deve rimanere, quanto più possibile, scevra da limiti (solo eccezionalmente può essere condizionata da obblighi derivanti dal bene comune, dalla tutela di interessi generali 140 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) d’una comunità democraticamente orientata); allorché tale libertà non soltanto non è guardata con sfavore ma è «riconosciuta» come bene, valore fondamentale, realizzativo della personalità umana (non nasce, infatti, quale «graziosa concessione» dello Stato) essa va tutelata e garantita”. Ancora la Corte nella sentenza del 1986 insiste sull’originalità di tale diritto; infatti, “non è pensabile che la Costituzione vigente conceda o permetta al legislatore ordinario monopolii tesi ad indirizzare arbitrariamente (per fini contingenti) l’emigrazione: un legislatore che, ancorato a visioni arretrate del fenomeno emigratorio, ritenesse, oggi, di poterlo determinare autoritariamente, come anonimo fenomeno di massa, si porrebbe nettamente contro la Costituzione”. È ben vero che la Corte in questa sentenza ha di fronte il caso del fenomeno della emigrazione italiana nel mondo12, e non quello specifico dell’immigrazione dal terzo mondo verso l’Italia, che investe la società contemporanea, pur tuttavia, la sentenza in oggetto consente una lettura speculare del fenomeno, tanto da poter trarre della indicazioni in merito al trattamento della figura, più generale e comprensiva delle specie sopra indicate, del migrante: infatti, come è stato sottolineato, “di fronte ad una lettura tanto valorizzante della visione costituzionale del fenomeno migratorio, che pone al centro del progetto migratorio la persona umana con la sua proiezione, costituzionalmente garantita, al libero sviluppo di sé, mi sembra che i, pur necessari, distinguo tra la posizione del cittadino emigrante e quella dello straniero immigrato, non possano far ritenere costituzionalmente accettabile che il legislatore orienti le politiche sull’immigrazione in chiave di disciplinamento autoritario, scordando l’irriducibile e primaria qualità umana dei soggetti migranti”13. 12 Si rimandiamo in proposito al contributo di Laura Capuzzo, Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo, apparso sullo scorso fascicolo di codesta Rivista.(http:// www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/3410 ) 13 B. Pezzini, Lo statuto costituzionale dei non cittadini: i diritti sociali relazione presentata al Congresso dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Cagliari 16-17 ottobre 2009 (citiamo dalla versione provvisoria reperibile sul sito www.associazionedeicostrituzionalisti.it, p. 30). Libertà di migrazione issn 2035-584x Tenuto conto di tali orientamenti non v’è dubbio che la Corte possa richiamare ancora una volta il legislatore a utile riflessione in materia di immigrazione (questa volta con particolare riguardo al reato di clandestinità), cosa del resto di recente avvenuta nella sentenza n. 22 del 2007, anche in ragione del fatto che, come la stessa Corte ebbe a riconoscere, la società contemporanea è “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio di cittadinanza in senso stretto, accoglie ed accomuna tutti coloro che, quasi come una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinda del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza”, così nella sentenza n. 172 del maggio 1999. Appare pertanto probabile che la Corte ritenga, come nel caso della sentenza del 2007 sopra richiamata, che queste argomentazioni non possano “rendere ammissibile una pronuncia”, riproducendo nuovamente il non possumus che ha caratterizzato la sentenza del gennaio del 200714. 14 Vedi in argomento le osservazioni critiche di Andrea Pugiotto, “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello straniero, cit., pp. 43-44. L’autore richiama anche i contributi di D. Brunelli, La corte costituzionale “vorrebbe ma non può” sulla entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa, cit. e G. Savio, Il diritto degli stranieri e i limiti del sindacato della Corte costituzionale, cit. In proposito Brunelli rileva, nel testo qui richiamato, come la Consulta, in tale occasione fosse stata investita da ordinanze relative alla parte comminatoria e non precettiva della norma penale e che, per quanto “la parte sanzionatoria della norma penale incriminatrice non sia territorio libero per le scorribande politico-criminali del legislatore […] lo scrutinio circa la ragionevolezza e la proporzionalità della comminatoria penale si materializza presentando molti coni d’ombra, quasi circondato da tabù e sospetti”; viceversa “la Corte costituzionale in più di una occasione ha mostrato di poter interloquire sulle scelte politico-criminali operate dal legislatore […]. In particolare il principio di sussidiarietà del diritto penale, il principio di offensività, il principio di colpevolezza, oltre al principio di ragionevolezza, si sono trasformati da enunciazioni dottrinali concernenti il volto del diritto penale moderno a parametri di valutazione di quelle scelte, perfettamente 141 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Va sottolineato che tutte le ordinanze qui richiamate rilevano, sia pure in campi diversi, la violazione del principio d’uguaglianza; da Pesaro giunge il richiamo all’assunzione presupposta della pericolosità sociale del comportamento in oggetto senza l’obbligo di alcun accertamento dello stesso nel caso di specie; tale posizione emerge anche dal giudice del lavoro di Voghera che pone l’accento su una discriminazione fondata su base e dati personali; da Tribunale di Pordenone si sottolinea la discriminazione operata dalla non applicabilità dell’articolo 162 del Codice penale ed infine Agrigento e Cuneo sottolineano una disparità di trattamento dato che, come rileva il magistrato di Agrigento, “la esecuzione dei provvedimenti di espulsione e/o respingimento è rimessa alla discrezionalità (ed alla disponibilità di mezzi) dell’Autorità amministrativa, senza che nessun rilievo ricoprano a tal fine la volontà e le azioni dello straniero, l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche potrà determinare effetti diversi (sentenza di condanna o di non luogo a procedere) in forza di circostanze assolutamente estranee alla sfera di intervento degli imputati”. Il Giudice di pace di Cuneo rileva altresì una disparità, che sorge dalla lesione del diritto di difesa, che in qualche modo muove anche l’ordinanza di Voghera, nonché la lesione del principio della presunzione di innocenza. È fuori dubbio che queste argomentazioni abbiano il loro peso nella futura pronuncia della Corte, non ultima quella relativa alle diverse ed ingiustificate conseguenze prodotte da una espulsione a seguito di condanna rispetto a quelle relative ad una espulsione eseguita dall’autorità amministrativa, a seguito della quale si palesa un non luogo a procedere. compatibili con il principio democratico, che impone la legalità in materia penale come baluardo del monopolio riservato in materia alla volontà parlamentare”. Sicché non appare del tutto improbabile che, stante alle considerazioni svolte da Brunelli e da Savio, la Consulta possa, questa volta, affondare “il coltello nella carne e nel sangue della fattispecie criminosa, valutandone il volto in termini di reale contenuto offensivo [… riconoscendo …] che la norma rischia di punire condotte di mera disobbedienza poste in essere da soggetti non pericolosi”, estrapoliamo ancora dal contributo di Brunelli. Libertà di migrazione issn 2035-584x Non pare invece che possa presentare problemi di lettura costituzionale il comma secondo dell’articolo 10 bis ove prevede che l’azione penale non si applichi “allo straniero destinatario del provvedimento di respingimento”, di cui all’articolo 10, comma primo del Testo unico, ai sensi del quale “la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal presente testo unico per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Il respingimento si palesa quale misura preventiva alla commissione di un reato, ovvero all’ingresso clandestino nel territorio dello stato; in assenza della materialità del fatto, non si palesa il reato. Al di là di ciò pare dalla lettura delle ordinanza che il punto su cui tutte convergano nel ritenere non manifestatamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale sia il duplice problema della ragionevolezza e della razionalità finalistica della disposizione in oggetto. I dubbi in merito a questi problemi si declinano in più punti e su questi pare possa venire decisa la questione sottoposta alla Corte. Tutte le ordinanze, con eccezione di quella presentata dal giudice del lavoro di Voghera15, concordano nel rilevare che, in generale, la sanzione penale quale reazione ad un’offesa di un bene giuridico è da impiegarsi, nell’ordinamento vigente, come extrema ratio, e soltanto quando l’ordinamento non preveda alcuna via alternativa per reagire ad un comportamento offensivo. Viene più volte rilevato che l’ordinamento prevede, nel Testo unico, la misura dell’espulsione dello straniero illegalmente presente sul suolo nazionale; tale misura è ritenuta sufficiente al fine della tutela del bene giuridico. Vi è anche da considerare che la misura di sicurezza e la pena conseguente al reato di cui all’articolo 10 bis, operano nello stesso ambito, tanto da provocare una inutile e, come rilevato, dannosa sovrapposizione di competente amministrative e giurisdizionali, che porterebbero alla violazione di principi costituzionali (dal principio di uguaglianza, al principio di efficacia ed efficienza della pubblica amministrazione). 15 Va in ogni caso tenuta presente la specificità dell’ambito in cui sorge l’ordinanza sopra richiamata. 142 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) A fronte della non ragionevolezza della compresenza nell’ordinamento della statuizione di due differenti modelli di reazione alla violazione del bene giuridico, l’uno ascrivibile alle misure di sicurezza e l’altro alle pene, le ordinanze in oggetto sottolineano l’acclamata non pericolosità sociale del comportamento descritto nella fattispecie racchiusa nell’articolo 10 bis (ingresso e soggiorno illegale nel e sul territorio dello stato). In proposito richiamano la stessa Corte costituzionale, che, con sentenza n. 22 del gennaio 2007, ha rilevato, in merito all’articolo 14 del Testo unico, che “il reato di indebito trattenimento nel territorio nazionale dello straniero espulso riguarda la semplice condotta di inosservanza dell’ordine di allontanamento dato dal questore, con una fattispecie che prescinde da una accertata o presunta pericolosità sociale dei soggetti responsabili”. Sicché, due anni prima dell’entrata in vigore della disposizione contenente il nuovo reato di clandestinità, la Corte aveva riconosciuto la non oggettiva pericolosità sociale di tale comportamento. Tale tendenza viene ribadita dalla stessa Corte nella sentenza n. 78 del marzo dello stesso anno, nella quale viene rimarcato, in proposito della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale di un clandestino detenuto e preclusa dal giudice di legittimità, che “tale preclusione risulta collegata in modo automatico ad una condizione soggettiva – il mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato – che, di per sé, non è univocamente sintomatica né di una particolare pericolosità sociale […] né della sicura assenza di un collegamento col territorio […]. In conseguenza di siffatto automatismo, vengono quindi ad essere irragionevolmente accomunate situazioni soggettive assai eterogenee: quali, ad esempio, quella dello straniero entrato clandestinamente nel territorio dello Stato in violazione del divieto di reingresso e detenuto proprio per tale causa, e quella dello straniero che abbia semplicemente omesso di chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno e che sia detenuto per un reato non riguardante la disciplina dell’immigrazione”. Ciò che preme sottolineare è che la Corte pone in rilievo nella sentenza qui richiamata Libertà di migrazione issn 2035-584x due elementi: per un verso, la possibile radicalizzazione del clandestino nella società civile, tanto da non poter escludere un collegamento con il territorio, la qual cosa evoca quell’idea di “comunità di diritti e di doveri”, richiamata nella sentenza n. 172 del maggio 1999 sopra citata, della quale sarebbe parte anche il clandestino detenuto, la cui appartenenza renderebbe, nel caso di specie, possibile “la proficua applicazione della misura” alternativa alla detenzione; per altro la Corte evidenzia, esemplificando, l’illegittima similitudine fra figure di clandestinità diverse per motivazioni soggettive. Similitudine che invece appare fondante la ratio del reato di clandestinità, che pone sullo stesso piano l’ingresso illegale nel territorio dello stato con il mancato rinnovo del permesso di soggiorno, senza, fra l’altro, contemplare richiami al giustificato motivo, che è invece presente all’interno dell’articolo 14 del Testo unico e, in quanto clausola di carattere elastico “assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo legale”, così la Corte nella sentenza n. 5 del gennaio 2004 ove, fra l’altro, si stabilisce, proprio in proposito del carattere elastico della clausola, “la verifica del rispetto del principio di determinatezza va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce”. Da quanto accennato, la fattispecie sarebbe il frutto della “tendenza alla configurazione normativa di «tipi d’autore»”, che la Corte ha censurato con la sentenza n. 306 del 1993, tendenza non giustificata, all’interno del vigente ordinamento penale, nemmeno da una conclamata pericolosità sociale del comportamento, e questa presunzione è stata più volte esclusa dalla Corte nel corso del 2007. Tutto ciò vanificherebbe, come sottolineato dal Giudice di pace di Agrigento, la funzione rieducativa della pena, di cui all’articolo 27 della Costituzione. Infatti, la presupposizione della presenza di reati configurati come tipi d’autore, per la stessa Corte costituzionale, ha come conseguenza che, per gli autori degli stessi, “la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita”, ancora dalla sentenza n. 306 del 1993. 143 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) Pericolosità sociale e limiti della reazione difensiva La questione relativa alle finalità della pena potrebbe essere, fra i molti possibili, un fulcro intorno a cui raccogliere ed ordinare le argomentazioni e su cui appoggiare le riflessioni favorevoli o contrarie alla legittimità costituzionale della disposizione penale in oggetto16. Come abbiamo notato, nel caso di specie, il principio di ragionevolezza del precetto penale si declina in varie maniere, ma si può presumere che l’articolo 10 bis risulti ragionevole (anche avuto riguardo alla constatazione della presenza nell’ordinamento della misura di espulsione dello straniero clandestino) nel momento in cui si sostenga che alla fattispecie corrisponda, per il comportamento descritto, nella realtà sociale un grave (gravissimo) pericolo sociale, che scuota le basi stesse della civile convivenza, un fenomeno altamente lesivo in nessun altro modo fronteggiabile che attraverso la criminalizzazione e repressione dello stesso. Occorre pertanto che le obiezioni poste dalla Corte nel 2007 siano superate a fronte della constatazione della minaccia all’ordine costituito. Sarà il riconoscimento della diffusa pericolosità sociale del comportamento a giustificare all’intero dell’ordinamento giuridico vigente la presenza di misure estreme, che possono portare, come nel caso della cosiddetta criminalità organizzata, ad un riposizionamento dei principi fondanti ed informanti nell’ordinamento la funzione della pena, sino a giungere, nei limiti dei principi costituzionali, ai confini, senza mai superarli, di un ordinamento penale speciale. Va riconosciuto come, già all’indomani della sentenza n. 364 del marzo del 1988, la Corte riconosce, con la sentenza n. 282 del maggio del 1989, che “non è dato delineare una statica, assoluta gerarchia tra le finalità” della pena; “è certo necessario, indispensabile, di volta in volta, per le varie fasi (incriminazione astratta, commisurazione, esecuzione) o per i diversi 16 Il tema della funzione rieducativa della pena era stato oggetto di argomentazione nel intervanto apparso sullo scorso fascicolo di codesta Rivista ed a cui si fa riferimento nella nota 1. Libertà di migrazione issn 2035-584x istituti di volta in volta considerati, individuare a quale delle finalità della pena, ed in che limiti, debba esser data prevalenza ma non è consentito stabilire a priori, una volta per tutte (neppure a favore della finalità rieducativa) la precitata gerarchia”. Ciò viene ribadito nella già richiamata sentenza n. 306 del 1993, ove si afferma “che tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena – da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo – non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione”. In considerazione a quanto premesso, “il legislatore può cioè – nei limiti della ragionevolezza – fare tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata”. Di recente la Corte ha riconosciuto, con la sentenza n. 257 del luglio 2006, come “le differenti contingenze, storicamente mutevoli, che condizionano la dinamica dei fenomeni delinquenziali, comportano logicamente la variabilità delle corrispondenti scelte di politica criminale che il legislatore è chiamato a compiere: così da dar vita ad un sistema normativamente «flessibile», proprio perché potenzialmente idoneo a plasmare i singoli istituti in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per la loro natura coinvolgono. Da qui l’impossibilità di stabilire, ex ante, un punto di equilibrio dogmaticamente «cristallizzato» tra le diverse funzioni che il sistema penale, nel suo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro dei valori costituzionali; e, quindi, la impossibilità, anche, di censurare, in astratto opzioni normative, sol perché di tipo «repressivo» rispetto al quadro preesistente, o, all’inverso, perché ispirate ad un maggior favor libertatis”. Osserviamo pertanto come la Corte ritenga che la funzione della pena possa oscillare fra una forte connotazione alla prevenzione generale o difesa sociale che dir si voglia (quanto il legislatore ragionevolmente ritenga che il feno144 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) meno delinquenziale necessiti di una decisa risposta repressiva) ed una altrettanto spiccata tendenza rieducativa, ove le considerazioni di politica penale inducano verso una risocializzazione del reo. In nessun caso però la pena potrà cristallizzarsi lungo uno dei due assi estremi, obliare per tanto l’una o l’altra funzione, nemmeno nei casi di più estremo pericolo per la sicurezza pubblica. In proposito la Corte, nella richiamata sentenza del luglio 2006, ben sunteggia questa radicale ed imprescindibile presa di posizione; riconoscendo ancora una volta che “soltanto nel quadro di un sistema informato ai parametri della «adeguatezza e proporzionalità» delle misure (per mutare principi tipici delle cautele personali) è possibile sindacare la razionalità intrinseca (e, quindi, la compatibilità costituzionale) degli equilibri normativi prescelti dal legislatore”, la Corte rammenta infine come “in tale cornice [… ed … ] a proposito delle misure di rigore che, in tema di ordinamento penitenziario, furono adottate – dopo i tragici fatti di Capaci – […] dovesse ritenersi non in linea con la finalità rieducativa della pena la scelta di precludere l’accesso ai benefici penitenziari in ragione del semplice nomen juris per il quale era stata pronunciata la condanna”. Infatti, nella sentenza implicitamente richiamata dalla Corte, la sentenza n. 306 del 1993, si rileva senz’ombra di dubbio che “la tipicizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individuazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario”. Sicché nemmeno agitando lo spettro della assoluta pericolosità sociale del fenomeno migratorio17, che genera il clandestino, e ritenendo la presenza dello stesso sul suolo patrio esiziale per il consorzio civile18, pare per la Corte possibile abdicare completamente alla funzione rieducativa della pena e giustificare una fattispecie che, non solo criminalizza un comportamento, a suo dire, socialmente non pericoloso (a fronte, come osservato, di altre possibili misure che tutelino il bene ri17 Vedi però in proposito la richiamata sentenza n. 269 del 16 dicembre 1986. 18 Vedi però in proposito le richiamate sentenze n. 22 e n. 78 del 2007. Libertà di migrazione issn 2035-584x conosciuto come protetto), ma che assegna palesemente alla pena la esclusiva funzione di minaccia e che la sua esecuzione consista nella mera espulsione del condannato, ove ciò sia possibile, mentre nella maggior parte dei casi si palese una espulsione preventiva, disposta dall’autorità amministrativa, la quale determina, per un verso, il non luogo a procedere pronunciato dal giudice di merito e, per altro, il palesarsi della recidiva qualora il clandestino, espulso ma mai condannato in Italia, ritorni sul nostro patrio suolo. Tale modo di procedere, come rilevato dal magistrato di Cuneo, lede pesantemente, fra gli altri, i fondamentali diritti racchiusi negli articoli 24 e 27 del dettato costituzionale: il diritto inviolabile alla difesa, ed il diritto alla presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva. Qui la Corte è chiamata in buona sostanza a pronunciarsi su una questione forse piuttosto spinosa, ma essenziale per comprendere l’umore politico del paese: può concedere che il legislatore ordinario, sorretto da una concezione maggioritaria della democrazia19, proceda a fronte dell’ingresso e della permanenza in Italia di migranti clandestini allo stesso modo in cui ha inteso procedere a fronte dei tragici fatti di Capaci incontrando però, in quella occasione, la netta censura del giudice di legittimità costituzionale? Sui vincoli internazionali a tutela dei migranti Le argomentazioni presentate nell’ordinanza di rinvio dal Giudice di pace di Agrigento, il quale rileva una violazione dell’articolo 117 della Costituzione, in quanto l’articolo 10 bis contrasterebbe palesemente l’articolo 5 del Protocollo addizionale della Convenzione della Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti, necessitano di una, sia pur breve, trattazione specifica. Per il magistrato siciliano, l’articolo 117 della Costituzione sarebbe stato violato, nel suo primo comma, “con riferimento agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia 19 Vedi in proposito la sentenza n. 24 del 2004. 145 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) di trattamento dei migranti”. Nello specifico, come già rilevato, l’articolo 10 bis sarebbe in contrasto con l’articolo 5 del Protocollo citato, il quale impegna gli stati sottoscrittori a non assoggettare all’azione penale i migranti che sono stati oggetto di traffico da parte di organizzazioni criminali. Nell’ordinanza si ritiene, richiamandosi alla sentenza n. 349 del ottobre del 2007, che dall’articolo 117 del dettato “discende l’obbligo del Legislatore ordinario di rispettare le norme poste dai trattati e dalle convenzioni internazionali, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, 1° comma, della Costituzione viola, per ciò stesso, tale parametro costituzionale che realizza un c. d. rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati”. Al fine di comprendere la portata delle affermazioni contenute dell’ordinanza, pare conveniente seguire le argomentazioni proposte dalla Corte, la quale ebbe a rammentare, nella sopra richiamata sentenza, come “uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione [sia] costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale è più in generale delle fonti esterne”. Ciò premesso, la Consulta ritiene che non vi è dubbio “che il nuovo testo dell’articolo 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro dei principi che espressamente garantivano a livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”. Pur ribadendo che non è possibile attribuire, richiamandosi all’articolo 117, rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, e pertanto, per ciò che ci concerne, risolvere l’antinomia riscontrata fra l’articolo 10 bis e l’articolo 5 del Protocollo con il ricorso al criterio della legge superiore che deroga la legge inferiore, “il parametro costituzionale in oggetto comporta l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile […] con Libertà di migrazione issn 2035-584x gli obblighi internazionale di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale”. Pertanto il legislatore che ponesse in essere disposizioni contrastanti con gli obblighi internazionali assunti, violerebbe il parametro costituzionale desumibile dal primo comma dell’articolo 117 del dettato, ai sensi del quale, come noto, “la potestà legislativa è esercitata […] nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Solo per inviso va rammentato che, ai sensi dell’articolo 10, comma secondo della Costituzione, “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Stante la pronuncia della Consulta, “con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, di definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata «norma interposta»; e che è soggetta a sua volta […] ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione”. Seguendo queste indicazioni il magistrato di Agrigento ha correttamente rilevato “che al Giudice interno spetta interpretare la norma nazionale in modo conforme alla disposizione internazionale e, qualora dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, deve porre la relativa questione di legittimità costituzionale”20. Come osservato, il Giudice di pace, procedendo nel modo indicatogli dalla Corte e, pertanto, ponendo a confronto la norma interna, racchiusa nella disposizione dell’articolo 10 bis, 20 L’ordinanza di rinvio riproduce quasi letteralmente l’opinione della Consulta, per la quale, nella richiamata sentenza n. 349 del 2007, “al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma”. 146 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) con la norma internazionale, di cui all’articolo 5 del Protocollo, rileva che “la norma di cui all’art. 10 bis del D. L.vo n. 286/98, comportando l’incriminazione di persone che si trovano in una determinata condizione in relazione alla quale si è assunto l’impegno di assisterle e proteggerle, versi in una contraddizione nei confronti delle disposizioni appena enunciate”; infatti, l’ordinanza puntualizza come il Protocollo, all’articolo 16, punto 3, preveda che gli stati firmatari si impegnino “a fornire un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumità, è in pericolo dal fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all’art. 6”. Dalle argomentazioni offerte nell’ordinanza in oggetto emerge, quindi, un contrasto fra l’ordinamento interno ed gli obblighi internazionali assunti dalla Repubblica. Questo contrasto, a ben vedere, dà sì vita ad una antinomia, ma, per riprendere la nota teoria di Alf Ross21, tale contrasto non si palesa come incompatibilità totale-totale22, infatti, estrapolando dalla disposizione di diritto interno riscontriamo che “lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato […] è punito con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro”, mentre la disposizione del Protocollo prevede che “i migranti non diventano assoggettati all’azione penale fondata sul presente Protocollo per il fatto di essere stati oggetto delle condotte di cui all’art. 6”. È il rifermento all’articolo 6 che risulta centrale nello stabile il tipo di incompatibilità fra le due disposizioni23, 21 Il riferimento va a Diritto e giustizia, trad. it., Torino 1965 (ma Copenhagen, 1953), § 26. 22 Tale incompatibilità “si verifica quando nessuna delle due norme può essere applicata a qualsiasi circostanza senza venire in conflitto con l’altra. Se le fattispecie delle norme sono rappresentate con un cerchio, si ha incompatibilità di questo tipo quando i due cerchi si sovrappongono”, ibidem, p. 122. 23 Tralasciamo la disamina del problema sollevato dalla presenza nell’articolo 5 del Protocollo dell’inciso fondata sul presente Protocollo, che lascia supporre, cosa non rilevata dal Giudice di pace di Agrigento, la possibilità di fondare, da parte degli stati sottoscrittori, la responsabilità penale del migrante clandestino su altre basi (una semplice volizione del legislatore?), purché non riconducibili ad azioni volte a contrastare le organizzazioni criminali internazionali che promuovono e sfruttano il traffico internazionale di migranti; si veda in proposito il Preambolo al Libertà di migrazione issn 2035-584x perché è questo che offre la misura al divieto di azione penale nei confronti dei migrati. Come già rilevato, l’articolo 6 fa menzione al traffico di migranti quale “atto […] commesso intenzionalmente e al fine di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale”. Pertanto, l’incompatibilità avviene fra una disposizione che sottopone ad azione penale un intero genere (tutti i clandestini), ed una disposizione che salvaguardia dall’azione penale solo una specie del genere clandestini, presupponendo che gli altri appartenenti al genere, ma non ricompresi nella descrizione di quella particolare specie, possano venire assoggettati ad azione penale. Si tratterebbe per tanto di una incompatibilità totale-parziale24 fra le due disposizioni e su questa la Corte sarebbe chiamata a pronunciarsi. L’esito potrebbe essere una sentenza additiva, ovvero che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10 bis nella parte in cui non esclude dall’azione penale i clandestini di cui all’articolo 5 del Protocollo, ritenendo per altro legittima l’azione penale nei confronti di colore che non versino nelle condizioni previste dalla predetta disposizione25. citato Protocollo. Sicché, escludendo la possibilità di criminalizzare il migrante per farlo desistere dall’usufruire dei servizi di dette organizzazioni e, pertanto, indirettamente ridurre il mercato da cui il crimine organizzato attinge profitto, nulla osterebbe al promuovere l’istituzionalizzazione dell’azione penale nei confronti dello straniero irregolare per l’offesa dell’ordine pubblico (si pensi al reato di cui all’articolo 559 del Codice penale rubricato come Disturbo delle occupazioni o del riposto delle persone, sanzionato con arresto ed ammenda). Se queste appaiono le ragioni del divieto di sottoporre ad azione penale i migrati, allora pare che la questione sollevata dall’ordinanza difficilmente potrà venire considerata fondata. 24 Per Ross questa “si verifica quando una delle due norma non può essere applicata a qualsiasi circostanza senza entrare in conflitto con l’altra, mentre l’altra norma ha un ulteriore campo di applicazione in cui essa non viene in conflitto con la prima”, Diritto e giustizia, cit., p. 122. Il terzo tipo di incompatibilità e quello parziale-parziale che “si verifica quando ognuna delle due norma ha un campo si applicazione in cui viene in conflitto con l’altra, ma possiede anche un ulteriore un campo di applicazione in cui non sorge conflitto”, ibidem. Tali argomenti sono, fra i vari luoghi, sviluppati con utili esemplificazioni da C. Nino, Introduzione all’analisi del diritto, trad. it. Torino, 1996 (ma Buenos Aires, 1990), pp. 242-246. 25 Tutto ciò fatte salve le considerazioni accennate nella nota 23. 147 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Sui rischi della democrazia maggioritaria Alla luce delle passate pronunce della Consulta in merito alla legislazione posta in essere nell’arco degli ultimi lustri al fine di regolamentare (o, meglio, reprimere) il fenomeno migratorio, la quale si palesa sempre più come un diritto penale speciale informato dal tipo d’autore, non appare scontato la lettura che la stessa offrirà, alla luce delle ordinanze presentate, dell’articolo 10 bis. Al di là degli esiti della specifica vicenda, sembra in ogni caso necessario un forte monito da parte della Corte ad un legislatore che, anche in materia di immigrazione, pare sempre più attratto dalle lusinghe dei cantori di una democrazia maggioritaria, il cui perseguimento lo allontana man mano dai limiti posti, come invalicabili, quali Colonne d’Ercole, dai principi costituzionali e dagli obblighi internazionali, i quali restringono inoppugnabilmente, al di là del mandato popolare, la sua discrezionalità. Tutto ciò al fine di non dover leggere, in future cronache costituzionali del paese, che di fronte alla democrazia maggioritaria, sempre più evocata, “Noi ci allegrammo; e tosto tornò ‘n pianto: Ché dalla nuova terra un turbo nacque, E percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque; Alla quarta, levar la poppa in suso, E la prora ire in giù, com’altrui piacque; Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso” Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXIV, 136 Marco Cossutta, professore associato di Filosofia del diritto nell’Università degli Studî di Trieste, ove dirige il corso di master in primo livello in Analisi e gestione della comunicazione organizzato in collaborazione con il CERMEG. Libertà di migrazione 148