The Merchant of Venice - eut - Università degli studi di Trieste

Transcript

The Merchant of Venice - eut - Università degli studi di Trieste
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Tigor
Rivista di scienze della comunicazione
A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Sommario
Presentazione
4 Paolo Heritier
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
14 M. Paola Mittica
diritto e COSTRUZIONE NARRATIVA.
La connessione tra diritto e letteratura: spunti
per una riflessione
24 Giuseppina Restivo
Shylock and Equity in Shakespeare’s The
Merchant of Venice
43 Aldo Raul Becce
Meticcio
47 Laura Capuzzo
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova
strategia della comunicazione
52 Francesco Lazzari
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale
e di sviluppo
61 Antonio Rocco
Minoranze e comunicazione transfrontaliera:
il ruolo di Radio e TV Capodistria
Sommario
64 Giorgio Rossetti
Note sul processo di integrazione europea nel
litorale adriatico
67 Paolo Moro - Federico Puppo
Informatica e retorica forense
76 Marco Cossutta
Note sul processo come algoritmo
85 Eugenio Ambrosi
“The Beatles”: da band sgangherata a mito, il
contributo delle Relazioni Pubbliche
106 Maria Cristina Barbieri
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita
fuori dei ‘casi di scuola’
120 Letizia Mingardo
L’autonomia illusoria. Il diritto di autodeterminazione tra le maglie dell’eterodeterminazione
129 Marco Cossutta
Libertà di migrazione: da bene fondamentale a
reato di clandestinità? Note su alcune ordinanze
di rinvio alla Corte costituzionale in merito
all’articolo 10 bis del D. Leg. n. 286 del 1998
1
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Presentazione
I
l presente fascicolo propone anzitutto alcuni
contributi presentati nel corso di tre incontri di studio organizzati a Trieste, con il concorso di “Tigor”, nello scorso autunno. Questi si
sono articolati in altrettante tavole rotonde; la
prima, patrocinata dalla Italian Society for Law
and Literature, su Diritto e costruzione narrativa.
La connessione fra diritto e letteratura, la seconda,
patrocinata dall’Unione Italiana di Croazia, su
Comunicazione e plurilinguismo nel processo di
integrazione europea. Il caso del litorale adriatico,
e la terza, organizzata in collaborazione con il
progetto MediAttori della Cooperazione per lo
Sviluppo dei Paesi Emergenti, su Comunicare la
società multiculturale: esperienze a confronto.
Della prima vengono proposti gli interventi dei relatori, Paolo Heritier, M. Paola Mittica, che, da diverse angolazioni, affrontano il
tema, in Italia innovativo, del rapporto fra il
mondo della letteratura e dell’esperienza giuridica. A questi contributi si unisce idealmente il saggio di Giuseppina Restivo che viene
ad essere il primo contributo in lingua inglese edito da Tigor, si auspica che nei prossimi
fascicoli diventi consuetudine la pubblicazione di saggi in varie lingue.
Il tema del rapporto fra processi di comunicazione ed integrazione europea viene qui
trattato negli interventi di Laura Capuzzo,
Francesco Lazzari, Antonio Rocco e Giorgio
Rossetti, i quali, nel concentrare la loro attenzione sul caso del litorale adriatico, offrono più
ampi spunti di riflessione sull’intreccio fra dinamiche culturali a sociali.
Presentazione
Aldo Raul Becce, affronta, ripercorrendo
la sua personale esperienza, la questione
dell’incontro non conflittuale fra diversità
culturali all’interno di una prospettiva interculturale.
All’interno della tavola rotonda particolare significato ha assunto l’intervento del
vice Presidente dell’Ordine dei Giornalisti
del Friuli - Venezia Giulia, Maria Stella Malafronte per la quale
<< L’Italia, come il resto dei Paesi d’Europa, nell’ultimo decennio è diventata una società multietnica.
Fino ad una ventina d’anni la parola “immigrato” richiamava solo l’immagine del meridionale al Nord,
ora in Italia vivono persone provenienti da tutti i Paesi
del Mondo. Ovviamente questa nuova configurazione
della società ha portato ripercussioni di tutti i tipi e ha
presentato la necessità di ripensare molti suoi aspetti
tra cui quello della comunicazione.
L’Ordine dei Giornalisti e la Federazione della
Stampa, che è il sindacato unico dei giornalisti, hanno affrontato questa questione e hanno dotato i professionisti della comunicazione di un importante
strumento che è la Carta di Roma stilato d’intesa con
l’UNHRC (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) con la collaborazione di Enti pubblici che
si occupano di emigrazione e di giornalisti italiani e
stranieri.
Questo documento vuole dettare delle regole circa
l’informazione su rifugiati, richiedenti asilo, le vittime della tratta e i migranti con particolare attenzione
nei confronti dei minori, invitando i professionisti
dell’informazione ad usare sempre termini giuridicamente corretti, ad evitare di diffondere notizie imprecise che possano urtare sensibilità o suscitare allarmi
ingiustificati e ad interpellare esperti ed organizzazioni specializzate in materia per poter fornire notizie supportate precise e contestualizzate.
2
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Allegato alla carta un glossario che definisce chiaramente i soggetti di questo aspetto dell’informazione e fornisce i giusti termini per parlare e scrivere di
immigrazione.
Ma non c’è solo l’utile ed importante strumento
della Carta, nelle scuole di giornalismo c’è particolare
attenzione nella formazione dei futuri operatori della stampa per i temi dell’immigrazione e della società
multietnica.
E’ l’Ordine dei giornalisti, sia quello nazionale che
quelli regionali, che ha particolare attenzione alla
deontologia professionale, stimola e vigila sull’applicazione delle direttive della Carta di Roma e sulla
comunicazione riguardante questa componente della
società italiana».
Accanto a questi interventi si collocano le
riflessioni proposte da Paolo Moro e Federico
Puppo sul legame e sui distinguo fra l’informatica giuridica e la retorica forense. Sempre
legato al tema dell’informatica giuridica è il
contributo di Marco Cossutta. I due saggi affrontano, partendo dall’uso sempre più massiccio dell’elaboratore elettronico nel mondo del
diritto, questioni di metodologia giuridica.
Di diverso tenore è l’interessante ed originale riflessione proposta da Eugenio Ambrosi, il quale concentrando la sua attenzione sul
ruolo delle relazioni pubbliche, indaga il fenomeno mediatico dei Beatles.
Il fascicolo si chiude proponendo tre contributi che riprendono tematiche affrontate
sul precedente numero della Rivista. In particolare, Maria Cristina Barbieri e Letizia Mingardo propongono alcune riflessioni sul diritto all’autodeterminazione, che richiamano
il saggio sul “caso Englaro”, proposto sul numero 2 del 2009. Marco Cossutta riprende il
problema del reato di clandestinità, di cui si
fece cenno sullo scorso numero.
Presentazione
3
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Nessi multiformi
tra diritto e narrazione
Paolo Heritier
Abstract
Nell’articolo, prendendo in esame il tema della normatività
dell’immagine nell’opera di Legendre, viene prospettata
una nozione estesa di narratività, suscettibile di essere
presa in conto per la comprensione di fenomeni narrativi
non testuali, concernenti la pittura, l’architettura, ma
potenzialmente anche il cinema, il teatro o la danza e
dotati di un significato normativo. Si configura così, a
fronte dei cambiamenti che la società dell’immagine e la
teoria del diritto sono in procinto di affrontare dopo la crisi
del positivismo giuridico, l’utilità di una disciplina come
l’estetica giuridica, volta a configurare unitariamente i
molteplici nessi individuabili tra arte e diritto, in grado
di affiancare progressivamente le più consolidate teorie
ermeneutiche ed epistemologiche in ambito giuridico,
contribuendo a superare la contrapposizione tra le due
culture umanistica e tecnologica.
Sommario: 1. Diritto, narrazione, estetica
giuridica; 2. L’estetica sociale della testualità;
3. Narratività e costruzione normativa
dell’individuo; 4. Verso un’estetica giuridica.
‘estetica giuridica’, mostrandone le connessioni con le più note discipline dell’epistemologia
e dell’ermeneutica giuridica.
Per ottenere questo scopo farò riferimento
ad autori forse laterali rispetto al consolidato
dibattito in tema di diritto e letteratura, se non
persino estranei ad esso, che tuttavia hanno il
merito di porre alcune questioni generali, metodologiche, concernenti l’estensione e l’ambito degli studi collegabili a tale indirizzo. Forse
proprio il tratto eterodosso di questi autori
ha consentito loro di precisare aspetti filosofico-giuridici della questione spesso ignorati
e tuttavia assai rilevanti per quanto concerne
la collocazione della teoria narrativa entro la
scienza giuridica: tema che appare ancora lungi dall’aver ricevuto una forma definitiva, nonostante l’intenso sviluppo degli studi in materia degli ultimi anni.
Il primo elemento che si pone, a partire da
qui, è dunque il rapporto tra gli accostamenti
di diritto e letteratura e le forme di narrazio-
1. Diritto, narrazione, estetica giuridica
È
abitudine far risalire agli anni settanta del
Novecento l’inizio dell’accostamento teorico denominato ‘diritto e letteratura’, con la
pubblicazione del libro The Legal Imagination
di James Boyd White. Non interessa in questa
sede analizzare lo sviluppo di questo movimento teorico, che da una posizione minoritaria è
gradualmente divenuto un ambito assai rilevante della teoria del diritto. Il mio obiettivo è,
in primo luogo, sollevare alcuni interrogativi
concernenti la collocazione della prospettiva
narrativa nel più generale quadro degli studi
giuridici; in secondo luogo, abbozzare una ricognizione di una più ampia area che mi pare
riferibile a tale accostamento, denominabile
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
Parole chiave
Estetica; Estetica giuridica; Pittura;
Architettura; Principi; Corpus; Rete; Testo;
Fondamento; Narratività.
4
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ne non letteraria. A questo proposito, il problema che si presenta è la necessità di fornire
una definizione della nozione di ‘testo’, il che
rinvia a una assai estesa letteratura ermeneutica, semiotica e decostruzionista che, negli
ultimi decenni, ha cercato di precisare la nozione in senso estensivo, giungendo a qualificare come testo forme espressive anche assai
lontane dalla forma del libro1.
Una nozione di testualità concepita in senso ampio è significativa per la teoria giuridica
in una duplice direzione: perché possono essere indicate forme testuali normative altre
da quella tradizionale della norma scritta (elemento su cui la teoria del diritto ha, nel corso
del Novecento, insistito a lungo), ma anche
perché il processo di configurazione della nozione di testualità ha un suo implicito tratto
normativo, spesso trascurato. Questo secondo
elemento appare evidente in relazione all’impatto delle tecnologie informatiche e telematiche sui modi di trasmissione della conoscenza2
e di organizzazione della società3, dal momento che appare chiaro un punto elementare ma
significativo: la rete telematica, pur costituendo in origine una nuova tecnologia del libro,
tende ancora a essere considerata un oggetto
in primo luogo tecnologico, in secondo luogo
mediatico-comunicativo e solo in modo residuale la nuova forma tecnologica del testo.
L’idea che il sapere giuridico sia un elemento
costitutivo dell’emergere della rete telematica rimane lungi dall’essere compresa, anche
se proprio l’accostamento estetico giuridico,
come cercherò di chiarire, può contribuire alla
comprensione del punto.
1 Nella sterminata bibliografia, cito solo la recentissima mappatura ricognitiva dei problemi, che ben introduce agli elementi antropologici ed estetici presenti
nella nozione, in G. Marrone, L’invenzione del testo.
Una nuova critica della cultura, Roma-Bari, 2010, cap. 1
Genealogia del testo: avventure di una nozione, pp. 3-80.
2 Ho affrontato questi temi concernenti la ridefinizione della nozione di testo in seguito alla rivoluzione telematica in Urbe-Internet. Vol. 1. La rete figurale del
diritto, Torino, 2003.
3 Vedi il recente testo di M. Castells, Comunicazione e potere, Milano, 2009. Dello stesso autore anche il precedente Galassia Internet, Milano, 2002 e, sul tema dell’ipertestualità, il recente libro di P. Castellucci Dall’ipertesto al
Web. Storia culturale dell’informatica, Roma-Bari, 2009.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
Il secondo elemento problematico, strettamente legato al primo, e dunque a partire da
questa accezione ampia della nozione di diritto
e letteratura, è quindi rappresentato dalla relazione tra gli studi di diritto e letteratura e la
configurazione di un’estetica giuridica, intesa
come disciplina che, seppur ancora pensabile in
forma embrionale, non pare meno rilevante dei
più tradizionali accostamenti, ormai consolidati e assai diffusi, l’epistemologia e l’ermeneutica
giuridica, come emersi nell’ultimo mezzo secolo di teoria giuridica. Elemento, questo, centrale
in un contesto teorico, che, seppur legato alle
menzionate prospettive teoriche, solleva un
tema di base per la riflessione intorno al diritto in tempi di crisi del positivismo: vale a dire
la necessità di oltrepassare la distinzione tra
“le due culture”4, che ha pesantemente afflitto
la filosofia e la realtà politica e sociale del Novecento e che ancora oggi influenza le reciproche
opposizioni tra sapere scientifico- tecnologico e
sapere umanistico-letterario.
Il problema che questa opposizione sembra
presupporre è eminentemente antropologico,
legato a una configurazione dell’umano distinta tra sfera della razionalità e dell’irrazionalità
(dei pensieri, delle azioni, delle teorie) intesi
come ambiti separati e non comunicanti, o al
più riducibili l’uno all’altro, rispettivamente in
una concezione ontologico-oggettualista del
reale oppure in una concezione ermeneuticoesistenziale, concepite come una sorta di teorie
prime a cui ricondurre la prospettiva filosofica. La questione non è neppure aliena all’ambito filosofico giuridico, all’interno della quale si
confrontano accostamenti che possono apparire come opposti, quali la filosofia analitica –
l’orientamento certo principale nella filosofia
del diritto novecentesca e invece accostamenti
innovativi ma tradizionalmente considerati
periferici, entro i quali può essere collocato
anche il movimento teorico diritto e letteratu4 Sul problema del superamento delle due culture in ambito filosofico-giuridico, mi limito a segnalare M. Manzin, Retorica e umanesimo giuridico in F.
Cavalla, Retorica, processo e verità. Principi di filosofia forense, Milano, 2007 e il mio articolo Oltre le due culture.
Grammatiche antropologiche dell’iconico, in M. Manzin, F.
Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio
fra principio e regola, Milano, 2008, pp. 397-420.
5
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ra. Il quadro complessivo tuttavia, come si è già
notato, si presenta come non più configurabile
nei termini di questa opposizione all’inizio del
secolo ventunesimo. Ciò a causa di una ormai
risalente crisi dell’impostazione positivistica
radicale, che si trova a essere confrontata con
l’esistenza riconosciuta di tipologie differenti di norme, quali le prescrizioni e i principi,
ascrivibili a modelli di operatività giuridica
radicalmente diversi, anche in correlazione a
processi di globalizzazione del diritto che tendono a ridurre le distanze tra sistemi giuridici
di common law e di civil law. Distinzione, questa,
che conduce a riaprire l’arsenale dei nessi tra diritto e morale inizialmente negati: è l’ambito di
operatività dell’intero campo delle dottrine neocostituzionaliste, a fianco delle quali può essere fatto rientrare anche l’interesse propriamente giuridico per l’analisi dei nessi tra diritto e
letteratura, da ritenersi metodo innovativo per
l’individuazione dei principi giuridici propri di
una determinata cultura, ad esempio.
Riemerge così, in relazione alla trasformazione del positivismo, al suo rinnovato interesse per l’argomentazione, la retorica, la giustificazione delle norme, il programma di ricerca di
un’attività ricostruttiva di diversi ambiti disciplinari, ispirata alla nozione di complessità del
diritto5, a fronte di un problema metodologico
divenuto ormai evidente, anche se non ancora
affrontato in tutta la sua profondità teorica. Si
tratta dell’idea che, una volta mostrata l’innegabilità della riapertura alla morale dell’arsenale
concettuale della teoria del diritto, implicante
la necessità di una ridefinizione dei confini esistenti del sapere giuridico, non appaia più facilmente circoscrivibile l’ambito dei movimenti
teorici configuranti l’altro polo del normativo
(diritto e letteratura, diritto e cinema, diritto
e pittura, diritto e architettura e così via, limitandosi all’ambito della cultura umanistica), indubbiamente legato alla formazione culturale e
sociale dei principi giuridici. Come è possibile,
5 Non a caso spesso la individuazione di un modello reticolare del diritto prelude all’approfondimento successivo di un accostamento narrativo o estetico giuridico:
è ad esempio il caso di François Ost, nei testi F. Ost, M.
van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Poru
��������������
une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002; F. Ost, Raconter la
loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
infatti, una volta aperta la falla, nella diga della
teoria pura del diritto, della impossibilità di distinguere il diritto dalla morale arrestarsi poi di
fronte all’analisi dei nessi tra diritto e scienza,
economia, religione, senza estendere il campo
all’analisi dei nessi tra diritto e arte?
Appare d’altra parte evidente come, in assenza di una visione della morale, delle istituzioni, della cultura, dell’uomo, riconosciuta
come base unitaria da cui muovere – indubbio
dato di partenza questo, al di là di ogni valutazione di merito sul punto, nelle società pluraliste contemporanee – il rischio da evitare è
altresì la frantumazione teorica conseguente
al proliferare postmoderno degli accostamenti “diritto e...”, elemento che non aiuta certo a
risolvere il problema della distinzione tra la
due culture. Tratto che innescherebbe, e ha già
innescato in parte, invece, l’ennesimo movimento a pendolo tra istanze scientifico-tecnologiche e istanze umanistiche che ha costituito
il motivo principale teorico della cultura novecentesca, scandita da fasi di predominio quasi
assoluto della cultura giuspositivistica e fasi di
reazione altrettanto energiche dell’antiformalismo, ma spesso scomposte o scandite da una
controreazione irrazionalistica sostenuta da
indirizzi teorici e movimenti politici.
All’interno di questo quadro, sia pure ricostruito nei termini assolutamente generici che
la forma dell’articolo impone, essendo il compito di ricostruzione analitica del quadro un
compito che richiede spazi e metodologie ben
differenti, mi pare allora un obiettivo teoretico interessante quello di muovere alcuni passi
verso la configurazione di un’estetica giuridica
in grado di tenere ben presente il senso teorico unitario dei movimenti di ”diritto e...” che
hanno riferimento alle arti. Qui, tenere presente non significa certo pensare di giungere
facilmente o rapidamente alla configurazione
di un quadro unitario e risolutivo dei problemi metodologici posti sul campo dall’estetica
giuridica. Più semplicemente, riprendere l’elemento istituzionale proprio della tradizione
culturale giuridica dell’occidente, sempre attenta alle esigenze di ricomposizione di un
quadro comune di partenza socialmente condiviso, di fronte alle sfide, radicalmente nuove,
6
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
poste dalla globalizzazione culturale e tecnoeconomica, ormai divenuta il contesto di fondo sul quale pensare l’ambito del normativo e
il suo ruolo sociale. Senza tuttavia pensare di
trascurare teoreticamente o ritenere irrilevanti, per altro verso, le questioni scientifiche, tecnologiche, e, in ultima analisi, antropologiche,
che si pongono all’orizzonte.
Svolte queste assai generali premesse, appare possibile precisare qualche elemento teorico volto a muoversi in quella direzione e
presente in autori che appaiono interessanti,
anche se forse marginali nell’attuale dibattito
degli studi configurati come diritto e letteratura, ai fini dell’elaborazione futura di un discorso metodologico complessivo in grado di
far avanzare la teoria del diritto in direzione
del superamento dell’ostracismo reciproco tra
posizioni scientiste e posizioni irrazionaliste.
2. L’estetica sociale della testualità
L’accostamento scelto nell’articolo attiene
al profilo, già accennato, concernente la ridefinizione della nozione di testo, collocandolo
tra l’ambito giuridico e quello iconico-sociale.
È riferito all’opera di un autore originale come
Pierre Legendre, in particolare a un testo riassuntivo della sua prospettiva, la cui sinteticità consente la presa in conto di diversi aspetti
strettamente correlati nel suo pensiero, ma
impossibili da trattare analiticamente in questa sede, anche in quanto appartenenti a ambiti del sapere considerati tradizionalmente non
comunicanti. Mi riferisco al libro Della società
come testo. Lineamenti di un’antropologia dogmatica6, in cui il tentativo di configurazione di
un’estetica giuridica non è preso direttamente
in conto, ma mi pare presupposto nell’analisi
comprensiva del concetto di testualità, delineato a un livello di generalità tale da coincidere
con la stessa configurazione dell’idea di società
e da essere compreso mediante il ricorso a discipline artistiche differenti quali la pittura, la
poesia, la danza, l’architettura.
Nel libro citato lo storico del diritto Pierre
Legendre sviluppa una accezione di testuali6 P. Legendre, Della società come testo. ��������������������
Lineamenti di un’antropologia dogmatica, Torino, 2005.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
tà, riassuntiva di un più ampio lavoro svolto
nella monumentale serie delle proprie Leçons
all‘EHESS (École des hautes études en sciences sociales) pubblicate, a partire dagli anni ottanta,
in nove volumi (di cui l’ultimo appena pubblicato), ove viene proposto un accostamento al
fenomeno giuridico volto a ripristinare il nesso tra la costituzione collettiva delle istituzioni giuridiche (ma anche quelle economiche,
religiose, sociali) e la costruzione normativa
dell’identità soggettiva.
Per tentare questa impresa volta a riprendere il tradizionale tema del legame tra l’individuale e il collettivo (si pensi alle metafore organiche nella rappresentazione della società – e
dei testi giuridici – come corpo), lo storico del
diritto francese non si limita a seguire l’itinerario consueto nelle discipline giuridiche come
configurato dalla storiografia della modernità,
ma estende l’analisi alla problematica dell’immagine e della sua normatività: questione presente nella tradizione del pensiero giuridico
romano e medioevale e nell’analisi dei totalitarismi contemporanei, ma del tutto rimossa dal
positivismo e dalla scienza giuridica moderna.
Questa dottrina, infatti, sia pur gradualmente
e progressivamente, ha confinato la questione
dell’immagine e della sua normatività fuori
dall’ambito del giuridico. Ancora oggi, infatti,
mentre è ben chiaro e delineato il problema
dell’uso politico e strumentale dell’immagine
nelle democrazie occidentale, risulta del tutto
incomprensibile l’idea che vi sia un qualche
rapporto tra il testo giuridico e l’immagine.
La separazione totale tra i due ambiti è ben
rappresentata dalla pretesa purezza kelseniana del fenomeno giuridico inteso in senso formale, che, come accennato, ha ritenuto
necessario provvedere a una definizione del
giuridico tenuto distinto da tutti gli altri elementi extragiuridici, quali la morale, e quindi certo anche l’immagine. Questo non è che
l’ultimo episodio di una serie di rimozioni del
tema, che ne costituisce l’esito finale. Mentre
infatti il testo giuridico classico e medioevale
pensava, mediante il ricorso alla metafora del
corpus, il rinvio alla natura sistemica della raccolta di testi giuridici testuali unitamente alla
iconicità presente nella sintesi realizzata nei
7
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Corpus Iuris (Civilis e Canonici), come indica efficacemente la classica analisi teologico-politica
di Kantorowicz7, il codice moderno ha infatti
eliminato qualsiasi riferimento all’immagine
entro il testo giuridico, a partire dall’idea di
Systema iuris. Questa impostazione, nel rinunciare a tener conto degli effetti dell’iconico nel
processo di fondazione del diritto, confinava
di fatto nell’ambito dell’irrazionale la sfera attinente l’immagine. Non a caso Kelsen intendeva elaborare la concezione della purezza formale del giuridico distinguendolo tanto dalla
morale quanto da ogni altra forma di sapere,
anche per reagire così in modo razionalistico
e logico all’uso irrazionale e di massa dell’immagine del corpo del dittatore e del suo culto
messo in opera dal totalitarismo nazista (in seguito da ogni totalitarismo successivo nel novecento). La stessa nozione kelseniana di norma fondamentale, concepita come un’esigenza
meramente logica, nonché fittizia, intendeva
infatti, in questa prospettiva, rappresentare
anche una reazione teorica all’irrazionalismo
del momento fondativo del giuridico, presente nel sorgere storico del nazismo, mediante lo
svuotamento iconico della nozione di fondamento dell’istituzionale che, al contrario, l’idea
di rappresentanza, ma anche quella di persona
giuridica nella sua lontana radice nella fictio
legis romana8, aveva sempre veicolato secondo
un registro anche mitico od emblematico.
Il problema che la teoria kelseniana tuttavia
appare lungi dal risolvere è che la non menzione
del problema dell’immagine non ne significa affatto il superamento, ma semplicemente il suo
confinamento nell’irrazionale proprio della realtà della lotta politica e mediatica, intesa come
categoria non riconducibile alla razionalità pretesa del giuridico. Non a caso un giuspubblicista
come Carl Schmitt univa nel proprio pensiero,
alternativo all’impostazione kelseniana, l’utiliz7 E. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella
teologia politica medioevale, Torino, 1989.
8 F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris,
Padova, 1979; E. Dieni, Finzioni canoniche. Dinamiche del
“come se” tra diritto sacro e diritto profano, Milano, 2004; P.
Heritier, Fictio iuris, persona, agency, in M. Leone (a cura
di), Actants, Actors, Agents. The Meaning of Action and the
Action of Meaning. From Theories to Territories, in Lexia.
Rivista di semiotica, (3-4), Roma, 2009, p. 101-116.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
zo di una categoria come quella della distinzione tra amico e nemico, per definire l’ambito del
politico, all’attenzione ai problemi dell’uso del
simbolico in ambito teologico-politico e nella
definizione della sovranità.
La crisi contemporanea del modello giuspositivistico nella sua versione formalista, la
ripresa di accenti giusnaturalistici nell’affermarsi del neocostituzionalismo si accompagna pertanto a una ripresa dell’attenzione al
problema del nesso tra normatività e immagine, nel nuovo contesto rappresentato dalla
società dell’immagine postmoderna.
La teoria di Legendre riapre di fatto la questione mediante un’analisi complessa e articolata di cui non è possibile che presentare una
breve sintesi. In primo luogo lo storico del diritto intende riproporre lo statuto mitologico
e iconico del fondamento9 del giuridico, delineato secondo una prospettiva storica riferita
all’insieme del secondo millennio, a partire
dall’appropriazione canonica della nozione di
Corpus Iuris e dalla conseguente riorganizzazione giuridica della Chiesa cattolica. L’analisi
della nozione di emblema vivente indica sinteticamente il punto: il meccanismo del mandato, dell’agire in nome di, già presente nella sua
valenza giuridica ma anche iconico-rappresentativa nel gesto di Triboniano del raccogliere i
testi giuridici nel Corpus Iuris Civilis in nome
dell’imperatore Giustiniano, è un dispositivo
che si estende dal diritto romano alla redazione
del Corpus Iuris Canonici10. Esso rimane presente anche nello stato moderno, in cui i codici e le
sentenze vengono emanati nel nome del popolo, ove però ne viene mantenuto solo il valore
giuridico positivo, mentre, come già notato, si
crede di rigettare il senso iconico fondativo del
dispositivo insieme al carattere mitico-religioso del fondamento del diritto11. In questo senso,
9 Non a caso un autore che recentemente si è occupato di diritto e letteratura, Ost, ha svolto un pionieristico lavoro analizzando anche l’opera di Legendre, (la parte antecedente all’impianto
delle Leçons): F. Ost, J. Lenoble, Droit, mythe et raison, Essai sur la
dèrive mythologique de la rationalité juridique, Bruxelles, 1980.
10 Sul punto P. Legendre, Leçons IX. L’autre
������������������������
Bible de l’Occident: le Monument romano-canonique. Étude
���������������������
sur l’architecture dogmatique des sociétés, Paris, 2009.
11 Sul solo preteso carattere razionalistico del positivismo giuridico, P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007.
8
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
secondo Legendre, l’imperatore, il papa, il re,
il presidente della Repubblica sono emblemi
viventi, immagini fittizie e mitiche che mettono in scena il fondamento mitico del diritto12
in quanto rappresentanti l’istituzione. Il tema
del fondamento iconico del normativo è quindi
impossibile da espellere dalla teoria del diritto,
se non al prezzo di costruire una teoria riduzionista del presentarsi del fenomeno giuridico,
confinando l’iconico nel campo dell’irrazionale,
al di fuori del diritto positivo.
Il ruolo dell’estetico così inteso, tuttavia,
non si limita oggi all’ambito politico nella società dell’immagine coi rappresentanti del potere, ma si estende anche alle dinamiche privatistiche dei marchi d’impresa, semiotiche del
brand ed economiche delle divise monetarie:
tutti luoghi facenti ricorso a elementi simbolici ed iconici che occupano quel piano della
rappresentazione fittizia e mitica operante
anche nelle pretese razionali odierne società
dell’immagine tecnologicamente avanzate (si
pensi all’uso del dispositivo della pubblicità
per orientare la... sovranità del consumatore).
Appare chiaro come la posizione legendriana costituisca l’apertura a una concezione narrativa dell’iconico, in cui il raccontare
tramite le immagini è una delle forme plurali
di narrazione, iconica e non scritturale, ma da
situare entro la nozione di testo (giuridico).
Legendre non sviluppa il punto, ma prendendo in considerazione il problema a partire
dalla sua opera, la presa in conto dell’estetico
per una concezione estesa della narratività
apre un campo interessante di indagine.
3. Narratività e costruzione normativa dell’individuo
Se questa analisi viene condotta sul piano
della storia (iconica) del diritto, parallelamente, tuttavia, Legendre esplora l’ambito della
costruzione normativa del singolo, passando
dal registro collettivo a quello individualistico.
Egli intraprende così un’analisi del senso normativo dell’immagine nella teoria psicologica della formazione del soggetto con specifico
12 P. Legendre, L’Occidente invisibile. Conferenze in
Giappone, Milano, 2009, p. 68.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
riferimento alla teoria lacaniana della specularità e alla distinzione semiotica di de Saussure tra significante e significato, cercando di
mostrare la stretta relazione individuabile tra
il lessico psicoanalitico, quello linguistico e
quello giuridico, quanto alla formazione della
coscienza individuale13.
Appare così comprensibile come egli possa
costruire una nozione, come quella di testualità
sociale, volta a tener conto della questione della normatività dell’immagine, legata al piano
della rappresentazione mitica del fondamento
e considerata all’opera non solo nelle società antecedenti la modernità giuridica, ma nei meccanismi quotidiani presenti nelle società dell’immagine contemporanee e postmoderne.
L’autore analizza, ne La società come testo,
oggetti iconici quali il celebre quadro di Piero
della Francesca La Flagellazione14, reputati indicanti un vero e proprio contenuto normativo,
sia pure implicito e riconducibile a una cultura come quella umanistica a cui appare naturale “vedere attraverso” – questa l’etimologia
di prospettiva secondo Dürer15 - arti e saperi
diversi. Senza entrare nell’analisi del discorso di Legendre, già precisata altrove16, l’analisi
del celebre e controverso quadro17 cerca di indicare come nel dipinto sia presente una vera
e propria struttura raffigurativa equivalente a
una teoria dell’interpretazione, proposta emblematicamente allo sguardo dell’interprete. Il
quadro, in altre parole, ci mostrerebbe un testo
normativo sull’interpretazione, non attraverso
13 Ibidem. Per una presentazione sintetica del pensiero
di Legendre, P. Heritier, Nomenclature e nomi del Padre.
Dogmatica occidentale e teologia giuridico-politica in Pierre
Legendre, in P. Sequeri, S. Ubbiali (a cura di), Nominare Dio
invano? Ricerche sull’anestesia del teo-logico, Milano, 2009,
pp. 403-438. Vedi anche l’ampio lavoro L. Avitabile, La
filosofia del diritto in Pierre Legendre, Torino, 2004.
14 P. Legendre, Della società come testo, cit., p. 141ss.
15 «Perspectiva è una parola latina, significa vedere attraverso», come riporta Panofsky il tentativo di circoscrivere la nozione di prospettiva di Dürer.
E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Milano, 2007, p.11.
16 Società post-hitleriane?, Torino, 20092, pp. 238ss.
17 Ci riferiamo nella sterminata bibliografia solo a C.
Ginzburg, Indagini su Piero, Torino, 1994 e Y. Bonnefoy, La
strategia dell’enigma. Piero della Francesca e la Flagellazione
di Cristo in La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia,
Roma, 2005, pp. 15-42.
9
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
un discorso fatto di parole e frasi, ma mediante la costruzione di una struttura narrativa, di
un racconto costruito mediante immagini e
non parole, ma non per questo privo di senso
normativo in quanto rinviante alla costruzione dell’idea di terzietà, della figura del terzo
fondatore mediante l’utilizzo della tecnica della prospettiva inventata dal Brunelleschi e precisata dall’Alberti.
Per così dire, con gli evidenti limiti della
metafora, Legendre vede dipinto nel quadro
di Piero della Francesca, insieme ad altri contenuti, un testo per così dire equivalente (non
certamente dal punto di vista della teoria delle
fonti giuridiche, ma del ruolo svolto nella rappresentazione del fondamento e nel mostrare
emblematicamente il rapporto degli interpreti
al fondamento) al noto articolo 12 delle Preleggi
al codice civile. Un discorso iconico circa l’interpretazione espresso, dunque, nella forma emblematica e dogmatica dell’arte e non in quella
scritturale del testo giuridico, ma non per questo priva di una sua normatività, espressione di
quella sovranità dell’artista a cui fa riferimento
Kantorowicz18 e di un contesto modulare in cui
letteratura, pittura, scultura, diritto, teologia,
sono tenuti culturalmente insieme nel gesto
sintetico dell’artista; ancora, ove anche il giurista, più che come scienziato, viene concepito
come artista della ragione. Lo storico del diritto,
nella sua analisi, che oltrepassa la mera esegesi
del dipinto, individua così una vera e propria
struttura normativa, un discorso circa la struttura dell’interpretazione, degli interpreti che in
nome del fondamento rappresentato iconicamente si pongono come i depositari del sapere
(giuridico, morale, politico)19 nell’atto di dare
forma alla propria libertà di azione.
Analizzando la relazione normativa, tra lo
sguardo del pittore, che ha dipinto il quadro
e costruito la struttura iconico-testuale - emblematicamente mostrata e dotata di quella
temporalità posta dogmaticamente fuori dal
18 E. Kantorowicz, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, 1995.
19 Sulla base della distinzione del dipinto in due scene, una rappresentante il fondamento mitico, l’altra gli
interpreti che sembrano discutere del senso del riferimento ad esso nel loro presente storico.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
tempo (nello spazio logico del fondamento rappresentato) - propria dell’universalità artistica
e lo sguardo dell’osservatore del quadro, egli
rileva l’identificazione tra i due sguardi, tra le
due azioni, il dipingere e l’osservare ciò che è
dipinto, tratto che spiega il significato normativo dell’immagine dipinta. Proprio in relazione al processo di identificazione tra lo spirito
dell’osservatore e lo spirito del pittore non può
non venire in mente il criterio metodico posto
nella teoria dell’interpretazione di Emilio Betti,
laddove egli concepisce l’attività dell’interpretare come processo triadico in cui l’interprete e
lo spirito oggettivato in forme rappresentative
vengono in contatto «attraverso la mediazione
di quelle forme rappresentative in cui lo spirito oggettivato sta di contro all’interprete come
qualcosa d’altro, come una oggettività irremovibile» e ove viene evocata la «trasposizione
in un’altra soggettività» 20 come fonte della
comprensione ermeneutica. Legendre si riferisce a un processo similare. Senza addentrarci nel complesso problema bettiano, viene qui
sollevata dallo storico francese l’attenzione su
quel momento specifico, l’identificazione dello
sguardo dell’interprete con lo sguardo del pittore, identificazione normativa operata attraverso la mediazione del quadro, da intendere come
testo normativo che pone in relazione il pittore
e l’osservatore, che impone una determinata
esperienza cognitiva all’osservatore. Ove questi,
osserverei, fa uso di questa esperienza cognitiva
nella forma della libertà di agire e non certo col
riferimento al meccanismo norma-sanzione
mediante il quale è definito il diritto positivo.
O meglio, secondo un processo cognitivo più simile alla apprensione dei principi giuridici che
alla osservanza delle prescrizioni.
Il punto interessante in relazione alla nozione di testo è tuttavia qui il dato che il processo
soggettivo di identificazione viene messo in
opera non da un testo scritto, ma da un’altra forma rappresentativa, quella iconica della pittura,
che opera tuttavia come forma di mediazione
dotata di un contenuto normativo, nel senso di
costitutivo della soggettività dell’interprete e in
particolare della sua concezione dell’interpreta20 E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle
scienze dello spirito, Roma, 1987, p. 63, 65.
10
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
re. Naturalmente, infatti, il riferimento al valore normativo dell’immagine non è da intendere nel senso positivistico di norme contenenti
comandi, ma come esperienza di identificazione/trasposizione suscettibile di produrre conseguenze pratiche nell’agire del soggetto. Tale
esperienza è riferita a testi iconici veicolanti
una metodologia di accostamento ermeneutico
riferibile a contesti assai diversi e trasversali, da
comprendere secondo una prospettiva di modularità, ad esempio tra pittura e diritto, ma a
cui l’elaborazione di ciò che viene considerato
giuridico in una determinata società non è affatto indifferente, al di fuori di ogni distinzione
tra ambiti disciplinari, sia pure sul presupposto
storico di una concezione di uomo rinascimentale universale e posto al centro del mondo oggi
non riproponibile.
L’accostamento individuato, in altre parole,
tenta una spiegazione estetico-giuridica unitaria consistente nell’individuazione di nessi tra
fenomeni culturali diversi in una medesima
epoca, fornendo una base per la configurazione di itinerari di ricerca che fanno emergere
legami tra il diritto e manifestazioni artistiche e culturali, quali la pittura e il diritto, ma
anche, virtualmente e astraendo dal contesto,
la danza, il teatro, la scultura, il cinema, naturalmente la letteratura, nei loro legami col
diritto. Accostamenti del tutto comprensibili
e familari per lo sguardo di un umanista rinascimentale, ma assai ostici alla cultura di un
giuspositivista contemporaneo, al punto di
essere letteralmente incomprensibili e privi
di senso giuridico ai suoi occhi.
È dunque a partire dalla configurazione
di una nozione di testualità sociale volta a
tenere insieme i differenti ambiti circoscritti dai diversi campi di studi che, muovendo
dalla complessa analisi legendriana, sembra
interessante provare a configurare l’ipotesi
di un’estetica giuridica, intesa come disciplina volta a unire, da un punto di vista metodologico, gli ambiti multiformi dell’arte e
della vita in un’accezione di testo normativo
estesa a forme distinte di testi narrativi, includendovi forme di narrazione iconica, architetturale, musicale entro il dominio della
riflessione giuridica.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
4. Verso un’estetica giuridica
Conclusivamente, nella prospettiva dello
storico del diritto Pierre Legendre, la nozione di testo si estende così all’intero ambito
della testualità sociale, che può essere pensata sia nelle sue forme correlate alla formazione psicologica della soggettività individuale,
sia nella costituzione “oggettiva” e dogmatica
dell’elemento istituzionale (la rappresentazione del fondamento). La ripresa di un tale accostamento teorico sembra costituire la conseguente implicazione dell’inclusione, posta in
atto dal neocostituzionalismo, della sfera dei
principi (e quindi della moralità) intesi come
ambito non estraneo alla configurazione del
giuridico nelle società contemporanee.
Il progetto di ricerca così prefigurato sembra quindi riprendere la questione giusfilosofica concernente il fondamento antropologico
ed estetico dell’ermeneutica giuridica, concepito come ambito della riflessione da pensare
come integrativo, e non sostitutivo, delle più
tradizionali configurazioni della scienza del
diritto intesa come teoria positivistica della
norma e del sistema giuridico.
Le forme di mediazione testuale presenti
nella società complessa contemporanea sembrano quindi poter tener conto di una nozione assai estesa di testo, introducendo la figura
della narrazione, nella sua pluridimensionalità, come elemento volto a tenere insieme le
istanze individuali con quelle collettive. La
stessa letteralità etimologica sembra venire in
soccorso: dal verbo latino texo può essere derivata infatti la nozione di tessuto sociale, che
può essere compreso come l’effetto interindividuale della pluralità delle forme di narrazione. Come nota Legendre nella parola troviamo il «senso di tessere, intrecciare, ma anche
comporre, costruire, e al figurato raccontare; si
dice non solo della tela, ma di ogni opera di cui i
materiali si intrecciano o si aggrovigliano; allo
stesso modo di intrecciano parole e scritti»21.
Le forme plurali di mediazione testuali possono dunque essere riferite alla costituzione del
fondamento di una nozione di terzietà sociale
e iconica, ancor prima che specificamente nor21 P. Legendre, Della società come testo, cit. p. 180.
11
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
mativa e istituzionale. Tale sforzo di comprensione, tuttavia, non deve essere inteso come
riferito principalmente all’individuazione di
elementi da desumere dal corpus testuale, meramente tratti dal passato dell’esperienza giuridica e della tradizione, ma, al contrario, in
una intenzione prospettica, attinente al ruolo
normativo dell’interprete del testo nella sua
attività volta al dire il diritto.
La nozione di testo, infatti, è oggi soggetta a
modificazioni radicali quanto inedite a fronte
della ricerca della nuova forma scritturale rappresentata dalla rete telematica, che, per la prima volta, pone la difficoltà del concepire una
nuova forma della testualità in grado di ricomprendere insieme gli elementi sonori, letterari e iconici, ma al tempo stesso di fornire una
nuova profondità alla concezione della società
come testo, prefigurata, non senza ambiguità,
dall’emergere della rete Internet come forma di
interazione insieme sociale, economica, giuridica, testuale, iconica. La radicalità della posta
in gioco è sollevata da autori come Castells o
come lo stesso Legendre, che, nell’interrogarsi
sulla portata della trasformazione in corso, individua, sia pure in forma interrogativa e dubitativa, la portata insieme sociologico-giuridica
e fondativa-rappresentativa della nuova forma
che sta per assumere la testualità:
À travers la norme stricte qu’impose le maniement de l’ordinateur à celui qui l’utilise,
s’agit-il d’une re-création du lien normatif?…
La pratique Internet agence-t-elle des montages de la Raison miniaturisés et en quelque
sorte portatifs, et anticipe-t-elle un monde de
communication atomisé, dans l’illusion de
s’exempter de l’idée même de société? Le concept de réseau recouvre-t-il, dans un contexte
de re-féodalisation planétaire, une procédure
de parcellisation, où le sujet ne parle qu’à d’autres soi-même, où l’adresse fonctionne sur un
mode groupusculaire autor de Références privées? Ou bien, moyennant ce remue-ménage,
en sommes nous à des tentatives encore insaissables de recomposition sociale d’une scène de l’homme et du monde?22
�������������
P. Legendre, Leçons I. La 901e conclusion. Étude sur le
théâtre de la Raison, Paris, 1998, p. 274.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
issn 2035-584x
Il pensiero dello storico francese rappresenta certo uno dei punti di partenza della ripresa
del tema, che appare tuttavia da approfondire
nella direzione della configurazione di una teoria estetica del diritto. Molti altri autori, che
qui non possono essere richiamati, si muovono in questo contesto teorico.
Conclusivamente, mi limito a richiamare
uno degli autori più conosciuti per l’aver svolto
un progetto interessato a intrecciare aspetti epistemologici e semiotici, ermeneutici e teologici,
storiografici e narrativi in una unica concezione
filosofica: Paul Ricoeur, in particolare nella trilogia Tempo e racconto23. Nella sua vasta analisi,
tuttavia, volta a connettere ambiti cosi differenti come la storiografia, la letteratura, la filosofia,
il diritto non sembra essere stato preso in particolare considerazione. Tuttavia, che Ricoeur
intenda il modello elaborato nella trilogia come
un accostamento ermeneutico riferibile anche
ad altri ambiti è, ad esempio, mostrato dal fatto
che, laddove egli prende in considerazione un’altra disciplina artistica non priva di effetti pratici,
l’architettura, egli riprende il modello elaborato
in Tempo e racconto, adeguandolo al sapere preso in conto. Nell’articolo Architettura e narratività,
egli infatti ritiene che esista un parallelismo tra
i due saperi, nel senso che «l’architettura sarebbe per lo spazio ciò che il racconto è per il tempo, vale a dire un operazione “configurante”»24.
Se infatti nel suo sistema il primo momento,
la prefigurazione, è la radicazione del racconto
nella vita, nell’architettura essa è svolta dall’abitare, nel senso che «ogni storia di vita si svolge
in uno spazio di vita»25 e dunque proprio l’abitare, il cercare riparo come bisogno originario
dell’uomo rappresenta il momento prefigurativo specifico dell’atto architettonico. Se poi il secondo momento dell’itinerario ermeneutico del
percorso ricoeuriano, la configurazione, è dato
invece, in ambito letterario, dalla costruzione
dell’intreccio, della messa in intrigo letterario in
cui il contesto della vita quotidiana si svincola
23 P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 1; La configurazione nel
racconto di finzione, vol. 2; Il tempo raccontato, vol. 3, Milano,
1986, 1987, 1988.
24 P. Ricoeur, Architettura e narratività, in di F. Riva (a cura di),
Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricoeur, Troina, 2008, p. 56.
����������������
Ibidem, p. 61.
12
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
dal mondo della vita per entrare nella sfera della
letteratura, si può notare che ad esso corrisponde, in architettura, il progetto architettonico
così, il costruire, anche esso è concepibile come
un analogo della costruzione dell’intreccio: ove
il progetto architettonico è inteso anche esso
come testo “narrativo”. Infine, se il momento
conclusivo dell’esperienza cognitiva, la rifigurazione, è fornito dall’esperienza della lettura ciò che sta a valle della configurazione e a essa
contrappone le istanze individuali e le aspettative di senso del fruitore del testo -, ugualmente
l’abitare l’edificio si pone come gesto rifigurante
in architettura. Esso fornisce la reazione dell’abitante a fronte della progettualità avanzata dalla
costruzione del progetto, che non coincide mai
con quanto pianificato in sede di progettualità.
In questo senso, anche l’architettura può essere
assunta entro il quadro ermeneutico e, aggiungerei, estetico, della narrazione, giungendo a
indicare un altro ambito di analisi a quelli precedenti menzionati come caratteristici dell’estetica giuridica, il nesso tra diritto e architettura.
Il legame tra l’ermeneutica letteraria o storiografica e l’architettura precisato da Ricoeur è poi
interessante come punto di partenza per comprendere quanto afferma Legendre a proposito
dell’uso giuridico della metafora architettonica
riferita alle istituzioni26. Riprendendo un tema
di Vitruvio, lo storico nota come l’idea di fermezza e di solidità delle istituzioni e della società abbia una matrice “architettonica”, connotandosi
in senso finzionale. Nel senso che, proprio come
gli edifici, le istituzioni non devono solo reggersi
in piedi, ma comunicare anche l’idea di solidità,
di firmitas, del reggere: essere rappresentate e
narrate come dotate di solidità e stabilità. Appare
allora possibile individuare un tratto in comune
tra la firmitas vitruviana e l’iconografia emblematica delle costruzioni sociali, dal punto di vista
dei loro effetti sociali: in entrambe l’effetto previsto è il far credere mediante la costruzione di
un’apparenza iconica, il piano della rappresentazione del fondamento giuridico27.
Queste osservazioni, sia pure solo embrionali, sono volte a specificare la rilevanza di una
disciplina ancora in fase di costruzione metodologica, l’estetica giuridica, che mostra come
il nesso tra diritto e la nozione di narratività
possa essere integrata in una prospettiva teorica unitaria, volta a tenere insieme un ampio
arco di discipline artistiche, dalla pittura al teatro, dalla danza all’architettura, secondo un
accostamento che non appare affatto estraneo
alla teoria del diritto e alla sua storia. In questo senso, gli studi di diritto e letteratura sembrano poter convergere verso la complessa
direzione della progressiva configurazione di
un’estetica giuridica, disciplina da affiancare
progressivamente alle più note epistemologia
ed ermeneutica giuridica.
�������������
P. Legendre, L’architecture dogmatique des sociétés: de la
metaphore au concept, in P. Legendre, Leçons IX. L’autre Bible
de l’Occient: le Monument romano-canonique. Étude sur l’architecture dogmatique des sociétés, Paris, 2009, pp. 50ss.
27 Non sembra sfuggire a questo aspetto funzionale
neppure l’edificio del positivismo giuridico nella sua
versione kelseniana, retto da una norma fondamentale
il cui tratto fittizio mostra l’interesse dell’analisi estetica legendriana in ordine all’ambito della costruzione del
testo e del sistema giuridico.
Nessi multiformi tra diritto e narrazione
Paolo Heritier è professore associato di Filosofia
del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Torino ove insegna anche
Antropologia filosofico-giuridica. Si interessa tra
l’altro di estetica giuridica, teologia e diritto, diritto e cinema. Codirige (con PA. Sequeri) le collane
di antropologia “Humana. Le forme dissonanti
dell’umano comune” e di estetica giuridica “Tôb.
Collana di antropolgia ed estetica giuridica”.
Fra le pubblicazioni, Ordine spontaneo ed evoluzione nel pensiero di Hayek, Napoli, 1997;
L’istituzione assente. Il nesso tra diritto e teologia a partire da Jacques Ellul, Torino, 2001; La
rete del diritto, Torino, 2001; Società post-hitleriane?, Torino2 2009; La vitalità del diritto naturale (a cura di, con F. Di Blasi), Palermo, 2008;
Problemi di libertà nella società complessa
e nel Cristianesimo (a cura di), Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2008; Le culture di Babele.
Saggi di antropologia filosofico-giuridica
(a cura di, con F. Di Blasi), Milano, 2008; Sulle
tracce di Jean Vigo. Attualità di un visionario
anarchico (a cura di ), Pisa, 2010.
13
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
diritto e COSTRUZIONE NARRATIVA.
La connessione tra diritto e letteratura: spunti
per una riflessione
M. Paola Mittica
Abstract
Parole chiave
Nel quadro del dibattito attuale intorno alla metodologia
di Diritto e letteratura il rapporto tra diritto e costruzione
narrativa è cruciale.
Muovendo dall’osservazione del diritto quale prodotto
culturale tra altri, l’articolo ha per obiettivo la
ricostruzione delle tesi e delle categorie che interessano
il campo della narratività, come terreno più fertile
per ricollocare la definizione dell’approccio Diritto e
letteratura e della sua metodologia.
Diritto e letteratura;
Narrazioni giuridiche;
Comunità narrative.
1. Lo studio delle storie
L
e poche pagine che seguono riassumono
alcune riflessioni emerse in occasione
di una tavola rotonda* organizzata dal prof.
Marco Cossutta in collaborazione con la prof.
ssa Maria Carolina Foi, presso la Facoltà di
Scienze della Formazione dell’Università di
Trieste, con il patrocinio della Italian Society
for Law and Literature.
L'invito, particolarmente gradito, ha dato
occasione a un confronto molto stimolante
con gli altri relatori – la prof.ssa Giuseppina
Restivo, il prof. Paolo Heritièr, il prof. Fabio
Cossutta – oltre che con gli stessi Cossutta
e Foi, al punto da non esaurirsi se non dopo
diverse ore dalla conclusione formale del
seminario.
Tavola rotonda su “Diritto e costruzione narrativa. La connessione fra diritto e letteratura”, Trieste 30 novembre 2009.
Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della
Formazione. Master di primo livello in “Analisi e gestione
della comunicazione”. In collaborazione con CERMEG –
“Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica”, “Tigor.
Rivista di scienze della comunicazione”. Con il patrocinio
di “Italian Society for Law and Literature”.
∗*
diritto e costruzione narrativa
Il tema in gioco “Diritto e costruzione narrativa. La connessione tra diritto e letteratura”, d'altra parte, è uno dei più cruciali nel
dibattito intorno alla metodologia di diritto e
letteratura e l'incontro tra studiosi dei due diversi versanti di questo approccio non poteva
che rivelarsi proficuo.
La prospettiva adottata nell'intervento trae
spunto dalla formulazione ben riuscita del titolo della tavola rotonda. Rielaborando infatti
soltanto di poco la soluzione grafica, ponendo
“diritto” in minuscole e “costruzione narrativa” in maiuscole, emerge immediatamente
che è possibile osservare il diritto come una
delle espressioni della costruzione narrativa
della realtà. Ed è questo l’oggetto principale
degli argomenti proposti, rivolti all’osservazione dell’approccio diritto e letteratura come
una delle possibili vie per l’analisi del diritto
come fatto culturale (prodotto del linguaggio
e della relazione sociale).
La trama del concetto di narrazione si
svolge attraverso vari lavori nell’alveo di
differenti discipline e più in particolare
dell’antropologia culturale, della sociologia
14
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
narrativa, della psicologia culturale, ma anche di buona parte della critica letteraria. Si
tratta di lavori che finiscono con il richiamarsi tutti tra loro, accomunati dagli stessi riferimenti filosofici (Ricoeur prima di
tutti) e narratologici (le tesi di Genette in
particolare sono quelle su cui c’è maggiore
convergenza). Al cuore di questa ricerca vi
è “lo studio delle storie”, che a partire dagli
anni ottanta del 1900, è divenuto oggetto di
rielaborazione anche nell’ambito delle discipline più vicine al diritto e in particolare
del movimento L&L1.
Si tratta ad oggi di un percorso già tracciato, ma ancora poco noto e frequentato dagli studiosi di Diritto e letteratura italiani e
in generale non statunitensi2, che necessita
quindi di essere messo in luce. Ma non soltanto. Attraverso la ricostruzione delle assunzioni, delle categorie e degli stessi strumenti di indagine che riguardano lo studio
delle storie è auspicabile che l’inevitabile
reinterpretazione dei problemi possa condurre anche a nuove acquisizioni.
Partiremo quindi da una semplificazione
quasi assoluta dei termini del discorso, per
provare a cogliere la struttura essenziale
delle categorie in gioco, e poi ricostruirlo
in modo via via più articolato, prendendone in considerazione i vari elementi, senza
nessuna pretesa di esaustività, ma al fine
di condividerli, discutere e affinare, proseguendo idealmente lo stimolante confronto
avviato a Trieste.
1 Il complesso coinvolgimento di molte delle prospettive del pensiero delle scienze umane nel dibattito attorno
alla narrazione è ben testimoniato da un monografico
pionieristico della rivista “Critical Inquiry”, dal titolo On
Narrative, Vol. 7, n. 1, 1980, in cui sono coinvolti filosofi,
critici letterari, psicologi, storici, antropologi, romanzieri e narratologi chiamati a discutere sul modo e sulle ragioni per cui raccontiamo, capiamo e usiamo le storie.
2 Un’autorevole eccezione in Europa è rappresentata da F.
Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris,
2004. Il fronte metodologico della narrazione si sta facendo
avanti anche in Italia; per alcuni riferimenti bibliografici
vedi M. P. Mittica, Diritto e letteratura in Italia. Stato dell’arte e
riflessione sul metodo, in: “Materiali per una storia della cultura giuridica”, n. 1, 2009, pp. 3 - 29. Per la ricostruzione della
storia del movimento L&L vedi A. Sansone, Diritto e letteratura. Un’introduzione generale, Milano, 2001.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
2. Narrazione. Pensiero. Comunità narrative
Cosa è una narrazione? Senza avventurarci per economia del discorso nella lunga e
complessa storia di questa categoria, possiamo dire che il concetto di narrazione diviene trasversale nelle scienze umane a partire
dalla seconda metà del 1900, fino a maturarsi
in una definizione che osserva la narrazione
come: “il processo di strutturazione di un racconto che si realizza come pratica sociale in
cui due o più persone mettono in comune una
storia”3, dove, in altre parole, l’atto del narrare è
una pratica inscrivibile in modo esclusivo nel
contesto della relazione tra un narratore e il
suo pubblico o interlocutore.
L’attitudine alla narrazione è una qualità di
una specifica forma del pensiero, vale a dire
del pensiero “narrativo”4.
Gli psicologi della cultura, che considerano il pensiero nel suo complesso come
un prodotto culturale e sociale 5, ritengono
infatti che la cultura influenzi la formazione di diversi tipi di pensiero: quello paradigmatico, e per l’appunto quello narrativo. Mentre il pensiero paradigmatico viene
ascritto al ragionamento scientifico classico, quello narrativo è una forma del pensiero che si manifesta nelle prime fasi dello
sviluppo cognitivo con tre precise caratteristiche: (1) è un modo di pensare al sociale,
tanto che la sua referenza è costituita dagli
eventi sociali; (2) si genera a partire dalle
interazioni sociali – vale a dire che la struttura narrativa è insita nell’interazione so3 P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano, 2000.
4 A. Smorti, Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Firenze, 1994.
5 Com’è noto, il funzionamento del pensiero viene osservato nella psicologia culturale all’interno del rapporto tra
mente e cultura. È la cultura a plasmare la vita e la mente
dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati
intenzionali profondi in un sistema interpretativo. Viene
sposata in tal senso la lezione geertziana in uno dei suoi
assunti principali, ovvero che non esiste qualcosa come
la “natura umana” indipendentemente dalla cultura. Cfr.
per tutti J. S. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale [1990], Milano, 2006, p. 47; C. Geertz,
Antropologia intepretativa [1983], Bologna, 1988.
15
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ciale, prima ancora di trovare espressione
linguistica; e (3) allo stesso tempo genera
vita sociale, nella prospettiva in cui la vita
sociale è considerata un contesto di tipo
interpretativo e in certa misura anche il risultato di costruzioni narrative 6.
Il pensiero narrativo è dunque il luogo
eletto dell’elaborazione simbolica della
dimensione relazionale. Il che ne conferma la manifestazione nelle pratiche sociali e/o narrative.
Queste semplici tesi di partenza conducono di per sé all’idea che le pratiche narrative siano alle origini della comunità. La tesi,
largamente condivisa, viene convalidata essenzialmente prendendo in causa l’evidente
qualità narrativa dei contenuti della memoria collettiva su cui ogni comunità fonda la
propria identità e l’individuo sociale trova
collocazione e proiezione. È attraverso la
ricezione e la rievocazione di storie che appartengono alla memoria collettiva che si
rinsaldano l’identità collettiva e il senso di
appartenenza, offrendo sul piano emotivo e
interpretativo anche la capacità di interpretare i bisogni e gli scopi presenti7.
6 Per meglio comprendere la differenza tra le due forme
di pensiero si rimanda alla tavola sinottica proposta in A.
Smorti, Il pensiero narrativo, cit., p. 92.
7 La dimensione individuale nella prospettiva del pensiero e della prassi narrativi si riduce al Sé, quindi all’esistenza sociale dell’individuo. Lo si osserva anche al livello
della memoria personale che si intreccia con il pensiero
narrativo. La memoria personale è quella autobiografica,
più intenzionale, più legata a ricordi specifici e vincolata a
precise situazioni nello spazio e nel tempo. Essa è costituita
da molteplici sistemi, di cui tre sono i principali: sistema
episodico; sistema semantico; sistema narrativo. Il sistema
narrativo interviene dopo che quello episodico e quello
semantico, quando il bambino comincia a parlare ed è in
grado di trasporre le proprie memorie in modo verbale,
strutturandole secondo un prima e un dopo, e descrivendo un’azione che si svolge nel tempo. Nel suo complesso
la memoria autobiografica è la memoria degli eventi della
propria vita, ricordati nell’unica prospettiva del Sé in rapporto agli altri. Vale a dire che deve assolvere al compito di
rappresentare gli eventi in modo coerente alle esigenze del
Sé. Inoltre, pur potendo distinguere sul piano teorico la dimensione collettiva da quella individuale, i due piani non
lo sono al livello dell’esperienza poiché nell’esperienza il ricordare e il raccontare o il raccontare tout cour, precipitano
l’uno nell’altro. Vedi ancora A. Smorti, Narrazioni. Cultura,
memoria e formazione del Sé, Milano, 2007, p. 46 ss.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
Che le pratiche narrative siano alle origini
della comunità, tuttavia, lo si comprende anche
grazie alla caratteristica delle storie di essere
“messe in comune”. Le pratiche narrative non
si prestano infatti a essere ridotte a un semplice scambio comunicativo. Raccontare a un altro
significa farlo partecipe di un’elaborazione personale di eventi dell’esperienza o di storie della
memoria collettiva a lui specificatamente dirette. Secondo Jedlowski, il racconto è un “dono”,
un munus che vive della disponibilità di chi narra ma anche di chi ascolta, e si volge in potenza
perciò a rinsaldare legami esistenti e/o a crearne
di nuovi, in virtù della propria qualità di “obbligazione” fondata sulla reciprocità8.
L’essere comunità e il perpetuarsi come tale
si realizza dunque attraverso racconti, mediante i quali si condividono le stesse storie, in riferimento a un immaginario comune. Questa
condivisione tuttavia non può essere assunta
in modo aproblematico. Intanto non possiamo
pensare alla cultura in termini di “mono - cultura”. È evidente che il mettere in comune storie è
una pratica relazionale che si svolge al livello delle diverse e plurime appartenenze dei soggetti
interagenti. Lo stesso soggetto può essere parte
di diversi gruppi, caratterizzati ciascuno da una
propria cultura e da una memoria comune “locali”. Dalla prospettiva inversa, diverse culture
possono entrare anche in forte contrasto, provocando dissonanze tanto al livello dell’individuo sociale quanto nel più ampio contesto della
memoria collettiva. A ciò si aggiunge il fatto che
il racconto di una storia è anche frutto di reinterpretazione e adattamento dei contenuti secondo
la funzione dettata dal contesto specifico della
relazione sociale in cui si svolge, e che spesso si
tratta di storie che recano in sé un forte potenziale innovativo ma anche immaginativo e creativo.
Le comunità narrative sono in altre parole di per
sé instabili, organismi in continuo movimento:
“comunità “lasche” e dai confini mobili”9.
8 P. Jedlowski, Il racconto come dimora.“Heimat” e le
memorie d’Europa, Milano, 2009, p. 34. La proiezione
della comunità a partire da una struttura del legame
solidale sintetizzabile nell’espressione “cum - munus”
è esplicitamente riferita a R. Esposito, Communitas.
Origine e destino della comunità, Torino, 1998.
9 Ivi, p. 38.
16
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
3. Il testo narrativo
La narrazione produce un testo narrativo,
vale a dire un racconto, che può essere definito come: uno strumento flessibile per interpretare
e parlare della realtà, ovvero di Sé e del mondo. Si
tratta di uno strumento flessibile perché impiega materiali simbolici preesistenti nella cultura in modo elastico a seconda delle finalità a
cui è diretto; che è volto a interpretare, nel senso che tende a stabilire un ordine di significati attraverso un racconto “comprensibile” e
“credibile” di eventi, in cui le azioni dei vari
personaggi coinvolti si svolgono secondo una
sequenza temporale e in uno spazio determinati, che contribuisce alla comprensione
della realtà, a dare un senso al Sé e al mondo;
per parlare ovvero interagire con gli altri, con
la possibilità di stipulare nuovi significati e
proiettarsi in un tempo futuro10.
Senza racconti non saremmo in grado di utilizzare le diverse prospettive temporali. Sono
le storie ad articolare il tempo. Dall’eterno presente, in cui si va svolgendo la nostra vita, riusciamo a conoscere l’esperienza passata e recuperare il tempo del vissuto costruendo una
memoria individuale e sociale. Grazie a testi
prodotti da pratiche narrative possiamo compensare così la nostra finitudine11, ma anche
prefigurare un’alternativa alla realtà ordinaria
del quotidiano, a immaginare il possibile e a
costruire il nuovo. Senza le storie, d’altra parte,
non riusciremmo a gestire nemmeno il nostro
presente, perché privi dello strumento principale attraverso cui rielaboriamo progressivamente l’esperienza, costruendo un’identità
personale coerente, culturalmente collocata,
individuando un equilibrio sulla base di significati e regole riconoscibili e condivisibili. La
stessa vita sociale non avrebbe “senso”.
Certamente i testi narrativi si avvalgono
di molteplici forme di materiali simbolici.
10 La definizione rielabora quella proposta da Smorti, il
quale si limita a osservare il racconto soltanto come uno
strumento linguistico, per abbracciare l’idea più generalizzabile che un testo narrativo possa trovare espressione attraverso molteplici linguaggi, come viene chiarito
subito dopo. Cfr. A. Smorti, Narrazioni, cit., p. 78.
11 R. Ceserani e A. Bernardelli, Il testo narrativo,
Bologna, 2005.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
Sarebbe erroneo limitare il linguaggio della
narrazione al piano della forma linguistica
e/o della comunicazione verbale. Non si parla,
non si racconta anche attraverso la musica? la
pittura? Il cinema? La fotografia?12 La narrazione è un processo che può svolgersi attraverso
ogni genere della produzione culturale.
Se in questa sede ci si limita a considerare i
racconti discesi da narrazioni che si servono del
mezzo linguistico è soltanto perché il rapporto
preso in analisi è quello tra diritto e costruzione
narrativa sotto lo specifico versante delle convergenze (e divergenze) tra diritto e letteratura.
I tipi di testi narrativi che ricadono in questo rapporto hanno sovente la struttura di un
racconto letterario in cui è possibile distinguere: una “storia”, in cui si rispecchia un ordine
cronologico e logico degli eventi, che è l’oggetto del racconto; e un “discorso” che è il racconto della storia considerato nel suo sviluppo.
Si tratta di una dicotomia che si ritrova nella
narratologia russa, francese, americana13, e caratterizza molti generi di narrazione: dai miti,
alle favole, alla deposizione di un testimone
processuale, al romanzo, a un racconto breve,
al dispositivo di una sentenza, a un testo teatrale, a una storia di vita raccontata nel corso
di una rilevazione empirica adoprata con tecniche di sociologia qualitativa.
Il nostro mondo normativo si scompone e
ricompone continuamente attraverso una fitta rete di combinazioni narrative che ci raccontano e attraverso cui raccontiamo. E non
potremmo accedervi, darne interpretazione
12 A questo proposito si rimanda a Chatman che osserva
la caratteristica della narratività in molteplici linguaggi
della cultura, focalizzando l’elemento tipizzante di ogni
testo narrativo nel tempo. Cfr. S. Chatman, What Novels
Can Do That Films Can’t (And Vice Versa), in “Critical
Inquiry”, Vol. 7, No. 1, On Narrative (Autumn, 1980), pp.
121 - 140. �����������������������������������������������
Vale a dire che “la presenza del tempo è la caratteristica fondamentale di tutti i testi e i discorsi che
definiamo come “narrativi” e della nozione stessa di
“storia””. Cfr. P. Jedlowski, Storie comuni, cit., p. 10.
13 Rispettivamente come: fabula/intreccio; histoire/récit; story/discourse - plot. Vale la pena precisare la tesi
di Peter Brooks, il quale individua nel “discorso”, ovvero
in questo testo che si va compiendo durante il processo narrativo, la trama che si svolge, rispetto alla quale il
plot è il motore. Cfr. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e
progetto nel discorso narrativo (1984), Torino, 1995.
17
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
e orientare di conseguenza i nostri comportamenti se non vi partecipassimo come narratori e personaggi.
4. Pratiche narrative e ordine normativo
La qualità normativa delle pratiche narrative
emerge in modo particolarmente visibile quando le stesse intervengono nella composizione
degli equilibri all’interno delle comunità, in
presenza di fratture della solidarietà sociale.
Poiché la coesione societaria è sempre
esposta a traumi e conflitti al livello del legame sociale, una delle principali risorse per
mantenere un equilibrio di sopravvivenza è
proprio la capacità di elaborare narrazioni interpretative adatte a mitigare e ad attenuare
le scissioni che potrebbero scatenare un eccesso di dinamiche conflittuali14.
Il narrare svolge questa funzione in quanto
è un’azione che si colloca in un contesto di interazione e ascolto reciproco – chi narra rende
raccontabile e comprensibile il proprio racconto
all’altro che ascolta – consentendo la rielaborazione simbolica degli eventi che hanno causato la
frattura. Spesso si attinge a storie comuni e condivise, mettendo in gioco un patrimonio di valori e norme serbate da una cultura in un insieme
storie e di procedure interpretative che, in caso di
scostamenti dalle norme, sono in grado di assegnare alla narrazione in gioco significati secondo
determinati canoni o credenze15. In uno dei saggi più noti a proposito di diritto e narrazione, si
invita a osservare il testo e la giurisprudenza costituzionali come le dimensioni narrative fondamentali in cui una comunità si riconosce e radica
la propria esistenza e il proprio futuro come tale,
per quanto culturalmente diversificata16.
La tesi si può tuttavia estendere anche a quei
casi in cui i due attori che entrano in disaccordo
non condividano un patrimonio narrativo comune. Intervenuta una narrazione, potrebbe
accadere, infatti, che si proponga un racconto
volto non tanto a ricomporre tesi inconciliabili quanto a renderle comprensibili e a forgiare
14 Cfr. V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, 1993.
15 Cfr. J. S. Bruner, La ricerca del significato, cit., p. 58.
16 R. Cover, Nomos e narrazione. Una concezione ebraica del diritto [1980], a cura di M. Goldoni, Torino, 2008.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
interconnessioni percorribili, offrendo storie
– per dirla con Bruner – che rendano la “realtà” una realtà mitigata. In queste circostanze
le pratiche narrative possono sorgere proprio
come un ponte tra mondi normativi diversi.
Le pratiche narrative sono sempre volte,
in definitiva, a stabilire o ristabilire un ordine, nei significati e nelle regole, sebbene nel
segno di una condivisione che va continuamente rinsaldata e ripattuita.
In questa prospettiva è possibile ritenere
che tutta l’attività del raccontare che si svolge
verso la definizione di un ordine simbolico e
comportamentale è “giuridica”. Il mondo delle relazioni sociali potrebbe essere osservato
allora come un universo normativo caratterizzato dalla narrazione, in cui i testi narrativi
si diversificano nelle loro forme – alcuni codificandosi appunto in leggi e in altri testi della cultura – ma che in ogni caso sono tutti di
carattere normativo, quanto meno nel contesto dell’attività interpretativa che richiedono:
“ogni prescrizione esige di essere situata in un
discorso, ovvero di essere provvista di una storia e di un destino, di un inizio e di una fine, di
una spiegazione e di una finalità; e ogni narrazione esige di essere compresa da una prospettiva prescrittiva: esige la propria morale.
La storia e la letteratura non possono sfuggire
da un universo normativo; e non può la prescrizione che, per quanto incorporata in un testo giuridico, non sfugge dalla propria origine
e dal proprio fine nell’esperienza: ovvero non
può sottrarsi alle narrazioni che la nostra immaginazione proietta sulla realtà materiale”17.
5. Storie di fatti e storie di fantasia.
Una definizione di campo
Se assumiamo che il mondo della vita quotidiana è narrativo e allo stesso tempo normativo, dove anche il diritto è una pratica o un
insieme di pratiche narrative, diventa a questo
punto necessario chiedersi in quali termini
può essere riproposta una distinzione tra diritto e letteratura. Quella da cui evidentemente
non si può prescindere distingue tra diritto a
letteratura sulla base della differenza tra storie
17 Ivi, p. 18.
18
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
di fatti realmente accaduti, azioni e situazioni
della vita ordinaria e storie inventate, di fantasia, tutt’al più verosimili. Detto ciò e con la
consapevolezza della necessità metodologica
di questa operazione, sarebbe troppo ingenuo
ricondurre diritto e letteratura a binomi come
vero/falso o peggio ancora reale/irreale: sarebbe come negare quanto stiamo dicendo sulla
costruzione narrativa della realtà18.
Se la prassi narrativa è un processo che ha
la funzione di riprodurre e produrre la realtà, se dobbiamo di conseguenza intendere il
testo narrativo nella sua più specifica componente dinamica, che è quella del raccontare,
come un dato di realtà, in quanto canalizza
l’interpretazione della realtà, e così contribuisce a crearla: che una storia possa trattare
di fatti avvenuti concretamente o di fatti che
sono frutto di invenzione e immaginazione
non è poi una distinzione così risolutiva.
Storie di fatti accaduti e storie di fatti di
fantasia (verosimili) orientano con grande
forza narratori e fruitori dei racconti al livello
della costruzione interpretativa della realtà.
Sia che si riferisca a un evento accaduto o a
uno di fantasia, il racconto può infatti descrivere indifferentemente circostanze e situazioni della vita ordinaria e indicare valori e
regole che ordinano l’orizzonte delle attese di
chi elabora e di chi ascolta il racconto.
Il punto focale che dobbiamo mantenere
nella nostra osservazione, per comprendere
la consistenza della costruzione narrativa, è
nella “realtà del raccontare” e nella consapevolezza che il raccontare produca “comunque”
delle “storie”. A qualunque vissuto si può avere
accesso soltanto mediante l’elaborazione narrativa che se ne fa (a partire di come il protagonista la racconta a se stesso).
I fatti e le loro circostanze – accaduti o di
fantasia – costituiscono l’oggetto della storia.
La storia è a sua volta l’oggetto del racconto. Il
18 D’altra parte, all’interno del dibattito sulla narrazione
sin dalle sue prime mosse si è ben compreso che l’opposizione vero/falso, parlando delle funzioni del narrare rispetto alla vita individuale e collettiva nei processi di mediazione e costruzione simbolica della realtà, si scioglie nel
concetto di “realtà”. Cfr. H. White, The Value of Narrativity in
the Representation of Reality, in “Critical Inquiry”, Vol. 7, No.
1, On Narrative (Autumn, 1980), pp. 5 - 27.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
racconto può riferirsi a un fatto e raccontarne
la storia, ovvero le circostanze e i tempi in cui
è avvenuto, le persone coinvolte, le ragioni,
sia elaborando ex novo una storia, sia prendendo a prestito storie analoghe conosciute. Chi
racconta costruirà un racconto in modo più
o meno originale a seconda dei materiali che
vorrà impiegare nel proprio racconto, che sono
presenti nella cultura condivisa da lui e dal suo
diretto interlocutore o dal suo pubblico.
Nel raccontare una qualsiasi storia, l’autore
di un testo narrativo interpreta e restituisce
un dato di realtà indipendentemente dal fatto che gli eventi a cui si riferisce siano effettivamente accaduti o meno. Le storie quindi
vanno viste innanzi tutto facendo riferimento
all’effettiva ricaduta che hanno nella realtà al
livello dell’esperienza e soltanto in questa cornice si può proporre la differenza tra storie di
fatti avvenuti concretamente, situazioni vissute nella vita ordinaria e storie di fantasia che
si basano su fatti e situazioni che potrebbero
verosimilmente esistere ma anche assolutamente fantastici, purché in grado di incidere
sull’orientamento dei soggetti del contesto
narrativo. Piuttosto dunque che concludere
sommariamente ascrivendo il diritto alle storie dei fatti accaduti e la letteratura alle storie
di fantasia, bisogna assumere questo campo in
modo più complesso.
Dovremmo dire perciò che rispetto all’insieme dei testi narrativi, nei quali si ricomprendono tutti i racconti elaborati nel corso
dell’esperienza19, il campo diritto e letteratura
19 Alle storie di fantasia possiamo ascrivere le storie
della letteratura. Si tratta di storie inventate e raccontate secondo canoni che sono quelli del genere letterario,
da parte di narratori di professione (scrittori letterari)
che scelgono la forma di testo che preferiscono, il romanzo, piuttosto che la pièce teatrale, o altro. A questo
tipo di storie ci sia consentito – per quanto arbitrario
– di accostare miti, leggende e fiabe che com’è noto hanno caratteristiche del tutto specifiche, in quanto sono
narrazioni tradizionali che costituiscono un patrimonio culturale da cui attinge la memoria collettiva di una
comunità. Alle storie che sono oggetto di racconti su
eventi e circostanze ordinariamente vissute possiamo
invece ascrivere tutte quelle storie che sono elaborate
da soggetti nel corso della loro vita quotidiana senza il
ricorso – almeno consapevole – a una forma letteraria.
Impossibile enumerare le modalità infinite di combinazione narrativa attraverso cui esprimiamo e comuni-
19
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
si circoscrive a quelle storie che discendono
da pratiche narrative che presentino la qualità
normativa, nel senso che poco più sopra abbiamo espresso. In questo modo si introduce
la qualità normativa delle narrazioni letterarie (sebbene siano storie “di fantasia”) e allo
stesso tempo si includono nei racconti giuridici anche quelle storie della vita quotidiana
che il sistema giuridico (del diritto positivo)
esclude. Vale a dire che le storie che interessano il versante della giuridicità sono tanto
quelle della “legge” quanto quelle dell’“infra diritto” e del “non - diritto”20.
Nella prospettiva di una distinzione analitica
tra diritto e letteratura, si dovranno individuare perciò nel complesso dei racconti giuridici:
1. sul versante della letteratura: a) i testi
letterari veri e propri – storie di fantasia
formalizzate in romanzi, racconti, opere teatrali ecc.; b) le storie tradizionali – a partire
dai miti che spiegano i principi della convivenza, raccontando le ambiguità della giustizia e della violenza, la necessità del limite
nonché l’alterità irriducibile, fino alle favole
accompagnate in ogni tempo da una morale
e da precise indicazioni di comportamento;
chiamo ordinariamente la nostra esperienza. La nostra
vita quotidiana si svolge in un reticolo storie, oggetto di
pratiche narrative che ci vedono narratori e fruitori di
racconti. Un inventario delle forme di testi narrativi di
ambedue le specie è stato elaborato da Ceserani sebbene
limitatamente a testi narrativi scritti. Cfr. R. Ceserani,
“Forme della scrittura narrativa”, in R. Ceserani e A.
Bernardelli, Il testo narrativo, cit., pp. 20 - 53.
20 L’infra - diritto è traducibile nel complesso di pratiche, usi e consuetudini, dei valori e dell’immaginario
giuridici, che nel loro insieme sono all’origine delle
istituzioni giuridiche e politiche di una comunità, ne
tutelano il mantenimento ma le spingono anche al rinnovamento. A questa dimensione della giuridicità la
categoria del non - diritto aggiunge più espressamente
il “vuoto” che potrebbe essere colmato: un’assenza del
diritto che prelude a possibilità alternative rispetto ai
codici consolidati. Intesi come tessuto normativo della
vita quotidiana che affondano le radici nel patrimonio
culturale condiviso, i testi narrativi riferibili all’infra
- diritto e del non - diritto scaturiscono dalla trama di
qualunque racconto elaborato nel corso dell’esperienza
individuale. Per l’approfondimento di queste tematiche si rimanda a J. Carbonnier, Flessibile diritto [1969],
Milano,1997; per la rilettura di questo autore classico
contemporaneo si rinvia a F.S. Nisio, Jean Carbonnier,
Torino, 2002.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
c) i racconti che provengono dal mondo della vita quotidiana, ma che sono esclusi dal
sistema giuridico21.
2. sul versante del diritto, si osservano invece più specificatamente le storie ascrivibili
alla “legge” che, come sappiamo, è più semplicemente la più piccola parte del diritto, ovvero
quella che si positivizza nell’ordinamento dello Stato moderno nelle società occidentali. Si
tratta per lo più di quelle che hanno ad oggetto fatti accaduti e situazioni vissute concretamente, me per l’appunto di “storie”: quelle che
appartengono al mondo della legge, del sistema giuridico, raccontate da giudici e avvocati
quando si tratta di fatti ricostruiti nell’ambito
di processi, o da altri operatori del diritto e in
particolare dal legislatore quando si tratta di
costruire un provvedimento legislativo o da
un burocrate che si occupa di applicarlo22.
6. Diritto e letteratura
Che poi tra diritto e letteratura il rapporto sia di
fatto privilegiato è un discorso ulteriore. I racconti
letterari e i racconti del sistema giuridico si osservano reciprocamente, servendosi gli uni degli altri.
Proviamo a guardare dalla prospettiva della
letteratura. Le storie letterarie presentano quasi
sempre sullo sfondo un contesto quotidiano ordinato simbolicamente e normativamente, a partire del quale si svolgerà la trama. Questo ordine
“dato per scontato” viene poi sistematicamente
infranto e posto in crisi, per poter essere discusso, reinterpretato e infine ricostruito. Così, dalla
finzione letteraria – dice Bruner – giungono gli
strumenti per definire la realtà sul piano del suo
21 Il legal story - telling movement tra le varie tematiche affrontate ripropone anche l’elaborazione di
storie – anche inventate, purché verosimili – di situazioni in cui si perpetuano condizioni di disagio,
emarginazione, esclusione dal godimento di diritti,
aspettative normative disattese.
22 In un mio precedente saggio, ho identificato questi
racconti come “giuridici ufficiali” e ho riportato il catalogo dei documenti giuridici ricostruito da Mortara
Garavelli sulla base delle attività da cui gli stessi discendono: creativa; teorico - interpretativa; pratico - applicativa. Cfr. M. P. Mittica, Raccontando il possibile. Eschilo e le
narrazioni giuridiche, Milano, 2006, p. 39 ss.; B. Mortara
Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni, grammatiche
e retoriche sui testi giuridici italiani, Torino, 2001, p. 22 ss.
20
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ordine normativo, attraverso una messa in discussione dell’ordine stesso23.
Ciò è possibile perché il racconto letterario è
stato elaborato facendo riferimento all’ordine
normativo di un preciso contesto sociale e culturale, posto sullo sfondo della trama e che proprio in quanto attinto dalla realtà comune (narrativa) può essere dato per scontato. Inoltre: in
moltissimi casi la finzione letteraria mette in
crisi l’ordinario e canalizza la rielaborazione
di un ordine normativo facendo ricorso alle
forme dell’esperienza giuridica. Quale migliore strumento per ridiscutere il senso dato per
scontato se non il racconto di un fatto violento
che, dopo aver provocato un shock nel tessuto
ordinario della vita, diventa oggetto di analisi
nel teatro di un tribunale, nel contesto di un
processo in cui si canalizzano tutte le variabili
che interessano il delitto sul piano valoriale e
normativo? Quale migliore sistema per riordinare i significati delle procedure consolidate e
ordinate di un processo? Quale dimensione se
non quella della “legge” è maggiormente utile
per esplorare le ombre della vita umana che si
confronta con il proprio limite, con il proprio
essere anche violento e l’ossessiva ricerca di
una giustizia che possa essere davvero superiore agli uomini, e “graziarli” perdonando la
loro naturale incompletezza, la loro colpa?
Proviamo ora a fare l’operazione inversa e
a guardare come nell’elaborazione di una storia nell’ambito del sistema giuridico, rispetto
fatti e concretamente avvenuti e a circostanze
della vita ordinaria, un ordine normativo venga costruito attraverso racconti che attingono
alle storie di fantasia, della letteratura o della
tradizione culturale24.
23 J. Bruner, La fabbrica delle storie. Letteratura, Diritto, Vita,
Roma - Bari, 2002.
24 Si rimanda alla ricostruzione che Flora Di Donato affronta circa il movimento americano di lawyering theory,
nell’ambito delle cui tesi si osserva la costruzione della realtà sociale come frutto di processi narrativi che si concretizzando principalmente nella pratica giuridica: “Doing law –
il fare legge – è considerato un modo di ‘vivere’ e ‘costruire’
il mondo, a dispetto dello sforzo di isolarne la ‘specificità’. Si
tratta di una pratica non disconnessa dagli altri modi di vivere. Cosicché l’interesse è quello di ‘restituire la dimensione degli uomini (human beings) al diritto”. Cfr. F. Di Donato,
La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel
“processo”, Milano, 2008, p. 67.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
Nei contenuti di una legge non si riversano
forse le rappresentazioni e le interpretazioni
dei legislatori, che provengono da un tessuto
di storie che è tipico della loro comunità narrativa di riferimento? E i giudici, quando devono pronunciarsi su un delitto, non ricostruiscono e restituiscono una storia sulla base di
tradizioni narrative? e così gli avvocati, i testimoni: non procedono forse proponendo delle
storie su come sono andati i fatti “realmente
accaduti”, reinterpretandoli grazie al ricorso
ad altre storie? E spesso non accade che un
processo sia vinto grazie alla migliore abilità
narrativa di un avvocato?
Per non dire poi di quanto in queste costruzioni narrative del diritto viene preso a prestito consapevolmente e dichiaratamente dai
testi narrativi della letteratura. Basterebbe leggere l’ultimo libro di Nobili, quasi un manuale dell’intreccio tra situazioni e valori in gioco
nelle varie vicissitudini processuali e passi
della letteratura dei grandi classici25. Il che sia
sufficiente a dimostrare come l’argomentazione giuridica si serva tradizionalmente di questi materiali della cultura letteraria per dare
“significanza” al proprio discorso.
7. Elementi di un rapporto dialettico
A questo punto è necessario chiarire quale
sia il vantaggio sul piano metodologico della
messa a raffronto di diritto e letteratura.
Separati dunque, per essere messi a confronto in modo più analitico, i due ambiti di
costruzione narrativa presentano un interessante gioco di opposizioni dialettiche che offrono più di un’opportunità a un’analisi raffinata della giuridicità:
1. Riduzione della complessità/osservazione
complessa della realtà. Di fronte alla complessità
del mondo la legge codifica la realtà sociale, la
istituisce con una rete di qualificazioni convenute operando selettivamente tra le alternative possibili di significato e di comportamento.
In tal modo agisce riducendo la complessità26.
25 M. Nobili, L’immoralità necessaria, Bologna, 2009.
26 Si fa riferimento a una tesi acquisita dalla sociologia
del diritto contemporanea che trova le sue radici in alcune
premesse della teoria della società di Niklas Luhmann.
21
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Da questo regno di apparente luminosità, la
letteratura si discosta addentrandosi in percorsi più accidentati, in ombra, nei “valori
caldi” dell’umanità dove il distinguere non è
un’operazione possibile, soprattutto se proviene dalla pretesa di una differenza netta tra
il male e il bene27. La letteratura si pone altre
parole come critica e continua sollecitazione
del giuridico ad aprirsi alla complessità del
reale. In particolare la prosa libera consente al
letterato di avvicinarsi alla realtà spesso con
maggiore comprensione rispetto a quella che i
saperi accademici sono in grado di offrire e da
questa prospettiva interroga il giuridico, indebolendo i pretesi saperi positivi che fanno da
fondamento alla legge28.
2. Gestione del conflitto/rifiuto della violenza.
Per la necessità di gestire il conflitto sociale, la
legge opera delle scelte in nome della certezza giuridica: sceglie fra interessi contrastanti;
istituisce gerarchie tra pretese contrapposte;
dà vita ai tribunali. Introietta la violenza che
si prefigge di opporre. La letteratura è pervasa
dal rifiuto di questa legge, investendo nei sentimenti vitali (tesi alla vita) dell’uomo. Tuttavia
essa si scontra anche con l’incapacità dell’uomo a dare loro spazio, vanificando la necessità
del ricorso alla legge in nome della capacità di
vivere, promuovendo al contrario pulsioni di
morte. Per questa incapacità Magris osserva
nella letteratura il ritrovarsi dell’uomo che rifiuta la legge, mentre paradossalmente si colloca in uno schema di giudizio davanti a una
legge che lo giudica per la sua limitatezza29.
3. Consolidato/possibile – (canonico/alternativo). Qui il rapporto è reversibile a seconda che
si osservi la legge nella funzione di stabilizzare le aspettative e di converso la letteratura
nella sua capacità di rovesciare punti di vista,
inducendo a spaesamento e alla costruzione di
nuova realtà; oppure sia la legge ad assumere
valore innovativo e la letteratura quello conservativo. Conseguentemente si potrà opporre
un “tempo della legge” a un “tempo della let27 C. Magris, “Davanti alla legge. Letteratura e diritto”,
in Davanti alla legge. Due saggi, Trieste, 2006, p. 33 ss.
28 F.
��������
Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004, p. 26 ss.
29 Cfr. C. Magris, “Davanti alla legge”, cit.
Diritto e costruzione narrativa
issn 2035-584x
teratura”, osservando le differenze tra testi del
“presente - futuro”, del “presente - presente” e
del “presente - passato”30.
4. Persona giuridica/personaggio letterario.
Qual è infine lo statuto di individui riferibile
ai due versanti? La legge parla di persone, la
letteratura di personaggi. Mentre la persona
giuridica è un ruolo stereotipato dotato di uno
statuto (diritti e doveri) convenuto (maschera
normativa), il personaggio è un soggetto reale,
ambivalente e imprevedibile, che non è riducibile a una maschera giuridica. Il personaggio
di fatto sfida o subisce la maschera che gli si
vorrebbe imporre: comunque sia, questi eccede la misura della “persona”31, riproponendo
una misura diversa e più complessa che è quella “dell’uomo”.
8. Breve conclusione sul metodo
Il raffronto tra legge e letteratura ci consente in conclusione di approfondire la comprensione sia della normatività, che si estende ben
oltre il sistema giuridico, sia del rapporto tra
l’uomo e la legge.
Volendo sintetizzare in punti quanto detto
sin qui, attraverso questo raffronto riusciamo a: a) comprendere che il diritto è frutto di
narrazioni al pari di qualunque altro prodotto culturale – riportando il sistema giuridico
a ciò che di fatto è, ovvero a un complesso di
pratiche interpretative veicolate da rapporti di
forza; b) restituire complessità al sistema giuridico, di per sé selettivo e riduttivo di quella stessa complessità, tentando di rendere la
legge più inclusiva di tanti racconti giuridici
“esclusi” ma presenti nella realtà della vita delle persone; c) valutare criticamente i contenuti
delle norme, osservando il grado di adesione
o lo scollamento rispetto ai dettati normativi
e a misurare l’effettivo “sentimento giuridico”
dei membri di una comunità; d) sovvertire la
legge, soprattutto in virtù del potenziale immaginativo e sovversivo che possono avere i
testi del versante letterario, ma anche a im30 Per quest’articolazione del “tempo presente” nei testi
narrativi, cfr. R. Ceserani, “La concezione del tempo”, in R.
Ceserani e A. Bernardelli, Il testo narrativo, cit., p. 106 ss.
31 F.
�������
Ost, Raconter la loi, cit.
22
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
maginare nuove forme per ordinare la vita in
comune, ponendo le premesse per positivizzare consuetudini e introdurre nel sistema
giuridico nuove norme.
Il fine è tentare di restituire alle persone
il diritto per quello che dovrebbe tornare ad
essere: espressione del legame sociale e discorso volto a mediare la convivenza tra “altri” e a tutelare la vita stessa.
Proprio a fronte delle forti potenzialità
euristiche non si può prescindere dalle opportune cautele metodologiche su cui è necessario meditare e confrontarsi soprattutto
sul proficuo terreno dell’interdisciplinarietà.
Con questo auspicio ringrazio ancora i colleghi e i nostri ospiti che hanno consentito di
avviare queste primi spunti di riflessione in
modo condiviso.
M. Paola Mittica è sociologa del diritto e docente di
antropologia giuridica e diritto e letteratura, presso
la facoltà di sociologia dell’Università di Urbino.
Dal 2008 coordina la Italian Society for Law and
Literature (ISLL), presso l’Università di Bologna. Tra
le sue recenti pubblicazioni Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche, Milano,
2006, Cantori di nostoi. Strutture giuridiche e
politiche delle comunità omeriche, Roma, 2007
Diritto e costruzione narrativa
23
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Shylock and Equity in Shakespeare’s
The Merchant of Venice
Giuseppina Restivo
Abstracts
La controversa interpretazione della figura di Shylock
nel “Mercante di Venezia”di Shakespeare non si è
finora avvalsa di due importanti aspetti iscritti nella
testualità del dramma e che possono bene spiegarne le
apparenti contraddizioni.
La rilettura del contesto socio-storico all’epoca di
Shakespeare ad opera di Lawrence Stone ha introdotto
una nuova prospettiva, focalizzata sull’importanza
dell’incipiente nascita della borghesia (“the rising
gentry”), della rivoluzione culturale e del vivace dibattito
politico, in particolare dell’ideologia Country, con le
sue polemiche etiche ed economiche, centrali nei sistemi
di valori del dramma. Sebbene sempre più confermata
dai più recenti studi storico-giuridici, tale prospettiva
non ha tuttavia ancora esercitato la sua influenza sulla
controversia in questione, nonostante la decisiva luce
che essa può gettare sul pubblico shakespeariano, i suoi
interessi e il suo orizzonte di attesa.
Anche la corretta interpretazione del problema giuridico
centrale nella lunga scena del processo, che inizia in
regime di “common law” e procede passando, nella
seconda parte, ad una corte di “equity”, di fatto con un
secondo processo presso la Chancery, come bene spiegato
da Mark Andrewes, è stata per lo più trascurata senza
discuterla, nonostante il suo preciso rilievo nel testo.
Lungi dall’essere anti-semita o contraddittorio in tal
senso, “Il Mercante di Venezia” è un testo complesso,
che ha influenzato la più importante riforma giuridica
voluta nel 1616 da Giacomo I e da Francis Bacon e ha
sorprendentemente anticipato la riforma del diritto
inglese dei Judicature Acts del 1873-75, che hanno
ridisegnato l’attuale sistema giuridico inglese.
Questo testo è un’edizione rivista del testo già pubblicato
in Daniela Carpi ed., “The Concept of Equity, An
Interdisciplinary Assessment”, Universitäts Verlag,
Winter, Heidelberg, 2007.
Controversial interpretations of Shakespeare’s “The
Merchant of Venice”, with particular reference to
Shylock’s treatment, have so far taken little or no account
of two important aspects inscribed in the play, that can
explain apparent contradictions.
Lawrence Stone’s re-description of the socio-historical set
up in Shakespeare’s time has introduced a new outlook,
focusing on the importance of “the rising gentry”, the
“educational revolution” and the contemporary rich political
debate, including the Country ideology, with its emphasis
on ethics and economics, central in the value systems of the
play. Though progressively confirmed by the more recent
historical and law and literature studies, this perspective has
yet so far exerted no influence on the controversy mentioned,
in spite of the decisive light it can shed on Shakespeare’s
audience and its interests and expectations.
The correct interpretation of the juridical issue at stake
in the long trial scene, which starts in terms of common
law, but then shows the superseding of equity in the
second part, actually a second trial in Chancery, as well
explained by Mark Andrews, has also remained generally
both unused and unchallenged, in spite of its relevance
and importance in the play. The combination of the two
outlooks can offer a new perspective: far from being antiSemitic or contradictory, “The Merchant of Venice” is a
complex text, that influenced the 1616 major judicial reform
James I and Francis Bacon agreed upon, and surprisingly
anticipated the reform brought about in England by the
1873-75 Judicature Acts, still extant today.
This text is a revised edition of the text published in Daniela
Carpi ed., “The Concept of Equity, An Interdisciplinary
Assessment”, Universitaets Verlag, Winter, Heidelberg, 2007.
Parole chiave
Shylock; Lawrence Stone; Equity;
Common law; Thrift; Inns of Court;
Mark Andrewes.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
24
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
1. A Frame of Reference
O
pposing interpretations of The Merchant of
Venice have led to the paradox of its double
use by the Jews for their cause and by Nazis
against the Jews. As anxiety over the Semitic
problem has been growing, contradictory
comments have been produced even by some of
Shakespeare’s most convinced estimators. For
such a major Shakespeare critic Harold Bloom
(of Jewish origin), who has placed Shakespeare at
the core of what he calls “the western canon”1 and
the western “invention of the human”, Shylock is
meant as an anti-Semitic villain and Portia’s role
in the trial is unduly aggressive2. In the Indian
critic Ania Loomba’s 2002 volume Shakespeare,
Race and Colonialism, Portia is construed as both
racist and anti-Semitic: a surprising charge
for the author of Othello, and at variance with
Loomba’s own promotion of Shakespeare in the
light of her political standing3. As for the trial
scene in particular, it seems to have given rise to
ideological tension.
The play (dating to 1597) refers to a period of
social and juridical evolution amply revisited
by scholars from the 70’s to the 90’s as one
of the most controversial periods of English
history, leading to Cromwell’s rebellion. The
search for the causes of the 1642 Puritan
revolution stimulated a prolonged debate
and led to Lawrence Stone’s influential
studies. If further research, by Richardson or
Russell, seems to have added to the analysis
of the revolutionary moment itself, Stone’s
re-description of the socio-historical set
up in Shakespeare’s time during the reign
of Elizabeth and James I has established an
unchallenged new outlook. Yet it has so far
exerted no influence on new historicism
1 H. Bloom, The Western Canon, Riverhead Books, New York, 1995.
2 H. Bloom, Shakespeare, the Invention of he Human,
Fourth Estate, London, 1999.
3 A. Loomba, Shakespeare, Race and Colonialism, Oxford
University Press, Oxford, 2002. Portia’s racism is detected in her
attitude to the Prince of Morocco, a Moor and an outstanding
military hero seeking a Venetian wife, clearly an Othello in nuce:
but certainly Shakespeare cannot be accused to side with racism
in Othello. Neither was he schizophrenic nor did he change his
mind from one play to the other: the linguistic mistake, owing
to interpretive distortion, is here later explained in note 24.
issn 2035-584x
critics or on major Shakespearian criticism
and the controversy mentioned.
The fact that the trial scene stages a major
juridical problem has been considered by
few law experts, but hardly at all by literary
critics, while no reading combining juridical
awareness and the renewed socio-historical
outlook has been attempted. Mark Edwin
Andrewes’ analysis of the trial scene line by line
in Law v. Equity has duly explained all its steps
and implications in the light of the history
of English jurisprudence4, as two successive
legal procedures are adopted by Portia, one at
common law and one at equity. This reading,
limited to the trial scene, disposes of all the
impatient, uninformed labellings of the trial
as based on a ‘legalistic quibble’, and accounts
for the precision of Shakespeare’s language in
the technical workings of the confrontation in
favor of equity. Yet it has been ignored by main
stream literary criticism, and understandingly
so. Confined to few legal experts for the timeconsuming competence it involves, it has not
appeared to contribute to a better definition
of the crucial problems in the interpretation
of the play. Andrewes suggests nothing from
this point of view and accepts as obvious the
audience’s anti-Semitic outlook5.
Among American law and literature
experts, Daniel Kornstein - convinced of
Shakespeare’s legal expertise, to which he
devoted a volume ranging throughout the
author’s work - owns indeed that a winning
battle for equity is staged in The Merchant,
but resents its outcome at the cost of turning
Shylock into a discriminated looser. 6 Why
place Shylock on the wrong side, turning him
from a victorious prosecutor at common law
to a losing defendant at equity? Kornstein
proposes what he calls a minority view,
or “minority report”, sharing the remarks
already voiced by Richard Weisberg7: both
4 M.A. Andrews, Law versus. Equity in “The Merchant of
Venice”, University of Colorado Press, Boulder, 1965.
5 Ibidem, p.70.
6 D. Kornstein, Kill All the Lawyers? Shakespeare’s Legal
Appeal, Princeton University Press, Princeton, 1994
7 R. Weisberg, Poethics and Other Strategies of Law and
Literature, Columbia University Press, New York, 1992.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
25
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
authors question the outcome of the equity
in the play. Appreciating Portia’s intelligence,
Weisberg tries to deflect from Portia to
Antonio’s “mediation” the responsibility
for what he considers an unnecessarily
cruel conclusion of the trial, while yet his
full awareness of the whole play leads him
rightly to realize that Shakespeare’s portrayal
of Shylock is not anti-Semitic8.
Thus, paradoxically, a greater difficulty seems
to have arisen from greater legal awareness.
On the one hand, Shakespeare’s play appears to
advocate the importance of equity against a strict
resorting to common law with surprisingly lucid
anticipation: The Merchant prepares the 1616 legal
reform by James I and Francis Bacon, which solved
a long contraposition between common law
and equity (here later described) by establishing
the supremacy of the Chancery. Portia’s role
in the trial as a lawyer envisages a solution – a
dual jurisprudence to be applied in the same
court and trial – anticipating a concept which
will become operative in England only with the
Supreme Court of Judicature, established with
the Judicature Acts of 1873-75. On the other hand,
Shakespeare’s extraordinary juridical intuition,
combining in the play with the ‘Shylock problem’,
increases questions as to the value systems with
which the text is imbued.
But recent studies allow a reconsideration
of the socio-juridical frame of reference for the
play. Wilfrid Prest’s two volumes on the London
inns of court and on the legal professions in
Shakespeare’s England9 suggest new aspects
of the setting of The Merchant, which well
combine with Stone’s historical re-evaluation
of the period. Both authors implicitly suggest,
as we shall see, the problem of Shakespeare’s
audience ‘inscribed’ in the play. As for Orgel’s
2004 essay Shylock’s Tribe, it has attracted
attention to a more immediate detail, which
8 See Ibidem, pp.43, 93-104. Weisberg points out that
Shakespeare’s “attraction to Jewish ethical dialogue is
too clear, and the dignity of his villain too great” (p.100),
but is convinced that this purports a reversal of values,
that “to put it legally, law conquers equity and the covenant regains its ascendancy” (p.103).
9 W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early
Stuarts (1590-1640), Longman, London, 1972, and The Rise
of the Barristers, Oxford University Press, Oxford, 1986.
issn 2035-584x
throws new light on Shylock’s role10. Orgel’s
relatively brief and apparently non-committal
essay on The Merchant convincingly argues that
the name of “Shylock the Jew” does not at all
point to Jewish origin, but to a typical English
surname, historically traceable and equivalent
to Whitelocke, or Whitehead, suggesting ‘white
hair’. The name Shylock did exist in England
before Shakespeare’s play, though it tended to
disappear after the play, for the implications it
suggested. As for the name Whitelocke, it was
attached to important magistrates, particularly
John Whitelocke and his son Bulstrode
Whitelocke, a friend of John Selden, the famous
jus-naturalist and expert in common law, but
also an eminent scholar of Hebrew.
This ‘name detail’ disposes of the various
awkward attempts at finding a Jewish
background to Shylock’s name, which is actually
the only English name in a play properly full of
Latin-Italian names (Antonio, Bassanio, Portia,
Lorenzo etc.), consistent with the Venetian
ambience. As Shakespeare is always highly
attentive in choosing his names, why should only
Shylock the Jew of all characters sound English?
In the re-designed cultural horizon important
missing clues – self-evident to Shakespeare’s
audience and later lost or altered by the weight of
subsequent historical problems – allow a relocation
of equity in the play. Equity not only introduces the
chancery procedures in the second part of the trial:
in a sense it seems to extend to the overall meaning
of the play. An equitable logic is here embedded, in
the balancing of the textual counterparts, as in the
evaluation of more ideological issues at the same
time. A degree of both recognition and detraction
is allowed to Shylock as well as to Antonio, whose
names figured jointly in the unusual double title
of the play: The History of the Merchant of Venice
or the Jew of Venice11. But perception of necessary
evidence requires the reconstruction of the sociolegal background of the play, its central economic
issue and the reference audience the trial scene
was conceived for.
�����������������
Stephen Orgel, Shylock’s Tribe in T. Clayton, S. Brock, V. Forès
editors, Shakespeare and the Mediterranean (Selected Proceedings
of the International Shakespeare Association World Congress
Valencia 2001) Rosemont, Cranbury, N.J., 2004, pp.38-53.
������������������������������������������������������������
See the entry in the Stationer’s Register on 22 July 1598.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
26
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
2. The Rising Gentry and the Inns of Court
Lawrence Stone’s historical outlook has redesigned the social landscape of Shakespeare’s
time, characterized by what he calls “the
educational revolution” and a social mobility
described as the development of an early
bourgeoisie, or “rising gentry”. Wilfred Prest’s
two studies have enlarged this perspective on
the specific ground of the growth of juridical
studies and of the professional classes.
The formation, role and fortune of English
barristers in the sixteenth and seventeenth
centuries call into question current historical
assessments which postpone the rise of the
professional classes in England to the age of
the industrial revolution, failing to recognize
their existence and importance since
Shakespeare’s age. A long tradition describing
late Tudor and Stuart English society as based
on three social pillars, king, aristocracy and
an undifferentiated ‘people’, must give way
to a more complex and dynamic interplay
of social strata, whose mobility, economic
struggle and success prepared the setting for
an opposition to absolute monarchical power
and the raising of an army surprisingly
capable of facing the king’s army in the
subsequent Puritan revolution.
As both the formation and the career of legal
professionals concentrated in London, they
advocate a new evaluation of Shakespeare’s
audience, of the specific weight of current
legal debate and culture, of the playwright’s
opportunity to reckon on foreseeable impacts
and play on complex allusions, appealing to
the informed section of his audience, though
later lost or difficult to retrace.
As Stone points out in The Causes of the
English Revolution from 1529 to 1642, in England
between 1540 and 1640, the landed classes
trebled in numbers, while the population as a
whole scarcely doubled12. Great social mobility
brought about “an impressive rise of the gentry
as a status group in terms of numbers and
wealth”13, which ran parallel and in good part
����������������
See L. Stone, The Causes of the English Revolution 15291642, Routledge & Kegan Paul, London, 1972.
���������������
Ibidem, p.74.
issn 2035-584x
merged with the rise of the professional classes,
the most influential group being the lawyers,
followed by the medical profession and the
merchants. Education was rapidly improving,
as grammar schools and the two universities
of Oxford and Cambridge saw a very large
increase in enrolments14. Concomitant with
the decline of the aristocracy, which was
losing its military supremacy and economic
hegemony, the increasing gentry ranged
from the younger children of the aristocracy,
excluded from inheritance, to minor nobility,
absorbing the rising middle class, formed by
the richer merchants and yeomen, eager to
rise socially. In The Past and the Present Stone
even more openly describes an alliance of
common lawyers, gentry, Puritans and the
merchant community15. Educated at Oxford
and Cambridge, this rising class was no
longer tied by allegiance to the nobles, but
to the counties, to regional forces and the
defense of their rights in Parliament. Their
socio-political awareness grew along with
their culture, as with a spreading of juridical
knowledge and the successful development
of the common law, connected to one specific
institution central to its formation: the
London inns of court16.
Great collegiate institutions, alimented by the
growing prosperity of the gentry, by merchants
and yeomen (in spite of complaints about the
���������������
Ibidem, p.95.
������������
L. Stone, The Past and the Present, Routledge & Kegan
Paul , London, 1981, p.187 and passim.
�����������������������������������������������������
Born as voluntary unincorporated associations from
groups of practicing lawyers, who clubbed together to
provide themselves with lodging houses and offices,
the inns of court had turned by 1400 from professional
fraternities into teaching institutions. The four great
inns, Lincoln’s Inn, Inner Temple, Middle Temple and
Gray’s Inn, offered study and training in common law, as
distinguished from lesser preparatory inns of chancery.
The educational revolution in Elizabethan and early
Stuart England, connected to the demographic upswing
which reached a peak in the middle of the reign of
James I, brought about their growth: between 1500 and
1600 admissions to the inns quadrupled, Gray’s Inn, in
particular, enjoying twice as many students as any other
house. Students were admitted at an age between 16 and
20, to gain two or three years seniority, then attended
university at either Oxford or Cambridge and came
back actually to attend the inns.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
27
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
intrusion of lower classes), the inns soon became
“the nurseries for the greater part of the gentry
of the realme”17. They provided talents with the
ladder on which to climb to power and riches,
ensuring social mobility. As Erasmus pointed
out, there was “no better way for an Englishman
to attain fame and wealth than by becoming
a common lawyer”18. While the universities
trained civil lawyers19 and taught in Latin,
the inns taught the common law, of Norman
codification, which required a mixture of Latin
and “law French”. Common lawyers acted not
only as legal experts, but also as accountants,
brokers, financiers and land agents, as there was
no specific institution for economics.
The inns provided not only legal training
but also a good conventional gentlemanly
education, combining the law, as useful for
landowners as for future professionals, with
lessons of fencing, dancing and music. Thus,
they appealed to the sons of legal dynasties
and to future peers, but also, provided they
could pay the fees, to merchants and yeomen,
men of bourgeois or small farmer stock,
whose sons, if admitted to study the law,
would be called “Masters” as a first mark of
social growth20. Relations with the London
merchant oligarchy were close and cordial:
many lawyers intermarried with London
mercantile families.
The organization of the inns was based
on three levels: the students, the barristers
and the benchers and rulers of the inns, who
conferred qualification for audience in the
high courts, choosing from their barristers.
Typical students’ exercises were disputations,
“case-putting”, “moots” or doubtful cases,
arguments etc., but they also included a cult of
wit, incessant versifying, theatre-going, as the
theatres were not far away and helped develop
linguistic training: language ability was sought
after as coinciding with social mobility (which
������������
W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early
Stuarts (1590-1640), cit. p.20.
����������������
Ibidem, p.21.
������������������������������������������������������
For the Chancery, the Admiralty Court, the Court of
Requests and ecclesiastical courts.
������������
W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early
Stuarts (1590-1640), cit. p.23.
issn 2035-584x
is indeed ironically mirrored in The Merchant21
as in the cemetery scene in Hamlet). Gaming
or unrestrained expenditures on clothes and
extra consumption attached to a gentlemanly
education often led young men, far from home
and family, to debts and even economic ruin:
more than one Bassanio would have studied
at the inns and been part of Shakespeare’s
audience, whose front rows would be filled
by students who would actively participate
in all the situations (social, economic, legal,
emotional) represented in the play. As during
termtime presences at the inns could amount
to about 2000 and “the passion for play-going
among members remained a stock literary
joke”22, it is reasonable to assume that inns
of court attendance could offer Shakespeare a
reference audience, as must have been the case
at least for his two so-called “legal plays”, The
Merchant of Venice and Measure for Measure.
Immediate allusions to such an audience are
not lacking indeed in The Merchant: they range
from Lancelot’s playful social pretensions with
his father when he styles himself as “Master
Lancelot” (we have seen the social meaning of
the term “Master” at the inns), to his extravagant
and defiant use of wit with Lorenzo; or from the
links between law and economy in the play, to
the traits of the well-educated but impoverished
young ‘scholar’ Bassanio, as of course to the trial
scene and Portia’s devices as a lawyer.
The educational revolution also brought
about the political growth of the counties. They
assumed a symbolic cultural meaning as an
ideal opposite to city or court life. The county
meant a rural world and country houses, a
kind of Arcadia healthy, green and blessed by
beautiful landscapes, trees and birds, as in the
description of Portia’s Belmont in The Merchant,
contrasted with the city or court, polluted
by over-crowding or by political intrigue. In
Stone’s analysis, this outlook nurtured the
so-called “Country ideology” (which would
����������������������������������������������������
See Lancelot’s wit with Lorenzo in 3.5,45-59 (the
reference edition of The Merchant of Venice used is the
1994 Oxford University Press one, edited by Jay Halio).
�������������������������������������������������������
Of one Edward Heath we know that in the mid-1620s he
attended 49 plays in a year and a half (Prest, The Inns of Court
under Elizabeth I and the Early Stuarts (1590-1640), cit. p.155).
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
28
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
later give rise to a party) and was, in the late
Elizabethan years and early Stuart period, one
of four currents of thought ‘resisting’ court
and crown. The other three were Puritanism,
the common law (with Edward Coke as its
champion) and “skepticism” (or relativism),
represented by Bacon’s philosophy and, we
may add, by Montaigne’s Essays (translated by
Florio and evoked in Shakespeare’s plays at
least since Hamlet). These currents of thought
converged in establishing the “prerequisites”
for the 1642 revolution against the king.
Within the wider social frame, Stone’s
description of the Country ideology in particular
reveals a peculiar interplay of cultural changes
ranging from ethics to economy. It stressed
such aspects as “being thrifty”, “responsibility as
employers of domestic labour”, ethical pride, and
reference to the bench of justices, all of which are
evident in The Merchant, as attached to Shylock:
“The third component in the mentality of the opposition
wastheideologyofthe‘Country’.Spreadbypoetsandpreachers,
and stimulated by the news letters about the goings-on at
Court, it defined itself most clearly as the antithesis to this
negative reference group. The Country is firstly an ideal.
It is that vision of rustic arcadia that goes back to the
Roman classics and which fell on the highly receptive ears
of the newly educated gentlemen of England who had
studied Virgil’s Georgics at Oxford or Cambridge. It was a
vision of environmental superiority over the City. [...] It
was also a vision of moral superiority over the Court: the
Country was virtuous, the Court wicked; the Country was
thrifty, the Court extravagant; the Country was honest,
the Court corrupt [...] secondly the country is a culture and
style of life, again defined as much by what it is not as by
what it is. As its name implies, it stood for rural residence
in a country house, as opposed to living in rented lodgings
in London; for the assumption by the owner of paternalist
and patriarchal responsibilities as employer of domestic
labour, dispenser of charity, landlord of tenants, and
member of the bench of justices”23.
In The Merchant of Venice the connections
linking the rising gentry with the new
economy, the Country ideology and the legal
environment, appear well evident. The nobles
are far from being the protagonists, as usually
elsewhere in Shakespeare: indeed, when they
do appear, it is only to their disadvantage, as
with Portia’s discarded suitors, about whom
������������
L. Stone, The Causes of the English Revolution 1529-1642,
cit. pp.105-7.
issn 2035-584x
her comments are constantly disparaging. A
Neapolitan prince, a County Palatine, a French
lord, a young baron of England, a Scottish
lord, the Duke of Saxony’s nephew, described
as departing, and then the Prince of Morocco
and the Prince of Arragon, acting on stage, are
not simply queuing up to emphasize Portia’s
appeal: they represent a whole range of the
international aristocracy of the time and are
all equally and ironically found inadequate by
Portia. She judges them not by their ascriptive
qualities, like titles or aspect, but by their
personal qualities, or ‘character’: or rather
“complexion”, the term Shakespeare uses for
the first of the suitors appearing on stage, the
Prince of Morocco. Morocco happens indeed to
be a foreigner with a brown skin, which helps
attenuate in naïf eyes the daring discarding
of aristocracy he actually introduces, while
the more sophisticated ‘rising gentry’ would
quickly recognize in Portia’s irony with all
her noble suitors their own self-pride in
acquisitive qualities and their socio-ideological
antagonism to nobility.
As for the term “complexion”, it is used four
times in The Merchant and its first meaning
was then character (a person’s complex sum
of qualities or “complexion”) and did not refer
only to skin as it does today24: not a race problem
�����������������
The meaning of complexion (used in The Merchant
four times) is in Webster as follows: “1. originally the
combination of the four humors, or the qualities of
cold, heat, dryness and moisture, in certain proportions
believed to determine the temperament and constitution
of the body. 2. the temperament or constitution. 3.
the color, texture and general appearance of the skin,
particularly of the face. 4. the general appearance of
anything; aspect; character; nature. Portia’s words after
Morocco has failed the test, “Let all of his complexion
choose me so”, have been considered racist by some
critics, as if resuming Morocco’s own previous use of the
term, unequivocally referring to his skin. But the term
complexion also appears in the play once before and once
after these two cases, the last use being unequivocal
in the sense of character: Jessica’s elopement in 3.1,279 is compared by Solanio to the migration of birds,
“the bird was fledge; and then it is the complexion of
them all to leave the dam”. A similar use referred to a
rebellious personality, and not to skin, is attached in
the first scene of The Tempest to a boatswain impatient
with social subordination, on board a ship ready to sink
(“his complexion is perfect gallows”, 1.1,29). Portia’s
mentioned use seems ironically to correct Morocco’s
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
29
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
but a social class and personality evaluation
problem hovers over the whole suitors’ scene
in the play. Hence Portia’s ‘mass disapproval’
of her aristocratic suitors and the elaborate
psychological nature of the casket ‘personality
test’, which is based on the opposition between
two verbs, taking and giving in marriage: that
is between marriage as social acquisition or as
reciprocal human and emotional exchange25.
By contrast Bassanio – who has no aristocratic
title, as the play emphasizes by ironically
styling him Lord Love – is simply a scholar and
passes the love test.
The rising gentry’s acquired qualities of
education, stressing individual identity rather
than inherited attributes, combine here with
the ideology of the elective couple, as opposed to
aristocracy’s tradition of dynastic marriages. In
fact all the protagonists of the play belong to a wellto-do untitled bourgeosie. Everything pertaining
to Portia and Bassanio points to this status: no
title is attached to Portia’s fabulous wealth and
her Belmont country seat; her connections are
with the professional classes, represented by
her cousin, a famous Paduan lawyer, whom she
successfully imitates by playing a lawyer in the
trial scene; she shares with Bassanio both the
ideals of learning and scholarship and the ‘gentile’
life style which Bassanio insists in preserving,
even though it means borrowing from Antonio,
who stands for the mercantile class. Lorenzo and
Gratiano, Jessica and Nerissa represent lower
strata of the same gentry.
anxiety at her possible dislike of his skin, acutely aiming
instead at his personality, made evident in his boasts as
a Mars entitled to his Venus for his military heroism. In
fact we have seen that Portia evaluates all other suitors on
the sole basis of their character. Ironical ambiguity also
invests the remaining use of complexion in the play, in
Portia’s first remark on Morocco, before she sees him:
“If he have the condition of a saint and the complexion
of a devil, I had rather he should shrive me than wive
me” (1.2,127-8). This may be construed as meaning “had
he the (sexual) character of a devil (black men were
deemed to be fierce lovers: see in Othello), although
socially behaving like a saint, I would prefer to inhabit
his sanctuary than accept sexual excess as his wife”.
�����������������������������������������������������
There is no room here for a proper analysis of the
love plot, the casket scene and Bassanio’s position
between Antonio and Portia, which add greatly to the
complexities of the play.
issn 2035-584x
Within the so-called rising gentry there
were, indeed, different social components
and attitudes to money, introduced in the play
not without tensions, as between Shylock and
Antonio. In fact, there is an ideological split,
as two moral outlooks regarding property
are highlighted. One is Shylock’s thrift (a
characteristic which we have already seen as
attached to Country ideology), the other is the
prodigality of renters, who considered money
and estate only as a means for high quality
life, to be shared with friends, relatives or
even in part with domestics: this position is
represented by both Bassanio (who is generous
even to Lancelot) and Portia, who are imitated
by Jessica and Lorenzo and admired by Nerissa
and Gratiano. As for Antonio, he becomes
heavily indebted just to help Bassanio in his
marriage suit, apparently unaware of money
or investment risks, as liberal-minded as
Bassanio, virtually an aspiring renter26.
�����������������������������������������������������������
In Venice in the sixteenth century gentrified inheritors
of the merchant class were indeed turning into rentiers or
professionals, anxious to distance themselves from their
unfashionable mercantile connections. The play mirrors
both the Venetian and English abhorrence of money
dealings connected with the gentleman, which explains
Antonio’s strange detachment from money matters,
while for her lawyer’s fee Portia refuses to be paid with
more than a ring, anxious to shun “a more mercenary
mind” (4.1,414). Money was necessary to be fully human
and free and to imitate, in Renaissance terms, the Roman
virtus, but it was still often considered better to inherit
it than to earn it, to spend it ‘liberally’ rather than be
‘thrifty’ like Shylock. An example of what was happening
in Venetian society at the time (and similarly in English
society, which looked at Venice with admiration) can
be provided by a Venetian pamphlet, dedicated in 1570
by Girolamo Cappello to cardinal Giovanni Grimani,
to whose family Cappello belonged. Here, this young
graduate from the University of Padua celebrates landed
property as the necessary basis for human dignity and
virtue. Surprisingly, against his own family’s past and
against centuries of Venetian mercantile tradition, he
rejects the figure of the patrician merchant, because
commerce, aiming at ‘making money’, “vile et sordidum
est”, is vile and dirty. In Venetian society merchants
used to sea-voyaging and seeking profit were becoming
landed country gentry, living in elegant villas on
reclaimed lands. (See Gino Benzoni, “Comportamenti e
problemi di comportamento nella Venezia di Giovanni
Grimani” in Irene Favaretto and Giovanna Luisa
Ravagnan editors, Lo Statuario pubblico della Serenissima,
Venezia, 1997, pp.21-22). In England, as Stone points out
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
30
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
3. Shylock’s Double Split
If a reckless renter’s use of money was
closer to the aristocratic tradition, the thrifty
one would better appeal to professionals
living off their work, or to severe Puritans,
both connected with the new economy which
was changing Renaissance Europe, where the
Medici had built their fortune as bankers and
had become art patrons to hush Christian
church resentment against their practice
of lending money at an interest. The new
economy was based on careful budgeting,
expenditure control or parsimony, profit
and investment, personal ability and work
contracts, as opposed to inflated prestige
expenditure, based on a combination of
inheritance and a debt economy, social
hierarchy exploitation and scarce attention to
gain or budget.
This economic contraposition is carried
on by Shylock, who, when on stage, is seen
not as imposing high rates in money lending,
but rather proudly insisting on his economic
awareness. From beginning to end he is a
champion of thrift, which would not be received
equally by all components of the contemporary
audience, but would appeal to social sections
sharing the Country ideology or Puritan
values and to part of the inns of court students
and professionals: in fact, the term “thrift” is
insistently disseminated throughout the play
and Shylock’s predicament in the plot seems
particularly designed to stress the opposing
economic ideologies.
Bassanio, a profligate impoverished
scholar, though already heavily indebted with
his friend Antonio, does not hesitate to ask
him three thousand ducats stylishly to court
and try to marry the beautiful rich woman he
is in love with, Portia. Antonio, in his turn, is
ready to help his friend of whom he is all too
fond. But in spite of his proud position as a
“royal merchant” of Venice, whose “argosies”
in The Crisis of the Aristocracy 1558-1641, Oxford University
Press, Oxford, 1965, the merchants were long considered
socially inferior to the landed gentry: land-owning was
the prerequisite to sit in Parliament as a representative,
or for an official post. It was only in 1906 that a man from
the working class could join the government. (p.43)
issn 2035-584x
sail throughout the world, he appears unable
to raise the necessary amount of cash, except
by borrowing money from Shylock, while
at the same time despising him for acting
as a bank. Yet, far from trying to profit in
the transaction, Shylock gives the money
at no rate of interest, borrowing part of it
himself from his Jewish friend Tubal: but on
condition that he and Antonio underwrite a
bond, the penalty of which, in case of default,
would be a pound of Antonio’s flesh. No greed
for money here pushes Shylock: he is in fact
trying to force Antonio to admit that money
and life are one, that his economic role as
money lender is useful and not to be vilified
and heavily scorned, as Antonio publicly used
to do. Nor does it appear likely that a rich
merchant like Antonio would not be able to
pay back in three months’ time. When Antonio
actually fails to do so, two unforeseeable
events have happened that turn the “merry
bond” into a dangerous revenge device: none
of Antonio’s many ships has yet come back, all
of them being apparently lost, and Shylock’s
only daughter has eloped to marry Antonio’s
friend Lorenzo, denying her father and faith,
to become Christian like her husband. She
has also taken with her the family jewels,
including the marriage ring Shylock had
given her dead mother, which he particularly
cherished. To enforce the bond then becomes
for him a tragic form of justice, which Tubal’s
comments and Antonio’s scorn and cultural
counter-positions push him to and resorting
to common law makes legally possible27.
Before the plot develops to Shylock’s
prosecution of Antonio for the bond, the Jew’s
����������������������������������������������������������
Apart from prejudices voiced by others, the one passage
in the play which might confer Shylock a murderous
intent on first proposing the bond is Jessica’s words in
III, 2 282-8 : “When I was with him I have heard him
swear/ To Tubal and to Chus, his countrymen,/ That he
would rather have Antonio’s flesh/ Than twenty times
the value of the sum/ That he did owe him; and I know,
my lord, / If law, authority, and power deny not,/ It will
go hard with poor Antonio.” But Quiller-Couch and
Dover Wilson (Cambridge edition 1953) and Halio after
them (Oxford Edition 1993) observe that Jessica’s jarring
words remain strangely unheeded, as if unrelated with
the dialogue going on: which suggests interpolation, if
so with obvious interpretative intentions.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
31
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
economic outlook is repeatedly explained. In
his first appearance on stage Shylock imparts
Antonio a lesson in economics which the latter
does not understand. To justify his position
as a money lender, Shylock evokes the Laban/
Jacob episode in the Bible (Gen.27), proposing
Jacob’s ability in cunningly getting more sheep
than expected from Laban as an example of
effective enterprise. He insists on an idea of
money as “breeding” or producing profit,
against the traditional Christian viewpoint,
which considered money as necessarily “sterile”
or fruitless, according to the principle that
“pecunia non parit pecuniam”, money does not
beget money. But Antonio, though a merchant,
sees Jacob’s success only as a case of inscrutable
Divine Providence. In an aside, Shylock better
explains his economic-ideological grudge
against Antonio, who “rails” against “my wellwon thrift, which he calls interest” (I,3,47-48):
the contraposition between “thrift” as a value
and “interest” as despicable is central in the
ideological debate of the play.
References to the “thrift issue” are recurrent28:
even Lancelot is by Shylock disparaged as “an
unthrifty knave”, while in 2.5,36, Shylock is “by
Jacob’s staff” proud of his “sober house”, as shortly
later of his “thrifty mind”. Shylock’s economic
criticism of Antonio as a “prodigal Christian”
(2.5,15), “a bankrupt, a prodigal” (3.1,41-2), or
“a fool that lent out money gratis” (3.3,2) and
again “a bankrupt” in 4.1,121, appears even more
pronounced than his grudge at Antonio’s social
disavowal: this is indeed the very core of their
opposition, which is not that of a miser to a
“royal merchant”, but rather of a new economist
to an aristocratically-minded or else a medieval
merchant, who seems to ignore all banking
problems and investment risks. Moreover, there
are other traits in Shylock pointing to advanced
socio-economic awareness.
Shylock’s careful dealing with the salary
problem, staged in his relationship with
his servant Lancelot (still meaningfully
uncertain between faithful feudal subjection
����������������������������������������������������������
For the terms “thrift, thrifty” of “unthrifty” the list
includes 1.1,75; 1.3,47 and also 87 and 173; 2.5,1 and 54; 5.1,16.
Moreover see the use of “sober” in 2.5,36; of “prodigal” in
2.5,15 and 3.1,42; and reference to money in 3.3,2 and 4.1,121.
issn 2035-584x
to a master and a work contract), suggests his
economic awareness of the need for a labor
market. Unsatisfied with Lancelot’s service,
he dismisses him, but arranges for his passing
to Bassanio’s service for a better salary he is
not ready to grant, aware of a worker’s right
to choose. But, at the same time, he tries to
stimulate Lancelot to learn by comparing his
own thrift with Bassanio’s profligacy29.
Later Shylock denounces slavery as illicit.
His concept of thrift, free labor market and
everyman’s reason and capability of judgment
will become the rule in the western world, as
will the abolition of slavery: aware of a need for
banking, risk evaluation and business fair play
as for labor contracts, Shylock does not stand
for old usury, neither does he impersonate the
usurious miser deemed by Solanio, Salario and
Salarino. Aptly named by a critic as the “three
Sallies”30, these characters interchangeably
represent the racist anti-Semitic opinion current
at the time at popular level, but not a culturally
dominant attitude in the higher and in the
professional classes. While the Sallies’ scornful
descriptions of Shylock after Jessica’s elopement
interpret the miser’s frenzy of their imagination
we do not see on stage, Shylock actually always
appears on stage as dignified, a severe Puritanlike man of principles. He mirrors throughout a
set of values which were often shared by the new
Puritan culture, based, like Jewish culture, on
the Old Testament rather than the Gospels and
implying a connection, if not correspondence,
between economic success and salvation, as
later emphasized in Max Weber’s The Protestant
Ethic and the Spirit of Capitalism (Die protestantische
Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1905).
At stake are, with the moral aspects of the
economic rights and usage of money and estate,
what are called in the play “life props”: the
coincidence between money and life itself or
actual flesh, as signified not only in the pound of
flesh bond, but also in the slavery/property issue
raised by Shylock during the trial, and again when
��������������������������������������������������������
In 2.5,1-2 Shylock proudly addresses Lancelot: “Well,
thou shalt see – thy eyes shall be thy judge – / The
difference of old Shylock and Bassanio.”
�������������������������������������������������
See Jay Halio’s Introduction to his edition of The Merchant
of Venice, Oxford University Press, Oxford, 1994.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
32
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
in 4.1,370-3 he refuses to survive if deprived of all
his means. This position Antonio himself is later
forced to acknowledge: economic means and
life are one and the same thing and life might
well be taken away if the economic means for
it are taken away (4.1,264-69). Through parallel
experiences this awareness can be finally shared
by both Antonio and Shylock, who had started
out from opposite economic viewpoints. In
fact Shylock’s economic issue was linked with
Shakespeare’s own scarcely considered (usually
ignored) personal background.
As Kornstein rightly recalls – only in the
general introduction to his volume, to justify
Shakespeare’s experience with law, on which
he builds his study, but strangely not later in
his specific analysis of The Merchant of Venice,
where it would have been directly relevant for
interpretation – Shakespeare’s father had been
tried at court twice in 1570 “for breaking the
usury laws by lending money at 20% interest”31.
This socially equated John Shakespeare with
Jews, and in the play with Shylock. A similar
practice would not be unknown at the time to
Catholic recusants, as well as to other religious
groups excluded, like Jews, from public office,
and, therefore, inclined to cover the absence of,
and socio-economic necessity for banking, by
risking their money in lending it at higher rates
than legally allowed. John Shakespeare was
actually a Catholic recusant, as was at least one
of William’s two daughters, while Shakespeare’s
career made of him part of the rising gentry.
Three social cultures seem in fact to interact
in the play on the economic issue: the Christian
shame connected with interest raising involves
both lower and higher social strata, introduced
as attached to both the Sallies’ popular contempt
for Jews and the “noble”, “royal” Antonio, or
to Bassanio, imitating an aristocrat economic
model. But these two ‘money cultures’ cede to a
third attitude, a middle class professional one,
represented by Shylock. This is ironically hinted
at by rich Portia’s lofty refusal to be paid as a lawyer
and finally appropriated by Antonio himself,
when on the verge of ruin he shares Shylock’s
equation “money is life”, and when, like a skillful
������������������������
See Daniel Kornstein, Kill All the Lawyers? Shakespeare’s Legal
Appeal, Princeton University Press, Princeton, 1994, p.16.
issn 2035-584x
equity lawyer, he provides with legal means for
Jessica’s and Lorenzo’s economic future.
Shylock, though, not only faces an ideological
split on economics. He is also involved in a second
and overlapping split, a complex legal one. This
fully involved the described ambience of the inns
and again makes awareness of specific aspects
of the context necessary before re-investigating
Andrewes’ analysis of the trial scene.
In the 2004 reprint of Basil Brown’s 1921
Law Sports at Gray’s Inn (1594)32, Francis Bacon,
then a law student at Gray’s Inn, appears to have
organized the 1594 Law Sports at the inn, including
the Gesta Grayorum, in which the speeches of six
councilors were written by him. The performance
was attended by the Queen herself and among
the outstanding personalities present there were
the Earl of Essex and the Earl of Southampton33,
Shakespeare’s patrons. Shakespeare’s Comedy of
Errors was also performed in the same year at Gray’s
Inn, possibly as a portion of the Law Sports, and, in
the same year, Shakespeare appears first attached
to the Lord Chamberlain’s Players. From this
concomitance and a number of other details, Basil
Brown conjectures that it was Francis Bacon who
introduced Shakespeare to London as he fled from
Stratford: “without his shelter he would have been
classed as a vagabond and a masterless man”34.
At the time Bacon was relatively poor, out
of the Queen’s favour, tormented by law suits
for debts, particularly in 1597 and 1598, usually
solved recurring to equity, as was the case with
his dear brother Anthony Bacon, also a student at
law. Secretary and close friend of Essex, Anthony
Bacon survived Essex’ execution in 1603 by
only three months, his attachment to Essex
bringing to mind Antonio’s love for Bassanio,
their names coinciding35. To disparage Francis
with the Queen, in 1601 Coke insulted him in
the Exchequer alluding to his early poverty and
to a writ of capias utlegatum against him for
debts36. Models for Shakespeare’s Bassanio or
���������������
Basil Brown, Law Sports at Gray’s Inn (1594), privately
printed by the Author, New York 1921, re-print edition
by The Lawbook Exchange, New Jersey, 2001.
���������������
Ibidem, p.IX.
������������
Ibidem, p. XXXIX.
������
�������������������������
Ibidem, p.LXI and p.67.
��������������������������������������������������������
Ibidem, pp.34-35. This has been traced to a 1597 debt
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
33
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Antonio were not lacking at the inns: they were
close to the author and in a sense ‘binding’.
Inthesameyear1594inwhichBaconorganized
the Law Sports at Gray’s Inn, Elizabeth appointed
Edward Coke Attorney General in preference
to Francis Bacon, whose fortune Essex was in
vain trying to promote, which engendered long
hostility between Coke and Bacon37, coinciding
with an opposition between the common law,
defended by Coke, and equity, fostered by Bacon
and Egerton. For Coke, the Chancery could not
act as a court of appeal annulling judgments. The
problem was long standing.
Since about 1330, when Edward III
allowed his Chancellor to hear cases which
the rigid judges of common law would not
hear, two separate and different systems
of jurisprudence existed in England. The
common law courts acted in rem on the
property of the litigants; the equity courts
acted in personam on the person of the
litigants. A conflict soon arose between
these courts, and there followed a struggle,
which lasted approximately three hundred
years. The effect was that if a litigant, say
Mr A, went into a court of common law and
obtained a judgement against Mr B, then Mr
B could go to the Court of Chancery and, if
the Chancellor thought that the judgement
against him was inequitable, he could
obtain a decree in his favour. In such a case
Mr A could not enforce the judgement in his
favour, say on a bond, a debt or a covenant,
without incurring the charge of contempt of
court with regard to the Chancellor’s decree
and being sent indefinitely to jail for it. The
problem had been increasing all the time
and “by the reign of Elizabeth (1558-1603)
literally hundreds of cases were recorded
with William Johnson of Gray’s Inn: “Bacon was outlawed
after judgement and a capias utlegatum was delivered to the
sheriff in court. And now Bacon brought error…quod contra
legem.”(pp.44-5) and somehow escaped the danger.
������������������������������������������������������������
Edward Coke (1552-1634), was a lawyer’s son, had attended
a chancery inn for a year, then Cambridge and Lincoln’s Inn. In
1606 James I made Coke chief justice of the Court of Common
Pleas, and six years later chief justice of the King’s Bench. But
in 1616 he allowed Bacon, allied with the Lord Chancellor
Egerton, to win the legal battle in favor of “the precedency of
the Chancery”. On Egerton’s death Bacon succeeded him.
issn 2035-584x
in which one litigant had a judgement in his
favour and the other litigant had a decree in
his favour, in the same controversy”38.
By 1598, the date when The Merchant of
Venice was entered in the Stationer’s Register,
Edward Coke (future judge of the Court
of Common Pleas), Lord Ellesmere (soon
to become Lord Chancellor of the Court
of Chancery) and Francis Bacon were all
members of the inns of court. In that year
the common law/equity contraposition “was
referred to all the judges of England assembled
in the Exchequer Chamber. Coke participated
in the arguments, which went through all the
grounds which were to be raised in 1616”39,
when a settlement was reached. The moment
had been building up and was tense.
The social reference frame here described
shows how Shylock’s trial dramatized legal
problems which touched Shakespeare’s friends
or patrons (Essex, Anthony and Francis Bacon),
while working up to a peak in the history of
the country and of the English legal system,
which would later lead to the 1616 solution.
Moreover, like the economic issue of the
play, its legal split also touched Shakespeare
personally and, once again, his own father.
If John Shakespeare had found himself in
Shylock’s economic predicament, he and his
son had also found themselves in Antonio’s
position as a debtor and as defendant in
common law suits for debts. A lawsuit with
Edmund Lambert, John’s brother-in-law,
had started in 1580 and lasted twenty years.
John had borrowed 40 pounds from Edmund
Lambert, mortgaging 44 acres of land in
Wilmcote, owned by John’s wife; but on the
payment date Edmund had refused to accept
the money unless John’s other debts to him
were paid, and he claimed default. In 1588-90
John sued Lambert again to win back what
would be William’s inheritance; then the
parties apparently reached a settlement40.
But in 1597 the John Shakespeare versus
Edmund Lambert case was reopened:
�����������������
M. A. Andrews, Law versus Equity, cit. p. XI.
���������������
J. H. Baker, The Legal Profession and the Common Law,
cit. p.208.
����������������
D. Kornstein, Kill All the Lawyers?, cit. pp. 16-17.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
34
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
William sued Edmund’s son in the Court of
Chancery, expecting better luck at equity. In
1599 the case was finally settled, but William
never recovered the land lost by his father,
as Kornstein notes in his Introduction41, yet
forgets when discussing The Merchant, which
was presumably written in 1597 and staged
in 1598. Both the national conflict between
common law and equity and Shakespeare’s
own litigation were impending while the
author was engaged in writing the play.
Given this background, a degree of
identification is likely to have involved
Shylock, but, at the same time, the merchant
of Venice himself, Antonio: John Shakespeare
had experienced both roles, as money lender
and as debtor. Shylock’s defense of the
economic meaning and necessity of thrift
or interest could well be a defense to redeem
John’s ‘Jewish-like usury’, as many would have
called it. This may well be relevant to the choice
of an English name for Shylock, the more so
as interest raising was indeed practiced by
many Englishmen in London and these were
not isolated private problems, but basic social
ones, widely shared by what Lawrence Stone
has called “the rising gentry”, staged in the play
with a number of its different components.
Before analyzing the confrontation between
common law and equity in the trial scene, one last
preliminary question is now left as to the way in
which Shylock, thus charged with a double split,
economic and legal, would be received as a Jew
by the inns of court section of the audience.
The alliance between common law,
Puritanism and Hebraism, fostered by Coke
or by his friends at Gray’s Inn, later attachable
to the distinguished jurist and Hebraist John
Selden (1584-1654), and then to Cromwell,
was incipient. Selden considered equity
“roguish”42.
From 1571 to 1578 the reader of divinity at the
Temple Church, common to the Inner and the
Middle Temple, was a protestant Spanish Jew,
Antonio de Corro, who had influential backers
���������������
Ibidem, p 17.
42 J. Selden, Table Talk (1927 ed.), p.43, in J. H. Baker, The
Legal Profession and The Common Law, The Hambledon
Press, London, 1986, p.228.
issn 2035-584x
like the earl of Leicester, “patron-in-chief of
the Puritans”43. Jews would be later favored
by Cromwell and practically readmitted to
England after a banishment of centuries by
the Puritan revolution44. An ideological line
headed by Coke was developing, connecting
common law, Puritans, Hebraism and Jews,
while another ideological line seemed to
connect equity and what Stone has termed as
“Bacon’s skepticism”, but might equally well
be called relativism (a concept insisted on in
The Merchant of Venice in Act 5.1,89-108).
Bacon was close to Essex and Southampton,
Shakespeare’s patrons, who, as pointed out by
Trevor-Roper, were a point of reference for the
country gentry as opposed to the Court45. The
trial in The Merchant does not therefore only
dramatize the common law/equity or Coke/
Bacon opposition, envisaged by Andrewes, who
rewrites the 397 lines of the scene in a closely
parallel prose, imagining it as occurring in
London as a double trial, first before Coke and then
Egerton. It also stages a larger ideological split,
in which common law and “puritanized Jews”
or “judaizing Puritans”46, in a sense combined
forms of ‘rigidity’, were allied against Baconian
relativism and equity. The latter were two major
values to Shakespeare, at the time addressing the
Chancery in the hope of solving the major law
suit in his experience of litigation.
Shakespeare could only be aware that to the
inns of court audience a Puritan-like Jew on
the side of common law and thrift like Shylock
would appear to stand for Coke and a respectable
position. Now the first crucial question – did
not Shakespeare realize the risks of an anti������������
W. Prest, The Inns of Court under Elizabeth I and the Early
Stuarts (1590-1640), cit. p.190.
���������������������
James Shapiro, cit.
��������������������
See Trevor-Roper, The Gentry 1540-1640, “The Economic
History Review Supplements”, Cambridge University Press,
London and New York, 1953, p.32. Though partly in contrast
with Stone, Trevor-Roper, who calls Cromwell’s revolution
“The Great Rebellion”, admits that “The difficulties of
the excluded Elisabethan peers led to the brief inglorious
rising of the Earl of Essex” and that “the gentry not only
gave substance to that abortive rising: they continued far
beyond it and led directly to the Great Rebellion”.
��������������
J. Shapiro, Shakespeare and the Jews, Columbia University
Press, New York, 1996, pp. 20-21.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
35
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Semitic interpretation obscuring the complex
issues at stake in the play? – can find an answer:
to an inns of court audience the text would be
as stimulating as evident in its issues as would
Shylock’s economy and the play’s siding with
the rising gentry, or its meaningful insistence
on thrift; while the Sallies or Gratiano (who is
not casually described as not a proper gentleman)
would be unappealing to such an audience. In
their eyes, Shylock’s competence in common
law as in economy recommended him, while
his English name could well imply that the Jew
was in fact ‘one of them’.
4. The Trial Scene: Shylock and Equity
Described in its technical aspects by
Andrewes, the trial scene in The Merchant of Venice
was meant to show the full workings of equity
devices, compared to the technical insufficiency
of “remedies” at common law. Common law
judges had recurrently to admit that there were
cases for which there was “no remedy at common
law”, or, as the phrase went in legal French, “il ne
poit avoir remedy per nostre ley”.
The setting of the trial is carefully contrived
to be highly impressive, even sensational,
better to attract attention to its central issue. A
major contemporary legal problem is brought
to bear on a double love plot, in which a psychic
test story (staged in the fabulous terms of
a choice among three caskets imposed on
Portia’s suitors) is interlaced with an intense
attachment between two men, Antonio and
Bassanio, verging on a love and death outcome
(possibly evoking Antonio Bacon’s attachment
to the earl of Essex). With Antonio’s default to
pay his debt on time, the comedy turns into a
potential tragedy, as Shylock is driven to use
his pound of flesh bond to revenge his long
ill-treatment by Antonio, and Jessica’s sudden
elopement with Antonio’s friend Lorenzo,
organized, Shylock thinks, with Antonio’s
help. Bassanio is then torn between his love
story with Portia and his tie with Antonio,
who is ready to die to prove the strength of
his love, emphasizing the latent opposition
between the heterosexual and the homosexual
couple. Portia understands that Antonio’s
issn 2035-584x
death would spoil her marriage to Bassanio,
and decides to prevent it, disguised as a (male)
lawyer at Antonio’s trial. Emotions run high
for the two competing couples and Portia’s
skillful elusion of the social gender division
(which allowed no female lawyers): the legal
problem thus appears staged in a context both
extreme and socially outstanding. It involves
Antonio’s possible dramatic death at law under
Shylock’s vengeful knife, not for lapsing into
an intentional crime, but for Bassanio’s sake,
combined with an unbelievable bad luck with
his ships abroad. At the same time Antonio is an
outstanding merchant of Venice, the Venetian
Duke himself deeply grieving for him, but
impotent to prevent the application of the
law on which the state of Venice depends. The
legal stalemate, thus powerfully worked up,
is then suddenly and surprisingly overcome
by having the common law procedure give
in to a chancery procedure and its elaborate
issues. These finally involve not only the two
litigants, but the future of two of the three
couples forming in the play.
In the scene, Andrewes distinguishes four
phases belonging to two subsequent trials and
procedures. The first phase of the common law
trial (4.1, 1-118) sees the Duke probe Shylock’s
intentions. On his refusal to relinquish the
pound of flesh penalty, even when offered
twice the money borrowed by Antonio, the
Duke appears ready to dismiss the court
adjourning it to wait for Balthasar, the “learned
doctor” from Padua he expects assistance from.
Emphasis is placed by Shylock on a limitless
right of property, even though arisen to either
irrational or ethical extremes. He points out
that, if it pleased him, or “his humour”, he could
well spend ten thousand ducats to have his
house freed of a rat, just as he chooses to refuse
any amount of money – even six thousand
times the money due to him (4.1,84) – rather
than give up Antonio’s pound of flesh, which
he has sworn to have in the synagogue, “by our
holy Sabbath”. He is by common law – indeed
a property law – entitled to his pound of flesh,
just as, he points out, Christians think they are
entitled to the slaves they have bought, using
human bodies “like your asses and your dogs
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
36
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
and mules”, “in abject and in slavish parts”
(4.1,90-1). Here, while indignantly denouncing
slavery, Shylock confirms that the common
law extended to the human body and allowed
no breach in application: “If you deny me,
fie upon your law! There is no force in the
decrees of Venice” (4.1,100-1), which position
is shared by the Venice Duke himself. Thus in
fact, for revenge’s sake, Shylock is ready to use
the very logic of slavery he has descried, while
turning Christian ‘logic’ against the Christians
themselves. At the same time common law
allows scope for such a use.
The revenge issue is an important one, but
in the circumstances given it is not obviously
humiliating for Shylock. It confers on him a
dignified sense of honour, reversing the current
image of the Jewish miser: Shylock is, for moral
reasons, ready to relinquish the money due to
him, which casts off from him the expected
image of covetousness. He prefers to pursue
fruitless redress for offences not enforceable
at law (Antonio’s long-standing scorn and
Jessica’s recent elopement), resorting to the
enforcement of a common law procedure over
a money issue, thus exposing its weak and
dangerous aspects. But this is done highlighting
two important implications.
The first is that Shakespeare is careful to define
the revenge overtones as not Jewish, not deriving
from the Hebrew tradition of Old Testament (as
he might have done, and as for instance Melville
did for Ahab’s thirst for revenge in Moby Dick): it is
rather, ironically, an imitation of Christian values47.
The second is that revenge, as connected with honor
and prestige, was indeed well attached to Venice:
its famous admiral and Duke Sebastiano Venier,
admired in England and throughout Europe for
his success against the Turks in the naval battle of
Lepanto (1571), was also famous for his avenging of
Venetian honor, as he had unhesitatingly hanged
Spanish officers who had belittled it on his ship48.
�����������������������������������������������������������
In 3.1,55-69, Shylock vindicates his human rights in the
famous passage “Hath not a Jew eyes?” (a “declaration of
man’s rights” ante litteram) and comments “If a Jew wrong a
Christian, what is his humility? Revenge. If a Christian wrong
a Jew, what should his sufferance be by Christian example?
Why, revenge. The villainy you teach me I will execute, and it
shall go hard but I will better the instruction.”
��������������������
See J.J. Norwich, A History of Venice, Random House,
issn 2035-584x
At the same time, Shylock’s attack on slavery
is meant to confer on him ethical status and
win consent in some social areas, confirming
Puritan qualms on the subject, though
common law was to exclude slavery only at
the beginning of the 18th century. Shylock’s
qualities, both moral and economic, would
thus appeal to a large part of the inns of court
audience, the more so as Shakespeare avoids
all absurd pretences of physical difference or
allusions to legendary Jewish crimes against
Christians and emphasizes that Shylock’s
difference from a Christian is confined to his
diet and prayers. In fact, the play sees Shylock
repeatedly compared with Christians to his
advantage, as when he alludes not only to
slavery in Christian society, but to the Jewish
concept of marriage contracts (soon to be
studied by Selden), or disparagingly comments
on Christians’ matrimonial lassitude. If, as a Jew
with his profile and an English name, Shylock
would not fare badly with at least a section of
the inns of court audience, his competence
and confidence in common law, inducing
him to take no counsel in the trial, would
recommend him to all inns of court students or
professionals, whose attention would be raised
by a painstaking use of procedural details.
When Portia arrives disguised as young
lawyer Balthasar, accompanied by Nerissa,
disguised as his clerk, she bears the letter of the
famous lawyer Bellario, which the Duke reads.
Its contents are specific: Bellario states he has
studied the “cause in controversy” together with
Balthasar, turned many books (the common law
records) to provide his “opinion”, a technical
term meaning the outcome of his study, and
recommends to have Balthasar admitted at
the bar. Here he acts as the bencher of an inn
of court, who was entitled to choose who
could discuss a case. Portia is then admitted by
the Duke as Amicus Curiae and counsel for the
plaintiff Shylock, and proceeds to identify the
parties (emphasizing that there is no physical
difference between the Jew and the Venetian).
Then the second phase of the trial starts.
Stressing both the “strange nature” of the
suit and the importance of “rule by law”, that
New York, 1989, p.483.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
37
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
is of a “strictum jus” logic (4.1,174-5), Portia
tries, as appropriate in the case, to convince
Shylock to be “merciful”: which does not mean
that Shylock should bow to a superior sense of
mercy in Christian terms, as often intended by
uninformed criticism, but rather that he could
accept to solve such a “strange” and extreme case
without impairing the rule of law, a technical
solution called the “equity of redemption”. If
a debtor’s failure was due to an unforeseeable
cause, independently of his will or control
(for instance he had been robbed of his money
while on his way to bring it punctually),
the plaintiff could allow him the “equity of
redemption”: a solution well applicable to
Antonio’s unbelievable simultaneous loss of all
his ships. The “equity of redemption” was often
used, as Portia hints, “to mitigate the justice
of the plea”, and often accepted as profitable
for the plaintiff, who was entitled to thrice the
money due to him to compensate for the delay.
But this equity device could not be enforced by
the judge in trials at common law: it was based
on the plaintiff’s acceptance to destroy the
expired bond (in one of three alternative ways:
by cancelling, tearing or burning it) and accept
the money in court, or at a new established
date. This solution indeed usually solved a good
number of debtors’ cases. When Portia suggests
such a solution (“take thrice thy money. Bid
me tear the bond”: 4.1,231), Shylock’s answer,
though, appears inflexible, as he has taken
an oath to stick to the law: “I crave the law”
(4.1,203); “Proceed to judgement. By my soul I
swear/ There is no power in the tongue of man/
To alter me. I stay here on my bond” (4.1,237-9).
As already pointed out, Shylock is using the
“rule by law”, or strictum jus at common law, as
a means of revenge, with an evident “strange”
unbalance between Antonio’s default and the
insistence upon his death, for which indeed
“there was no remedy at common law”. The
bond, clearly stated and signed by Antonio before
a notary, could only be considered valid. From
Portia acting as Balthasar, Shylock therefore at
first sees his right to a pound of Antonio’s flesh
recognized, as he has not received back in time
the 3000 ducats Antonio had borrowed from
him: “the law allows it”, “the law doth give it”,
issn 2035-584x
“the court awards it” are the correct formulae
used for judgment by strictum jus and in rem.
When Portia, though, suggests that Shylock
provide a surgeon to assist Antonio, “lest he do
bleed to death” (4.1,255), Shylock again sticks to
the bond, mentioning no such obligation: but by
so doing he proves he is ready to kill Antonio. He
thus provides the evidence necessary to produce
a “writ of error”, with which to start an equity
procedure to contrast the common law course.
Here the second phase of the trial ends and
with it the common law procedure as such:
when Portia starts with her “Tarry a little”,
she actually turns into a chancery lawyer, for
Antonio as plaintiff, versus Shylock as defendant.
Technically she proceeds with a “temporary
injunction”, halting the common law procedure
“for impending injury irreparable” (Antonio’s
possible death), connected to a breach of the
“doctrine of waste”: the bond mentions no
blood, which is therefore not due, but the ‘waste
of blood’ would be likely to kill Antonio49.
When Portia/Balthasar warns Shylock he
must not shed a drop of Antonio’s blood, which
is not included in the bond, she is not producing
a “quibble”, as many critics have deemed: she
rather starts a second trial in Chancery, for
the “cause in controversy” resorting to the
equitable device of the “doctrine of waste”.
Then Shylock cannot enforce the previous
judgement in his favour, as he becomes liable
to “contempt of court”, which would mean
spending the rest of his life in jail or worse.
The “impending injury irreparable” was
a formula meant to protect property rights
from the exercise of opposing property rights,
if these were likely to encroach upon or
damage the property of others. Thus Shylock
is informed he may neither shed blood nor
cut more or less flesh than one pound. When
he backs away, ready to give up the pound
of flesh and take his principal, Portia denies
him this right, resorting to an “estoppel”, as
���������������������������������������������������
Andrewes illustrates the case quoting an example
of injunction granted by the court of equity to stay
irreparable injury regarding the Bush vs Field case.
Plaintiff Bush asked to stay Field, entitled at common
law to restructure his rooms, from pulling down a wall
joining his own house, which might impair his own
property (Andrewes 64).
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
38
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
he had already relinquished the money in the
open court, and proceeds to inform him he
now stands under a new charge. As the equity
court (unlike the common law judge) could
deal with a cross action, reference is also
made to an existing Alien’s Statute.
While at common law the judge could
consider one issue at a time, which could mean
a series of trials, at chancery the judge proceeded
“for all issues”, the aim being to exhaust all
possible legal proceedings at the same time.
According to the Alien’s Statute an alien seeking
a Venetian’s life was liable to lose all his estate,
a half of which would go to the party imperiled,
and the other half to the state, while the
offender’s life would lie at the Duke’s mercy. The
Duke grants Shylock’s life and appears ready to
take only a fine, rather than appropriate half of
Shylock’s goods. When Portia then asks Antonio
“What mercy can you render him?” she does
not again mean Christian mercy, but rather the
so-called “balancing of equities”, inviting him
to follow the Duke’s example.
Then Antonio proposes a further double or
“balanced” reduction of Shylock’s punishment:
he invites the Duke to relinquish even the
mentioned fine, while he himself relinquishes
the ownership of his half of Shylock’s estate,
turning it into a temporary possession, that is
into a kind of trust, or more properly into a “use
after use”50. Which means that, in spite of his own
desperate need for money after his apparent loss
of all his wealth, Antonio refuses to appropriate
the part of Shylock’s riches he would be entitled
to. He will just keep it for Jessica and Lorenzo, as
for their future children to inherit it at Shylock’s
death (not at his own), on two conditions: that
Shylock sign a gift to his daughter of all he will die
possessed of, recognizing her right to choose her
own husband, and that he become a Christian, a
point which will be discussed later.
As the typical equity instrument of the
trust is here used, it should be recalled
����������������������������������������������������
See Andrewes p.74. With the creation of this “use
after use” Antonio obtains first use of half of Shylock’s
estate during Shylock’s life: he is entitled to all of the
income, but not the principal, which he manages
but cannot dissipate and is accountable for, while on
Shylock’s death the use after the first use passes to
Lorenzo, Jessica and then their first child.
issn 2035-584x
that it was meant flexibly to distribute the
benefits deriving from property between the
parties, while the common law could rigidly
assign property to one party only. In fact two
trusts are used in this second chancery trial:
Antonio’s use after use and a trust for what
remains in Shylock’s possession, guaranteed
by the Duke, who accepts this solution and
finally pronounces a decree in personam for
Shylock: “Get thee gone, but do it”.
By juxtaposing the two legal proceedings in
one scene Shakespeare can effectively show the
informed part of his audience the difference
between ‘a strict court’ and justice by equity. As
Andrewes pointed out, if the story had ended
after the first suit, Shylock:
“1.would have cut the pound of flesh off Antonio’s
breast, which the law allowed (“It was axiomatic, at
common law, that, where one held a legal right, he had all
the remedies necessary to a full enjoyment of that right,
for, otherwise, the right itself would be without avail;
a bond under seal could not be impugned for fraud or
violence); 2. would not have been informed of any other
hold which the law had upon him [...], for this would have
raised more than one issue in a suit at common law; 3.
would then have been tried in a criminal proceeding
for his attempt against the life of a citizen and, upon
conviction, his life and half his property would have been
forfeit to the state51.”
Thus Antonio would have first lost his life
and Shylock later both his life and property.
By proceeding with equitable devices,
Shakespeare instead: 1. spared the lives of
both the litigants; 2. provided for each of them
and for Shylock’s heirs the means or estate
necessary for their social survival; 3. created
a case for public debate, while solving all the
striking problems raised in the plot.
Some have objected indeed to the very
mention here of the Alien’s Statute. Apart
from the possible importance of such a Statute
in Elizabethan England, open to Spanish and
Catholic dangers at a time of religion wars
(suffice it to consider what was happening
in the France of Henry IV), the Alien’s Statute
fully proves the potentialities and advantages
of the equity procedures. Only these allowed
the simultaneous treatment of all issues
connected to a case and consented the so���������������
E. J. White, Commentaries on the Law in Shakespeare,
p.141, in M. E. Andrews, cit., p.77.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
39
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
called “balancing of the equities”. Besides,
Antonio is offered the chance to “accept
Shylock” (countering Gratiano), and become,
against his long prejudices, an agent of the
Jew’s social integration, and of Jessica’s rights
and ‘elective couple’ choice, confirming the
‘un-racist’ acceptance of integration which
Lancelot had laughed at answering Jessica’s
anxiety over the matter52.
Yet one major point is still left unconsidered:
Shylock’s forced conversion. First it must be
noticed that Shakespeare imposes it through
Antonio, all of a sudden, ex abrupto at the last
moment and with no comment, obviously
obeying Elizabeth’s Uniformity Act: belonging
to a Catholic recusant family (as already
suggested, Shakespeare’s father and one of
his two daughters were Catholic recusants),
the playwright would have probably willingly
avoided doing so. We also know that the inns
of court accepted covert Catholics53 as well as
Puritans. But religious peace was only possible
at the time by ensuring at least outward
public observance of the Uniformity Act.
With dignified self-control, though he feels ill,
English-named Shylock avoids all protest, as if
sharing his author’s prudence and awareness.
As for the remaining question, the first we
posed, “why place Shylock the Jew on the losing
legal side?” we can now return to it from a new
point of view. From what I have argued, it can
now appear that for Shakespeare Shylock must
lose the legal issue not only to favor equity, as
two more reasons are to be added.
One entails the revenge issue. Perceivable
by an inns of courts audience as akin to a
respectable ‘Puritan’ common lawyer, with
moral superiority as to the slavery issue
and domestic ethics, Shylock is though at
the same time exposed (as Puritans were)
to the temptation of revenge. The problem
of revenge is indeed a recurrent theme in
Shakespeare’s canon, starting from Henry VI,
where aristocrat revenge causes unending
wars and civil strife, up to Shakespeare’s last
�������������������
See III, 5, 1-32.
�������������������������������
See Geoffrey de C. Parmiter, Elizabethan Popish
Recusancy in the Inns of Court, University of London
Institute of Historical Research, London, 1976.
issn 2035-584x
play The Tempest, where revenge is dismissed
not without a reference to Montaigne’s Essays,
translated into English by John Florio. Between
these two limits, the beginning and end of
his dramatic career, Shakespeare polemically
went back to the problem various times, in As
You Like It54, most notably in Hamlet, where
it is notoriously central, and again in Julius
Caesar and Coriolanus, in different typologies,
its ideologies invariably rejected.
But there was one more important reason to
drive Shakespeare in Shylock’s case: the dangers
the author dreaded in the forthcoming historical
alliance and corresponding cultural ‘conflation’,
of strict common law, strict Puritanism and
Hebraism55. Though philo-Semitic from the
economic and human point of view, implicitly
revenging his own father’s “Jewish” choices,
at the same time Shakespeare was taking
sides with Bacon, equity, relativism, and must
have been worried about Puritan rigidity. The
Puritans would not only readmit Jews, they
would also close down theatres. Shakespeare’s
next “legal play” will be Measure for Measure,
meant to promote tolerance and correct
Angelo’s Puritan, strict enforcement of the law,
partly foreshadowed in the ‘judaizing’ barrister
Shylock evokes. As in contemporary culture, one
of the richest periods in western history, so in
Shakespeare’s carefully constructed plays many
implications and motivations were interlaced.
5. Structural Equity
Throughout the plot of The Merchant
Antonio and Shylock appear, if well compared,
to share parallel destinies, being both half
�����
In As You Like It Orlando rejects his chance to take
revenge on his brother Oliver (who had tried to kill him
and forced him into utter indigence) and saves his life
against a lioness: in IV, 3, 128 comment on this choice
defines it “kindness nobler ever than revenge”.
���������������������������������������������������������
James Shapiro (cit.) repeatedly stresses associations,
current at the time, of radical English Puritans and Jews:
see the chapter “False Jews and Counterfeit Christians”.
English Protestant sects emulated Jewish Sabbath
observance and dietary laws (p.14), and during Cromwell’s
revolution some royalists even began to call their Puritan
opponents Jews (22). Fostering of Jews’ conversion
to Christianity and to Christian Protestantism is also
discussed by Shapiro (see p.146 and on).
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
40
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
winners and half losers: a strikingly revealing
symmetry seems to tie them, mirroring
the double title of the play, as well as John
Shakespeare’s double legal experience as both
usurer and debtor. This balancing of Shylock’s
and Antonio’s destinies is achieved with a
carefully dosed textual development, which
can be neither casual nor meaningless.
In the opening scene, Antonio’s sadness
reflects the sudden deprivation of his beloved
friend Bassanio, who is seeking marriage. He feels
depressed and implicitly bereft, just as Shylock is
later suddenly abandoned by his only daughter
and remaining close relative Jessica, who also
leaves him in order to marry, precipitating him
into an anguished state of mind.
Then Antonio is surprisingly faced with utter
ruin, after the apparent loss of all his ships at
sea, just as, during the trial, Shylock is menaced,
under the unforeseen Alien’s Act, with a similar
utter economic ruin. They both find their lives
in danger for legal reasons: in this sense the
Alien’s Statute balances Shylock’s danger with
Antonio’s pound of flesh bond. Then both
Antonio and Shylock recover a good part of their
property: three of Antonio’s argosies come back
and Shylock is granted back half of his riches
by the Duke, while the other half of his goods
and his line of inheritance will be safeguarded
by Antonio. In the end Antonio and Shylock
are both left alone, economically linked to each
other, in a sense turned from enemies into
allies, bound to recognize each other.
But there are also subtler symmetries. As three
couples are happily married by the end of the
play, Antonio is recognized by Portia not only as
Bassanio’s best friend, but also his ‘double’: yet
he can advance no claim on him and is forced
to acknowledge Bassanio’s love for his wife, and
even guarantee for it through the rings episode.
Shylock is, in his turn, both forced to accept his
daughter’s marriage and his son-in-law Lorenzo,
while he is also recognized by Antonio, who had
previously denied his human dignity, and must
undersign a trust to guarantee his daughter’s
future. He is finally integrated into Venetian
society, but at the cost of being forced to become
Christian, at least formally. Are then Antonio
and Shylock, one could ask, both left to a degree
issn 2035-584x
frustrated for parallel social reasons, though both
have managed to avoid the worst?
Antonio is indeed, as the language of
the play insinuates, a “maid not vendible”
(I,1,112: society would not allow him to marry
Bassanio), while Shylock is equally unable to
retain his religion, which was “not vendible”
under Queen Elizabeth’s Uniformity Act.
Is then the play equally condescending and
persecutory, or “balancing the equities”, with
the Jew and with the Venetian (or English)
“royal merchant”? Does this symmetry reveal
a double ‘soft denunciation’ Shakespeare could
not shout aloud, but could hint at to a social
section of his audience and put off till a better
future? Like the economic and the legal issues
involving both Shylock and Antonio, so also
the sexual and religious ones again touched
Shakespeare or his family closely.
Besides the balancing of Antonio’s and
Shylock’s destinies, the complexity of the
aspects blending in the plot may seem to
correspond to an equitable evaluation of
more issues at a time. While Shylock’s loss of
the 3000 ducats, which are not given back to
him, seems to punish his craving for Antonio’s
life and close the ‘debt plot’, Antonio’s final
recourse to a “use after use” and a trust confers
upon him Shylock’s place as a father financially
providing for Jessica’s marriage, which ends the
elopement plot. Of course, the objection could
be raised that Antonio gains possession of half
of Shylock’s estate, as if the play compensated
him for the loss of his ships, while only Shylock
in the end loses. Is then Shylock discriminated
against, and Antonio unjustly privileged?
In fact Antonio always appears ready to
give: he has given Bassanio even too much and
gives back to Jessica and Lorenzo what might
have been his own at a moment of need, while
Shylock does not show towards Jessica the
same generosity Antonio has for Bassanio. If
Antonio, like Bassanio in the casket scene, is
ready to “give and hazard all he hath” for love’s
sake, Shylock is certainly not ready to do the
same with Jessica: he does not love her enough
to accept her choice, but rather behaves like
Hawthorne’s Puritan Chillingworth with
Hester Prynne in The Scarlet Letter: he cannot
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
41
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
forgive her. The outcome of the play seems
to remunerate this difference. If Shylock and
Antonio are compared for their demands on
Jessica and Bassanio, which equally endanger their
lives, an unbalance appears and seems to call for
different outcomes. But the two corresponding
‘love plots’, in a sense, suggest two further issues,
the rights of which could not be socially and legally
formulated, as both were unacknowledged at the
time: homosexual love and a daughter’s personal
rights as opposed to patriarchal powers.
Of course, as the play is ‘equitably complex’, so
must interpretation also be. We have to refer to
the socio-historical background of Shakespeare’s
audience to better grasp the play’s intricacies or
symmetries: only by combining all aspects does
the play appear ultimately consistent as not antiSemitic, but quite the reverse. Shylock stands for
the Puritan-like common lawyer – a respected
figure in the inns of court – as for Shakespeare’s
own economy. At the same time Portia and
finally Antonio stand for equity, a position
Shakespeare wants to recommend, while he is
worried about Puritan rigidity. As English as his
name, Shylock seems to become a Jew because
of the usury polemics and the economic issue at
stake, so important in Shakespeare’s own life. No
exception in Shakespeare’s logic of tolerance and
inclusiveness, he points out, in the eyes of the bestknowing among the audience, the distance to be
taken from the three Sallies. Shylock is not ‘the Jew’
and a ‘villain’ to be chastised by the Christians, but
rather an ‘acceptable Jew’, receivable and finally
received in the general community.
Indeed Shakespeare’s use of equity in the
play appears surprisingly to foreshadow future
developments: it did suggest to James I and
FrancisBacon,thenAttorneyGeneral,thejudicial
reform conferring precedence upon equity in
1616, putting an end to the long controversy
between Coke on the one hand and Ellesmere
and Bacon on the other56. But by merging
�����������������������������������������
Andrewes finds echoes of passages from The Merchant
in Bacon’s formulation of the 1616 resolution establishing
the precedence of equity, and Kornstein owns that this
play, “a legal parable” which influenced contemporary
judges, “may have changed the course of English legal
history” (cit. p.88), also considering that King James I
unusually asked to see two performances of the play on
two consecutive days. This happened on February 10th and
issn 2035-584x
common law and equity procedures, it more
surprisingly anticipated the 1873-75 Judicature
Acts solution in force today. At the same time
Shakespeare was offering a vast vivid fresco of
his society, honoring his later definition of the
players in Hamlet as “the abstracts and brief
chronicles of the time” (2.2,515).
Giuseppina Restivo è docente di Letteratura Inglese
presso l’Università di Trieste (SSLMIT e Facoltà di
Lettere e Filosofia). Principali aree di ricerca: teatro
contemporaneo inglese, teatro di Shakespeare,
Shakespeare e la legge. Ha pubblicato circa 90 saggi
in volumi e riviste, le monografie La nuova scena
inglese:Edward Bond, Einaudi, Torino, 1977 e
Le soglie del postmoderno: Finale di partita
di S. Beckett, il Mulino, Bologna, 1992; ha curato
tre volumi della collana Teatro/Università (Clueb,
Bologna) su Amleto, su Otello e su Strehler e oltre: il
Galileo di Brecht e La tempesta di Shakespeare.
Giuseppina Restivo teaches English Literature at the
University of Trieste (SSLMIT e Facoltà di Lettere e
Filosofia). Main research areas: contemporary English
Theatre, Shakespeare’s theatre, Shakespeare and the
law. She has published about 90 essays in volumes
and journals, volumes on contemporary playwrights
(La nuova scena inglese:Edward Bond, Einaudi,
Torino, 1977 and Le soglie del postmoderno: Finale
di partita di S. Beckett, il Mulino, Bologna, 1992)
and has edited three volumes in the series Teatro/
Università (Clueb publisher, Bologna) on Hamlet,
on Othello and on Strehler e oltre: il Galileo di
Brecht e La tempesta di Shakespeare.
February 12th 1605. At such a date, seven years after The
Merchant was recorded in the Stationer’s Register and five
years after the 1600 publication of its first quarto edition
(from which most of our modern editions are derived),
the king’s choice to meditate on the by then well-known
play may only mean that it had been highly influential on
public opinion. Circulating in print for five years, it had
probably long been a source of legal debate, deserving the
king’s particular attention, although a final decision on
equity would have to wait eleven more years.
Shylock and Equity in Shakespeare’s The Merchant of Venice
42
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Meticcio
Aldo Raul Becce
Abstract
Parole chiave
Lo scritto prende spunto dalla esperienza biografica
dell’autore per descrivere l’attraversamento psicologico,
culturale e linguistico dell’immigrante. Riflette sulle
conseguenze della perdita della lingua materna (intesa
come dialetto famigliare) e l’impatto con il linguaggio
della terra di accoglienza. Infine, considera la scuola
come spazio interculturale decisivo nel processo
migratorio.
Immigrante; Lingua; Cultura; Parole;
Cocoliche; Adozione; Scuola; Programma;
Identità; Malati di mente.
C
particolare di ogni famiglia è un dialetto dentro al dialetto, dove insistono certe parole, si
ripetono racconti e si nascondono segreti.
Lasciare la propria terra è lasciare la madre,
la Pachamama, la Madre Terra come dicono
gli indios quechuas. Lasciare il paese, per me,
che l’ho fatto per mia volontà, vuole dire finire
una storia d’amore, la sofferta storia d’amore
con il mio paese. Lasciare è come scegliere di
morire per la propria cultura, per il quotidiano
della propria cultura, sparire dalla telenovella
in cui abbiamo avuto un ruolo da protagonisti. L’anno prima di andarmene quando avevo
già preso la decisione della partenza guardavo
ogni cosa ed ero distante, ero già un fantasma.
Gli amici mi guardavano come quello che “se
ne sarebbe andato” ed il nostro rapporto era
profondamente cambiato.
Abbiamo venduto la casa e con la casa la maggioranza degli oggetti. Abbiamo messo prezzo
a ogni cosa. Giorno dopo giorno un pellegrinaggio di oggetti svuotavano pareti e angoli.
Potevo portarmi via dall’Argentina 150 kg.
degli oggetti che mi avevano accompagnato. E’
interessante ed istruttivo chiedersi ogni tanto
’è un romanzo dello scrittore argentino
Julio Cortazar che si chiama “Rayuela1”
che parla dell’ immigrazione. Il romanzo è
diviso in due parti: “dalla parte di là”, “dalla
parte di qua”.
Dal punto di vista della immigrazione noi
ci troviamo “dalla parte di qua”. Tutti i discorsi si producono da questa parte, “la parte di
qua”. Per questo voglio parlarvi invece collocandomi nella parte di là, quella parte che un
immigrante abbandona.
Prendo me come esempio perché sono l’uomo che ho più vicino, come diceva lo scrittore
Miguel de Unamuno. Ho lasciato il mio paese
per mia volontà insieme a mia moglie e a mia
figlia. Dire “lasciare il paese” è dire “lasciare la
lingua materna” e questo allontanamento allude a una specie di svezzamento culturale.
Lasciare il paese vuol dire vivere senza la
lingua materna che avvolge nella propria cultura. A sua volta la lingua materna è costituita
da tante lingue, dialetti privati, lingue quotidiane che parla ogni singola madre e che ci
hanno iscritto nel mondo. La lingua materna
Straniero qui, come in ogni parte.
Fernando Pessoa
1 J. Cortazar, Rayuela, Ed. Sudamericana, Buenos Aires, 1965
Meticcio
43
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
quali 150 Kg di oggetti si scelgono di salvare. Si
scopre che le cose importanti sono poche, e le
superflue tante. Noi abbiamo scelto di salvare
i libri, alcune fotografie, la tartaruga di terra
Manuelita e le pentole dalla cucina.
Lasciavo lingua, casa, famigliari, amici, professione e tante altre cose, e mi svuotavo. Così,
sentivo dentro di me un’assenza, un vuoto che
vivevo come una perdita, un buco enorme, un
cratere, un abisso che avevo perfino paura di
guardare. Dicevo: “la malinconia è un lusso che
gli immigranti non possono permettersi” Perché? Perché gli immigranti non hanno niente,
appartengono ad una categoria generica - gli
stranieri – e in quanto tali devono lavorare per
guadagnarsi un posto nell’altro che li accoglie,
devono entrare nel nuovo paese, farsi un posto, occupare uno spazio simbolico.
1. Io sono più intelligente nella mia lingua
Mi mancava la lingua italiana, avevo imparato in Argentina l’italiano con un corso in
cassette della “Linguaphone” dove il personaggio era un ingegnere milanese spossato, con
due figli, che passavano la settimana bianca a
Cortina e discutevano con un pescivendolo nel
mercato del pesce a Venezia.
Appena arrivato mi sono appellato all’ingegnere ma non riusciva ad aiutarmi perché non
capivo niente. E’ vero che le sue preoccupazioni erano diverse dalle mie: io avevo imparato
da lui come prenotare un albergo a Cortina,
ma più che un albergo mi serviva un lavoro.
Una prima immagine della nuova cultura
mi è rimasta impressa: notavo che la gente
andava più veloce di me. Era come essere capitato dentro un film di Chaplin: mangiavano
più veloce di me, bevevano il caffè più veloce
di me, parlavano più veloce di me. Stavo immigrando in una cultura che aveva ingranato
già da tempo la quinta marcia mentre io arrivavo a mala pena alla terza.
La mancanza della lingua crea una grande difficoltà negli esseri parlanti quali siamo, provoca una specie di regressione ad
un’epoca dell’infanzia nella quale non si
hanno le parole per dire quello che succede
nel mondo e nel corpo.
Meticcio
issn 2035-584x
Mia moglie che aveva cominciato a lavorare come volontaria nel Centro di Salute
Mentale, un giorno tentava di spiegare con
grande difficoltà ad altri operatori quello
che le era successo con un malato di mente.
Di fronte alla perplessità degli interlocutori che stavano capendo meno della metà di
quello che lei diceva, lei disse: “Io sono più
intelligente nella mia lingua”.
Tutti gli stranieri sono più intelligenti
nella propria lingua.
2.Anzi
Essere immersi, in un costante rapporto con un’altra lingua vuole dire accendere
ogni mattina il traduttore. Il mio traduttore ha un rapporto di enorme simpatia con
alcune parole e di antipatia con altre. Il mio
traduttore è ancora innamorato della parola
italiana“anzi” la cui traduzione in spagnolo
“al contrario” oppure “màs bien” non rende,
perché sono espressioni troppo accademiche
mentre “anzi” è cosi semplice ed elegante che
quando ho imparato ad usarla, la applicavo
a qualsiasi cosa, la aggiungevo dappertutto
come il prezzemolo. Utilizzare l’espressione “anzi” ha significato per me compiere un
salto di qualità nel mio essermi istallato nella lingua italiana, raggiungere una specie di
traguardo che mi ha permesso di articolare
pensieri più complessi, paradossali. Mi ha
permesso di avventurarmi nei “quartieri dei
ricchi del linguaggio”.
Ricordiamo che all’ingresso della cultura
di accoglienza, uno si muove con passo incerto, cammina da un verbo ad un sostantivo come chi attraversa un fiume pericoloso,
con la paura di cadere.
Evitavo ed evito ancora di usare certe parole, il traduttore è un censore. Ad esempio
evito la parola “scoraggiare” per la pericolosa vicinanza alla sorella “scoreggiare”. Così,
anche se scoraggiare sarebbe proprio la parola giusta all’interno di un discorso da me
intrapreso, comunque preferirei non azzardarmi e fare piuttosto un elegante aggiramento dell’ostacolo, parlando di “fare mancare il coraggio”.
44
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Invece di gran lunga preferisco “te quiero” a “ti voglio bene”. Quel doppio impatto del
“Te” con il “Quie” colpisce due volte, chiama energicamente all’altro, te quiero suona
dentro come un tamburo. Tutti i messaggi
del cuore rivolti ai miei amici (anche italiani) li scrivo nella mia lingua.
3.Non sapevo cosa fosse il Ferragosto
Potete credere che parole come De Andrè,
Foiba, Carosello, Ferragosto per me erano totalmente indifferenti? Non potevo associare De Andrè a un amore, le Foibe a un fatto storico, il Carosello alla mia infanzia, il Ferragosto all’estate. Dice
lo scrittore Milan Kundera che per il nativo, nella
sua propria lingua, tra una parola e l’altra scorre
un fiume semantico che a noi, stranieri, manca.
Da qui si spiega la faccia da “ebete”, di noi,
stranieri, che trovandoci fuori discorso (come i
matti) provano la sensazione di rincorrere il discorso per capirne il senso: “si parla di me? Cosa
si sta dicendo? Devo rispondere?”. Mentre cresce il rapporto con la nuova lingua, si problematizza il rapporto con la propria lingua. Quando
mi manca quella musica, leggo Jorge L. Borges,
Alejandra Pizarnick, Miguel Hernandez. Ma la
mia lingua comincia a diventare meticcia.
Meticcio come ibrido, come prodotto non
più puro. La mia lingua adesso, la mia lingua
quando torno a casa e parlo con mia moglie e
mia figlia è uno spagnolo impuro, contaminato da “anzi”, “testa”, “ricatto” ecc...
Una coppia di miei pazienti ha adottato un
bambino rumeno, e si son portati dalla Romania non solo cassette e libri, ma anche e soprattutto parole, che entrano nel discorso familiare, nel dialetto familiare, in modo che si parla,
come diciamo noi, in “cocoliche”.
4.Cocoliche
Il cocoliche è una modalità linguistica nata
alla fine del ‘800 in Argentina. Gli immigrati
italiani arrivati in massa, per comunicare con i
locali produssero una varietà mista di spagnolo
insieme a diversi parole dei dialetti italiani. Il
cocoliche venne usato nel teatro comico popolare argentino, identificando l’emigrante italiano.
Meticcio
issn 2035-584x
Tornando alla famiglia, un bambino adottato non ha niente. Nella sua vita ha perso tanto
già dalla nascita e adesso, nell’ adozione ha guadagnato due genitori ma ha perso tutto. Resta
appigliato alla lingua e ad alcuni poveri ricordi.
Si tratta dell’ultimo legame con la madre che lo
ha concepito e partorito, con la sua voce.
E pensiamo che evitando che parli nella sua
lingua, che ricordi il suo istituto, evitiamo la sua
confusione? Pensiamo che se parla in un modo
corretto dicendo ad esempio: “Buongiorno sig.
ra maestra oggi non ho studiato perché ho il
mal di pancia”, è un bambino che non è più in
confusione? Lasciamo che la lingua d’origine
resti lì, senza prevalere, come musica che accompagna, come musica in sottofondo.
Le parole arriveranno, si impara la lingua
predominante dappertutto. A scuola il bravo
insegnante aspetta, ferma tutta una classe e
aspetta il dire povero, contratto, sbagliato, della voce strozzata dello straniero.
“Ma non posso fermare tutta la classe, io
ho trenta allievi, non posso dedicarmi solo a
lui perché perdo il resto”.
Lo avete sentito?
Ci sono certe verità scolastiche che bisogna
mettere in questione e dire “si, devi fermare la
classe per ascoltare uno”. Non uno di meno, come
nel meraviglioso film del cinese Zhang Yimou.
Ma il programma? E gli altri genitori che si
lamentano che la classe rallenta?
5.”Dove te va?”
Rallenta? Ma dove te va? Come si direbbe
in triestino. Ogni azione pedagogica sembra
essere ricondotta ad un Programma, ad una
Bibbia scolastica che segna i tempi in modo
superegoico e pende sulla testa del dirigente,
degli insegnanti dell’ intera scuola.
E il programma che si deve adattare alla
classe o la classe al programma?
Si parte della costruzione di un gruppo, una
classe non è necessariamente un gruppo così
come aver fatto un figlio non necessariamente
vuole dire essere genitore.
La costruzione del gruppo in una scuola, risponde al concetto dell’essere tutti nella stessa
barca, dove remano tutti. Non pensate neanche
45
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
per un attimo che sono una persona che deresponsabilizza l’insegnante e fa sparire il suo ruolo
nell’ anonimato del gruppo. No, tutto il contrario.
Credo che il compito dell’ insegnante sia quello di
aiutare a creare gruppi solidali per cui possa essere un piacere andare a scuola. Perché la scuola è al
centro della società, è il posto di raduno obbligato
dei marinai che condurranno la barca nel futuro.
La scuola come il suk arabo, è il mercato
dove si compra e si vende di tutto in un vitale
scambio di merce e di parole. In arabo la parola
suk a volte identifica anche il centro di una città. Ma cosa si scambiano i bambini nella scuola suk? Si scambiano storie, racconti, oggetti,
cazzotti, urla, baci, insulti.
La scuola italiana è già interculturale. I governanti devono capire che questo meticciato
è iniziato da tempo.
Il meticciato nella lingua e nelle persone
è un grande antidoto contro il retrovirus che
ogni popolo cova: il razzismo. Oggi non si parla più di razza, ma subdolamente si reintroduce molte volte questo concetto usando la parola
“cultura”. Bisogna stare attenti al modo in cui
viene usata questa parola. Lo scrittore nazista
Hans Jhost faceva dire ad un suo personaggio:
“Quando ascolto la parola cultura, prendo in
mano la pistola”. Tempo fa ho avuto una discussione con uno psicologo che seguiva una
sig.ra del Senegal. La sig.ra in questione aveva
tentato di uccidere la figlia adolescente perché
secondo lei era posseduta da un demone che la
abitava. Lo psicologo in questione, giustificando in qualche modo il violento passaggio all’atto della signora, disse: “Non è un vero e proprio
tentativo di omicidio, si sa che questi popoli
africani credono nella magia, fa parte della loro
cultura”. Ho risposto che i popoli africani sono
tanti e che se questa era una delle caratteristiche della loro cultura, sparivano come popoli
perché ogni madre era autorizzata “culturalmente” ad eliminare i propri figli. No, non si
trattava di una signora che credeva nella magia
senegalese e che aveva compiuto un atto tipico
della sua cultura, bensì di una signora con uno
scompenso mentale che le aveva comportato
un passaggio all’atto di tipo psicotico.
Poiché si può essere senegalese e psicotico,
una categoria non esclude l’altra.
Meticcio
issn 2035-584x
6.Meticci
Tutti siamo meticci, figli alla nascita di due
culture familiari diverse: la materna e la paterna,
culture che faticosamente fanno sintesi in noi.
Questa cultura ci precede, come ci precede
il nome, segnando una traccia di destino inconscio con il quale dobbiamo fare i conti.
Se l’identità ci viene donata dall’esterno,
come possiamo parlare di identità solida, immutabile, di radici che ci legano al territorio? Gli
uomini non sono alberi. Insieme alla voglia di
sicurezza del territorio conosciuto, della certezza delle tradizioni e della storia, si agita in noi la
voglia opposta di slegarci, viaggiare, cambiare,
lasciare tutto quanto abbiamo conquistato.
L’unica identità che ha la certezza assoluta è
l’ identità del fanatico che semina morte.
7. Manuela, Cinzia, Carlo, Giorgio
(e tanti altri)
Quando arriva lo straniero, bisogna fare
posto, accoglierlo.
Nel mio caso sono stato accolto da persone
sensibili che non mi hanno mai fatto sentire la
mia diversità, che mi hanno dedicato molto tempo. Mi hanno accompagnato presentandomi la
città e mostrandomi i suoi angoli nascosti.
Erano i malati di mente con i quali ho lavorato all’inizio della mia immigrazione e che mi
hanno accolto con pazienza e generosità.
A loro dedico questo scritto.
Aldo Raul Becce, psicoanalista. Nato in Argentina
54 anni fa. “Dalla parte di là”: fondatore de un servizio di psicopatologia in Buenos Aires. “Dalla parte
di qua”: volontario del C.S.M di San Vito, Psicologo
del servizio sociale del comune di Muggia, Professore
di Pedagogia Interculturale,Giudice Onorario del
Tribunale per i Minorenni e Presidente di Jonas
Onlus Trieste.
[email protected].
46
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Esuli e rimasti, assieme:
progettare una nuova strategia
della comunicazione
*
Laura Capuzzo
Abstract
In Italia non c’è una conoscenza adeguata della realtà
di un territorio - la Venezia Giulia, l’Istria e giù, fino alla
Dalmazia - che ha conosciuto i drammi della storia, come
l’esodo istriano e le ripercussioni che quel fenomeno
ha avuto sul destino degli italiani “rimasti”. Sia esuli
che rimasti hanno dato vita nel tempo ad una vivace
attività editoriale, che però, analogamente a quanto
accade per la stampa italiana all’estero, ha un bacino di
utenza limitato agli addetti ai lavori. Sono le impietose
leggi di mercato ad imporre una nuova strategia della
comunicazione, che sia in grado di trasferire la memoria
adeguandola ai tempi. Si tratta di lavorare assieme - esuli
e rimasti - per farsi interpreti di un’alternativa culturale e
renderla, se possibile, strumento di sviluppo economico.
Il primo passo da compiere riguarda la formazione dei
futuri operatori della comunicazione su queste materie.
In un’operazione di questo tipo determinante è il
supporto della tecnologia e delle istituzioni.
C
oggi entrambe inserite nel grande disegno
europeo, ma fino a non molto tempo fa divise appunto da quel confine amministrativo,
per non parlare di altre separatezze di natura culturale e sociale, o addirittura derivate
dalle tragedie della storia?
Terza (e ultima) domanda: i giovani d’oggi, immersi nel fenomeno della globalizzazione, sono coinvolti in questo processo di
conoscenza? Come possono esserlo? Di che
strumenti possono avvalersi per contribuire
al superamento di quelle divisioni, per favorire l’integrazione fra comunità diverse, senza
rinnegare le vicende dei propri padri, ma anzi
rendendole patrimonio condiviso?
Non credo servano troppi sforzi per dare una
risposta alle prime due domande: no, non c’è una
conoscenza adeguata nei cittadini della penisola
della realtà di questo territorio a cavallo del mondo latino e di quello slavo, in cui si intrecciano
genti, lingue e culture diverse, tormentato dalla
omincerò questo intervento introduttivo,
partendo da alcune domande che forse a
qualcuno potranno parere pleonastiche. Prima domanda: esiste una conoscenza adeguata, da parte di coloro che risiedono in Italia,
della realtà di un territorio - la Venezia Giulia,
l’Istria e giù, lungo la costa, fino alla Dalmazia
- che si affaccia sulla parte nord-orientale del
mare Adriatico e che fino ad una ventina di
anni fa era spezzato in due da un confine destinato a separare non solo due Nazioni, ma
due mondi, due concezioni del mondo, due
sistemi politici ed economici?
Ed ancora, seconda domanda: esiste una
conoscenza adeguata dell’esistenza, in questo territorio, di minoranze autoctone, quella italiana in Istria e quella slovena in Italia,
* Il presente articolo è l’intervento introduttivo, rivisto per la presente pubblicazione, alla Tavola Rotonda
“Comunicazione e plurilinguismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico” tenutasi a
Trieste il 30 ottobre 2009.
Parole chiave
Comunicazione; Informazione; Esuli;
Istria; Italiani all’estero; Giuliano-dalmati;
Minoranze; Università; Giovani; Stampa.
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
storia ma collocato dal nuovo ordine europeo,
successivo al crollo del Muro di Berlino, in una
posizione cruciale, al centro di un continente
alla ricerca di una propria identità.
Un territorio tormentato dalla storia, dicevo, segnato da fratture, da ferite laceranti,
ancora vive negli animi e nelle menti, come
quella del massiccio esodo che nel secondo
dopoguerra interessò la popolazione italiana
dell’Istria e del Quarnero. Le cifre di questo
esodo sono a tutt’oggi fonte di discussione tra
i molti studiosi che si occupano del tema, ma
si calcola che il numero effettivo di coloro che
scelsero di abbandonare la propria terra, possa oscillare tra le 250 mila e le 350 mila unità1.
Un fiume di persone che si riversò in Italia a
ondate, con qualsiasi mezzo a disposizione,
che fu costretto a camminare per il mondo,
prendendo in molti casi la strada dell’emigrazione verso Paesi stranieri.
Portavoce e testimonianza delle lotte degli
esuli per ricostruirsi una vita, furono i vari
giornali pubblicati a partire dal 1945 e che, a
prezzo di faticose ricerche, sono stati raccolti
da Marcello Bogneri in un prezioso volume,
uscito nel 1992 per le edizioni Lint2. Si va dai
giornaletti stampati a Trieste, ma destinati
alla diffusione clandestina in Istria, alle riviste scientifiche e di cultura, che continuano il
lavoro – talvolta più che secolare – di singoli e
di associazioni, senza soluzione di continuità. Non mancano i periodici collaudati e quelli che non sono sopravvissuti all’incalzare
dei tempi, i bollettini ciclostilati ed i numeri
unici, corredati da grandi firme, che vedono
la luce in occasione di grandi ricorrenze. Ci
sono le pubblicazioni rivolte all’intera comunità giuliano-dalmata e quelle rivolte ad una
più ristretta cerchia, quella dei nati in una località precisa. Sono citate nel volume anche le
testate d’oltreoceano, testimonianza di chi è
rimasto fedele alle radici anche nelle Americhe ed in Australia.
1 Un’efficace sintesi del complesso fenomeno e delle sue dimensioni è fornita da R. Pupo, L’esodo forzoso
dall’Istria, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina
(a cura di), Storia dell’emigrazione italiana – Partenze,
Roma, 2001, pp. 385-396.
2 M. Bogneri, La stampa giuliano-dalmata in esilio, Trieste, 1992.
issn 2035-584x
Gli sconvolgimenti demografici e le profonde fratture del tessuto regionale verificatesi in
quegli anni contribuirono a segnare definitivamente anche il destino della comunità degli
italiani “rimasti”, scopertisi all’improvviso minoranza e destinati a conoscere solo nel 1992,
con la dissoluzione della Repubblica jugoslava
e il riconoscimento internazionale dei nuovi
Stati di Croazia e Slovenia, un periodo di rinascita, di speranza e di grandi attese. Anche la
minoranza italiana in Istria ebbe ed ha una sua
realtà informativa, che è stata sempre - come
emerge dal monumentale lavoro di Ezio e Luciano Giuricin sulla storia della Comunità nazionale italiana in Istria, Fiume e Dalmazia3 uno dei motori di stimolo e di sviluppo, da una
parte, ma anche un significativo fattore di condizionamento, dall’altra, del gruppo nazionale
italiano. Quasi tutte le principali testate informative e radiotelevisive del gruppo nazionale
sono sorte, originariamente, quali strumenti
di propaganda, in lingua italiana, del regime
jugoslavo. Ma progressivamente, nel tempo,
accanto a questa funzione, sono riuscite a ritagliarsi ampi spazi di autonomia ed a sviluppare un’insostituibile azione di sostegno sociale,
politico e culturale della minoranza. Sono riuscite a svolgere un prezioso ruolo di “collante”
nazionale e, in molti casi, di “portavoce” dei diritti, delle rivendicazioni e delle istanze della
comunità nazionale, contribuendo a coltivare
nel frattempo un clima di convivenza, di tolleranza e di pluriculturalismo.
Oggi la rete dei mezzi di informazione italiani in Istria comprende Radio/TeleCapodistria, attiva in seno alla struttura della RTV di
Stato slovena, e la casa editrice EDIT-Edizioni
Italiane di Fiume (che pubblica “La voce del
popolo”, uno dei pochi quotidiani italiani esistenti fuori dai confini nazionali, oltre al quin3 E. e L. Giuricin, La Comunità nazionale italiana. Storia e
Istituzioni degli Italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia (19442006), I, Rovigno, Centro di ricerche storiche, 2009,
pp. 542-546 e pp. 549-562. V. anche M. Cherini, La minoranza etnica italiana in Jugoslavia. Analisi e prospettive,
Trieste, 1983, pp. 41-56, e L. Cechet, L’informazione italiana nel mondo tra stereotipi e innovazione. Analisi di due
casi vicini al confine, Istria e Svizzera, tesi di laurea inedita,
Università di Trieste, a.a. 2004-2005 (relatore G. Battisti,
correlatrice L. Capuzzo), pp. 156-222.
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione
48
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
dicinale “Panorama”, al giornalino per ragazzi
“L’Arcobaleno”, alla rivista trimestrale di cultura “La Battana” e alla rivista pedagogica “Scuola
Nostra”), nonché le redazioni italiane delle stazioni radio di Pola e Fiume della rete nazionale
croata. A queste si aggiungono i bollettini delle
varie Comunità degli italiani.
Un patrimonio informativo cospicuo,
quindi, quello formato dalla stampa degli
esuli e dei “rimasti”, che è senz’altro indice di
una intensa vitalità, ma che, riflettendo con
più attenzione, mostra di soffrire dello stesso
male che affligge, più in generale, la stampa
italiana all’estero: una diffusione ridotta, un
bacino di utenza limitato agli addetti ai lavori
e, di conseguenza, una conoscenza molto parziale e circoscritta, al di fuori di quell’ambito,
sia delle problematiche degli esuli che della
presenza italiana in Istria.
Nel circuito della comunicazione nazionale e internazionale questo genere di tematiche è marginale o addirittura ignorato. Lo
constatava con amarezza nel 1992 Lino Vivoda a proposito della stampa giuliano-dalmata
in esilio, così come il direttore dell’”Arena di
Pola”, Pasquale De Simone, secondo il quale,
in ultima analisi, si può parlare di uno «scarso apparire nel panorama della stampa nazionale, per la disseminazione di tanti rivoli
che nulla dicono di noi nella sola maniera che
conta: quella di testate che possano contare
per forza e diffusione»4.
Anche Ezio Mestrovich, in tempi a noi più
vicini, osservava, in veste di opinionista della
“Voce del popolo”5, che «la stampa in Italia dedica scarsa ed episodica attenzione alla minoranza italiana e quest’ultima ovviamente non
ha influenza alcuna sulle scelte redazionali»,
ma poi proseguiva nel suo ragionamento con
considerazioni proiettate verso il futuro, con
proposte che mi sembra opportuno riportare
integralmente, anche perché mi trovano perfettamente d’accordo.
«La casistica che meglio conosco, riconducibile alla minoranza italiana e la sua stampa
- diceva Mestrovich - mi porterebbe a proporre
un giornalismo che tenesse conto, oltre che del
suo pubblico di tradizionale riferimento, anche di fasce diverse di lettori; con aumentata
attenzione all’ambiente di vita in cui la minoranza è esistenzialmente integrata, con altrettanta a quel florido transito di genti, culture e
merci che percorre l’arco dell’Alto Adriatico, attraversa Croazia, Slovenia, il Nordest italiano
e oltre. Proponendosi così, tale giornalismo,
come strumento di conoscenze specifiche a un
lettore riconducibile non esclusivamente alla
minoranza, ma anche al corregionale croato e
sloveno, al connazionale in Italia. E indicherei
ancora l’opportunità - continuava - di unire le
forze giornalistiche dei rimasti e degli esodati, le prime riunite nella casa editrice EDIT di
Fiume, le seconde nei vari fogli legati alle città
di provenienza di una generazione di esuli appartenente ora alla terza età».
Concordo con Mestrovich e concordo con
lui anche quando afferma che «equilibrare
un’informazione votata e indotta al particolare local-minoritario con un’energica apertura
a tematiche più vaste, avviare la collaborazione
tra i potenziali giornalistici dei rimasti e degli
esodati (in epoche precedenti spesso contrapposti dai rigori ideologici) non sono operazioni
facili». Vi si frappongono ostacoli riconducibili
a strutture, quadri, finanziamenti e, forse i più
resistenti, a forme mentali ancorate a un modo
tradizionale di fare informazione per la minoranza. Che però - va precisato - sta mostrando la
corda nel confronto con la concorrenza.
Sono le impietose leggi di mercato, prima
ancora che le dichiarazioni di principio a favore
delle realtà minoritarie, ad imporre una nuova
strategia della comunicazione. Oggi, per esuli e
rimasti c’è bisogno di interventi innovativi, di
studiare nuove forme di comunicazione per trasferire la memoria adeguandola ai tempi6. C’è il
4 L. Vivoda, Presentazione, in M. Bogneri, Op. cit., pp. IX-XIV.
5 E. Mestrovich, Un caso particolare: la presenza italiana autoctona in Croazia e Slovenia, in L. Capuzzo (a cura di), La
diaspora negata. Italiani all’estero e informazione nel FriuliVenezia Giulia, Trieste, Ordine dei giornalisti del Friuli
Venezia Giulia, 2000, fuori commercio, pp. 119-122.
6 Una lucida disamina della diversa impostazione che
ha caratterizzato finora la progettualità di esuli e rimasti, e della necessità di superarla, è stata fatta da S.
Forza, Esuli e rimasti: ora si programmi assieme, in “La
Voce del Popolo”, 18 febbraio 2006. Secondo Forza, direttore dell’EDIT, «bisogna trovare il coraggio di pensare a nuovi progetti comuni, che consentano il raf-
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione
49
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
rischio, altrimenti, soprattutto per le nuove generazioni, di perdere la propria identità nazionale e di venir assimilati. E’ lo stesso rischio che
corrono, più in generale, gli italiani all’estero, in
mancanza di un dialogo costante con l’Italia della cultura, dell’informazione e dell’economia.
Per i giuliano-dalmati in particolare, diventa
urgente superare la frammentazione delle loro
tre componenti (quella della minoranza italiana in Slovenia e Croazia, quella degli esuli in
Italia e quella dei tanti giuliano-dalmati sparsi
nel mondo) e avviare o, meglio, perfezionare un
percorso destinato ad inserirli con maggior forza all’interno di un fenomeno più ampio, quello
della diaspora, della presenza italiana e dei corregionali nel mondo, nonostante le differenze
della loro realtà rispetto ad altre situazioni riscontrabili nella mappa dell’emigrazione.
In una società come quella attuale, che tende sempre più all’omogeneizzazione, esuli e
rimasti insieme dovrebbero farsi interpreti analogamente a quanto dovrebbe accadere per
i discendenti degli ex emigrati - di un’alternativa culturale, dovrebbero sottolineare con
maggior evidenza di quanto già non avviene,
oltre che la loro storia, le specificità culturali
di cui sono portatori e renderle, se possibile,
strumento di sviluppo economico. Il ruolo della comunicazione in un’operazione del genere
è basilare, innanzi tutto per ricomporre le fratture della storia e, secondo l’etimo della parola,
‘collegare, mettere in comune’ le esperienze, e
nello stesso tempo per interpretare al meglio
quel ruolo di ‘ponte tra le culture’ che viene riconosciuto alle minoranze. Si tratta di far conoscere e farsi conoscere, di ragionare, come
giustamente si è cominciato a fare in Italia
in questi ultimi anni, in termini di presenza
all’estero come risorsa per la lingua, la cultura,
l’economia di un Paese o di una Regione.
Il primo passo da compiere, allora, per soddisfare queste esigenze, riguarda gli operatori della comunicazione, soprattutto i giovani
(e qui rispondo all’ultima delle tre domande
che avevo posto all’inizio), i soggetti in forforzamento dell’identità italiana in Croazia e Slovenia
e favoriscano agli esuli il miglior ritorno possibile. Ci
servono progetti – conclude – per creare luoghi in cui
poter vivere e “dove tornare”».
issn 2035-584x
mazione che saranno gli opinion maker di
domani. Bisogna porsi infatti il quesito se
gli operatori dei media siano al momento
realmente preparati su argomenti complessi
come questi, se cioè possiedono un’adeguata
conoscenza della storia e delle problematiche
attuali che investono il settore. Per poter offrire ai lettori contributi di qualche interesse,
come sostengono anche altri autorevoli studiosi dei fenomeni migratori7, questi operatori andrebbero formati mediante apporti di
competenze specifiche, offerte da specialisti
a livello universitario e integrate dall’accesso
alle informazioni quotidiane relative ai Paesi
di maggiore presenza migratoria. Sempre in
stretto collegamento con buoni corrispondenti locali. E’ una linea di comportamento
che andrebbe seguita per disporre di operatori attrezzati e motivati.
Formazione quindi di chi agisce nel campo della comunicazione, su queste materie e
avvio di un confronto serrato tra mondo accademico, professionisti della comunicazione, istituzioni e realtà associazionistiche per
definire le priorità. Le questioni da chiarire,
infatti, sono tante, legate per esempio ai costi, agli enti delegati a questa azione di comunicazione, alla lingua da usare, alla distribuzione delle informazioni, ma soprattutto ai
contenuti da veicolare per suscitare interesse
ed attenzione. Serve progettualità, per favorire una crescita intellettuale che possa anche
tradursi in una crescita territoriale. Per dare
vita ad un’informazione capace di affermarsi in virtù delle proprie intrinseche valenze,
e non soltanto o prevalentemente del codice
linguistico e del sentimento. E’ fondamentale creare un volano di conoscenza, che aiuti
a restituire consapevolezza della propria storia alle comunità locali e, nello stesso tempo,
orienti verso un’identità aperta agli scambi e
ai meticciamenti interculturali.
Oggi a disposizione c’è anche uno strumento potente, il Web, che ha profondamente innovato rispetto al passato i rapporti tra
individui e comunità distanti e che, secondo
7 V. l’interessante contributo di U. Bernardi, La condizione
migrante e l’educazione alla interculturalità, in L. Capuzzo
(a cura di), La diaspora negata cit., pp. 111-113.
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione
50
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
studi recentissimi8, sta addirittura influenzando l’evolversi dell’identità nelle comunità
italiane nel mondo, portando ad una presa
di coscienza etnica. In un’epoca di identità
sempre meno legate a luoghi fisici, uno dei
non luoghi in cui l’identità si costruisce oggi
è certamente il Web. L’identità della diaspora
italiana muta e si rafforza attraverso le nuove opportunità di stabilire contatti rapidi e
diretti e con il Paese d’origine e con gli altri
membri della diaspora. In altre parole, Internet non è semplicemente una forma di accesso a informazioni su un soggetto dato, ma si
sta rivelando una forza che concorre a ridefinire in profondità il soggetto stesso.
Per concludere, mi richiamo ad una dichiarazione di Roberto Molinaro che, nelle intenzioni degli organizzatori, avrebbe dovuto essere
oggi qui con noi e che molto opportunamente
qualche anno fa, parlando del rapporto con le
comunità dei corregionali all’estero, invitava
ad abbandonare forme di adesione emozionale e nostalgica, per puntare alla «rifondazione
di una entità etnica moderna dentro la geografia del mondo, che trova nella attualità dell’interesse le nuove ragioni dell’appartenenza. Per
realizzare un circuito virtuoso tra la comunità
regionale e quelle dei corregionali all’estero aggiungeva - il sistema della comunicazione,
caratterizzato dalla non episodicità, dalla biunivocità e dalla reale accessibilità, diviene indispensabile e costituisce una priorità per le
azioni da realizzare con il sostegno pubblico»9.
Quando esprimeva per iscritto queste considerazioni, Molinaro era consigliere regionale del
Centro popolare riformatore. Oggi è assessore
regionale alla Cultura, con delega per i corregionali all’estero, è decisore pubblico e confidiamo, ai fini dell’attuazione di questi obiettivi, che non abbia cambiato idea….
issn 2035-584x
Laura Capuzzo, allieva di Gianfranco Folena
all’Università di Padova e di maestri di giornalismo
come Sergio Lepri e Giovanni Giovannini, è dal
1979 giornalista dell’Ansa, la principale agenzia
di stampa italiana, alla quale ha dedicato la
tesi di laurea, premiata nel ‘77 con il Saint
Vincent di giornalismo e pubblicata nel ‘90 con
il titolo di Notizie in viaggio. Dalle agenzie di
quotidiani: il processo di riscrittura giornalistica,
da Franco Angeli, Milano. È stata co-curatrice di
Contarsi. Raccontarsi. Contare. La donna come
protagonista dei media (Consiglio regionale del
Friuli Venezia Giulia, 1994) ed ha curato nel 2000
la realizzazione di La diaspora negata. Italiani
all’estero e informazione nel Friuli - Venezia
Giulia per conto dell’Ordine regionale dei giornalisti.
Hariscopertovariincarichinegliorganismidi categoria
a livello regionale e nazionale. Ha svolto docenze
ed organizzato manifestazioni, in Italia e all’estero,
su tematiche attinenti all’aatività giornalistica.
Dal 1977 si occupa di comunicazione italiana nel
mondo. Vive e lavora a Trieste.
[email protected]
8 M. Tirabassi, Gli italiani sul Web, in P. Bevilacqua, A. De
Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione
italiana – Arrivi, Roma, 2002, pp. 717-738.
9 R. Molinaro, Verso la rifondazione di un’entità etnica
moderna, in L. Capuzzo (a cura di), La diaspora negata
cit., pp. 86-87.
Esuli e rimasti, assieme: progettare una nuova strategia della comunicazione
51
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Lingua e cultura:
fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
*
Francesco Lazzari
Abstract
Parole chiave
Le sponde dell’Adriatico da secoli registrano un andirivieni di genti e di culture e, tra queste, sono tanti e sono diversi i popoli che parlano italiano. Genti che non sempre sono
riuscite a tessere scambi all’insegna della pace o almeno
della tolleranza. Sospinti dalla storia molti di loro hanno
dovuto attraversare i mari e abitare nuovi continenti.
Eppure, la pluralità di differenze e gli arcipelaghi di esperienze, fonte spesso di conflitti e di stermini, possono altresì proporsi come fonte di confronti, di comprensioni e di
cooperazioni in un processo di reciproca crescita. È questa
la sfida che attende chi abita queste terre sul confine; fare
del confine il filo rosso che tesse, meticcia e integra e non
la lama che divide. Ove appunto lingua e cultura possono
farsi strumenti attivi di promozione e di convivenza.
Confine; Globalizzazione;
Glocalizzazione; Lingua;
Cultura; Unione Europea.
1. Terre sul confine
D
esidero esprimere tutta la mia più viva
soddisfazione per la promozione di questa tavola rotonda che rappresenta, tra l’altro, la
volontà, fattiva e concreta, ad aprire i cuori e le
menti alla collaborazione e ad una migliore comunicazione e comprensione tra terre italiane,
slovene e croate. Terre che da secoli registrano
un andirivieni di genti e di culture. Genti che
non sempre sono riuscite a tessere scambi
all’insegna della pace o almeno della tolleranza. Sono tanti e sono diversi i popoli che parlano italiano e che abitano l’una e l’altra sponda dell’Adriatico: bisiacchi, chersini, croati,
dalmati, fiumani, giuliani, goriziani, isontini,
* Il presente articolo è l’intervento, rivisto per la presente pubblicazione, presentato alla Tavola Rotonda
“Comunicazione e pluringuismo nel processo di integrazione europea. Il caso del litorale adriatico” tenutasi
a Trieste il 30 ottobre 2009.
istriani, monfalconesi, sloveni, triestini ed altri ancora. Da queste sponde molti di loro, vista
l’impossibilità di una coabitazione serena, hanno attraversato i mari e abitato continenti sconosciuti: dall’Australia al Canada, dall’Argentina all’Uruguay, dal Brasile al Cile, dal Sudafrica
agli Stati Uniti, un esodo segnato da tante sofferenze e che non ha conosciuto confini…
Se un primo flusso migratorio, registratosi
intorno gli anni Venti - Trenta e nel primo dopoguerra, si è concentrato in particolare nella
zona dell’isontino con molti che scappavano
perché antifascisti e perché oppressi da un regime che non rispettava la loro identità linguistico - culturale, un secondo flusso, quello più
consistente, conta l’esodo dei 300.000 in fuga
dalla Yugoslavia titina, che non rispettava la
loro identità linguistico - culturale e minacciava la loro stessa esistenza, dalle foibe, dall’Istria,
da Fiume, dalla Dalmazia... Di questi 300.000,
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
52
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
un terzo circa si è fermato a Trieste, un altro terzo si è distribuito nelle varie regioni italiane ed
un altro terzo ancora ha attraversato l’Oceano
alla volta del mondo, America Latina compresa. Emigrati due volte che hanno perso anche
la loro terra di origine e di riferimento. Altri
ancora, ed è un terzo flusso migratorio, sono
partiti nel 1954 con la fine del governo militare
alleato a Trieste e il ritorno dell’Italia.
Nello stesso tempo ritengo altresì doveroso
sottolineare come questa buona volontà di interscambio si sia ricorrentemente, anche se non
sistematicamente, registrata con la condivisione di diverse attività; una collaborazione non
sempre facile, a causa della storia che accomuna queste nostre genti, ma che, sono convinto,
potrà rivelarsi arricchente per tutti nonostante
le innegabili, ma superabili, difficoltà.
Le nostre terre, le terre di cui parliamo
oggi, sono terre di confine, sono terre sul
confine. Tutti i confini, pur in certa misura
superati come quelli politici con il far parte
tutti dell’Unione Europea (la Croazia è Paese
candidato), possono essere elementi dalle dimensioni duplici: di separazione e di frattura
oppure di comunicazione e di interfecondazione. Tutto o molto dipende dagli attori implicati, se vogliono che quella storica separazione
culturale, linguistica, sociale, di tradizioni, di
costumi, etc. sia la linea di demarcazione tra
sistemi aperti o chiusi. Come la sociologia ci
insegna, la ricchezza, quella vera, appartiene
ai sistemi aperti, che hanno chiarezza delle
rispettive identità, unite al coraggio di meticciarsi, di scontrarsi - incontrarsi; senza negare
le difficoltà, ma costruendo su queste attraverso il dialogo e il confronto1.
Un mondo di isole separate e isolate in cui,
però, potrebbe esserci più spazio e tempo per
«costruire e ricomporre - diluire continuamente situazioni di insularità e di relazione tra isole distanti»2; isole socialmente unite dai viaggi
1 Cfr. tra gli altri: F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità. Analisi comparate e proposte socio - educative
(2000), Padova, 2008.
2 A. Merler, M.L. Piga, Regolazione sociale insularità percorsi di sviluppo, Sassari, 1996, p.38, passim. Per una precisa ed ampia collocazione definitoria dei termini citati,
si rimanda ampiamente al testo indicato.
issn 2035-584x
di quanti vi abitano, dalla mobilità geografica
e, sebbene forse meno visibile, dalla mobilità
sociale e culturale in cui i crescenti processi di
globalizzazione sembrano rendere ancora più
complicate tali relazioni.
Una vita insulare che dovrebbe/potrebbe
essere relazione e comunicazione e non certamente isolazionismo o isolamento dettati
definitivamente dal dualismo dentro/fuori,
dall’appartenere o dal non appartenere e ove
il tutto si gioca «nel modo in cui viene compiuto il viaggio e il rapporto: con la conquista
che nega di fatto l’insularità altrui, o con il rispetto dell’ospitalità che riconosce e accetta la
pluralità delle specificità insulari»3.
Pluralità di differenze e arcipelaghi di
esperienze che con il loro sguardo a tutto
campo possono permettere di andare oltre
una mera visione bilaterale, polarizzata ed
estrema, per suggerire un confronto a tutto
orizzonte «formato dalle pluralità insulari e dagli interstizi - di strade, di parole, di
mari, di monti, di boschi, di visioni, di deserti, di concetti, di lingue, di sentimenti…
- che le separano e le uniscono: i viaggiatori, gli emigrati - immigrati, gli esuli, l’altro,
possono viverle e non solo capirle, possono
essere contemporaneamente parte di più
isole, idealizzandole, odiandole, travisandole, lodandole, agognandole, lasciandole o
quant’altro, ma sempre potendo optare fra
più scelte. Che sono poi le scelte del viaggio,
dell’itinerario, del percorso»4 sempre che
sia fatta salva una condizione degna almeno
di tutela della vita e dell’umanità.
2. I molti e complicati confini della
glocalizzazione
Reti di viaggi e di comunicazioni, di scambi e di scontri, di opportunità e di fallimenti
in cui gli itinerari possono seguire opzioni
diverse e a largo spettro5.
I mutamenti nazionali, regionali e locali,
peraltro, ci interpellano ogni giorno di più e ci
3 Ibidem, p.39.
4 Ibidem, p.43.
5 F. Lazzari, L’altra faccia della cittadinanza. Contributi alla
sociologia dei processi migratori (1994), Milano, 1999.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
53
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
chiamano a misurarci con l’evoluzione di realtà, istituzioni e fattori esogeni del mutamento
globalizzante di stili di vita, di sistemi, di allocazione delle risorse, di crescenti flussi internazionali di informazioni e di persone.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 (e del
muro di Gorizia nel 20046) con le sue conseguenze sugli equilibri regionali e mondiali e
la globalizzazione dell’economia e della finanza, della produzione e della cultura, non poteva non far sentire tutto il suo peso anche in
un’equivalente globalizzazione delle relazioni
etniche e nazionali più spinta e articolata.
L’epoca attuale7, con la caduta o il superamento appunto dei suoi modelli socio - storici costituitisi in quest’ultima parte di secolo, appare unanimemente caratterizzata da
nuovi processi di crescente «inter - dipendenza trans - societaria» mentre si assiste a
continuità e rotture tra nazionale e mondiale, tra prossimo e lontano, tra passato e presente, tra spazio e tempo.
Si materializzano interdipendenze in cui
le relazioni economiche, politiche, produttive e culturali, etc. sono avvicinate e risentono le une delle altre, indipendentemente
dalla distanza spaziale, grazie alle nuove
possibilità offerte dai sempre più potenti
mezzi di comunicazione, di informazione
e di trasporto in cui l’informatizzazione e le
tecnologie sempre più avanzate e sofisticate
svolgono un ruolo decisivo.
Il concorso di fattori interni ed esterni ai
singoli gruppi, società, nazioni, regioni, con
pesi ed incidenze variabili, definisce la loro
collocazione nel sistema globalizzato dal
quale emergono imperialismi, alleanze, dipendenze, periferie, centralità, dominazioni,
uguaglianze, subalternità, interdipendenze
e contraddizioni in un processo di relazioni transnazionali e di reti; contraddizioni e
6 M. Breda, Gorizia, cade l’ultimo muro d’Europa, «Corriere
della Sera», 11 febbraio 2004.
7 Cfr. O. Ianni, L’era del globalismo (1996), Padova, 1999,
Introduzione di S. Sassen, Presentazione, traduzione ed edizione italiana di F. Lazzari. Tra gli altri cfr. anche F. Lazzari,
L’allargamento dell’Unione Europea tra dinamiche di globalizzazione e nuove politiche sociali, in Corsi di studio in servizio
sociale Università di Trieste (cur.), Nuove solidarietà nell’allargamento dell’Unione Europea, Milano, 2006, pp.21 - 33.
issn 2035-584x
tensioni che interessano tanto le società nazionali quanto i modi di vita e di pensiero di
realtà regionali e tribali, di individui e collettività, di Stati e nazionalità8.
Certamente, «la società globale si costituisce fin dall’inizio come una totalità problematica, complessa e contraddittoria, aperta e
in movimento»9. Dal momento in cui essa si
sviluppa, con la sua economia politica e la sua
dinamica socio - culturale, le storie nazionali
tendono ad essere in qualche modo subordinate, integrate o assorbite dalla storia universale10.
Nella misura in cui la globalizzazione ridefinisce gli Stati nazionali, inter - dipendenza e imperialismo sono ricreati, superati
e mutano di figura subendo, tra le altre, le
influenze delle crescenti forze transnazionali. In altre parole la globalizzazione integra,
subordina ed assorbe gran parte dei processi,
strutture e relazioni che caratterizzano tanto
l’interdipendenza e l’imperialismo quanto il
nazionalismo e il regionalismo.
Si è cioè in presenza di una problematicità
che si sta ancor più evidenziando, se mai ce
ne fosse stato bisogno, con le ricorrenti tempeste finanziarie che investono quasi periodicamente le borse mondiali: una crisi che parte
dal Messico, tocca l’Asia, poi il Brasile, come accaduto per esempio nel 1997, o dagli Stati Uniti, come nel 2007 e sino ad oggi, e che produce
gravi conseguenze a livello planetario.
La mondializzazione finanziaria, delle telecomunicazioni e dei mass media sta, infatti, creando un suo proprio Stato: uno Stato sovranazionale che dispone di proprie strutture, di proprie
reti di influenza e di propri mezzi di azione11.
Ed è così che le società contemporanee, le
società reali, stanno diventando sempre più
delle «società senza potere»12. «La mondia8 O. Ianni, L’era del globalismo, op. cit.; E. Morin, A.B. Kern,
Terre - Patrie, Paris, 1993.
9 O. Ianni, Teorias da globalização, Civilização Brasileira,
Rio de Janeiro, 1996, p.204.
��Ibidem, p.207.
11 I. Ramonet, Désarmerlesmarchés, «Le Monde Diplomatique»,
525, 1997.
������������
N. Abala, Les dangers de l’accord multilatéral sur l’investissement, «Le Monde Diplomatique», 528, 1998; G. de
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
54
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
lizzazione del capitale finanziario sta cioè
collocando i popoli in una condizione di insicurezza generalizzata mentre sacrifica le
nazioni e i loro Stati quali garanti del bene
comune e luoghi legittimamente deputati
all’esercizio della democrazia»13.
Ed è così che l’incertezza sembra dominare
ogni scenario contemporaneo.
Nell’attuale stagione dell’esperienza umana, però, alla globalizzazione delle economie e
dei mercati raramente sembra corrispondere
un’internazionalizzazione dei diritti della persona. Si è in presenza di una realtà che, come
effetto della mondializzazione, sta vivendo un
rovesciamento di sovranità: il mercato accresce il suo potere mentre le competenze degli
Stati subiscono costanti e crescenti erosioni.
«È l’ordine gestionale ed economico che
sembra prendere a poco a poco il sopravvento,
che sembra imporre la sua legge e i suoi criteri,
definito dagli arbitraggi che generano l’ordine
giuridico». E a tutto questo ben poco sembra
poter opporre la «democrazia politica», e ancor
meno la società civile; il potere e il controllo si
trovano altrove14. È un potere che sembra modificare l’uomo con un processo di riconfigurazione delle menti stesse e in cui i valori simbolici e
culturali sembrano ridotti al nulla15.
Si è appunto in presenza di un fenomeno
caratterizzato da polivalenza, contraddittorietà, molteplicità di significati e dimensioni, ma
anche da trappole concettuali, luoghi comuni,
radicalismi, che interessa tutti e in particolare
l’informazione e la comunicazione.
Le principali teorie della globalizzazione,
spaziano dalla teoria «economia mondo» di
Wallerstein alla teoria «dei due mondi della
politica mondiale», dalla teoria della «società
mondiale del rischio» alla teoria della «struttura egemonica di potere» di Gilpin, dalla tesi
Jonquières, Free Trade under Fire, «Financial Times», 11
ottobre 1999; S. George, À l’Omc, trois ans pour achever la
mondialisation, «Le Monde Diplomatique», 544, 1999.
��������������
I. Ramonet, Désarmer les marchés, op. cit., p.1; S. George,
Le commerce avant les libertés. Sommet de l’Omc à Seattle, «Le
Monde Diplomatique», 548, 1999.
������������
M. Ferro, Des sociétès malades du progrès, «Le Monde
Diplomatique», 525, 1997, p.26, amplius.
15 D.R. Dufour, De la reducción de cabezas a la transformación de los
cuerpos, «Le Monde Diplomatique», abril 2005, pp.16 - 17.
issn 2035-584x
della mcdonaldizzazione di Ritzer alla cultural
theory e alle riflessioni sulla «società civile
transnazionale».
Il locale assume un nuovo significato nel contesto globale, ove appunto, come sottolinea Roland Robertson, locale e globale non si escludono, ma al contrario l’uno deve essere compreso
come aspetto dell’altro. Si potrà così parlare di
glocalizzazione, implicando appunto l’assunto
della cultural theory in cui la cultura globale non
può essere intesa staticamente, ma solo come
processo contingente e dialettico (e per questo
non riducibile economicisticamente ad una logica del capitale apparentemente univoca), secondo il modello della «glocalizzazione, nella
quale elementi contraddittori sono compresi e
decifrati nella loro unità»16. Ed è appunto all’interno di simili riferimenti concettuali che possono trovare composizione i cosiddetti paradossi della globalizzazione, quali l’universalismo e il
particolarismo, i legami e le frammentazioni, la
centralizzazione e la decentralizzazione, il conflitto e l’accordo, l’inclusione e l’esclusione. I concetti e la teoria di Robertson delle culture glocali
vengono infatti ampliati da Arjun Appadurai17,
che approfondisce teoricamente la relativa autonomia dell’economia glocale della cultura.
A tal proposito Appadurai parla di ethnoscapes, «paesaggi di persone», che caratterizzano il mondo irrequieto e frammentato
in cui si vive. Da queste persone (turisti,
migranti, profughi, esiliati, lavoratori stranieri, uomini e gruppi in movimento, che
costituiscono uno degli aspetti della cultura
globale) e dalla loro «irrequietezza» fisico
- geografica, provengono impulsi essenziali per un mutamento della politica interna
e internazionale. Flussi e panorami a cui,
secondo Appadurai, vanno ad aggiungersi
i technoscapes, i financescapes, i mediascapes, gli ideoscapes, «pietre di costruzione
‘di mondi immaginari’ che in tutto il mondo
vengono visti, scambiati e vissuti con diversi significati da uomini e gruppi». Scenari
16 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive
della società planetaria, Roma, 1999, p.69, p.185 e p.189.
Vedasi anche la recensione dello scrivente in «Studi
Emigrazione», 141, 2000, pp.185 - 189.
17 A. Appadurai, Modernità in polvere, Roma, 2001.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
55
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
glocali che possono intendersi come «una
‘immaginazione delle vite possibili’ estremamente ambigua, che permette una molteplicità di combinazioni, e con la quale
vengono composte collezioni multicolori e
variegate per i fini delle proprie identità di
vita e di gruppo»18.
Globalizzazione e localizzazione che oltre ad essere «due facce della stessa medaglia», secondo Zygmunt Bauman, «sono
forze motrici e forme di espressione di una
nuova polarizzazione e stratificazione della
popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati» con la contestuale
scomparsa di qualsiasi nesso, e dialettica,
tra povertà e ricchezza, servo e padrone, e
il conseguente rompersi del «vincolo che
rendeva la solidarietà non solo necessaria,
ma possibile». Il capitalismo globale sembra così dissolvere «il nucleo di valori della
società del lavoro», rompendo pure «un’alleanza storica tra capitalismo, stato sociale e
democrazia» e bloccando «l’iniziativa verso
un nuovo contratto sociale»19.
Se è vero, come si è detto, che l’architettura «del pensiero, dell’azione e della vita
negli spazi e nelle identità nazional - statali
si infrange contro la spinta di una globalizzazione economica, politica, culturale, biografica», è altrettanto vero che la «società
mondiale si traduce nella nascita di possibilità di potere, spazi di azione, di vita e di
percezione del sociale che spezzano e scompigliano la concezione ortodossa, nazional
- statale, della politica e della società». Ed è
proprio in questo che sta la differenza tra la
prima e la seconda modernità: non più una
politica che detta le regole, ma «una politica
che muta le regole; una politica della politica (metapolitica)» appunto disputata tra attori nazional - statali e attori transnazionali,
tra stati e nazioni, imprenditori e sindacati,
burocrazie e società civili... La transnazionalizzazione del luogo crea così nuovi legami
tra culture, persone e luoghi mutando pure
l’habitat quotidiano e individuale stesso.
18 U. Beck, Che cos’è la globalizzazione..., op. cit., pp.74 - 75, amplius.
19 Ibidem, pp.76 - 83, amplius.
issn 2035-584x
3. Il ruolo dei media nella costruzione del Sé
Proprio in un tale contesto, profondamente dinamico e interdipendente, i mass
media assumono una crescente e travolgente importanza, sia per i linguaggi accattivanti utilizzati sia per le indicazioni e i modelli proposti20. Dalla televisione ad Internet,
dalla carta illustrata alle nuove tecnologie
le proposte sono innumerevoli e, spesso, le
altre agenzie di socializzazione e di formazione quali la famiglia, la scuola e la società
civile si trovano a vivere rapporti conflittuali di valori e di prospettive. Come si sa, per
la sociologia i mass media, ed in particolare i cosiddetti new media, sono agenzie di
socializzazione sui generis in quanto, diversamente dalle altre citate agenzie, non
possono dirsi orientati da scelte ad hoc con
riferimento ad uno specifico e mirato processo di socializzazione. Si rivolgono cioè in
forma relativamente indistinta ai potenziali
interlocutori senza riuscire a tener conto dei
bisogni e delle necessità di ciascun fruitore.
Offrono una socializzazione senza mediazioni, una sorta di autosocializzazione in
cui la trasmissione di norme e valori appare
spogliata di autorità21.
Inoltre, come ricorda Popper, i mass media
«non fanno a gara per produrre programmi di
solida qualità morale, per produrre trasmissioni che insegnino ai bambini (e agli adulti)
qualche genere di etica»: un compito importante ma difficile, «perché l’etica si può insegnare soltanto fornendo un ambiente attraente e buono e fornendo, soprattutto, buoni
esempi»22, creando cioè situazioni che permettano di vivere e di sperimentare la cooperazione e la ricerca di senso.
Per ribaltare una simile situazione bisognerebbe - ci ricorda sempre Popper - cambiare la destinazione d’uso di molti media, oggi
frequentemente e prevalentemente - se non
20 F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità…, op. cit.
21 P. Donati (a cura di), Sociologia. Una introduzione
allo studio della società, Padova, 2006; L. Gallino (dir.),
Manuale di sociologia, Torino, 1994.
22 F. Erbani (a cura di), Cattiva maestra televisione. Scritti di
K.R. Popper e J. Condry, Milano, 1994, p.15.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
56
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
esclusivamente - orientati alla vendita di effimero, di un’immagine, di un qualche prodotto più o meno inutile, in cui la quasi esclusiva formazione individuata è l’educazione del
consumatore e l’orientamento ai valori del
mercato, dimenticando quella del cittadino e
della persona23 proiettata all’autorealizzazione
in cooperazione con l’altro.
La responsabilità dei mass media resta dunque di primo livello, fermi comunque restando i vincoli e le potenzialità di cui si è detto.
Con una diversa loro collocazione nel processo
di socializzazione - educazione - formazione
si potrebbero realisticamente valorizzare le
incommensurabili risorse esistenti e che la società può offrire. Una società, come sottolinea
Gianni Rodari, che è una «scuola grande come
il mondo», in cui «insegnano maestri, professori, avvocati, muratori, televisori, giornali,
cartelli stradali, il sole, i temporali, le stelle»,
e in cui vi «sono esami tutti i momenti» e di
«imparare non si finisce mai»24.
Un rivolgimento di prospettiva, dunque, in
cui sia effettivamente possibile - in tale processo di socializzazione e di ri - socializzazione
- valorizzare i nuovi e i vecchi media e tutta la
società in quanto società educante25.
Un impegno di cui anche l’Unione Europea
(Ue) si è fatta carico proclamando il 2008 l’Anno europeo del dialogo interculturale nel corso del quale si è cercato di dare concretezza ad
alcuni importanti obiettivi:
- promuovere il dialogo interculturale
come processo attraverso il quale gli abitanti
dell’Ue possano migliorare la loro capacità di
adattarsi ad un ambiente culturale più aperto,
ma anche più complesso, proprio in virtù del
fatto che, tra i diversi Stati membri e all’interno di ciascuno di essi, coesistono identità culturali e tradizioni diverse;
- dare priorità al dialogo interculturale quale opportunità per la costruzione, in Europa e
nel mondo intero, di una società pluralista e
dinamica e da essa trarne ricchezza;
- sensibilizzare quanti vivono nell’Ue, in
particolare i giovani, all’importanza di sviluppare una cittadinanza europea attiva e
aperta al/sul mondo, rispettosa della diversità culturale e fondata sui valori comuni
dell’Ue definiti dall’art.6 del Trattato Ue e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea (libertà di informazione, diritto alla
lingua e alla cultura, etc.);
- porre in risalto il contributo dato dalle
varie culture al patrimonio complessivo e ai
modi di vita degli Stati membri26.
Una vera e propria prospettiva d’azione
in cui, peraltro, questa tavola rotonda a ragione si inserisce.
Il diritto alla differenza presuppone ovviamente il diritto all’identità, visto che - come
hanno messo in evidenza, tra gli altri, gli studi
di Mead sull’altro generalizzato - la definizione
di Sé non la si può avere che in rapporto all’Altro per affermare, per esempio, un’identità incerta o per difendere un’identità minacciata o
per liberare un’identità oppressa o per ritrovare un’identità perduta.
La formazione del Sé è qui intesa come un
processo sociale che si sviluppa in rapporto all’Io - che esprime la risposta non organizzata dell’organismo agli atteggiamenti
di altri - e in rapporto al Me - che individua
l’insieme degli atteggiamenti organizzati di
altri che a sua volta l’individuo assume e fa
propri in quanto Io27. Infatti, grazie al processo evolutivo individuale, il Sé maturo
emerge quando viene interiorizzato il concetto di altro generalizzato, di modo che la
comunità eserciti un controllo sulla condotta dei suoi membri, proprio perché - secondo
Mead - occorre essere membro della comunità per essere un Sé28. Ed è proprio per mezzo
del processo di auto - interazione che, nella
23 F. Lazzari, Persona e corresponsabilità sociale, Milano,
2007.
24 G. Rodari, Una scuola grande come il mondo, in Id., Il
libro degli errori, Torino, 1997, pp.161 - 162.
25 Per un approfondimento sul tema si rimanda, tra gli
altri, a: F. Lazzari, L’attore sociale fra appartenenze e mobilità…, op. cit.
26 www.interculturaldialogue2008.eu.
27 G.H. Mead, Mente, sé e società, Firenze, 1965, p.189.
Sull’interazionismo simbolico di Mead si veda anche:
R.A. Wallace, A. Wolf (1985), La teoria sociologica contemporanea, Bologna, 2000.
28 G.H. Mead, Mente, sé e società, op. cit., p.178. Corsivo
dello scrivente.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
57
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
concezione dell’interazionismo simbolico,
avviene «l’assunzione di ruolo dell’altro»:
cioè la capacità di ogni individuo di mettersi nei «panni dell’altro». In questo senso la
comunicazione, qui intesa come auto - interazione che trova nel «colloquio interiore»
una delle sue più importanti manifestazioni, diventa lo strumento attraverso il quale
vengono esaminati i fatti, si determinano i
comportamenti e si assumono i ruoli29.
È così infatti che l’individuo, una volta
in grado di instaurare una interazione simbolica - ove i simboli significanti sono gesti che hanno un significato -, possiede il
Me e l’Io oltre che poter «assumere il ruolo
dell’altro» e interiorizzare «l’altro generalizzato»: è il processo attivo dell’individuo
che fa emergere il Sé sociale30. In altre parole, parafrasando Maritain, si tratta di stabilire interventi efficaci per un’adeguata liberazione di risorse personali31 proprio al fine
di far emergere quel tesoro nascosto di cui
ciascuno è portatore32.
4. Identità personale e identità sociale:
un processo che si costruisce
nella dialettica e nel confronto
In altre parole emerge il convincimento che
le persone non sono meri «attori sociali portatori di una molteplicità di posizioni e obbligazioni socialmente condizionate», ma che è
«l’identità personale a fondare quella sociale
e non viceversa». «Il sociale è cioè normativo
perché i soggetti che agiscono sono portatori
di una normatività interna che è predeterminata rispetto al sistema e contemporaneamente interattiva con la normatività di questo»33.
Ne risulta che l’identità non può essere una struttura stabile della personalità,
29 R.A. Wallace, A. Wolf, La teoria sociologica…, op. cit., pp.215 - 225.
30 G.H. Mead, Mente, sé e società, op. cit., p.178.
31 J. Maritain, L’educazione al bivio (1943), Brescia, 1989.
32 J. Delors (ed.), L’educazione, un tesoro sommerso
(1996), Roma, 1998.
33 I. Colozzi, È possibile affermare la dignità della persona nella società post - moderna, in A. Pavan, Dire persona, Bologna,
2003, p.429. Vedasi anche: M.S. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, Milano, 1997.
issn 2035-584x
«bensì un’entità che si forma e si trasforma
continuamente nel processo di interazione
sociale»34 e in cui l’altro può avere la funzione
di conferma, di negazione o di disconferma
(nel senso di ignorare) del Sé, di quel sistema di rappresentazione, cioè, in base al quale
«l’individuo sente di esistere come persona,
si sente accettato e riconosciuto come tale dagli altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di
appartenenza»35. È su questa base che ciascuno può confrontarsi serenamente con l’Altro,
senza conflittualità distruttive.
È fuor di dubbio, come confermano anche i più recenti studi di sociolinguistica,
che la relazione cultura - linguaggio riveste
un’importanza fondamentale nella costruzione di un equilibrato processo di sviluppo della persona. Il linguaggio è infatti «il
più potente mediatore di orientamenti di
pensiero culturalmente condivisi»36, è il
veicolo principale per la trasmissione della
cultura essendo «creatore e organizzatore
dell’esperienza» e «sistema di comunicazione che usa suoni o simboli con significati arbitrari ma strutturati»37.
Come sostengono gli studi di Sapir e Whorf38
e quelli di Bernstein39, la natura della lingua
influenza la visione del mondo e quindi ogni
34 Voce Identità, in F. Demarchi, A. Ellena, E. Cattarinussi,
Nuovo dizionario di sociologia, Milano, 1987, p.971. Centro
nazionale di documentazione ed analisi sull’infanzia e
l’adolescenza, Presidenza del Consiglio dei ministri,
Dipartimento affari sociali, Un volto o la maschera? I
percorsi di costruzione dell’identità. Rapporto sull’infanzia
1997: identità e diversità etnica. Sostenere l’identità etnica dei bambini stranieri (da Educazione interculturale,
Corso di formazione Rai Lab).
35 Voce Identità, in F. Demarchi, A. Ellena, B.
Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., p.970. Sul concetto di «disconferma dell’altro» si veda in particolare: G. Mengon (a cura di), Emigrazione e lingua, Padova,
1980; Comune di Milano, Under 18. Leggere il presente,
pensare il futuro, Milano, 2006.
36 M.T. Moscato, Verso una pedagogia interculturale,
«Dirigenti e Scuola», 3, 1989, p.8.
37 N.J. Smelser, Manuale di sociologia, Bologna, 1987, pp.217 - 218.
38 B.E. Sapir, Culture, Language and Personality, Los Angeles,
1957; B. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, 1970;
M. Arcangeli, Lingua e identità, Roma, 2007.
39 B. Bernstein, Class, Codes and Control, London, 1975,
voll.3.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
58
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
attività mentale40. Il linguaggio, oltre ad essere
uno strumento del pensiero e un oggetto culturale, è un organizzatore cognitivo dei dati
dell’esperienza, un mezzo per stabilire rapporti sociali, un veicolo di esperienze razionali e
affettive, di sentimenti, pensieri, emozioni.
Il linguaggio assume quindi una sua precisa
importanza, vedendo la comunicazione linguistica e non linguistica come uno dei modi
di interazione tra individui e gruppi. Frequentemente, inoltre, si può rilevare la presenza di
una stratificazione sociale che corre parallela
alla stratificazione sociolinguistica41.
E se è accettabile considerare il linguaggio
come organizzatore dell’esperienza, ne discende che «il linguaggio, come la cultura nel suo
complesso, porta a significati comuni», ove appunto la «comunicazione dipende dalla condivisione di significati accettati, usati e compresi
da entrambe le parti»42. Se codici socio - linguistici e culturali comuni rinsaldano i legami tra
chi li condivide, è altrettanto vero, però, che essi
possono sottolineare la separazione, l’estraneità e l’alterità di chi non li pratica.
È così quindi che un linguaggio comune,
sostiene Hertzler43, presuppone anche un
certo livello di coesione sociale: crea legami
di comprensione e di simpatia, aiuta le persone a coordinare le loro azioni, stimola un
senso di identità di gruppo, etc., come peraltro possiamo constatare nelle terre del litorale adriatico che parlano italiano.
A ragione si può dunque dire che la cultura
è l’anima di un popolo44 e che la lingua è lo
strumento del pensiero45. La cultura è «il motore e il regolatore della crescita umana»46, né
si può pensare vi possa essere sviluppo autentico di una società senza cultura47. La cultura
è la risposta ai problemi che l’uomo incontra
nel suo vivere48, ci ricorda l’autore della Pedagogia degli oppressi, il brasiliano Freire49.
È «un sistema che fa comunicare (che
dialettizza) un’esperienza esistenziale con
un sapere costituito», sostiene Morin50. «La
cultura è quel che aiuta lo spirito a contestualizzare, globalizzare e prevedere. Non
è frutto di accumulo, ma è una forza che
si auto - organizza: coglie le informazioni
principali, seleziona i problemi di fondo,
utilizza principi di intelligibilità che colgono i nodi strategici del sapere»51.
È strumento analitico in grado di cogliere
i processi dinamici che tendono a modificare
non solo la composizione dei processi culturali, ma anche la loro stessa struttura pluralistica. Sempre secondo Morin la cultura non va
quindi identificata o confusa con le culture. La
cultura è un sistema di dinamiche di molteplici culture, ciascuna non omogenea.
In altre parole la cultura, sostiene Bourdieu, è un campo dai circuiti specifici capaci di veicolare valori arcaici e valori moderni
anche tra loro conflittuali. È un ‘sistema significante’ attraverso il quale un sistema sociale
viene trasmesso, riprodotto, ‘sperimentato ed
esplorato’. È cioè una nozione capace di porre
in relazione le esperienze soggettive, la produzione e la pratica culturale52.
40 Per una più ampia riflessione: L.S. Vygotskij, Pensiero
e linguaggio (1934), Bari, 1998; F. de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), Bari, 1987.
41 E. Rigotti, Linguaggio, in F. Demarchi, A. Ellena, B.
Cattarinussi, Nuovo dizionario di sociologia, op. cit.
42 N.J. Smelser, Manuale di sociologia, op. cit., p.218.
�����������������
J.O. Hertzler, A Sociology of Language, New York, 1965.
44 Viene presentato, riveduto e ampliato, quanto
esposto in F. Lazzari, Alcune riflessioni su cultura, lingua italiana e identità. Il caso dell’area francofona, «Studi
Emigrazione», 99, 1990, pp.411 - 436 e Id., Cultura e
scuola italiana all’estero: Riflessioni a margine del convegno
di Montecatini, «Studi Emigrazione», 121, 1996, pp.110 129. T. De Mauro, M. Vedovelli, La diffusione dell’italiano
nel mondo e le vie dell’emigrazione. Retrospettiva storico istituzionale e attualità, Roma, 1996.
45 Nuovi programmi della scuola elementare, Dpr n.104 del
12.2.1985, in G.U. n.76 del 29.3.1985; C. Scurati, P. Calidoni,
Nuovi programmi per una scuola nuova, Brescia, 1985.
�������������
E. Pisani, La main et l’outil. Le développement du Tiers
Monde et l’Europe, Paris, 1984.
47 T. Verhelst, Sud - Nord: il diritto dei popoli alla differenza
(1987), Torino, 1989.
�������������
R. Garaudy, Pour un dialogue des civilisations, Paris, 1977.
49 P. Freire, La pedagogia degli oppressi (1968), Milano,
1971; Id., L’educazione come pratica della libertà (1967),
Milano, 1973/1975.
50 Citato da E. Minardi, Cultura, in F. Demarchi, A. Ellena,
B. Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., pp.640 - 641.
51 E. Morin (1994), I miei demoni, Roma, 1999, pp.47 - 48.
52 E. Minardi, Cultura…, in F. Demarchi, A. Ellena, B.
Cattarinussi, Nuovo dizionario…, op. cit., p.641.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
59
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Cultura è un pensare, ma è anche un sentire,
ricorda Sgroi53. Essa permette il riconoscimento reciproco delle rispettive diversità culturali
in vista di un universalismo culturale, di un
codice di comportamento sovraculturale.
Sarà proprio dal confronto, attraverso l’uso
del pensiero critico, che potranno scaturire nuove risposte e nuovi scambi reciprocamente arricchenti, capaci di far tesoro dei
processi di incontro - scontro fra culture . E
tale confronto, che può leggersi anche come
conflitto - sottolinea Rifkin - assume, forse
soprattutto oggi, anche la dimensione della
lotta tra globalità e culture locali, tra reale e
virtuale, tra civiltà e mercato; e se si vorrà salvare la potenza di espressione dei significati
condivisi, anche le reti commerciali e virtuali
e le culture dominanti dovranno trovare una
controparte nella realtà e nelle esperienze, e
relazioni sociali e culturali specifiche, territorialmente definite54.
Si abbraccia cioè una visione di cultura capace di non sottostimare tensioni e conflitti, ma che, orientata da un approccio globale
e integrato, sappia attentamente studiare
gli squilibri - equilibri che possono aversi
quando, per esempio, un gruppo minoritario, generalmente subalterno e/o periferico,
si incontra (o si scontra) con quello dominante e centrale55.
Alla ideologia dell’uniformità, dell’etnocentrismo e del relativismo culturale più o meno
mascherati si tratta cioè di sostituire la cultura
del confronto, dell’incontro - scontro, dei processi sinergici tra culture e popoli, tutti indistintamente avviati sullo stesso cammino di
umanizzazione dell’uomo e di autentica promozione di ogni individualità e di ogni diversità. Diversità che non è affatto da considerarsi
come esclusiva manifestazione di opposizione, incomunicabilità o conflitto fra culture e
53 E. Sgroi, Dal mono - culturalismo al multi - culturalismo:
conflitti, sfide e nuovi assetti, relazione alla V scuola internazionale ‘I problemi della nuova Europa’ su ‘Il Mediterraneo
che produce civiltà’, 15 - 19 dicembre 1997, Gorizia, 1997.
54 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, 2000.
55 Unesco, Conférence mondiale sur les politiques culturelles, Messsico, 26 luglio - 6 agosto 1982, «Problèmes et
Perspectives», Doc. Clt - 82/Mondialcult/3.
issn 2035-584x
civiltà differenti. Dalla diversità - come si può
constatare da tante esperienze - possono scaturire ricchezza e nuovi impulsi di vita56.
È questa la sfida, credo, che attende chi abita queste terre sul confine. Fare del confine il
filo rosso che tesse, meticcia e integra e non la
lama che divide.
Francesco Lazzari, professore di Sociologia, di
Sistemi sociali comparati e di Sociologia dell’educazione all’Università di Trieste, è direttore del Centro
studi per l’America Latina (Csal) e della rivista elettronica Visioni LatinoAmericane (www2.units.it/csal).
È autore di numerosi saggi tra cui si segnalano:
L’attore sociale fra appartenenze e mobilità.
Analisi comparate e proposte socio - educative, Padova, 2000/2008; Persona e corresponsabilità sociale, Milano, 2007; Le solidarietà possibili. Sistemi, movimenti e politiche sociali
in America Latina, Milano, 2004; L’altra faccia
della cittadinanza. Contributi alla sociologia
dei processi migratori, Milano, 1994/1999.
56 F. Lazzari, Persona e corresponsabilità sociale, op. cit.
Lingua e cultura: fattori di dinamismo sociale e di sviluppo
60
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Minoranze e comunicazione transfrontaliera:
il ruolo di Radio e TV Capodistria
Antonio Rocco
Abstract
Parole chiave
Relazione presentata nel corso della tavola rotonda sul
tema Comunicazione e plurilinguismo nel processo
di integrazione europea. Il caso del Litorale adriatico.
La storia ed il ruolo di Radio e TV Capodistria e la
loro inclusione nei progetti tesi a valorizzare la
multiculturalità ed il plurilinguismo del territorio in
cui operano.
Radio Capodistria; TV Capodistria;
Comunità nazionale italiana;
TV Transfrontaliera.
R
adio e TV Capodistria operano nell’ambito
dell’Ente pubblico radiotelevisivo della Slovenia (RTV Slovenia). Si rivolgono in primo luogo
agli appartenenti alla Comunità nazionale italiana che vivono in Slovenia ed in Croazia ma sono
molto seguite anche dal pubblico italiano. Emittenti di antica memoria, hanno contribuito a segnare un’epoca ed una pagina importante della
radio-tele diffusione in questo nostro lembo d’Europa. Radio Capodistria inaugura i programmi
il 25 maggio del 1949. La storia di TV Capodistria
inizia, invece, l’8 maggio 1971. Già dal 1968 però
si pensa alla realizzazione di programmi televisivi
in lingua italiana, con “La Costiera”, in onda sulle
frequenze della TV di Lubiana. Le trasmissioni di
Radio Capodistria all’inizio sono in tre lingue: slovena, italiana e croata. Dopo la firma del Memorandum di Londra, Radio Capodistria si unisce, nel
1956, con Radio Lubiana e abolisce il programma
in lingua croata. Data la sua efficacia commerciale
(per decenni è stata una delle stazioni radio maggiormente seguite in Italia), il segnale è irradiato
in zone sempre più ampie. Nel 1979 il programma sloveno e quello italiano iniziano a trasmettere su frequenze separate. Radio Capodistria è stata
una delle prime emittenti bilingui in Europa.
Nella storia di Radio e TV Capodistria si compendiano le vicende degli ultimi sessant’anni di
queste terre di confine. Dal secondo dopoguerra
in poi, Radio e TV Capodistria, anche se in contesti diversi, hanno sempre svolto un ruolo da
protagonista. Scriveva il grande scrittore istriano Fulvio Tomizza, in una memoria pubblicata
in occasione del quarantacinquesimo anniversario di Radio Capodistria dove iniziò la carriera artistica nei primi anni cinquanta:
A Capodistria, il centro più grosso della Zona
B del progettato Territorio Libero di Trieste, affidata all’amministrazione jugoslava, sorse nel
1949 nientemeno che una stazione radio con
programmi in sloveno, in italiano e più limitatamente in croato. L’intento politico credo fosse
stato quello di dar voce pubblica a un territorio
che ancora non apparteneva allo Stato jugoslavo, ma lentamente vi si preparava, contro
il volere della maggioranza della popolazione
[…]. I suoi programmi italiani venivano ideati e
realizzati da un gruppo di persone quanto mai
eterogeneo […]. L’ambiente via via si depurò […]
subentrarono forze nuove provenienti dalle
cittadine istriane già passate alla Jugoslavia col
Trattato di pace del ’47, giovani sopravvissuti al
Minoranze e comunicazione transfrontaliera
61
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
primo grande esodo che ormai figuravano quali
rappresentanti del gruppo italiano in Istria, decisi a difendere i loro diritti di originari istriani
divenuti minoritari. Con il secondo esodo del
’55, che riguardava proprio la Zona B, Radio Capodistria si accinse ad assumere un nuovo volto, a svolgere una funzione quasi del tutto inattesa. Affiancata da una rete televisiva, divenne
espressione di quanto di italiano rimaneva in
Istria, e insieme, e più ancora, punto di raccordo per una visione conciliativa dell’intero territorio giuliano, per una convivenza tra simili e
tra diversi che da Pola si spingeva fino a Gorizia.
(Radio Koper-Capodistria: 45 let/anni, a cura di M.
Vidovich, Capodistria, 1994).
Il Programma radiofonico e quello televisivo per la Comunità nazionale italiana (come
sono definite oggi le due emittenti dalla Legge sulla Radiotelevisione Slovenia) attuano
il diritto costituzionale della minoranza italiana all’informazione pubblica nella propria
lingua materna ed ai contatti con la Nazione
madre. Svolgono un ruolo importante anche
negli scambi culturali e nei contatti del gruppo nazionale con il popolo di maggioranza.
Contribuiscono all’informazione, alla conoscenza reciproca ed allo sviluppo dei rapporti di buon vicinato ed alla collaborazione in
un’area di contatto fra tre nazioni diverse:
Slovenia, Italia, Croazia.
Radio e TV Capodistria costituiscono uno
dei maggiori fattori integrativi della Comunità nazionale italiana. La legge prevede esplicitamente che svolgano il ruolo:
- di tutela, mantenimento e sviluppo
dell’identità culturale, linguistica e religiosa
della Comunità nazionale,
- di comunicazione, contatto della minoranza con la matrice nazionale e culturale,
- di sviluppo della convivenza e di un clima sociale tale da favorire l’inclusione attiva
della Comunità nazionale in un contesto più
ampio e negli scambi culturali con il popolo
di maggioranza,
- di tramite per i contatti e lo sviluppo dei
rapporti tra la società civile, le istituzioni statali e le amministrazioni pubbliche del territorio in cui vive la minoranza e lo spazio culturale, sociale ed economico degli stati vicini,
- di inclusione della Comunità nazionale
negli scambi culturali e nella cooperazione
tra gli stati vicini.
A queste emittenti è affidato il ruolo di servizio pubblico. Un compito difficile che però
è svolto con grande professionalità. Prova ne
sono i tanti attestati di stima ed i riconoscimenti pubblici di cui sono state insignite.
Radio Capodistria trasmette 24 ore su 24, tutti
i giorni. Il programma notturno, dalle 24 alle 6, è
ripreso da Radio Slovenia International. TV Capodistria, invece, trasmette in media 9 ore e mezzo
al giorno di programmi in lingua italiana.
I trasmettitori sono tutti collocati in territorio sloveno e permettono di coprire, in
Slovenia, l’area fino a Lubiana, gran parte del
Friuli-Venezia Giulia e dell’Istria occidentale. Il
satellite è una novità importante che proietta
le Emittenti in un’ottica europea ed ha regalato
numerosi nuovi ascoltatori, come l’Internet,
grazie al quale è stato possibile riallacciare i legami con tanti istriani sparsi per il mondo.
Il programma di Radio e TV Capodistria si
fonda su alcuni punti fermi: primo fra tutti l’informazione. Di fondamentale importanza le
proposte che interessano e riguardano l’attività
del gruppo nazionale italiano nel suo complesso. Altro aspetto importante quello della cultura che, oltre ad essere costantemente presente
nei telegiornali e nei giornali radio, si concentra ampiamente negli spazi periodici ad essa
dedicati. Ci sono, poi, le trasmissioni d’intrattenimento e musicali e lo sport. Con l’entrata
della Slovenia nell’Unione Europea, il ruolo di
Radio e TV Capodistria, accanto a quanto già
detto, ricerca ulteriori spazi e nuovi orizzonti,
con argomenti e temi legati non soltanto alle
minoranze che in questa regione vivono ed
operano, ma anche con altre realtà minoritarie
e non europee. Particolarmente importante, infine, la collaborazione fattiva e qualitativa con
la Comunità radiotelevisiva italofona, di cui
sono soci fondatori insieme alla RAI, alla Radiotelevisione della Svizzera italiana, alla Radio TV
di San Marino ed alla Radio vaticana. Tra le iniziative più importanti di questa associazione il
seminario internazionale “Italicità e media nei
Paesi dell’Europa sudorientale”, svoltosi nell’ottobre del 2008 a Tirana, in Albania.
Minoranze e comunicazione transfrontaliera
62
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Nei Programmi italiani di Radio e TV Capodistria lavorano una cinquantina di giornalisti
ed altrettanti redattori ed altro personale di
programma. Un centinaio, invece, i collaboratori esterni in Slovenia, Italia, Croazia ed in
alcuni altri paesi europei.
Radio e TV Capodistria sono una realtà importante, non soltanto a livello locale ma anche su scala europea. Dimostrazione ne sono
i tanti progetti internazionali nei quali sono
attivamente inclusi. Si parte dalla ormai decennale collaborazione con la sede Rai per il
Friuli Venezia Giulia nel quadro del progetto
bilingue della TV Transfrontaliera, per arrivare
al più recente “Caleidoscopio istriano”, una rubrica radiofonica settimanale trilingue realizzata in collaborazione con le redazioni italiana
e slovena di Radio Capodistria e quelle italiana
e croata di Radio Pola. Per due anni di seguito
Radio Capodistria ha poi trasmesso, nel contesto del progetto “Etnoblog” di Trieste, “Colors”,
una trasmissione che ha l’obiettivo di promuovere l’integrazione delle persone migranti e
straniere attraverso lo sviluppo di forme di comunicazione e informazione attenente al dialogo interculturale. Tra le iniziative riconducibili al processo di integrazione europea anche
la trasmissione, sempre da parte di Radio Capodistria, dei servizi dell’Agenzia Euroregione
news di Udine e le informazioni sul traffico
nel Nord-Est italiano “Viaggiando”.
Radio e TV Capodistria sono impegnate
negli ultimi anni anche nella realizzazione
di documentari, in lingua italiana e slovena,
sui personaggi di spicco dell’area transfrontaliera sloveno-italiana-croata e sui luoghi e
le tradizioni delle minoranze italiana e slovena, documentari che sono trasmessi oltre che
dalle stesse emittenti capodistriana anche dai
programmi nazionali di Radio e TV Slovenia
e da quelli della sede RAI per il Friuli Venezia
Giulia. Nello spirito della multiculturalità e
del plurilinguismo sono stati celebrati nel
2009 anche i sessant’anni di Radio Capodistria, con un convegno presso l’Università
del Litorale e con due concerti, il primo di
due musicisti istriani, Tamara Obrovac e Dario Marušić, ed il secondo di Eugenio Finardi
e del cantautore sloveno Jani Kovačič.
L’“avventura” di Radio e TV Capodistria, iniziata tanti anni fa, continua oggi grazie alla
professionalità di coloro che ci lavorano ma
anche e soprattutto grazie al sostegno dei tanti
amici che, nonostante le avversità, continuano a seguirle e ad apprezzarle. Ciò conferma
la bontà del “progetto” ma anche l’esigenza
del territorio di avere emittenti credibili che
attraverso l’ottica delle minoranze proiettano
un’immagine molto più complessa della società in cui viviamo.
Minoranze e comunicazione transfrontaliera
63
Antonio Rocco, vice Direttore Generale della RTV
Slovenia per la Radio e la Televisione per la Comunità
nazionale italiana autoctona
[email protected]
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Note sul processo di integrazione europea
nel litorale adriatico
*
Giorgio Rossetti
L
’incontro odierno propone un obiettivo
tanto semplice da enunciare quanto arduo
e complesso da conseguire: come la comunicazione possa agevolare un percorso di integrazione tra popolazioni di lingua, cultura e tradizioni diverse, che hanno vissuto momenti di
contrapposizione anche aspra, violenta, quali
li abbiamo conosciuti in quest’area.
Prima di tentare una risposta, credo sia opportuno definire a grandi linee lo scenario più
generale in cui si sono inserite e tuttora insistono le vicende di casa nostra. Certo, con le
loro specificità, ma che a ben vedere non sono
anomale rispetto al quadro generale.
Parto da lontano, senza dilungarmi e dunque
senza pretesa di completezza. In questi ultimi
cinquant’anni in Europa si è prodotta una rivoluzione silenziosa che senza grandi sommovimenti ha completamente cambiato il rapporto
fra Stato e individuo. In un recente convegno
a Trieste1, Diego Marani, scrittore, vincitore
di vari premi letterari, tra cui un Campiello, e
responsabile dell’Unità “multilingualism policy
approach to intercultural dialogue and social inclusion” della Direzione Cultura, Multilinguismo
* Il presente articolo è l’intervento, rivisto per la presente
pubblicazione, alla Tavola Rotonda “Comunicazione e pluringuismo nel processo di integrazione europea. Il caso
del litorale adriatico” tenutasi a Trieste il 30 ottobre 2009.
1 D. Marani, La cittadinanza consapevole e l’integrazione
tra culture nell’Europa senza frontiere relazione svolta il 24
aprile 2009 nel quadro del corso Problemi della democrazia italiana nell’era della globalizzazione e dell’integrazione
europea, promosso dal Centro studi Dialoghi Europei e
Laboratorio democratico Bruno Pincherle.
e Comunicazione della Commissione europea,
aveva modo di affermare: “Fino alla Seconda
Guerra Mondiale, l’appartenenza culturale e
sociale si definiva sulla base della nazionalità e
della lingua, entrambi elementi fondatori dello stato nazione. L’ideologia che la nutriva era
sfociata poi nei nazionalismi devastatori della
prima metà del Novecento”.
Gli sconvolgimenti delle due guerre mondiali non sono bastati a disperdere completamente questi riferimenti così profondi, ma ha
avuto inizio una diffidenza nei loro confronti
che nel corso degli ultimi decenni ha portato
progressivamente all’indebolimento dello stato nazionale. L’internazionalizzazione dell’economia, o globalizzazione, la dimensione sovranazionale di alcuni fenomeni (l’ambiente, i
flussi migratori, il terrorismo internazionale)
hanno gradualmente reso lo stato nazionale
inadatto ad affrontare i grandi problemi della
modernità e sollecitato il rafforzamento e l’allargamento dell’Unione.
Oggi lo stato nazionale attraversa la più
grave crisi della sua bicentenaria esistenza: ha
perso il controllo dell’economia, della moneta,
della stessa difesa e come ogni fenomeno della
storia sotto minaccia di estinzione, quando è
incapace di trasformarsi si irrigidisce nelle sue
contraddizioni. Ciò è tanto più evidente nei
paesi che hanno acquisito più recentemente
–dopo l’89 – la titolarità statale.
Ora questo disorientamento dell’istituzione che più di ogni altra ha caratterizzato
la storia moderna, causa confusione e incer-
Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico
64
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
tezza, suscita paure e fomenta sentimenti
aggressivi, di chiusura e di pregiudizio. La
crisi economica che ha investito il mondo
intero nell’ultimo anno e le mancate risposte hanno fatto il resto.
Il cittadino disorientato cerca altri livelli
di appartenenza, diffida della dimensione europea troppo lontana, vissuta come estranea,
ostile, burocratica e ripiega sui localismi e regionalismi, recupera i dialetti e le lingue locali.
Malgrado la libertà di circolazione, ognuno resta a casa propria, l’integrazione stenta,
segna il passo: gli europei non si parlano e
non si conoscono.
Le frontiere cadono sulla carta, ma permangono nelle menti.
A questo si deve aggiungere un’immigrazione che percependo la debolezza dello Stato
che la ospita e l’ostilità alla sua integrazione, si
rifugia nella propria identità in cui spesso la
fede religiosa è centrale.
In questo clima, il rischio di rigurgiti nazionalisti e di tensioni xenofobe è sempre
latente. Abbiamo avuto modo di verificarlo
anche a Trieste qualche tempo fa, o sul Carso
sloveno, a Corgnale.
Perché di questo veleno, dice Miran Kosuta,
nessuno è immune. “Nemmeno noi sloveni, per
quanto esigui di numero, facciamo eccezione. Di qua
e di la del confine, a Trieste come a Lubiana, si stanno
percuotendo il petto non pochi Tarzan nazionali. Mi
spaventa il loro acuto, metà scimmiesco metà operettistico che potrebbe ridestare gli odii sopiti, le passioni represse, le oscure follie della giungla etnica”2.
Per entrare nello specifico delle questioni di
casa nostra, io temo che in questo clima Trieste,
Capodistria, l’Istria intera rischiano di giocarsi
la notevole chances che proprio l’Europa ha dato
loro con l’allargamento: quella di essere l’avamposto strategico per l’integrazione dei Balcani
occidentali e di essere già ora il cuore della nuova
Europa. Quella di domani, non quella di ieri della
Mitteleuropa. Altri sono i presupposti, oggi!
Non mi riferisco tanto all’economia, quanto
piuttosto all’integrazione delle diverse culture
che qui, in questo particolare crocevia, si incontrano e si confrontano.
E’ qui che le diverse identità, pur salde, tuttavia sfumano per integrarsi linguisticamente, culturalmente l’una con l’altra.
Da un tassello identitario si passa ad un altro
senza soluzione di continuità. Cito ancora Diego
Marani: “Ogni volta che lasciavo casa per ritornare a
Trieste, avevo la sensazione di attraversare via via diverse sfumature di italianità. Dalla mia italianissima
Ferrara, sentivo già dopo Venezia che qualcosa cominciava a cambiare. Più mi avvicinavo al confine orientale, più l’italianità mutava, raggiungendo l’apice di
rarefazione proprio a Trieste”3.
“Questo era il luogo di massima estraneità, non più
Italia, non ancora altrove. Ma ugualmente, oltre confine non mi veniva incontro una slavità netta. Anche
lì era uno sfumare, sempre più intensamente sloveno
viaggiando verso nord, istriano e dalmata viaggiando
verso sud, ma diversamente croato viaggiando verso est.
Come non rendersi conto che tutte le frontiere hanno
questa ineguagliabile ricchezza? E soprattutto perché
per secoli abbiamo voluto distruggerla? Questo prezioso
ecosistema di popoli e di lingue è il nostro avvenire.”
E così concludeva “Voi che avete il privilegio di
viverci, sappiate conservarlo”.
E’ del tutto evidente che su questo terreno le minoranze nazionali giocano un ruolo
decisivo: sempre che si ammetta la loro soggettività ad esercitarlo e dunque cominciando col riconoscerle.
Difficile ammettere questo ruolo, se si è accecati dal nazionalismo e dai pregiudizi sulla superiorità di una cultura rispetto all’altra, di cui
peraltro nulla si sa perché nulla si vuol sapere.
Devono passare oltre 50 anni perché i libri
di Boris Pahor vengano letti in Italia, ma non
perché suggeriti da noi triestini, bensì perché importati dalla Francia.
In realtà così facendo noi neghiamo noi
stessi, la nostra peculiarità triestina, che di
questa commistione è fatta.
Ha ragione Claudio Magris quando a proposito degli sloveni di casa nostra, li definisce un
“nostro Doppio” “un alter ego rimosso, osteggiato,
temuto, respinto, che si colloca al di là di una linea
d’ombra raramente attraversata”.
“Una mancanza – conclude Magris – che
ha impedito a tutti noi, non solo agli sloveni,
2 M. Kosuta, Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni,
Reggio Emilia, 2005.
3 La cittadinanza consapevole e l’integrazione tra culture
nell’Europa senza frontiere, vedi nota n.1.
Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico
65
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
di sentirci e dunque di essere a casa nel nostro
mondo, di vivere questa terra di frontiera come
una casa natale in cui sentirsi armoniosamente
familiari, ossia fratelli”4.
L’occasione per questa bella riflessione di
Magris è il libro di Miran Kosuta, Slovenica che
ci offre il punto di vista del Doppio, del nostro
alter ego di lingua slovena.
Kosuta parla ad un certo punto di una “molteplice identità che segna indelebilmente ogni uomo
di frontiera”. Usa il singolare per definire l’identità. Che è composita: io sono questo, ma in
me c’è anche qualcosa dell’altro. In questo c’è la
specificità della mia identità di frontiera. E ciò
vale per noi tutti, non solo per gli sloveni.
Anche quando Kosuta riflette sulla condizione più specifica di uomo della minoranza
c’è qualcosa che ci riguarda, si ha la sensazione che dica cose non del tutto estranee anche a
noi triestini di lingua italiana.
“Qui, nella terra di nessuno, tra la mia cultura e quella confinante, trovo patria; fiorisce la mia unicità; da qui
si inarcano i ponti verso l’una e l’altra delle sponde; qui
sono – uomo di minoranza – veramente me stesso”5.
Ma non è forse vero che anche noi, triestini di lingua italiana, solo qui finiamo per essere veramente noi stessi? Non è forse vero
che a Roma, a Milano, a Bologna percepiamo la
tranquilla identità nazionale dei nostri interlocutori come qualcosa di diverso dalla nostra
identità composita, molteplice, irrequieta? E
non è forse vero che ugualmente i nostri interlocutori percepiscono questa diversità e leggono la triestinità come un’identità specifica?
Dovremmo cercare di superare la retorica
della Trieste italianissima e delle altrettanto
italianissime terre perdute dell’Adriatico. Non
perché si debba disconoscere l’italianità, ma
perché qui siamo qualcosa anche di più.
La casa natale comune di cui parla Magris
vale per gli italiani e gli sloveni di Trieste e vale
per gli italiani, sloveni e croati dell’Istria, che in
passato hanno saputo trovare un’armonia ed un
equilibrio di rapporti senza rinnegare la propria
identità ma integrandola con le altre, facendola
diventare l’identità molteplice di Kosuta.
4 Claudio Magris, Introduzione a M. Kosuta, Slovenica.
Peripli letterari italo-sloveni, cit.
5 Miran Kosuta, opera citata.
issn 2035-584x
Forse non era tutto oro, forse in parte è stata mitizzata nei ricordi di stagioni giovanili e più serene.
Anche la letteratura può risentire della nostalgia.
Certo è però che è stato il nazionalismo,
ovvero i nazionalismi contrapposti, l’offesa dell’uno e la rivalsa dell’altro e la spirale senza fine che si è avviata, a distruggere
tutto questo.
Ecco perché oggi inquieta la serpeggiante tentazione di ritorno alle politiche di stato
nazionale e lo scarso interesse per l’Europa; e
allarmano i tentativi di incidente sul confine,
con l’avvallo di uomini di governo.
Questa è una terra in cui tre lingue, tre culture hanno saputo intrecciarsi, comprendersi, integrarsi senza che nessuna rinunciasse alla propria identità e – almeno per un periodo – senza
che nessuna pretendesse di prevalere sull’altra.
Molte cose sono cambiate tragicamente
quando questo equilibrio quasi magico si è
rotto e qualcuno ha preteso di essere non solo
superiore agli altri ma l’unico soggetto titolato a dettare le regole, a imporre la propria
lingua e la propria cultura.
Ci basta ed avanza il prezzo fin qui pagato.
Oggi dobbiamo tornare a parlare, a comunicare. E non è compito solo dei media, ma anche
dei singoli, di ciascuno di noi.
Comunicare in queste terre significa conoscersi
e riconoscersi, accettarsi; forse sarà difficile parlare bene la lingua dell’altro, ma almeno dovremmo
cercare di capirla, avere la curiosità di conoscerne
le opere, l’ambiente culturale in cui maturano.
Sono lustri che si parla di una TV senza confini, che ci faccia conoscere la realtà sociale e
culturale di un’area plurima, che tuttavia rappresenta “in piccolo” la nuova Europa, quella
delle cultura latina, sassone, slava. Quando arriverà, con programmi comuni per i territori
di quella che vorremmo fosse l’Euroregione?
Questo dovremmo avere l’ambizione di divenire: un laboratorio della nuova Europa. Abbiamo molte opportunità: ne avremo la forza e
la volontà?
Giorgio Rossetti, Presidente del Centro studi
Dialoghi Europei
Note sul processo di integrazione europea nel litorale adriatico
66
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Informatica e retorica forense
Paolo Moro
Federico Puppo
*
Abstract
In questo scritto, affronteremo alcune questioni
relative al rapporto fra informatica e retorica forense,
assumendo la centralità dell’esperienza processuale e
della retorica, che è la logica sua propria. Ci occuperemo
pertanto della topica – con riferimento all’informatica
giuridica documentaria e alle possibile prospettive di
sviluppo aperte dalla logica fuzzy –, interrogandoci nel
contempo sulla struttura dialettica del processo – con
riferimento al processo penale ed alle problematiche
della computer forensic science. In tal modo, cercheremo
Introduzione
I
n questo scritto affronteremo alcune questioni
relative al rapporto fra informatica e retorica
forense. Prima di entrare nel merito della questione, appaiono tuttavia necessarie alcune precisazioni volte, da una parte, a circoscrivere il campo della nostra indagine e, dall’altra, a chiarire lo
sfondo filosofico-giuridico da cui muoveremo.
Senza poterne in questa sede discutere, ci limitiamo ad enunciare che la prospettiva che ci
appartiene discende dagli studî e dalle ricerche di
Francesco Cavalla1, che vede nella retorica forense
* Il saggio è frutto della collaborazione dei due Autori; si precisa, comunque, che i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti esclusivamente da Paolo Moro ed i restanti da Federico Puppo.
1 Tra le recenti pubblicazioni del quale di vedano F.
Cavalla, voce Logica giuridica, in: “Enciclopedia filosofica”, 7, Milano, 2006, pp. 6635-6638; Id., Retorica giudiziale, logica e verità, in: Id. (a cura di), Retorica processo
verità. Principî di filosofia forense, Milano, 2007, pp. 1784, cui ci sia concesso rimandare per ogni ulteriore
approfondimento.
Informatica e retorica forense
di evidenziare, in modo critico e problematico, i nuovi
orizzonti dischiusi dall’utilizzo di strumenti informatici
all’interno dell’esperienza processuale.
Parole chiave
Informatica; Esperienza processuale;
Retorica forense; Topica; Dialettica;
Logica fuzzy.
la forma peculiare in cui si declina la logica giuridica e la più idonea a garantire l’accertamento della verità. Ove per “verità” va intesa la conclusione
non ulteriormente contraddicibile del confronto
dialettico che le parti instaurano, nel processo, di
fronte ad un soggetto terzo. In questo senso, per
quanto ci riguarda, l’esperienza processuale è ciò
che costituisce (ben più ed oltre il mero dettato
normativo) il proprium del diritto2: e come si vedrà,
2 Anche in questo caso ci sia consentito rimandare, a titolo meramente esemplificativo, a F. Cavalla La prospettiva
processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher,
Padova, 1991 e P. Moro, La via della giustizia. Il fondamento
dialettico del processo, Pordenone, 2001, che raccolgono la
tradizione di pensiero che è passata attraverso la lezione di
Sergio Cotta, Giuseppe Capograssi ed Enrico Opocher [si
veda su ciò M. Manzin, Del contraddittorio come principio
e come metodo/On the adversarial system as a principle and
as a method, in Id., F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera
pars. Il contraddittorio fra principio e regola/“Audiatur et altera pars”. The due process between principles and rules, Milano,
2008, pp. 3-21: 10 ss., che ci ricorda come, nel plesso indissolubile di retorica e dialettica, il contraddittorio appare,
“più che una regola processuale, vero e proprio principio
dell’ordinamento” (ibidem, p. 13; corsivo dell’Autore)].
67
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
è da una problematica prettamente processuale
che prenderemo le mosse del nostro intervento.
L’intento di quest’ultimo è evidenziare le
problematiche connesse all’utilizzo di strumenti informatici all’interno del contesto
processuale, cercando ci comprendere se ed in
che misura l’informatica sia compatibile con la
forma di sapere classico che va sotto il nome di
retorica (e che comprende la topica, la dialettica e la retorica propriamente detta3).
In questo senso, tralasceremo questioni
prettamente tecniche (non ci occuperemo, ad
esempio, dei modelli dell’argomentazione con
riferimento alle applicazioni dell’intelligenza
artificiale4), che potranno essere affrontate solo
una volta che sia stato chiarito in che misura
l’utilizzo di strumenti tecnologici influisca, a
volte anche in modo non manifesto, sulla forma retorica del contraddittorio. Dal nostro punto di vista non si tratta quindi soltanto di comprendere in che modo sia possibile sviluppare
tecnologie informatiche, ma piuttosto riflettere
sull’impatto che esse dispiegano sull’esistente:
ciò in quanto ­­– anche questo è bene esplicitarlo
sin da subito – non crediamo affatto che scienza
e tecnica siano strumenti neutrali rispetto alla
realtà cui vengono applicate5.
Un tanto chiarito (compatibilmente con lo
spazio a disposizione), possiamo volgere la
nostra attenzione al processo: inizialmente ci
occuperemo della fase volta al rinvenimento
degli argomenti, che va sotto il nome di topica e che implica l’utilizzo delle banche dati; di
poi, riguardando il processo penale e la computer forensic science, cercheremo di vedere
3 Si veda su questo, oltre ai riferimenti contenuti alla n. 1,
F. Cavalla, voce Topica giuridica, in: “Enciclopedia del diritto”, XLIV, Milano, 1992, pp. 720-739, che chiarisce i limiti di
tutte quelle visioni contemporanee (tipicamente la “neoretorica” del Perelman e la “topica giuridica” del Viehweg)
le quali, scindendo la retorica e la topica dalla dialettica, non
sono in grado di comprenderne il valore aletico.
4 Per questi profili si rimanda, fra le altre, all’analisi di
D. Tiscornia, Il diritto nei modelli dell’intelligenza artificiale, Bologna, 1996, in part. pp. 197 ss.
5 Ai fini di questo saggio usiamo “tecnica” e “tecnologia” in
modo indifferente; sulla questione della non-neutralità della
scienza e della tecnica si segnala, con riferimento a tematiche
proprie anche del processo, il recente lavoro di F. Macioce, Il
processo nell’era digitale. Problemi e prospettive, in: P. Moro (a cura
di), Etica Informatica Diritto, Milano, 2008, pp. 114-130.
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
come l’informatica applicata al processo possa influire sulla sua natura dialettica e sulla
sua logica retorica6.
1. Topica e informatica forense
Con l’espressione “topica giuridica” si intende definire precisamente l’arte di rinvenire (topiké téchne, ars inveniendi) un repertorio di luoghi argomentativi (tópoi o loci), come le norme
di legge oppure le massime della giurisprudenza, che l’avvocato e il magistrato sono chiamati
ad utilizzare come premesse del discorso giuridico nell’approntamento dell’atto processuale7.
La topica giuridica si manifesta nella contemporanea era digitale come metodologia di
preparazione ed elaborazione informatica del
discorso giudiziario e si propone come fondamento logico dell’attività di recupero di argomenti da usare nel processo da parte di avvocati e magistrati mediante l’uso di programmi
informatici o telematici di ricerca elettronica
automatizzata (information retrieval).
L’ambito specifico della topica forense, che caratterizza oggi la vita quotidiana degli studi legali
e dei tribunali, nei quali si è ormai affermato definitivamente l’uso del personal computer, riguarda
la cosiddetta “informatica giuridica documentaria” che, nella predisposizione degli atti in cui
si articola il dibattito giurisdizionale, consente
all’avvocato oppure al magistrato la ricerca dei
tópoi (rintracciabili, per esempio, nella giurisprudenza, nella legislazione e nella dottrina) adatti a
supportare le tesi sostenute in giudizio oppure a
contraddire le tesi esposte dall’avversario.
Non è contestato che la fondazione classica
della topica nella storia del pensiero occidentale
risalga ad Aristotele, nell’opera del quale le fina6 Segnaliamo come altri profili del rapporto fra applicazioni informatiche e processo penale siano stati indagati in F. Puppo, Alcune riflessioni sui limiti della c.d. giustizia
automatica. L’esempio del decreto penale di condanna, in: P.
Moro (a cura di), Etica Informatica Diritto, cit., pp. 152-192.
7 Sulle origini e sugli sviluppi della topica nella metodologia dell’argomentazione forense, cfr. F. Cavalla, voce
Topica giuridica, cit., nonché Id., Dalla “retorica della persuasione” alla “retorica degli argomenti”. Per una fondazione logica rigorosa della topica giudiziale in: G. Ferrari, M.
Manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, Milano, 2004, pp 25-81.
68
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
lità della topica sono quantomeno tre e ricalcano le funzioni della dialettica e della retorica le
quali, per la formulazione delle premesse dei
ragionamenti sillogistici che le qualificano, si
valgono precisamente di luoghi (tópoi).
All’inizio dell’ottavo libro dei Topici, Aristotele afferma che, per la formazione di un discorso
argomentato dialetticamente, bisogna: a) ricercare i luoghi notevoli da cui prendere le mosse
per il proprio attacco e, dunque, che siano capaci di resistere al domandare critico; b) ordinare gli argomenti ritrovati attraverso il vaglio
critico di domande e di risposte; c) comunicare
persuasivamente all’uditore una opportuna selezione dei tópoi adeguati al caso pratico8.
Differentemente da quanto accadrà nella logica moderna, questa ricorrente e accomunabile
triplicità di aspetti della metodologia dell’argomentazione viene pensata da Aristotele in una
prospettiva globale, nella quale la topica assume una funzione soprattutto euristica, presentandosi originariamente come una via non precostituita di ricerca dell’argomentazione, pur
possedendo anche uno scopo organizzativo e
un’utilità pratica nella formazione del discorso
in generale e di quello giuridico in particolare.
a) Topica e ricerca.
La possibilità di rinvenire tramite il computer
le premesse utili per organizzare non solo il discorso in generale, ma anche quello giudiziario
in particolare, si affida tradizionalmente al reperimento di enunciati puramente affermativi o
confermativi della tesi che si vuole difendere, reperimento reso maggiormente rapido dalla consultazione di archivi informatici o telematici.
Invece, la capacità dialettica di ritrovare argomenti (norme di legge oppure sentenze) utili per
il processo implica per sua natura l’azione della
confutazione e la soggezione ad essa. Ne consegue che la topica informatizzata ispirata alla
dialettica richiede che gli argomenti rintracciati
nelle banche dati giuridiche non solo siano opponibili a quelli sollevati o sollevabili dalla controparte nel processo per negarne la fondatezza,
ma anche siano sottoposti alla critica che caratterizza per natura il dibattito giurisdizionale.
8 Cfr. Aristotele, Topici, VIII, 1, 155 b.
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
Pertanto, in questa prospettiva dialogica,
la ricerca elettronica dell’informazione giuridica non è completamente automatizzata né
puramente casuale, ma si organizza liberamente e, anche se resa più veloce dal dispositivo informatico, rimane faticosa e complessa,
implicando un’abilità che si acquista solo con
l’esercizio. Una tale libertà critica, certamente
riferibile alla topica aristotelica, si realizza nel
modo migliore nell’informatica giuridica documentaria con l’accesso alla rete telematica.
b) Topica e ordine.
Nella sua funzione organizzativa, la topica
giuridica classica non si identifica in una griglia
formale e precostituita di concetti fondamentali dai quali desumere conseguenze certe, come
accade nella concezione razionalistica moderna visibile anche nell’informatica giuridica documentaria, ma presuppone che la premessa
rinvenuta nella ricerca abbia carattere dialogico, essendo sempre destinata ad una possibile
contestazione, del tutto analoga a quella che
avviene durante i dibattiti giudiziali.
La libertà della ricerca della documentazione giuridica si mostra così pienamente soltanto nella rete telematica, che non è una base di
dati organizzata e predeterminata, e consente
di individuare previamente soltanto una schema critico dell’indagine. Infatti, la ricerca di
luoghi argomentativi alternativi (per esempio,
una giurisprudenza oscillante) e l’impossibilità
di prevedere completamente le obiezioni della
controparte o la decisione del giudice esigono
di riferirsi allo schema del dialogo e del suo
estrinsecarsi nel processo: il contraddittorio.
Pertanto, lo schema relazionale della topica
giuridica euristica orienta l’indagine telematica delle fonti quando, in forma elementare,
seleziona dati disomogenei tra loro, apparentemente disorganizzati e privi di un filo conduttore, distinguendoli in un ambito comune.
È quanto accade quando si consulta un qualsiasi
motore di ricerca presente in Internet tramite
parole chiave (keywords) e si ottiene una griglia
di lettura formale che non è completamente
precostituita dal programmatore, ma richiede
almeno in misura minima l’intervento sogget69
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
tivo dell’operatore, quasi in contraddittorio
con la rete: sicché, in un unico spazio di ricerca, questa via telematica offre l’opportunità
di organizzare argomenti preesistenti in una
sorta di catalogo euristico che, come si evince
dal risultato dell’interrogazione, può indicare
anche combinazioni concettuali, funzionando
come un registro di soggetti (thesaurus).
È vero che l’archivio digitale che costituisce la base del motore di ricerca si fonda sulla
preliminare e costante ricerca operata dagli
agenti di navigazione (spiders) i quali, per ogni
pagina web, salvano parte del contenuto e il relativo collegamento in un catalogo indicizzato
che definisce così il campo dell’indagine, ma è
anche innegabile che questi limiti non infrangono la finalità organizzativa della topica euristica, giacché l’indicizzazione è in continuo
aggiornamento e l’utente, una volta effettuata
una ricerca, trova automaticamente solo un
elenco di risultati in ordine numerico di rilevanza ed è chiamato in ogni caso ad approfondire la consultazione.
c) Topica e repertorio.
La funzione pratica della topica aristotelica si
mostra nella ricerca e nell’istituzione di repertori argomentativi persuasivi con la raccolta di
tesi difficilmente attaccabili e adeguate al singolo caso concreto nello specifico contesto del processo con l’utilizzazione della rete telematica.
La selezione delle informazioni giuridiche
utilizzabili nel discorso processuale costituisce la
via che può essere percorsa sviluppando la tecnologia dei meta-motori di ricerca, che inglobano il
lavoro svolto dai motori di ricerca accrescendo le
potenzialità dell’interrogazione, ed elaborando i
programmi che consentono di eseguire operazioni di filtro (filtering) dei dati ritrovati individuando aspetti simili di premesse opposte: quest’ultima evenienza si verifica all’interno di una base di
dati quando si cerca una decisione che compone
un precedente contrasto di giurisprudenza.
Si risponde così dialetticamente all’esigenza
pratica, avvertita già da Aristotele, di preparare
per la discussione forense gruppi organizzati
di argomenti che possano essere “universali”,
cioè di utile applicazione in casi diversi.
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
Peraltro, quando la ricerca digitale è il più
possibile vicina alla completezza e, dunque,
appare più precisa, il risultato di essa risulta
non solo difficilmente contestabile, ma anche
più adeguato al singolo caso controverso. In
concreto, la precisione della giurisprudenza
reperita in modo anche vago sia in una singola banca dati che, più generalmente, nella rete
telematica aumenta quando la ricerca viene
eseguita non su informazioni già selezionate o
filtrate dal programmatore (come la massima
della sentenza), ma più liberamente sull’intero
testo (full text) disponibile (come la motivazione integrale della decisione).
In questa prospettiva culturale dell’informatica giuridica, che appare obiettivamente prossima all’autentica logica forense, si coniuga la
formalizzazione di sistemi esperti di intelligenza artificiale applicata al diritto con modelli
argomentativi fondati su conoscenze sempre
obiettabili o invalidabili, da considerare certe
fino al prevalere di punti di vista contrari9.
2. Topica, informatica giuridica e logica fuzzy
Un impulso alla topica giuridica telematica
nell’attività di interpretazione ed amministrazione della controversia, che è inevitabilmente la vera radice dell’esperienza giuridica, può
provenire dalla logica fuzzy che, a differenza
dei tradizionali programmi cibernetici di intelligenza artificiale fondati sulle regole della
conversione binaria, presuppone risultati sfumati e che si sovrappongono tra loro.
La logica sfumata o fuzzy condivide con le
metodologie dell’argomentazione, tra le quali
la dialettica e la retorica, la convinzione che non
sia possibile ottenere (e sia controproducente
cercare) una formalizzazione del linguaggio,
tale che ad ogni termine sia assegnato un significato rigorosamente univoco10, sicché anche le scienze esatte devono confrontarsi con
9 Cfr. G. Sartor, Intelligenza artificiale e diritto: un’introduzione,
Milano, 1996, pp. 116-117. Più ampiamente, cfr. H. Prakken,
Logical Tools for Modelling Legal Argument: a Study of Defeasible
Reasoning in Law, Dordrecht, 1997, nonché Id., G. Sartor,
Logical Models of Legal Argumentation, Dordrecht, 1997.
10 Cfr. F. Puppo, Per un possibile confronto fra logica fuzzy
e teorie dell’argomentazione, in: “Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto”, 2, 2006, pp. 221-271.
70
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
la vaghezza, essendo impossibile eliminare in
tutti i discorsi e, a maggior ragione, nell’interpretazione giuridica, la polivalenza di senso
e di significati che le espressioni linguistiche
intrinsecamente recano11.
Questa logica sfumata, che accoglie la vaghezza nel linguaggio come principio essenziale, presenta una felice ambiguità di fondo
probabilmente utile per l’informatica forense, poiché, da una parte, essa si ricongiunge
alla propria origine analitica ma, dall’altra, si
avvicina alla dialettica.
Infatti, come dimostrano applicazioni tecnologiche anche sofisticate dell’età contemporanea, la logica fuzzy continua ad obbedire
al pregiudizio ipotetico ed assiomatico del
metodo analitico, perché si realizza nei sistemi informatici attraverso la costruzione di un
algoritmo programmato su un calcolatore digitale convenzionale, contemplando tuttavia
una componente soggettiva, consistente nella
traduzione numerica della vaghezza12.
Tuttavia, è possibile accostare il giudizio
di mediazione dialettica al risultato del ragionamento fuzzy attraverso l’elaborazione di
programmi flessibili di informatica giuridica
decisionale che tentino di evitare l’illusorio
automatismo della giustizia cibernetica. In
particolare, l’informatizzazione della composizione della disputa forense, che implica
la formalizzazione della dialettica13, potrebbe essere realizzata selezionando gli aspetti comuni che, tra le opposte pretese, sono
espressamente indicati dalle parti durante
il processo e che consentono al giudice di accertare nella sentenza gli elementi di fatto e
di diritto inopponibili e, dunque, pacifici per
entrambe le parti della contesa.
Per esempio, quando nel processo civile il
convenuto in giudizio non contesta alcune
delle ragioni di fatto dedotte dall’attore, tali
elementi devono essere considerati pacifici
e, dunque, comuni a entrambe le parti della
11 Cfr. C. Luzzati, La vaghezza delle norme: un’analisi del
linguaggio giuridico, Milano, 1990.
12 Cfr. F. Puppo, Per un possibile confronto fra logica fuzzy e
teorie dell’argomentazione, cit.
13 D. Marconi (a cura di.), La formalizzazione della dialettica. Hegel, Marx e la logica contemporanea, Torino, 1979.
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
disputa, con obbligo per il giudice di accertare tali ragioni nella decisione che, su tale
punto, è una mediazione.
3. L’informatica nel processo penale: la
prova digitale
La diffusione dei computer, della rete Internet e della posta elettronica ha portato il mondo digitale direttamente sulla scena criminis: le
tecnologie digitali, infatti, possono essere sia
strumenti per compiere un reato, sia le “vittime” di un reato, sia contenere le prove della
commissione di un reato. Il diritto penale ha
così dovuto confrontarsi con nuove figure di
reato e, allo stesso tempo, la procedura penale ha dovuto fornire le regole per regimentare
istituti che, toccati dalle nuove tecnologie, hanno mutato la propria natura. Ad esempio, ci si
riferisce qui al campo delle c.d. prove digitali:
vale a dire quegli elementi idonei ad accertare
il reato che siano non solo da ricercare nei più
vari supporti di memorizzazione dei dati informatici, ma siano da essi stessi costituiti. In via
più generale, in questo contesto si parla comunemente di computer forensic science, “[which] is
the science of acquiring, preserving, retrieving, and
presenting data that has been processed electronically and stored on computer media”14.
Come chiarisce fra gli altri Gerardo Costabile, Computer Crime Analyst della Guardia di
Finanza di Milano, quello delle prove digitali è
il settore in cui operano i cyber-investigatori,
incaricati dagli Uffici del Pubblico Ministero
di ricercare le tracce elettroniche ed informatiche della commissione di un delitto. La questione presenta aspetti tutt’altro che risolti,
ma che qui ci dobbiamo limitare a menzionare: non esiste una normativa chiara che regoli
questa fase istruttoria, non esistono indirizzi
giurisprudenziali concordi, non esiste una
standardizzazione delle procedure a livello
operativo, venendo a mancare quella best practice della scienza cui occorre far riferimento in
presenza di nuove prove scientifiche, come di
certo sono quelle di cui qui stiamo trattando.
�����
M.G. Noblett, M.M. Pollitt, L.A. Presley, Recovering
and Examining Computer Forensic Evidence, 2000, p. 2,
www.fbi.gov: Sito consultato il 08/04/2008.
71
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Non esistendo neppure una chiara definizione di “traccia elettronica o informatica” ne indichiamo una d’uso: “in generale, quando si parla di
‘digital evidence’ si vuole richiamare l’attenzione
sulle informazioni ed i dati conservati o trasmessi dalle apparecchiature cosiddette digitali”15. E
quando si ha a che fare con questo tipo di prove,
uno dei problemi che vanno affrontati e risolti è
quello di garantire, da parte della pubblica accusa, l’integrità dei dati raccolti, dovendo dimostrare in sede dibattimentale l’efficacia probatoria
degli stessi passando attraverso il vaglio dell’esame della controparte. Dal momento che l’acquisizione di una prova digitale, per la natura sua
propria, intaccando il supporto su cui è contenuta rischia di modificarla, si pretende che l’esame
della Procura venga effettuato non sull’originale
del supporto ma su una sua copia.
In realtà, come noto, non si tratta di una semplice copia, ma di una beat strem image (o legal imaging) del supporto all’uopo sequestrato, la quale
consente “di operare su un hard disk praticamente identico all’originale, sia in maniera logica che
fisica, quindi anche su eventuali parti presumibilmente vuote dello stesso, che potrebbero contenere file o frammenti di file cancellati non sempre visibili con i normali strumenti di windows”16.
Naturalmente, ciò richiede l’impiego di idonei
strumenti software ed hardware al fine di non alterare la traccia informatica e così evitare dubbi
circa l’integrità dei dati in questione: ad esempio,
deve essere utilizzato un hard disk nuovo oppure
sottoposto ad una previa operazione di wiper, dovendo altresì il sistema operare in modo non invasivo con l’ausilio di un blocco di scrittura.
La cosa che più rileva ai fini del presente scritto
è che quest’operazione di formazione della legal
imaging va, se così possiamo dire, certificata e sigillata in modo univoco, tale per cui quella traccia,
e solo quella, sarà l’oggetto del thema probandum.
“Tale ‘marchio digitale’ sarà creato con un’operazione cosiddetta di hashing a senso unico, con algoritmo di classe MD5, che genera un’impronta
della lunghezza di 128 bit (16 byte), L’impronta
costituisce un riferimento certo alla traccia digi15 G. Costabile, Scena criminis, documento informatico e
formazione della prova penale, 2004, p. 2, www.altalex.
com: Sito consultato il 11/02/2008.
16 Ibidem, p. 3
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
tale, ma non ne consente una ricostruzione. Tale
algoritmo è utilizzato a livello internazionale e
garantisce un buon livello di sicurezza”17.
Ma il punto è proprio questo: cosa significa
“buon” livello di sicurezza? Dal momento che
il “processo penale è regolato dal principio del
contraddittorio nella formazione della prova”
(art. 111, 4 Cost. It.), la quale ultima deve subire
il vaglio elenctico della dialettica processuale,
siamo sicuri che la procedura appena descritta
possa essere accettata senza problemi?
4. Alcuni profili problematici
Abbiamo visto in che modo agisce di regola il
Pubblico Ministero nel momento in cui ricerca
la prova digitale in sede di indagine; e abbiamo
visto anche come le procedure comunemente
utilizzate sono state sviluppate dovendo tenere
presente l’inderogabile principio di integrità della prova raccolta: ciò al fine, come cennato, di superare il vaglio della difesa in sede processuale.
Tenuto presente tutto ciò, le domande con cui
si è chiuso il paragrafo precedente devono trovare
risposta negativa. In altri termini, sebbene la procedura della creazione del c.d. “marchio digitale”
sia garantita da sistemi software utilizzati a livello
internazionale, non sono mancate alcune critiche, che incidono proprio sul valore processuale
di quei procedimenti di ricerca della prova.
In effetti, il software maggiormente utilizzato in questo campo, vale a dire “EnCase” prodotto dalla Guidance Software Inc. – “destinato all’uso
professionale ed investigativo di numerose agenzie e forze dell’ordine in tutto il mondo e considerato in linea con gli standard internazionali per le
analisi delle tracce informatiche”18 – è, senza che
questo possa stupire più di tanto, un programma
informatico protetto da copyright. Cosa che comporta, come noto, l’impossibilità di conoscere i codici-sorgente del programma, che restano nascosti a chiunque, e così pure agli esperti informatici
nominati CTP dalla difesa o CTU dal giudice.
Come è stato correttamente da altri evidenziato, “si tratta comunque di una questione
che merita la massima attenzione e che dovrà
nel futuro essere oggetto di approfondimenti
��Ibidem.
��Ibidem, p. 7. n. 3.
72
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
dottrinali”19: ma che, già adesso, è affrontata
nella prassi. Infatti, proprio per evitare possibili eccezioni della difesa, la quale potrebbe lamentare (secondo noi sensatamente)
la mancata trasparenza della “procedura di
working dell’analizzatore”20 – e così impedire
l’ingresso, all’interno del processo penale, di
una prova digitale pregiudizievole per l’imputato –, “alcune squadre investigative si stanno
orientando verso l’utilizzo di software a codicesorgente aperti (open source)”21.
Dal nostro punto di vista, questa questione è
strettamente correlata con la struttura dialettica
del processo e con la logica retorica che la governa
(senza però poter qui dilungarci troppo sulla natura di questa logica): cerchiamo di spiegare perché.
5. Informatica giuridica, retorica e
struttura dialettica del processo
Come noto, in via assai generale ma corretta (auspicando che ci sia perdonata una certa
approssimazione), gli algoritmi possono essere definiti come “metodi per la soluzione di
problemi. Possiamo caratterizzare un problema mediante i dati di cui si dispone all’inizio
e i risultati che si vogliono ottenere: risolvere
un problema significa ottenere in uscita i risultati desiderati a partire da un certo insieme di dati presi in ingresso”22. Si può anche
affermare che “un algoritmo è la descrizione
del processo per risolvere un problema, descrizione che riduca tale processo ad una pro19 L. Lupária, Il caso “Vierika”: un’interessante pronuncia in materia di virus informatici e prova penale digitale. I profili processuali,
in: “Diritto dell’internet”, (2006), n. 2, pp. 155-160: 158, n. 26.
20 G. Costabile, Scena criminis, documento informatico e
formazione della prova penale, cit., p. 7, n. 3.
21 L. Lupária, Il caso “Vierika”: un’interessante pronuncia
in materia di virus informatici e prova penale digitale. I
profili processuali, cit., p. 158, n. 26. Naturalmente, qui
non si potrà neppure accennare ad alcuno dei profili
relativi all’open source e al problema del copyright: per
un’analisi di insieme si rimanda a A. Rossato, Diritto
e architettura nello spazio digitale. Il ruolo del software libero, Padova, 2006; per un inquadramento giuridico
della questione, si veda anche utilmente C. Cevenini,
C. Di Cocco, G. Sartor (a cura di), Lezioni di informatica
giuridica, Bologna, 2005, pp. 115-173.
22 M. Frixione, D. Palladino, Funzioni, macchine, algoritmi.
Introduzione alla teoria della computabilità, Roma, 2004, p. 19
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
cedura effettiva”23; e che un programma informatico è la descrizione di un algoritmo in un
linguaggio comprensibile dal calcolatore
Il punto è che se non si è in grado di conoscere il codice-sorgente di un programma
informatico non si è in grado di conoscere le
istruzioni appartenenti al linguaggio di programmazione utilizzato per realizzare quel
programma: qualcosa sul suo funzionamento
(ma, verrebbe da dire, le ragioni intrinseche
dello stesso) resta così celato e nascosto.
Ma questo, in un contesto processuale, non
è accettabile: nel processo, infatti, le parti sono
chiamate a dare ragione delle proprie ragioni,
dovendo provare la fondatezza delle pretese
che sostengono e che portano avanti24. E ciò
che risulta non disponibile alla discussione
non può trovare cittadinanza nel processo.
Nel nostro esempio, questa sorte potrebbe
legittimamente toccare alla prova ostentata dal Pubblico Ministero perché non risulta
del tutto controllabile la procedura informatica seguita nella ricerca della prova stessa: il
programma con cui si ottiene la certificazione dell’autenticità della legal imaging dei dati
analizzati non può infatti essere analizzato25.
Si potrebbe così affermare che il software utilizzato è garantito dal solo fatto che... viene
utilizzato in tutti i casi: un argomento che
ci pare francamente tutt’altro che razionale
e, piuttosto, basato sull’efficacia. Viceversa,
nulla si potrebbe obiettare, neppure in sede
di eccezione processuale, se fosse possibile
accedere ai codici-sorgenti dei programmi
di legal imaging perché un tanto basterebbe a
rendere del tutto disponibile alla controparte
il metodo tramite il quale si è pervenuti alla
prova digitale. E solo in tal modo potrebbe
appieno spiegarsi la garanzia del contraddittorio prevista dall’art. 111 Cost. It., che garan23 G. Sartor, Le applicazioni giuridiche dell’intelligenza artificiale. La rappresentazione della conoscenza, Milano, 1990, p. 123.
24 Sulla natura dialettica del processo si veda su tutti P. Moro,
La via della giustizia. Il fondamento dialettico del processo, cit..
25 Ecco perché alcuno ha affermato che “non essendo
possibile analizzare i codici-sorgente di questi programmi, la validità dei report da loro generati è fondata su un
vero e proprio atto di fede” (così A. Monti, Attendibilità
dei sistemi di computer forensic, 2003, p. 2, www.ictlex.net:
Sito consultato il 08/04/2008).
73
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
tisce il principio ad un tempo logico, ontologico e deontologico del processo. Chi sottace
o non è in grado di mostrare alla controparte
le ragioni del proprio dire, infatti, si sottrae al
dialogo, comportandosi in modo eticamente
scorretto, in un processo che sarà di conseguenza ingiusto e che quindi non potrà essere detto tout court un processo26.
Un’ultima considerazione, che esula dal
campo propriamente giuridico (ma crediamo non da quello retorico), a conforto di
quanto detto circa i limiti che può incontrare la persuasività di un discorso quando non sia possibile indagare fino in fondo le ragioni dello stesso. Come noto, uno
dei problemi matematici che lungamente
rimase irrisolto è il c.d problema dei quattro colori: per più di un secolo nessuno era
stato infatti in grado di dimostrarlo, fino
a quando, nel 1976, K. Appel e W. Haken,
dell’Università dell’Illinois, annunciarono
di trovato la soluzione. Ma ciò che più colpì la comunità dei matematici fu il modo in
cui essi pervennero alla dimostrazione: infatti, parti importanti e cruciali della stessa
furono effettuate da un calcolatore elettronico, dal momento che “la quantità di calcoli richiesta era tale da rendere impossibile
il controllo di ogni passaggio da parte di
un matematico umano […]. Fino ad allora,
una dimostrazione consisteva in un ragionamento logicamente corretto mediante il
quale un matematico poteva convincere un
altro della verità di qualche asserzione. Leggendo una dimostrazione, un matematico
poteva persuadersi della verità dell’affermazione in questione ed anche arrivare a capire la ragioni che ne sostenevano la validità […]. Invece, nella dimostrazione della
congettura dei quattro colori l’uso del calcolatore era assolutamente indispensabile:
la prova era imperniata proprio su questo.
Per accettare la dimostrazione occorre essere convinti che il programma impiegato
esegua ciò che i suoi autori affermano”27.
Naturalmente, prima di pubblicare la dimostrazione, ci si premurò di controllare
che la parte della dimostrazione svolta dal
calcolatore fosse corretta: ma l’unico modo
per farlo fu “mediante l’esecuzione su di
un’altra macchina di un programma scritto
in maniera indipendente. Una parte critica
della dimostrazione rimaneva così nascosta
agli occhi umani” 28. Il risultato fu che, per
molti matematici, la dimostrazione fornita
da Appel e Haken non poteva a rigore essere considerata una dimostrazione, dal momento che i risultati ottenuti non potevano
in alcun modo essere verificati dall’uomo;
e “data la complessità dei calcoli implicati,
persino i sostenitori delle dimostrazioni
assistite dal calcolatore devono ammettere
che gli oppositori dispongono di qualche
ragione a sostegno delle loro opinioni”29.
Ma se una dimostrazione matematica
non può essere pacificamente accettata ove
non sia possibile seguire passo passo la dimostrazione, ci pare che, a maggior ragione, non possa essere accettato un discorso il
quale, celando alcune sue ragioni, si sviluppi nel contesto controversiale del processo,
in cui non si dispone di assiomi o ipotesi
di partenza e quindi in cui si discute esattamente delle assunzioni di ciascuna parte. Da
quanto detto, emerge peraltro una singolare
simmetria: sia la dimostrazione del teorema
dei quattro colori, sia l’autenticità della legal
imaging possano essere accettate solo se si
è convinti che i programmi rispettivamente impiegati eseguano ciò che i loro autori
affermano. Ma, nell’esempio della prova digitale, se non si conoscono i codici-sorgenti
dei programmi utilizzati, ciò non può succedere: a meno, come cennato, di non far ricorso ad un argomento ex auctoritate che ricorda
molto da vicino la visione giuspositivistica
del diritto simboleggiata dal motto hobbesiano “auctoritas non veritas facit legem”.
26 Per trovare le ragioni a sostegno di quanto detto,
non si può far altro che rimandare, a titolo meramente esemplificativo, ai saggi pubblicati in M. Manzin, F.
Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola/“Audiatur et altera pars”. The due
process between principles and rules, cit.
�����������
K. Devlin, Mathematics: The New golden Age, London,
1988 (= Dove va la matematica. Nuova edizione riveduta e
ampliata, Torino, 20052), pp. 174-175. Corsivi nostri.
28 Ibidem, p. 175.
29 Ibidem, pp. 175-176.
Informatica e retorica forense
74
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Parlando di computer forensic science e dei
problemi connessi alla ricerca della prova digitale, crediamo di aver messo in luce come
l’utilizzo di sistemi informatici possa influire
direttamente sul processo e condizionare il discorso retorico che le parti conducono in esso,
nel reciproco contestare le ragioni dell’altro.
Peraltro, riteniamo che ciò sia dovuto anche
al fatto che, come detto in principio, la prova
digitale sia un esempio di nuova prova scientifica30. Non potendo qui dilungarci troppo sul
punto, basti ricordare che, dal nostro punto
di vista, quando il giudice si trovi di fronte a
questo tipo di mezzo istruttorio, deve al massimo grado stimolare il contraddittorio fra le
parti, dato che sono in discussione proprio gli
strumenti tecnico-scientifici utilizzati nella
fase d’indagine. In questi contesti, quindi, “ciò
che risulterà determinante non sarà l’evidenza scientifica (e dunque, potremmo oggettiva)
che spingerà il giudice a prediligere quello
specifico ‘strumento di prova’ piuttosto che
un altro, ma saranno le argomentazioni che le
parti addurranno in contraddittorio a poterlo
persuadere. La procedura, quindi, sarà in pieno retorica”31. Di conseguenza, se le parti non
sono in grado di esporre criticamente tutte le
ragioni della propria argomentazione, il giudice non può esercitare il vaglio dialettico cui
è chiamato ai fini della pronuncia o della sentenza, che decide il caso, o anche solo di un’ordinanza, che, come nel nostro esempio, decide
dell’ammissibilità di un’eccezione sollevata
dalla difesa circa l’inutilizzabilità di una prova
acquisita dalla pubblica accusa.
Come detto, per noi il diritto è essenzialmente processo; e se il diritto è processo, allora la logica giuridica prende le forme della
topica, della dialettica e della retorica. Crediamo quindi che un uso consapevole degli
strumenti informatici in ambito giuridico
non possa dimenticare ciò, in nome, maga30 Per un’indagine giuridico-filosofica sul tema, valga il rimando, su tutti, al recente S. Fuselli, Apparenze.
Accertamento giudiziale e prova scientifica, Milano, 2008.
31 F. Puppo, La “nuova prova scientifica” nel processo penale. Alcune riflessioni sul rapporto tra retorica e scienza,
in: M. Manzin, G. Ferrari (a cura di), La retorica fra
scienza e professione legale. Questioni di metodo, cit.,
pp. 355-372: 359-360.
Informatica e retorica forense
issn 2035-584x
ri, della realizzazione dell’utopico modello
sillogistico di positivistica memoria. Siamo
convinti che “l’attualità del legame tra metodologia e informatica forense risiede proprio
nel tentativo di rinvenire nella ricerca della
verità un valore stabile della cultura giuridica
odierna”32. E se l’informatica forense sarà in
grado di misurarsi fino in fondo con questi
principi, affrancandosi “dall’arroganza assoluta […] degli pseudo-cibernetici del diritto,
di quelli che rinchiudono – per davvero o per
finta – il cervello nei data-banks”33, allora potrà, fino in fondo, dimostrare e realizzare le
proprie potenzialità. Non per nulla, la soluzione indicata per il problema rappresentato
dal caso delle prove digitali, costituita dal ricorso all’open source, è a sua volta informatica:
ma discende dalla natura retorica del diritto e
da una riflessione su essa.
Paolo Moro, Facoltà di Giurisprudenza di Padova,
Sede di Treviso
Federico Puppo, Facoltà di Giurisprudenza di
Trento, Dipartimento di Scienze Giuridiche di
Trento
32 P. Moro, L’informatica forense. Verità e metodo, Cinisello
Balsamo, 2006, p. 173.
33 F. Cavalla, Retorica giudiziale, logica e verità, cit., p. 82.
75
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Note sul processo come algoritmo
*
Marco Cossutta
Abstract
Il lavoro qui presentato accentra la sua attenzione
sulla questione dei metodi di soluzione dei problemi,
con particolare riguardo alle metodologie svolte in
ambito giuridico ed a quelle che informano il sapere
matematico. Si constata che sussiste nell’alveo della
cultura giuridica moderna una tensione a ricondurre
il problema da risolvere nel campo del calcolo, sì da
prendere a modello le metodologie proprie alle scienze
cosiddette esatte. In questa prospettiva il processo
giuridico tende a risolversi in un algoritmo applicativo
della legge. Di converso si sofferma l’attenzione sulla
constatazione che da più parti, non ultimo nel dettato
costituzionale, si induca a considerare il processo il
luogo del contraddittorio fondato sul metodo dialettico,
sì da considerare il processo non solo il luogo in cui le
parti dialogano sul tema controverso, ma anche il luogo
ove, per mezzo del contributo delle parti, venga posta la
regola per la soluzione del problema. Due prospettive
contrapposte, l’una dialettica, l’altra logico-deduttiva,
che offrono due diversi sviluppi al tema del processo. In
conclusione si ritiene che, proprio avuto riguardo allo
sviluppo d’una società pluralista, in metodo dialettico
possa offrire delle soluzioni non chiuse all’interno di
un sistema ipotetico, fondato nel presente caso sulla
sacralità della legge, bensì aperte alle diverse istanze che
promanano dalla realtà sociale.
Sommario: 1 Sulla determinazione di significato dei termini del titolo; 2 Il processo
quale attuazione della legge?; 3 Sull’attuazione automatica della legge; 4 Sulle
radici della applicazione meccanicistica
della legge; 5 Teoria ed ideologia del diritto; 6 L’individuo virtuale; 7 Per un ritorno
all’interpretazione.
dalla vita quotidiana; il processo giuridico si
palesa, pertanto, come l’itinerario di soluzione giuridica di un problema.
In proposito rileviamo, sulla scorta delle indicazioni tratte da Fazzalari1, che “il processo
è il modello elettivo delle attività giurisdizionali”; al fine di circoscrivere il discorso, rico-
1. Sulla determinazione di significato
dei termini del titolo.
Assumiamo, all’interno di questo particolare universo di discorso, essere il processo un
itinerario di risoluzione di un problema posto
Note sul processo come algoritmo
Parole chiave
Algoritmo;
Applicazione automatica della legge;
Geometria legale; Informatica giuridica;
Interpretazione giuridica; Processo;
Retorica giuridica.
* Il presente scritto riproduce la lezione tenuta nella Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università degli Studî del Salento il 23
novembre 2009. La pubblicazione dell’interveto è occasione
per ringraziare il Preside della Facoltà di Giurisprudenza,
il professore Raffaele De Giorgi, per il cortese invito e, con
l’Amplissimo, il dottore Giovanni Pellerino per la cortese disponibilità dimostratami durante il soggiorno a Lecce.
1 Cfr. E. Fazzalari, sub voce Processo (teoria generale), in
Nuovissimo digesto italiano. La voce è apparsa nel 1976.
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
nosciamo che il processo ed il procedimento
appaiono specie di un genere comune, ma fra
i due sussiste una profonda differenza; acciocché si palesi un processo, e non un mero procedimento, non basta che sussista una generica
partecipazione del privato alla formazione del
provvedimento; infatti, per Fazzalari, “occorre qualcosa di più e di diverso; qualche cosa
che l’osservazione degli archetipi del processo
consente di cogliere. Ed è la struttura dialettica
del procedimento. La quale consiste non solo e
non tanto in ciò che alla fase preparatoria del
provvedimento partecipino anche gl’interessati, cioè, di norma, i destinatari degli effetti di
esso, quanto e soprattutto in ciò che, nel processo, i poteri, le facoltà, i doveri attraverso il
cui esercizio si attua questa partecipazione,
sono distribuiti dalla norma fra i partecipanti
in maniera da attuare una effettiva corrispondenza ed equivalenza fra le varie posizioni”.
Stante all’insigne processualista, “alla struttura
corrisponde lo svolgimento dialettico del processo: la simmetria delle posizioni soggettive,
la loro mutua implicazione, la loro sostanziale
parità si traducono, per ciascuno dei partecipanti, nella possibilità d’interloquire non episodicamente, e soprattutto, di esercitare un insieme – cospicuo o modesto non importa – di
controlli, di relazioni e di scelte, e nella necessità di subire i controlli e le relazioni altrui”2.
Tali concetti sono ripresi, fra i vari luoghi3,
dallo stesso autore un decennio dopo, nel momento in cui ribadisce che il processo si caratterizza per la “struttura dialettica del procedimento, cioè, appunto, «il contraddittorio»”4.
2 Le citazioni sono tratte da ibidem, p. 1068 e p. 1072.
3 Cfr., fra gli altri, F. Gentile, La controversia alle radici
dell’esperienza giuridica, in P. Perlingieri (a cura di), Soggetti
e norma, individuo e società, Napoli, 1987, p. 151 (con contributi di C. Argiroffi; P. Barcellona; G. Capozzi; A. Carrino;
A. Catania; F. M. De Sanctis; V. E. Cantelmo; P. Stanzione;
G. Marino; L. Orsi) e F. Cavalla, Il controllo razionale tra logica, dialettica e retorica, in Atti del XX Congresso Nazionale
della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Padova,
1998, p. 41 (con contributi di M. Taruffo; B. Montanari;
G. Fiandaca; P. Comanducci-R. Guastini; G. Pecorella; M.
Jori; A. Pintore; D. Zolo; A. Margara; V. Albano; L. Alfieri; P.
Borsellino; G. Incorvati; L. Ferrajoli; V. Villa; M. Fracanzani;
M. A. Cattaneo; G. Insolera; P. Pittaro; G. Melis).
4 E. Fazzalari, sub voce Procedimento e processo (teoria generale), in Enciclopedia del diritto. La voce è apparsa nel 1986.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
Possiamo definire il secondo termine presente nel titolo, l’algoritmo, anch’esso come
un procedimento volto alla soluzione di un
problema sorto nella vita quotidiana; in particolare possiamo ritenere l’algoritmo un insieme ordinato, in sequenza, di tutte le regole
precise, inequivocabili, analitiche, generali,
astratte, formulate ex ante al caso da risolvere e senza alcun riferimento a questo, la cui
scrupolosa e letterale applicazione pone infallibilmente in grado di conseguire il risultato
voluto (il quale appare, proprio perché ottenuto con l’applicazione corretta delle regole
racchiuse nell’algoritmo, valido)5.
Se, per un verso, il processo e l’algoritmo
appaiono accumunati dal medesimo intento
di porre una soluzione ad un problema ed in
questo paiono specie dello stesso genere, per
altro, pare, che gli stessi divergano profondamente per ciò che concerne il metodo con cui
tale soluzione viene perseguita: la struttura
dialettica del processo si oppone al divenire
logico-deduttivo dell’algoritmo.
Che il processo si definisca per la presenza
del contraddittorio inserito all’interno d’una
struttura dialettica, la quale, viceversa, non
informa l’algoritmo, non ci permette ancora
di risolvere il problema del rapporto fra i due
termini presenti nel titolo attraverso una reciproca esclusione, giustificata dal fatto che
l’algoritmo non rimanda all’incedere dialettico. Questa constatazione ci permette soltanto
di riconoscere come il metodo utilizzato per
giungere alla soluzione non sia comune fra il
processo giuridico, così come viene tratteggiato dal Fazzalari qui richiamato, e l’algoritmo;
mentre comune rimane l’intendo di fondo, ovvero la ricerca della soluzione.
Una drastica e, forse, aprioristica presa di
posizione volta ad escludere una possibile relazione fra il processo e l’algoritmo ci viene,
fra l’altro, inibita proprio dalla definizione
dell’incedere dialettico, che, come noto, appartiene alla speculazione platonica: “per il fatto
5 Sull’argomento cfr. in primis R. Borruso – C. Tiberi,
L’informatica per il giurista. Dal bit a Internet, Milano, 2001.
In merito alle definizione dell’algoritmo mi permetto di rimandare, soprattutto per il riferimento a fonti
matematiche, al mio Questioni sull’informatica giuridica,
Torino, 2003.
77
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
che non si è abituati a condurre una ricerca
mediante la suddivisione per specie, gli uomini riconducono immediatamente al medesimo punto ritenendole simili cose che sono
tanto diverse tra loro, e, insieme, fanno anche
tutto l’opposto, suddividendone altre non secondo specie; bisognerebbe invece, appena
ci si accorge della partecipazione fra loro di
molte realtà, non cessare di esaminarle prima
di aver colto in questa partecipazione tutte le
differenze, quante esse siano che si fondino
sulle specie, e d’altra parte, quando vengono
ravvisate in una molteplicità le svariatissime
dissomiglianze ivi presenti, non dovrebbe
essere possibile distogliersene sconcertati
prima di aver raccolto, nella determinazione
dell’essere corrispondente di un genere dato,
tutto ciò che è congenere, racchiudendolo in
una sola somiglianza”6.
Conviene, pertanto, indagare ancora intorno al rapporto fra i due termini e non
chiudere qui la nostra riflessione; infatti, la
questione non può venire ancora risolta riconoscendo la contraddittorietà d’una comune
presenza (o, meglio, d’un sovrapporsi) di processo ed algoritmo se, in autorevole dottrina,
possiamo leggere che “difficilmente si possono ritenere esaustive le comuni definizioni della giurisdizione, che anzi in certo qual
modo, in quanto presuppongono un sistema
chiuso, sono la negazione della giurisdizione,
e comunque ne sminuiscono la portata. La
dimostrazione più evidente è data dalla definizione della giurisdizione come attuazione
della legge […]. Il fatto è che nella riferita definizione la legge è concepita come una volontà
esaustiva di tutta la realtà, un esterno comando, che è in rapporto meramente formale con
la giurisdizione, la quale si limita appunto ad
attuare quel comando. È come se si riducesse
l’ordinamento ad uno spettacolare gioco delle
parti, di cui una pone la legge, l’altra l’applica,
l’una comanda, l’altra trasmette il comando e
obbedisce o fa obbedire”7.
La citazione tratta dall’opera di Salvatore
Satta, ci permette di cogliere, per lo meno in
ambito dottrinale, la presenza di due prospettive; per un verso la tendenza a cogliere il processo (per dirla con Fazzalari, il ”modello elettivo dell’attività giurisdizionale”) come luogo
fondato ed indirizzato dalla dialettica fra le
parti, per altro, invece, quale puro momento
attuativo della legge, ovvero, richiamando la
definizione di algoritmo, meccanismo logicodeduttivo atto alla soluzione di problemi (e ciò
nonostante il preciso e forte richiamo al contraddittorio ora contenuto inequivocabilmente, a seguito della legge costituzionale n. 2 del
23 novembre 1999, nel testo dell’articolo 111
della Costituzione italiana).
6 Politico, 285 (citiamo avvalendoci della traduzione di
Attilio Zardo in Platone, Opere complete. Cratilo, Teeteto,
Sofista, Politico, Roma-Bari, 1987, p. 295).
7 S. Satta, sub voce Giurisdizione (nozioni generali), in
Enciclopedia del diritto.
8 Cfr. il contributo di Paolo Moro, Il giurista telematico.
Informatica giuridica ed etica della mediazione, nel volume da egli curato Etica Informatica Diritto, Milano, 2008
(con contributi di M. Cossutta; P. Heritier; F. Macioce; G.
Marzotto, A. Montanari; F. Puppo; C. Sarra; R. Scudieri).
Note sul processo come algoritmo
2. Il processo quale attuazione della legge?
Sussiste, pertanto, all’interno della cultura
giuridica una tendenza ad indicare nella legge
il fulcro intorno al quale si dispiega l’itinerario
processuale, sicché le parti risulterebbero ad
essa, quanto meno, complementari.
Se la giurisdizione si risolvesse nell’applicazione della legge, allora l’algoritmo ritroverebbe non sono legittimità, ma addirittura
centralità all’interno del processo e la struttura dialettica risulterebbe non solo residuale, ma di fatto esiziale per il corretto svolgimento del processo.
Per incidens va osservato come, all’interno
di questa prospettiva, che taluni definirebbero legolatrica8, e che, di fatto, come vedremo
in seguito, si coagula intorno all’idea del sillogismo giudiziario, le parti, le protagoniste
del contraddittorio, comparirebbero soltanto
nella premessa minore del sillogismo; questo
è, infatti, informato dalla premessa maggiore, nella quale si racchiude la legge. L’azione
delle parti trova così la sua qualificazione giuridica nello sviluppo del sillogismo, fondato
dalla premessa maggiore, per tramite della
formale sussunzione della fattispecie con-
78
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
creta in quella astratta; la legge che illumina i
fatti della vita quotidiana e che, come un centro di forza centripeta, attira i fatti della vita
a sé offrendoli quella giuridicità, che nel loro
concreto svolgersi, sarebbe sconosciuta all’insieme dei quotidiani accadimenti.
Sicché, si badi bene, la soluzione giuridica di un problema posto dalla vita quotidiana sarebbe già sussistente prima del
suo verificarsi e sussisterebbe anche in
assenza del suo verificarsi, perché la soluzione è, seguendo le indicazioni critiche di
Satta, per questa prospettiva largamente
dominante nella cultura giuridica moderna, racchiusa nell’articolo di legge. Si tratta solo di applicarlo.
Ritengo che si posseggano, a questo
punto, sia pur rapsodicamente disposti,
tutti gli elementi per poter cogliere la
portata di un’affermazione solo in modo
apparente paradossale. Su una Appendice
della Enciclopedia del diritto possiamo leggere: “senza nulla togliere all’importanza
dell’informatica giuridica documentaria, il
tema più importante dell’informatica giuridica deve, a nostro avviso, essere considerato quello dell’applicabilità automatica
della legge” 9.
3. Sull’attuazione automatica della legge
La questione qui sollevata è spinosa; come
l’autore stesso sottolinea, siamo nel campo
dell’utopia, nell’ambito dell’affascinante connubio tra progresso tecnologico e svolgersi
dei fatti politici e giuridici, il cui approccio
problematico ha visto sbocciare antiutopie
come 1984 e Fahrenheit 451.
È bene quindi procedere con ordine al fine
di comprendere se e come certa tecnica possa
essere posta al servizio dei fatti politici e giuridici; la tecnica inerente ai sistemi informatici
si sviluppa per mezzo di algoritmi e, pertanto,
il nostro discorso viene integrato da una nuova espressione: la legge-algoritmo10.
9 Così Renato Borruso, sub voce Informatica giuridica, in
Enciclopedia del diritto. Appendice, p. 654, La voce è apparsa nel 1997.
10 Cfr. ibidem, p. 658.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
Senza soffermarci in ulteriori preamboli11,
una legge-algoritmo risulta operativa, ovvero
porta alla soluzione di un problema, se applicata automaticamente. Dobbiamo pertanto
interrogarci sulla collocazione di questo particolare modo di applicare la legge all’interno
della cultura giuridica. In particolare, al di là
dei richiami già effettuati, va indagato il rapporto fra queste istanze, volte all’automatismo nell’applicazione della legge, ed il mondo
del diritto. Va anticipato che il rapporto che si
può intravvedere fra questi due poli appare,
se non ottimale, certamente ben consolidato.
A riprova di ciò richiamiamo un classico della cultura giuridica contemporanea:
Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del
diritto, corso di lezioni tenuto da Norberto
Bobbio nell’anno accademico 1960-1961 e
raccolto da Nello Morra12.
Nel paragrafo 57 del Capo IV (La funzione
interpretativa della giurisprudenza) possiamo leggere: “la concezione giuspositivistica della
scienza giuridica è stata accusata di formalismo
[…] siamo di fronte a quello che abbiamo definito formalismo scientifico: il giuspositivismo
ha una concezione formalistica della scienza
giuridica in quanto nell’interpretazione dà
assoluta prevalenza alle forme, cioè ai concetti giuridici astratti e alle deduzioni puramente logiche che si possono fare in base ad
essi, a scapito della realtà sociale che sta dietro a tali forme, dei conflitti d’interesse che il
diritto regola, e che dovrebbero (secondo gli
avversari del positivismo giuridico) guidare
il giurista nella sua attività interpretativa”13.
A tale proposito va rilevato come la teoria
da Bobbio definita dell’interpretazione logica o
meccanicistica del diritto sia, per lo stesso, una
delle sei concezioni fondamentali su cui si
basa il positivismo giuridico (solo in modo
sfumato si fa qui presente che l’autore utilizza il termine diritto e non legge, o, meglio, intende diritto per legge).
11 Per un approfondimento delle questioni concernenti
il rapporto fra informatica e diritto, nonché per specifici
ragguagli tecnici sui termini qui utilizzati si rimanda,
fra le altre, alle opere di Borruso qui citate.
12 Verrà citata l’edizione Tornio, 1979.
13 Ibidem, p. 261.
79
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Certo, questa specifica concezione presenta per Bobbio dei problemi; infatti, a differenza di altre ( le teoria coattiva, quella legislativa e quella imperativa) la critica alla teoria
dell’interpretazione logica o meccanicistica
del diritto (parimenti a quelle alle teorie della coerenza e della completezza dell’ordinamento
giuridico) è fondata.
Osserviamo il perché di tale consistenza:
per Bobbio “l’interpretazione del diritto fatta
dal giudice non consiste mai nella semplice
applicazione della legge in base a un procedimento puramente logico: anche se non se ne
accorge, per giungere alla decisione egli deve
sempre introdurre valutazioni personali, fare
delle scelte, che non sono vincolate dallo schema logico che egli deve applicare”14.
Ci permettiamo di rilevare che è proprio a causa di queste constatazioni che tale teoria è sorta,
meglio, al fine di evitare il perdurare di una situazione di incertezza si è prodotta tale particolare
teorizzazione (la quale non è descrittiva, bensì
prescrittiva). La constatazione empirica della sua
non applicazione, non inficia affatto l’aspirazione
contenuta nella teoria (l’applicazione meccanica
della legge), anzi, la rende ancora più necessaria.
4. Sulle radici della applicazione
meccanicistica della legge
Questa teoria, la quale mi pare possa logicamente derivare dalla teoria legislativa del diritto,
le cui critiche, a detta di Bobbio, non sono fondate, ha radici antichissime e radici altrettanto
antiche ha, quindi, la sua attuale riproposizione nei termini di legge-algoritmo.
Pur non avanzando alcuna pretesa di completezza15 proviamo a abbozzare un itinerario
ricostruttivo.
Nella lettera dedicatoria a William Cavendish, scritta nel 1646 da Thomas Hobbes per
la seconda edizione del De cive, leggiamo: “se
14 Ibidem, pp. 284-285.
15 Fra le sparse note che seguiranno, fra gli altri, non
compaiono né il Jeremy Bentham dell’Introduzione ai
principi della morale e della legislazione, trad. it. Torino,
1998 (ma 1789), né l’Austin della Delimitazione del
campo della giurisprudenza, trad. it. Bologna, 1995 (ma
1832), che hanno influenzato non poco la fondazione
del positivismo giuridico.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
la ragione delle azioni umane fosse conosciuta
con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle grandezze nelle figure, l’ambizione
e l’avidità, la cui potenza si sostiene sulle false
opinioni del volgo circa il diritto e il torto, sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe
di una pace tanto costante, che non sembra si
dovrebbe più combattere”16.
Pare fuori dubbio che Hobbes abbia ripreso
le sue massime dal Maestro del pensiero scientifico moderno, Galileo Galilei, che nel suo Il
Saggiatore sottolineava, nel 1623, che il libro
della natura è scritto in lingua matematica, e
i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure
geometriche, senza i quali mezzi è impossibile
intendere le parole umane17. E di fatti, quasi di
rimando, Hobbes nel Leviathan, I, V, scrive: “per
mezzo delle parole l’uomo è capace di ridurre
le conseguenze che trova in regole generali,
chiamate teoremi o aforismi, che è dunque
capace di ragionare o di calcolare non solo sui
numeri ma in tutti gli altri generi di cose che
siano suscettibili di essere addizionate o sottratte l’una dall’altra. Questo privilegio è tuttavia bilanciato da un altro – è significativo constatare come già nell’aprile del 1651 si possano
cogliere i prodromi del positivismo logico – :
quello dell’assurdità a cui non è soggetta altra
creatura vivente ad eccezione dell’uomo. E fra
gli uomini vi sono esposti più di chiunque altro coloro che professano la filosofia. È infatti
verissimo quello che Cicerone dice di loro in
qualche luogo, che non ci può essere niente di
tanto assurdo da non essere rintracciabile nei
libri dei filosofi. E la ragione è evidente: nessuno di loro comincia il ragionamento partendo
dalla definizione o dalle spiegazioni dei nomi
che è in procinto di usare. Tale metodo è stato
usato soltanto nella geometria le cui conclusioni sono perciò diventate indiscutibili”18.
Se questa è l’impostazione di fondo allora appare conseguente l’affermazione di Leibniz, per
il quale, nello studio Sulla scienza universale o calcolo filosofico del 1695, “quando sorgeranno delle controversie, non vi sarà maggior bisogno di
16 Citiamo dalla edizione curata da Tito Magri, Roma, 1992, p. 65.
17 Cfr. l’edizione curata Libero Sosio, Milano, 1965
18 Citiamo dalla edizione curata da Arrigo Pacchi e
Agostino Lupoli, Roma-Bari, 1989, p. 37.
80
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia
tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che
essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamando
se loro piace un amico): calcoliamo”19.
È all’interno di questo quadro concettuale
che giungiamo, nel secolo dei Lumi, passando per il Muratori censore Dei difetti della giurisprudenza, apparso nel 174220, al celeberrimo
passo del Beccaria, per il quale “in ogni delitto
si deve fare del giudice un sillogismo perfetto:
la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice
sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta dell’incertezza, non v’è
cosa più pericolosa di quell’assioma comune
che bisogna consultare lo spirito della legge”21.
Al quale fa eco, nell’illuminismo partenopeo,
Filangieri, che, commentando il dispaccio reale
di Ferdinando IV di Borbone del 23 settembre
1774, sottolinea: “nei governi dispotici gli uomini comandano; nei governi moderati comandano
le leggi […]. L’arbitrio giudiziario è quello che si
cerca d’estirpare. Bisogna dunque torre a’ magistrati tutto quello che li rende superiori alle leggi. Ecco il fine di questa legge. Vediamone ora i
mezzi. Il re vuole che tutto si decida secondo un
19 Ora in Scritti di logica, Bologna, 1968, p. 237 (l’edizione
è curata da F. Barone); va rilevato che Leibniz fu acceso
sostenitore dell’opportunità di rivolgersi al pensiero razionale per porre fine alle diatribe in materia religiosa
e politica, da prima purificando il linguaggio ordinario,
fonte di confusione in campi come la giustizia o la religione, ove accorrono idee chiare e, successivamente,
attraverso la rappresentazione dei rapporti sociali in
termini matematici, costruendo un’algebra capace non
solo di porre una computazione universale, ma anche
di ordinare gli universi di discorso politici e giuridici.
Cfr. in argomento anche i contributi di Leibniz Principi
ed esempi della scienza generale e Storia ed elogio della lingua caratteristica universale che sia al tempo stesso arte dello
scoprire e del giudicare entrambi riproposti al lettore nella
citata raccolta Scritti di logica. È cosa nota come l’opera di
Leibniz influenzò il pensiero di Christian Wolff e con
esso tutto il Settecento giuridico tedesco.
20 Cfr. l’edizione curata da Gianluigi Barni, Milano, 1958.
21 Il passo è tratto dal capitolo quarto de Dei delitti e delle
pene, uscito anonimo a Livorno nel luglio del 1764 (già
l’anno successivo, con il titolo di Traité des delits et des peines, viene editato in Francia). Citiamo dalla edizione curata da Giuseppe Armani, Milano, 1987, p. 15.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
testo espresso; che il linguaggio del magistrato
sia il linguaggio delle leggi: che egli parli allorché esse parlano, e si taccia allorché esse non
parlano, o almeno non parlano chiaro; che l’interpretazione sia proscritta; l’autorità dei dottori bandita dal foro, e il magistrato costretto ad
esporre al pubblico la ragione della sentenza.
Questi sono gli argini che il sovrano ha innalzati contro il torrente dell’arbitrio”22.
Al di là degli esiti pratici del dispaccio reale, il
quale venne ritirato nel 179123, risulta estremamente interessate ai fini del discorso sul rapporto fra processo ed algoritmo, rilevare come
Beccaria voglia fare del giudice un sillogismo, ovvero trasformare l’organo giurisdizionale in un
meccanismo di soluzione (giuridica) automatica di problemi posti nella vita quotidiana; il
sillogismo perfetto, infatti, poste le premesse,
si svolge automaticamente24.
Certo né Beccaria, né Filangieri avevano,
come si suol dire, sotto mano una premessa
maggiore precostituita all’accadimento concreto rappresentato nella premessa minore,
ovvero quella legge la quale di lì a poco informerà il mondo del diritto. La promulgazione
del Code civil si compie, come noto, nel 1804.
Le posizioni dei due illuministi, ed in particolare quella di Beccaria, più che descrittive
di uno stato di fatto, appaiono piuttosto degli
auspici, delle indicazione sulla retta gestione
delle cose giuridiche. Quest’ultima si palesa
come possibile con l’istituzionalizzazione
della legge, compiuta, per l’appunto, dalla codificazione napoleonica.
In questo contesto possiamo a pieno apprezzare la constatazione del Mourlon, sorta
in seno alla école de l’exégèse, per il quale “per
22 Così nelle Riflessioni politiche sull’ultima legge del nostro Sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione
della giustizia, citiamo dalla riproduzione parziale in P.
Comanducci (a cura di ), Illuminismo giuridico. Antologia
di scritti giuridici, Bologna, 1978, pp. 173-174.
23 Cfr. in argomento G. Gorla, I precedenti storici dell’art.
12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di diritto costituzionale?), in “Il foro italiano”, XCIV
(1969), V-1, cc. 112 e segg.
24 Su tale questione rimando al classico scontro fra l’Alfredo Rocco de La sentenza civile, Torino, 1906, pp. 5 e
segg. e il Guido Calogero de La logica del giudice e il suo
controllo in Cassazione, Padova, 1937, pp. 46 e segg.
81
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
il giureconsulto, per l’avvocato, per il giurista,
un solo diritto esiste, il diritto positivo […]. Lo
si definisce: l’insieme delle leggi che il legislatore ha promulgato per regolare i rapporti tra
di loro […]. Dura lex sed lex: il buon magistrato umilia la propria ragione davanti a quella
della legge; poiché egli è istituito per giudicare secondo essa e non per giudicarla. Nulla
è al di sopra della legge. L’eluderne le disposizioni sotto il pretesto che l’equità naturale
vi contrasta non è altro che prevaricarle. In
giurisprudenza non c’è, non vi può essere ragione più ragionevole, equità più equa della
ragione o dell’equità della legge”25.
Sicché allora comprendiamo come mai, per
certa prospettiva dottrinaria, il tema più importante dell’informatica giuridica sia proprio
quello dell’applicazione automatica della legge, ovvero rendere il processo un algoritmo26.
5. Teoria ed ideologia del diritto
Come già rilevato, la teoria sopra richiamata e
brevemente schematizzata si fonda sul protocollo per il quale il diritto è la legge e, pertanto, la giurisdizione, come ebbe a sottolineare criticamente il Satta qui richiamato, in questa prospettiva è
mera attuazione della legge. Un’attuazione che
non può che avvenire automaticamente. All’interno di questo contesto trova credibilità, ovvero
legittimità vuoi la legge-algoritmo, vuoi, al fine di
darle attuazione, il processo-algoritmo.
Queste teorizzazioni, sorte nel mondo del diritto e per il diritto, ritrovano ulteriore sostegno
intrecciandosi con altre istanze culturali che abbracciano orizzonti ben più vasti e che hanno plasmato un certo modo di rappresentare il mondo.
La scienza ed il metodo galileiano e cartesiano
hanno accompagnato, come osservato, il sorgere
del formalismo giuridico, il positivismo logico lo
ha incoronato come unica forma di pensiero giuridico sensato, in quanto basato su proposizioni
rappresentanti giudizi analitici o sintetici.
25 Il passo è riportato in J. Bonnecase, L’école de l’exégèse
en droit civil, Paris, 1924, p. 150; citiamo dalla trad. it. proposta da N. Bobbio, Il positivismo giuridico, cit., p. 97.
26 Che poi è lo stesso che dire fare del giudice un sillogismo. Cfr. ancora R. Borruso, sub voce Informatica giuridica, cit., pp. 654 e segg.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
Non è possibile in questa sede specificare oltre
tali argomenti, ciò non di meno appare pertinente
una riflessione; è sufficiente questa sorta di autoevidenza logica per trasformare queste intuizioni,
queste perorazioni, queste denuncie nella ideologia della più potente macchina politica (lo stato)
che la storia dell’umanità ha mai conosciuto?
Probabilmente no, forse c’è qualcosa d’altro
che ha favorito e determinato questo incredibile successo (incredibile perché tali teorie hanno
successo, vedi il richiamo alla recente voce di Renato Borruso, ancora oggi, quando le condizioni
che hanno determinato il loro sviluppo e la loro
affermazione sono ormai tramontate da quasi un
secolo; incredibile perché ciò che è chiaramente
storicizzato riesce ancora oggi ad imporsi come
realtà astorica ed immutabile, transepocale)27.
6. L’individuo virtuale
Il mos geometricus, perorato già chiaramente da Grozio nel 1625 con il suo De iure belli ac
pacis, non può che portare alla costituzione,
anche in ambito giuridico, d’un sapere virtuale (frutto del ragionamento per modelli)28.
La legge supposta come generale ed astratta
deve presupporre destinatari parimenti generali ed astratti, gli individui dello stato di
27 Sulle cause che hanno determinato il sorgere delle
teoria proprie al positivismo giuridico e sulle ragioni del loro tramonto cfr., fra i molti, M. S. Giannini, Il
pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna,
1986 e N. Irti, L’età della decodificazione, Milano, 1978.
Nell’ambito della cultura giuridica italiana la crisi della
concezione positivistica del diritto e dello stato viene
magistralmente colta da Santi Romano nella sua opera
su L’ordinamento giuridico, apparsa nel 1918.
28 I prodromi della modernità e virtualità ad essa intrinseca sono facilmente individuabili nel Defensor pacis di Marsilio da Padova, cfr. la trad. it. curata da Cesare
Vasoli, Torino, 1960.
Non appare di secondaria importanza far cenno che l’aggettivo virtuale non viene qui utilizzato nell’accezione
derivata dal medievale virtualis ed impiegata nel lessico
della scolastica quale sinonimo di potenziale, piuttosto
nel significato, proprio alla scienza moderna, che qualifica entità le quali, pur non ritrovando alcun corrispondente nella realtà, vengono in ogni caso ipotizzate ed
utilizzate al fine di compiere delle operazioni sulla realtà; infatti, l’individuo dello stato di natura è ipotizzato
in funzione della fondazione della compagine statuale
ed è pertanto virtuale, non in potenza.
82
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
natura, per l’appunto, di uno stato di natura
che si ipotizza in funzione della protezione
del proprium, in cui, come acutamente osserva
Pietro Grossi, il me si confonde con il mio29.
L’operazione d’astrazione del diritto e della
persona umana giunge all’acme con due provvedimenti legislativi epocali: 1791 la legge La Chapelier, che determina l’abolizione immediata di
ogni formazione sociale intermedia fra lo stato
e la persona (con particolare riguardo ai ceti);
1804 ultimazione della promulgazione del Code
Napoléon, caratterizzato vuoi dalla legge generale ed astratta, che regolamenta ogni recondito meandro della vita civile, e vuoi dalle credenze
sulla unitarietà delle fonti, sulla completezza e
coerenza dell’opera del legislatore, sul suo essere l’esclusivo faro di regolamentazione sociale.
Ciò che qui più preme rilevare è che l’individuo astrattamente uguale viene posto di fronte alla legge astratta e generale, perché l’uguaglianza non si può amministrare che per mezzo
dell’astrattezza. Infatti, se tutti gli individui sono
uguali, essi devono essere operati per mezzo di
procedimenti formali. Staccarsi da procedure
formali implica valutare in maniera diseguale
l’individuo, riportarlo ad una condizione non
geometrica ma reale: implica riconoscerlo per
quello che è, nella sua realtà, nel suo essere sociale (…un pover uom tu sei…, riconosce Giosuè
Carducci nel 1887 Davanti a San Guido).
Ma il punto di riferimento a cui tende l’individuo astratto, l’home delle Dichiarazioni, le
quali fondano teoreticamente la codificazione e, frutto di queste, il sorgere compiuto del
positivismo giuridico, altri non è che il proprietario, il borghese, l’assoluto protagonista
dello stato monoclasse, del dispotismo legale,
che, con atto formale, rende uguale il proprietario al proletario, il padrone al diseredato, il
risparmiatore all’istituto di credito.
Si crea pertanto una realtà virtuale30, regolata ed informata dal Codice civile, che,
come ben sottolinea Irti, assurge al rango di
norma costituzionale31.
A questa realtà virtuale, che cela la concreta con29 Cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 96 e segg.
30 In argomento cfr. F. Gentile, Ordinamento giuridico tra
virtualità e realtà, Padova, 2001.
31 Cfr. L’età delle decodificazione, cit., pp. 6 e segg.
Note sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
dizione sociale di disuguaglianza, ben si sposa il
rigore logico della scienza formalistica, che occulta
l’essere del diritto, così rappresentato ed utilizzato,
strumento di dominio di una classe sull’altra.
È stato sottolineato come in questo ambito
politico-culturale “alla fine di un lungo periodo di pace e stabilità nella vita sociale, si poteva
avere l’impressione che [… tale costruzione teorica …] rispondesse alle esigenze più profondamente sentite dai giuristi del tempo i quali
concentravano il loro interesse sulla struttura logica e formale del diritto prescindendo,
tanto dal contenuto economico e sociologico,
che pareva allora solidamente determinato da
quella struttura, quanto dai fini etici e politici
intorno ai quali sembrava che gli studiosi fossero sostanzialmente d’accordo”32.
7. Per un ritorno all’interpretazione.
L’epopea del diritto borghese, del diritto
dello stato monoclasse, dispiegatasi dal 1804,
all’apparire del Code Napoléon, inizia la sua
china discendente già sessantacinque anni
dopo, nel 1869 con la Gewerbe Ordnung per la
Confederazione germanica, antesignana della
celebre legge bismarkiana del 15 giugno 1883
sulla assicurazione obbligatoria per malattia
ai lavoratori; ciò non di meno ha talmente determinato i pre-concetti giuridici da apparire
eterna, dal porsi cioè come una realtà transepocale o, il che è sotto questo profilo la stessa
cosa, come il compimento del processo inarrestabile del umano progresso33.
Sicché pare che la fine della storia del diritto
sia segnata dalla unicità della fonte giuridica, incarnata dall’organo statuale legislativo, dall’equazione fra diritto e legge, che implica la riduzione
del primo alla seconda, e, per ciò che a noi qui più
preme, dalla applicazione meccanica del diritto, il
che equivale a porre l’equazione fra processo ed
32 Così R. Treves, Intorno alla concezione del diritto di Hans
Kelsen, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XXXI (1952), n. 1, p. 182. L’autore si riferisce nel testo
esplicitamente ai kelseniani Hauptprobleme apparsi nel
1911. In materia cfr. anche il contributo di M. Reale, Le
basi filosofiche dell’interpretazione, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XLIII (1966), n. 1, pp. 222223.
33 Cfr. P. Grossi, L’Europa del diritto, cit., pp. 189 e segg.
83
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
algoritmo, con conseguente riduzione del processo ad un meccanismo applicativo di algoritmi.
La realtà appare ben altra se osservata senza
le lenti dell’ideologia; il moto illumistico-borghese, il quale fuori di dubbio ha svolto un importante ruolo storico nel mondo occidentale
(ma, per l’appunto, nella sua storia), ha preteso
di cristallizzarsi in una sempre eterna teoria/
ideologia del diritto, che il sorgere dello stato
pluriclasse ha spazzato dalla realtà storica, per
relegarla, per l’appunto nella storia. Ciò non
di meno, istanze riconducibili all’idea di interpretazione meccanicistica della disposizione legislativa, che si dipartono, come rilevato
all’inizio, da una concezione logolatrica dei rapporti sociali, riaffiorano costantemente, quasi
fossero, come si diceva sopra, istanze eterne.
La prospettiva di incontro fra l’informatica
giuridica e la giurisdizione proposta da Renato
Borruso e qui richiamata, ne è epifenomeno.
Lungo altri itinerari può dirigersi l’incedere dei giuristi consapevoli dei problemi legati
ai potenziali conflitti in società pluraliste agli
albori del terzo millennio; i giuristi, problematicamente consapevoli del riduzionismo operato
negli ultimi duecento anni, possono porsi non
già più come servi legum, ma attivi protagonisti
dell’opera di ordinamento sociale, come le istanze critiche al formalismo hanno già a cavaliere
fra Otto e Novecento testimoniato, sollecitando
la riappropriazione e l’utilizzo dell’interpretazione quale fonte di un diritto non più racchiuso
negli angusti spazi della statualità, ma aperto
alle istanze che promanano dalla vita sociale. Il
processo diviene in questo contesto il momento elettivo per la formazione ed applicazione
del diritto e non già mero luogo di attuazione di
comandi alla società eteronomi.
Nell’ambito proprio al dire ed al contraddire, che si determina con l’ausilio della retorica
forense, si manifesta l’esperienza giuridica connotata da una duplice ricerca: per un verso l’individuazione del problema, colto in tutte le sue
sfaccettature e non semplificato attraverso l’esaltazione di alcuni suoi elementi, ipoteticamente e
generalmente ritenuti essenziali; per altro l’identificazione di una concreta regola comune che
possa, e non in via astratta e generale, dirimere
la controversia. La soluzione giuridica del proNote sul processo come algoritmo
issn 2035-584x
blema si palesa, pertanto, affrontando lo stesso
in tutta la sua complessità, inibendo l’istinto alla
semplificazione che è intrinseco al metodo moderno di dominio sulla realtà, problematicizzandolo sin alle sue più profonde radici senza però
isolarlo, ma ricollegarlo al contesto sociale che gli
è proprio e ciò proprio al fine di giungere all’indicazione di regole che possano nel contempo sia
risolvere il concreto e contingente problema, sia
affermarsi come norme giuridiche nel contesto
sociale ove operano.
All’interno di una visione del diritto caratterizzata dall’esperire proprio a tutte le parti del
processo, la giuridicità promana da basso e non è,
pertanto, appannaggio esclusivo del sovrano che
la fa discendere dall’alto con la posizione della (sacrale) legge. Qui, come ammoniva il Satta sopra
richiamato, la giurisdizione non è applicazione
della legge e, più propriamente, ricerca della regola giuridica propria alle parti ed al contesto
sociale in cui le stesse (ed il problema fra di loro
sorto) si collocano.
Ecco allora che, riconoscendo l’intrinseca natura politica della giurisdizione, possiamo fare
proprie le parole di Pietro Grossi, quando afferma di temere “l’inquinamento – ché sarebbe tale
– di una nozione dell’interpretazione come attività puramente logica e dell’interprete come un
automa senza volontà e libertà proprie, che constatiamo ancora dominante presso tanti giuristi
beatamente e beotamente paghi ancor oggi di riaffermare entusiasti e inconsapevoli il principio
di stretta legalità e l’immagine dello iudex come
servus legis, che la propaganda giuridica borghese
da due secoli ha loro istillato nel cervello”34.
Marco Cossutta, professore associato di Filosofia del
diritto nell’Università degli Studî di Trieste, ove dirige
il corso di master in primo livello in Analisi e gestione
della comunicazione organizzato in collaborazione
con il CERMEG. Professore supplente di Informatica
giuridica presso lo studio giuridico patavino, è autore
di numerose pubblicazioni in ambito informatico-giuridico fra le quali si richiama la monografia Questioni
sull’informatica giuridica, Torino, 2003.
34 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, p. 163.
84
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
“The Beatles”: da band sgangherata a mito,
il contributo delle Relazioni Pubbliche
Eugenio Ambrosi
Abstract
Quello che colpisce nel percorso artistico beatlesiano
degli anni Sessanta è che hanno caparbiamente
utilizzato inconsciamente un approccio strategico
“glocale”, che oggi definiremmo “think global, act
local”, già nel periodo 1960/67, il periodo che potremmo
genericamente definire Periodo Epstein, il loro primo
manager, che li scoprì a fine 1961 ed in 30 mesi li portò
per mano da uno scantinato di Liverpool, il “Cavern
Club”, al palcoscenico mondiale.
Il tutto senza alcuna esperienza specifica e con una
squadra fatta di amici ed amici degli amici, privi il
più delle volte delle più basilari conoscenze in materia
PR e globalizzazione
C
hi non conosce i Beatles? Negli anni
Sessanta i “Fab Four” di Liverpool hanno
avviato, a modo loro, un primo grande
processo di globalizzazione all’interno
del mondo occidentale: con la loro musica
e la loro immagine identitaria hanno
conquistato in maniera dirompente
l’Europa occidentale e lembi di quella
centro-orientale proprio lungo la “Cortina di
ferro”: Germania orientale, Cecoslovacchia,
Ungheria e soprattutto Jugoslavia; il Nord
America e, in misura minore, il Sud America;
l’Australia e soprattutto il Giappone, allora
il paese asiatico più occidentalizzato.
Portando in sempre nuovi mercati i loro
dischi e la loro ideologia i Beatles si sono
trovati a competere in un’arena competitiva di tipo mondiale: in quei tempi non c’era
internet, non si viaggiava low cost, l’inglese
era una delle tre/quattro lingue che si po”The Beatles”
di pubbliche relazioni, comunicazione, spettacolo e
business management. Ma nella ferrea convinzione che
erano meglio di Elvis Presley e che, una volta cambiati gli
abiti ed il look, sarebbero arrivati al top del top. Parola di
Brian Epstein (e John Lennon).
Parole chiave
“The Beatles”; Addetto stampa; PR;
Lovemark; Effetto Nostalgia;
Globalizzazione.
tevano studiare a scuola, la televisione era
in bianco e nero, generalmente statale e le
radio commerciali, a parte il Nord America,
non erano molto diffuse.
C’erano però i Rolling Stones, c’era Elvis
Presley e c’erano altri gruppi musicali che
come loro divennero alfieri di una nuova
cultura giovanile. C’erano infatti tantissimi
giovani, in giro per il mondo, che per la prima
volta cominciavano ad avere coscienza ed
identità del loro ruolo, che grazie allo sviluppo
economico diventavano anche una categoria
sociale in grado di pesare sul mercato, che
proprio nella musica trovavano uno strumento
di amicizia, un canale di comunicazione,
un’occasione di creare comunità.
Il loro staff, completamente o quasi
a digiuno di teoria e pratica di relazioni
pubbliche, ufficio stampa, ufficio promozione
e marketing, riuscì con loro a creare un mito.
Impresa che nessuno è mai più riuscito
neanche lontanamente ad avvicinare e che
85
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
difficilmente potrà essere ripetuta nella
società del XXI secolo. Quarant’anni dopo i
Beatles sono ancora sul mercato, il loro mito
non pare prossimo a venir meno e, incredibile
a dirsi, ogni volta che i loro dischi vengono
rispolverati e tirati a lucido per essere immessi
sul mercato finiscono immancabilmente
per vendere milioni di copie, conquistano le
vette delle hit parade, tornano a fare parlare di
sé e c’è sempre qualcuno che rispolvera frasi
e motti ormai adusi: Beatles are back; Beatles
forever; Beatlemania, sorta di parola d’ordine
che rimette in moto un giro virtuoso artistico,
emotivo, commerciale.
Quello che colpisce nel percorso artistico
beatlesiano degli anni Sessanta è che hanno
caparbiamente utilizzato inconsciamente
un approccio strategico “glocale” che oggi
definiremmo “think global, act local” nel
periodo 1960/67, il periodo che potremmo
genericamente definire “Periodo Epstein”,
il loro primo manager, che li scoprì a fine
1961 ed in 30 mesi li portò per mano da uno
scantinato di Liverpool, il “Cavern Club”,
al palcoscenico mondiale. Brian Epstein
morì in circostanze mai del tutto chiarite
nell’agosto del 1967, mentre il mondo
intero era per la prima volta globalizzato
dalla musica dell’album Sgt Pepper’s. Nei 30
mesi che seguirono, l’era della “Apple Corps
ltd”, attraverso la nuova società ed il nuovo
management perseguirono un approccio
strategico globale, il “think global, act global”.
Come noto, l’approccio strategico glocale
presuppone oggi che ci sia la capacità di
orientarsi tanto alla standardizzazione del
prodotto che all’adattamento dell’offerta. Brian
Epstein quasi cinquant’anni fa si muoveva e
muoveva i suoi “boys” nell’ottica che avrebbero
superato Elvis Presley, allora re incontrastato
del rock. Quando li proponeva ad ignoti
impresari di balere e sale da ballo aziendali
qua e là per l’Inghilterra, li proponeva come
se avessero già l’imprinting e l’eredità del “king
of rock” e loro si esibivano per un palcoscenico
senza confini, che li proiettava in prospettiva
su ben altri palcoscenici.
Il terzo tipo di approccio strategico, quello
locale, “think local, act local”, fu solo sfiorato dai
”The Beatles”
issn 2035-584x
Beatles quando George Martin, il produttore
musicale della EMI che li seguiva dall’inizio e
li seguì fino al 2005, e Brian Epstein vollero che
incidessero negli studi EMI di Parigi due loro
pezzi in tedesco per il mercato che li aveva visto
agli albori esibirsi nei locali del malfamato
quartiere a luci rosse di Sankt Pauli. Narra
la cronaca che i Beatles non volevano farlo e
che George Martin dovette andarli a prendere
fisicamente in albergo, dargli una strapazzata
e portarli in sala di registrazione. Mai più
incisero canzoni in altre lingue, eccezion
fatta per il refrain di Michelle in francese ed
un paio di parole in un improbabile spagnolo
nell’ultimo Abbey Road.
In questo primo decennio del nuovo
secolo/millennio il forte sviluppo delle
tecnologie e dei mezzi di comunicazione e la
conseguente integrazione economica hanno
portato all’omogeneizzazione dei bisogni,
delle preferenze, dei modelli di consumo1,
all’emergere di un consumatore sempre più
definito dalla complessità sociale, politica,
istituzionale e tecnologica e sempre meno
dalle differenze geografiche.
La tipica domanda che tra Beatles fans ci si
faceva e si fa tuttora è la classica: “Ma tu chi
preferisci dei quattro?” Ed ancora: “quale è la
tua canzone preferita?”.
A ben vedere, la monotona ripetizione
del quesito porta ad una doppia interessante
considerazione: ognuno di noi è diverso, unico,
per certi versi anche speciale; ma, siamo tutti
uguali2, “we want the Beatles” come scandivano
le folle di fans in attesa dei loro concerti. La
EMI e la “Apple Corps”, insieme alla “Atv/Sony
Music”, hanno oggi la possibilità di comunicare
e promuovere il prodotto Beatles adottando
una strategia globale pura, caratterizzata cioè
dalla possibilità di soddisfare le esigenze della
domanda attraverso un’offerta standardizzata
e invariata rispetto alla sua collocazione
geografica3.
1 Cfr. A. Di Gregorio, La comunicazione internazionale di
marketing, Torino, 2003, pag. 5, secondo il quale tutto ciò
ha portato alla nascita del ”consumatore universale” o
globale.
2 Cfr. R. Walker, Murketing, Milano, 2009, pag. 23.
3 Cfr. A. Di Gregorio, cit., pag. 6.
86
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Il mondo è un unico grande mercato al
quale si può proporre un prodotto standard
ma, nel caso dei Beatles, di qualità. E la
qualità, come vedremo, non è solo definita
su standard oggettivi ma è anche oggetto di
analisi, riflessione, contrattazione da parte
dei Beatles, i due residui e le due vedove, il cui
potere di interdizione è assoluto: se qualcosa
non va ad anche uno solo dei partner, non se
ne fa nulla. Nella recente preparazione di un
videogioco messo in vendita a fine 20094, la
vedova di John Lennon, Yoko Ono, ha preteso
il restyling del cartoon perché non le piaceva
la resa grafica dell’ex marito; Harrison ha
bloccato la realizzazione di un articolato
progetto celebrativo del gruppo5 finché il
vecchio titolo originario, The long and winding
road, non è stato modificato, perché non
accettava che la sua storia fosse contrassegnata
con il titolo di una canzone di Mc Cartney. A
gennaio 2008 è stato messo sul mercato il
catalogo beatlesiano, qualsiasi azienda può
chiederne l’utilizzo per proprie operazioni
promozionali, ma i quattro si riservano di
poter dire di no all’investitore. Potere di
veto che si estende all’intero merchandising
beatlesiano: Mc Cartney ad esempio è oggi
vegetariano ed ha recentemente autorizzato
una grande azienda all’uso del logo per cinture
e corde di chitarra a patto che fossero fatte di
materiale sintetico.
Nel 2000 è stato pubblicato il libro
The Beatles Anthology, la storia dei Beatles
in 340.000 parole o giù di lì. Il libro, in
un format assolutamente uguale, è stato
tradotto in alcune decine di lingue, tutte
versioni proposte negli scaffali delle librerie
del mondo intero nello stesso giorno6.
4 Il videogioco “Rock Band” è stato messo in vendita il
9.9.2009, giornata scelta in ossequio ad una citazione (...
number nine ...number nine ... number nine ...) della canzone “Revolution number 9” del White Album, è stato uno dei
giochi best seller natalizi ed ha materializzato il sogno
di tanti di poter suonare, quantomeno virtualmente,
con i loro idoli.
5 Anthology, questo il nome poi concordato dai quattro
aventi diritto, ha prodotto, nel tempo, una serie di videocassette/DVD, un libro e tre doppi CD tutti incentrati
sui dieci anni di vita del gruppo (1960-1970).
6 The Beatles (a cura di) The Beatles Anthology , Milano, 2000.
”The Beatles”
issn 2035-584x
L’agire globale di EMI ed Apple è agevolato
dal fatto che il marchio Beatles fa ormai corsa
a sé, non ha più un concorrente definito come
potevano essere negli anni Sessanta i Rolling
Stones; ma, soprattutto, dal fatto che esiste una
comunità virtuale, ma non troppo, di Beatles
fans organizzata in Fan Club e soprattutto
oggi in social network che, attraverso
“Youtube”, “Yahoo”, “Facebook” mettono
in rete letteralmente milioni di fans, il cui
passaparola nella comunità virtuale come
in quella reale è diventato uno strumento di
informazione, comunicazione, promozione
incredibilmente efficace ed efficiente, capace
di promuovere un concerto di beneficenza,
di sostenere una Convention, di fare vendere
un CD o un libro o quant’altro.
Ho detto marchio ma pensavo brand se non
addirittura a lovebrand: sicuramente, negli anni
Sessanta non si parlava di brand e difficilmente
si sarebbe potuto farlo: i Beatles avevano una
loro identità ben precisa, anche se in costante
evoluzione, erano vivi e vegeti, interagivano con
il loro pubblico e poi con l’universo toto. Oggi,
come già detto, ne rimangono due su quattro,
avanti negli anni (Mc Cartney in occasione di
una recentissima esibizione a New York sul
tetto degli studi dell’”Ed Sullivan Show” è stato
definito un arzillo rockettaro), prossimi al ritiro definitivo dalle scene (almeno così ha detto
ancora Mc Cartney nella primavera 2009), per
cui di loro rimane sostanzialmente un’identità
pubblica7, trasfigurata dalla storia ormai divenuta leggenda intorno al loro mito.
Altro elemento che facilita questo agire
globale è il fatto che i Beatles non hanno
oggi alcuna connotazione che li mette contro
qualcuno o qualcosa: superata la crisi del
1966 per la frase di John sui giovani, i Beatles
ed il cristianesimo con la comprensione e
la benedizione da parte dell’”Osservatore
Romano” a fine 2008; ricevute le scuse del
governo israeliano per il rifiuto alla loro tournè
nel 1964; dopo che Mc Cartney ha suonato in
7 Cfr. Al riguardo M. Nesurini, in Good Morning Mr.
Brand, Milano, 2007, pag. 70, secondo il quale un simile mito si autoalimenta e si sviluppa attraverso quello
che si dice, si scrive, si registra di loro, delle loro vite
personali ed artistiche, singole ed associate.
87
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
praticamente tutte le piazze dell’Europa centroorientale ed in numerose piazze africane ed
orientali; spiegato in qualche modo ai propri
figli ed al mondo intero il perché ed il percome
del loro uso di droghe e che è comunque meglio
non farne uso, praticamente i Beatles sono
di tutti, per tutti, con tutti. I Beatles quindi
comunicano con se stessi per com’erano
allora e sono rimasti nella memoria collettiva
ed individuale. I Beatles sono un prodotto
universale per un target anch’esso universale,
la cui strategia di comunicazione si focalizza
periodicamente sul marchio Beatles più che
sul singolo prodotto messo in vendita.
Relazioni pubbliche e nostalgia
IBeatlescometalinoncisonopiù:sopravvivono
due arzilli vecchietti e due vedove, per cui non
rimane che l’idea dei Beatles che ciascuno di noi
si è fatta nel tempo, probabilmente abbastanza
simili l’uno con l’altro.
Come noto, ognuno vive la musica in
una maniera assolutamente personale,
eppure chi ha vissuto il periodo dei Beatles
se ne è fatta una memoria in qualche modo
collettiva, tant’è che i Beatles rimangono
tuttora popolari non solo in virtù della loro
musica e dei loro album.
I Beatles sono stati sempre all’avanguardia,
negli anni Sessanta come nei Novanta come
in questo decennio d’inizio secolo, hanno
saputo sfruttare al meglio le novità che la
tecnologia metteva loro a disposizione ed
hanno saputo farsene un’immagine e nel
tempo anche costruirsi un qualche senso
del passato grazie alla continua discussione
che su di loro e sulle loro cose si è sviluppata
negli anni, utilizzando quale veicolo per
costruire e portare avanti la loro memoria
libri, convention, commemorazioni, film,
mostre, esposizioni permanenti.
Le cose che hanno fatto nella loro breve carriera, ad esempio gli album e le loro copertine,
sono come delle pietre miliari che marcano il
loro percorso ed il nostro, una memoria collettiva amichevole verso la generazione che li visse e le nuove generazioni, in grado di cementare tra di loro queste diverse generazioni.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Questa memoria li fa sopravvivere non
come un’eredità musicale ma come una leggenda che affonda le sue radici nella mitologia
del loro passato e che ebbe un enorme sussulto
con l’assassinio di John Lennon nel 1980.
A quel punto i Beatles furono definitivamente
presi in carico dalla storia, i superstiti si scrissero
anche canzonette per ricordare e rimpiangere i
tempi passati e gli sbagli occorsi, in tanti scrissero libri su di loro ed anche loro ne scrissero.
Il concetto di nostalgia è qui centrale: è
la memoria di un’esperienza di vita vissuta
con i Beatles negli anni Sessanta, da non
confondersi con il concetto di “retro”, che è
invece il tentativo di ricostruire oggi qualcosa
che si muove o ricorda i Beatles. I due concetti
sono tra loro opposti ma possono camminare
insieme; anzi, retro si appoggia alla nostalgia,
poiché è guidato dalla speranza di ripetere
un’esperienza simile a quella del passato.
La “Beatlemania” ed il suo tempo sono
stati qualcosa di unico, di estremamente eccitante, chi l’ha vissuta ha avuto la fortuna
di fare parte quale testimone diretto e protagonista pure lui.
Quando invece negli ultimi anni si sono
pubblicate l’Anthology o le varie raccolte successive erano sforzi di “retro”, non operazioni di nostalgia8.
Anche se è vero che attraverso Anthology
e la sua trasmissione televisiva una nuova
generazione ha conosciuto i Beatles e si è
avvicinata a loro.
Ed anche se è vero che, in generale, le due
dimensioni si incrociano e rafforzano vicendevolmente.
Più in generale, affrontare il tema della memoria popolare significa confrontarsi con il fatto
che la memoria di un certo periodo, di un evento,
di un fenomeno culturale per quanto rilevante è
spesso oscurata da pulsioni di nostalgia. Come
pure che eventi di tipo retro influiscono nella
capacità delle nuove generazioni di conoscere
ed apprezzare quelli che li hanno preceduto.
8 E’ questa almeno l’opinione di R. D. Driver, in The Beatles
image: mass marketing 1960s british and american music
and culture, or being a short thesis on the dubious package
of the Beatles, Graduate Faculty of Texas TechUniversity,
2007, pag. 14.
88
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Così negli anni Novanta ci furono
contemporaneamente artisti Britpop che
ripresero le canzoni dei Beatles e i Beatles
superstiti che con la loro Anthology diedero
una versione beatlesiana alternativa di molte
loro canzoni. Il mercato rispose e premiò
i Beatles e, quindi, l’ansia di nostalgia che
percorreva la società.
Le relazioni pubbliche e la musica
Innanzitutto, la musica è costituita da più
musiche: in primis, possiamo parlare di musica
classica, lirica, leggera; la musica classica
comprende a sua volta la musica sinfonica e
quella cameristica, alla lirica appartiene anche
l’operetta mentre ancora più complessa è la realtà
della musica leggera, che spazia dal jazz al bebop,
dal rock al pop ed a tutte le loro evoluzioni9.
E’ evidente che tale diversità comporta
anche per il professionista la necessità di
adattarsi al genere che si vuole promuovere,
ai diversi tempi e modi tipici del genere
considerato, al tipo di informazione che si
vuole fornire ai media.
Nel nostro caso possiamo limitare
l’approfondimento al campo della musica
leggera, a quello del rock/pop in particolare,
dove il soggetto da promuovere è tipicamente
un artista ovvero un gruppo, in questo caso
composto generalmente da tre a cinque elementi
che suonano strumenti diversi: cantante, solista,
sezione ritmica, sezione di accompagnamento.
Le relazioni pubbliche in questo caso vengono svolte dall’addetto stampa, singolo o associato, e dalla casa discografica; nonché, in
caso di partecipazioni ad eventi importanti
quali festival, tournée, cartelloni stagionali,
da parte degli uffici stampa e pubbliche relazioni degli enti proponenti.
Nei media lo spazio per la musica rock e pop
è disponibile nelle apposite pagine riservate
agli spettacoli; ma nel caso dei Beatles e di
altre simili icone pop non è infrequente
che notizie loro collegate trovino spazio in
prima pagina, nella cronaca, nell’economia,
nella cultura. Il “Corriere della Sera” e “la
9 Per un’analisi più approfondita Cfr. R. Canziani,
Comunicare spettacolo, Milano, 2005, pag.173.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Repubblica”, per limitarci al caso italiano, ad
esempio sono particolarmente attenti a tutto
ciò che riguarda i Beatles ed a quello che si
chiama “effetto nostalgia” e non di rado loro
foto o aneddoti che li riguardano vengono
utilizzati per arricchire pezzi di varia natura:
negli ultimi mesi, così, i Beatles sono stati
chiamati in causa per la nuova corsa al vinile,
ai videogames, all’MP3, alle droghe –marijuana
in testa-, al vintage nella moda maschile,
al look pelato, ai ritocchi digitali, ai divorzi
ed ai litigi, ai vegetariani ed agli Ufo, alle
automobili ed alle lingue straniere, alle aste
su “e-Bay” ed alla web-mania, alla meditazione
trascendentale ed alla religione, alla messa al
bando dalle autorità di Goa degli hippies.
Tutto questo indaffararsi attorno alla
memoria ed al mito dei quattro boys di
Liverpool facilita enormemente i lavoro di chi
deve lanciare e promuovere la musica Beatles,
il logo Beatles, il merchandising Beatles, fino
al recente marketing beatlesiano, cioè l’uso
dei Beatles, in particolare la loro musica, per
vendere altri prodotti.
Rispetto agli anni Sessanta, oggi abbiamo
a disposizione le risorse praticamente infinite del web, dove la musica è presente in modo
massiccio, sia negli spazi prettamente musicali che in quelli informativi che in quelli comunicativi dei social forum, “Facebook” ed “Youtube” in primis, che ampliano a dismisura le
opportunità che negli anni Sessanta davano ai
Nostri la rete dei Beatles Fan Club, le fanzine ciclostilate, le riviste specializzate per teenager.
In questi spazi di aggregazione e confronto
circolano più di una leggenda metropolitana
sui Beatles, la più famosa delle quali è certamente quella relativa al sosia che sostituirebbe
Mc Cartney dalla fine del 1966, quando il beatle
sarebbe morto decapitato in un incidente stradale nella periferia di Londra10.
Il caso venne fuori da una radio commerciale
americana un paio di anni dopo, per cui il
povero Brian Epstein non dovrebbe esserne
stato afflitto, lui che era completamente
contrario ad inventare una notizia o forzare un
10 Dal 1968 ad oggi sono innumerevoli gli autori che
hanno affrontato la questione, per tutti, Cfr. G. Cartocci,
Il caso del doppio Beatle, Roma, 2005.
89
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
qualche evento che potesse portare l’attenzione
della stampa e dell’opinione pubblica sui suoi
ragazzi, tecnica11 questa ricorrente negli anni
Sessanta ed anche dopo.
La promozione dei Beatles avvenne
attraverso un uso per certi versi dilettantesco
dei canali e degli strumenti allora tradizionali:
stampa quotidiana e periodica, stampa
specializzata, radio e televisione, pubblica e
commerciale, cinema; attraverso strumenti
che proprio loro innovarono profondamente
quali la rete dei Fan Club (potremmo
considerarli antesignani dei social network?), i
tour mondiali, un look in continua evoluzione
a rimarcare l’essere gruppo prima e le singole
individualità poi, la fotografia, il videoclip (che
essi sostanzialmente inventarono nella forma
attuale), la stessa lingua veicolare inglese,
in grado di superare le barriere culturali
esistenti.
Oggi internet cambia le regole del gioco,
le versioni online di quotidiani e riviste
specializzate hanno un potere di penetrazione
ben superiore a quello del passato, l’irrompere
di “Youtube” ha rivoluzionato la fruizione della
musica da vedere, già rivoluzionata da “MTv,” i
cui prodromi per alcuni critici sono stati creati
proprio dai Beatles. “E-Bay” a sua volta permette
di “vincere” elementi conoscitivi ed identitari
altrimenti difficilmente ottenibili e motori di
ricerca come “Google” e “Yahoo” permettono di
cercare ed ottenere informazioni come mai è
stato possibile nella storia del genere umano.
Certo, non c’è più da promuovere un concerto
o una tournée dei Beatles; ma il recente lancio
dei “Beatles Box” rimasterizzati come pure del
videogame “Rock band: The Beatles” 12o dell’ipod con
l’opera omnia beatlesiana13 pare in qualche modo
fare il verso al buzz marketing che oggi va di moda
ma che trova la propria origine sociologica nella
teoria della comunicazione a due stadi14: il flusso
delle comunicazioni viaggia dai media passando
11 Al riguardo, Cfr. R. Canziani, op. cit., pag. 182.
12 Vedi nota 4.
13 Messo in vendita il 7 gennaio 2010 esclusivamente su
prenotazione, è costituito da una grande mela verde con
la chiavetta inserita nel picciolo.
��������������������
Al riguardo, Cfr E. Katz, P. Lazarsfeld, Personal Influence,
issn 2035-584x
per gli stakeholder e gli opinion leader, che a loro
volta diventano diffusori dei messaggi.
E’ un impegno comunicativo usato
per generare un evento dall’impatto
elevato, per creare un picco di attenzione e
conversazione attorno ad un prodotto o ad
un brand. Il meccanismo15 è stato spiegato
come l’evoluzione vitale di un virus, da cui
marketing virale: l’inoculazione del virus è
vista come la conoscenza del prodotto, poi
l’incubazione corrisponde all’uso che ne fanno
i primi consumatori ed infine la diffusione
e l’infezione corrispondono al passaggio del
prodotto sul mercato.
Le strategie utilizzate da Apple ed EMI in
questi mesi hanno affiancato all’utilizzo di canali e strumenti di comunicazione tradizionali
anche il ricorso a canali e strumenti innovativi.
Così facendo Apple ed EMI hanno dimostrato
di saper proseguire nel solco di quel continuo
essere all’avanguardia che ha caratterizzato la
nascita e l’affermarsi dei Beatles nel corso di
quelli che, anche grazie a loro, alla loro tenacia
e forza di volontà, alla loro genialità e creatività,
al loro talento, sono unanimemente conosciuti
e ricordati come i favolosi anni Sessanta.
Per descrivere la parabola mediatica dei
Beatles si dovrebbero utilizzare due distinte
rappresentazioni.
La prima è quella relativa agli anni Sessanta,
con il gruppo in attività e quindi direttamente
corresponsabile della strategia informativa,
comunicativa e promozionale che li ha portati,
con la celebre frase di Lennon, “to the top of the
top”, affidata alla creatività, al fiuto ed alla buona volontà, più che all’esperienza e professionalità, di Brian Epstein, fino che ne è stato manager (agosto 1967); e quindi alla “Apple Corps
Ltd”, più organizzata ma creata quando ormai
i quattro ragazzi erano diventati adulti ed il
lavoro di gruppo li affascinava sempre meno,
quando le tournée ed i concerti con le folle scatenate ed urlanti di teen agers erano ormai un
lontano e per alcuni fastidioso ricordo.
La seconda è quella avviatasi nel primo
decennio del terzo millennio e tuttora in corso,
che vede impegnate la “Apple Corps Ltd” e la
New York, 1955.
15 Sul tema si rimanda all’analisi di G. Arnesano, Viral
marketing, Milano, 2007, pag. 38.
”The Beatles”
90
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
EMI a gestire un mito che ha creato un impero
artistico ed economico in cui qualsiasi decisione
sostanziale deve essere presa con il consenso
esplicito dei due Beatles rimasti e delle vedove
dei due scomparsi. Le difficoltà che ne derivano
sono evidenti, non solo agli occhi attenti dei
fans, e le relative strategie promozionali devono
tenere conto di tale situazione; oltretutto, il
patrimonio artistico lasciato dal gruppo non pare
in grado di fornire nuove sostanziali “chicche”
per un pubblico di ammiratori e collezionisti che
oramai, grazie o a causa del potere di internet,
mette in circolazione anche gratuitamente tutto
ciò che in passato era a disposizione solo di pochi,
fortunati estimatori.
A fronte quindi di un mercato artistico
necessariamente in fase di ripiegamento su se
stesso, l’uso da parte del marketing dei richiami,
degli stimoli, delle sensazioni del vintage e
della nostalgia offre al mondo beatlesiano
nuove, indubbie potenzialità di sviluppo.
Le casse della Apple, in questo, caso, e quelle
di Mc Cartney, Starr, Yoko vedova Lennon
ed Olivia vedova Harrison ringraziano e
continueranno a farlo, “many years from now”.
Questa seconda fase è per certi versi la più affascinante, ma ad essa si rimanda ad altra occasione.
Nelle pagine che seguono, invece, si
analizzerà brevemente il “modus operandi”
dello staff che seguì in quei favolosi Anni
Sessanta l’esplodere della Beatlemania.
Le Relazioni Pubbliche negli anni Sessanta
L’evoluzione delle Relazioni Pubbliche è stata
studiata da alcuni autori statunitensi a partire
dalle sue radici più lontane per arrivare alle sue
origini più recenti, Cutlip e Center16, Grunig e
Hunt17 sono concordi nel riportare le origini delle
R.P. al concetto di “informazioni per influenzare
il punto di vista e le azioni delle persone”18.
16 I due sono autori di un manuale divenuto una pietra miliare per i cultori delle relazioni pubbliche, Cfr. S. M.
Cutlip, A.H. Center, Nuovo manuale di relazioni pubbliche,
Milano, 1983.
17 Cfr. J. E., Grunig, T. Hunt, Managing Public relations, HB
J Publisher, Orlando, 1984, considerato il primo classico
studio sulle relazioni pubbliche.
18 Cfr. l’analisi di E. Invernizzi, Manuale di relazioni pubbliche, Milano, 2005, pag. 12.
”The Beatles”
issn 2035-584x
In quei tempi, specie a cura di Cutlip,
furono anche codificate cinque tecniche di
propaganda19:
- creazione di un’organizzazione di attivisti
- uso di diversi mezzi di comunicazione
- impiego di simboli e slogan
- creazione di pseudo-eventi
- orchestrazione del conflitto.
In particolare Grunig ha elaborato quattro
modelli di relazioni pubbliche, ciascuno dei
quali coglie un modo ben definito di fare
relazioni pubbliche20.
- Modello “Press agentry-Publicity”, attività di
comunicazione volta a raggiungere obiettivi
di promozione e propaganda; comprende
l’attività svolta per attirare l’attenzione dei
media sul soggetto o sull’organizzazione del
cliente;
- Modello “Public information”, obiettivo
dell’attività è quello di fornire al pubblico
il massimo delle informazioni; informazioni veritiere, con comunicazione ad una via,
senza feedback;
- Modello “Two-way asymmetric”, attività
concentrata su attività di comunicazione a due
vie i cui flussi sono però asimmetrici, in quanto
il flusso dell’emittente verso il ricevente è
dominante rispetto a quello inverso;
- Modello “Two-way symmetric”, attività
di comunicazione a due vie con flussi
sostanzialmente simmetrici, in quanto
l’emittente fa suoi gli obiettivi del pubblico,
specie degli stakeholders, mediandoli con i
propri.
I quattro modelli risultarono di volta in
volta prevalenti nel tempo, anche se ognuno
di essi ha continuato ad esistere nei periodi
successivi e talora esiste tuttora.
Così il modello “Press Agentry-Publicity”,
affermatosi nella prima metà dell’Ottocento,
il cui più affermato interprete fu Phineas
Barnum, il cui motto era: “l’importante è che se
ne parli, anche se se ne parla male; il pubblico
è stupido e non ci si deve preoccupare di cosa
pensa l’opinione pubblica”.
Il modello rimase predominante sino alla
fine del secolo, quando si sviluppò il secon19 Ibidem, pag. 14.
20 Ibidem., pag. 15.
91
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
do, il “Public information”21, la cui bussola era
il concetto che il pubblico deve essere informato, e quindi verità e massima trasparenza
nei suoi confronti. Questo modello restò in
auge sino alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando cominciò a sviluppasi il modello “Two-way asymmetric”22 basato sull’indagine della pubblica opinione per conoscerne
gli atteggiamenti e le aspettative prima di
progettare una campagna di R. P.. Il suo principio ispiratore era che il pubblico deve innanzitutto essere compreso ed i suoi bisogni
tenuti nella giusta considerazione.
A questo modello nel secondo dopoguerra
comincia ad affiancarsene un altro, il cosiddetto
“Two-way symmetric”, di cui Cutlip e Center sono
probabilmente i principali interpreti: le R.P.
consistono nella comunicazione delle idee e
delle informazioni di un’organizzazione ai pubblici e nella comunicazione delle idee di questi
pubblici, delle informazioni e delle opinioni
all’interno dell’organizzazione emittente.
Tuttora questi quattro modelli convivono, ovviamente con alterne fortune23, ragion
per cui tutto fa pensare che anche negli anni
Sessanta, il decennio in cui i Beatles nascono, raggiungono il top del top del successo, si
sciolgono, le R.P. si svolgessero con una contaminazione di modelli e, all’interno di questi,
di tecniche di propaganda.
In quegli anni il modello “Press agentryPublicity” era diffuso soprattutto nella
promozione delle attività sportive ed
artistiche come pure per la promozione di
prodotti svolta direttamente dagli uffici
pubblicità delle imprese. Grunig stimava
che l’attività così svolta dalle organizzazioni
del settore coprisse circa il 15% del mercato,
mentre un altro 20% era coperto dal ricorso al
modello “Two-way asymmetric” da parte delle
società di consulenza di R.P.
21 E’ opinione diffusa che il suo massimo esponente
fu Ivy L. Lee, al riguardo Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center
Allen, op. cit., pag. 60-62.
22 In questo caso massimo esponente fu Edward
Bernays, autore dell’approccio scientifico alla materia
ed inventore del termine “consulente in relazioni pubbliche”: al riguardo, cfr. . Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center
Allen, op. cit., pag. 66.
23 Ibidem, pag. 21.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Il rimanente mercato era appannaggio di
pubbliche amministrazioni, organizzazioni
non profit, enti di formazione, con un buon
50% di mercato coperto con il ricorso al modello Public information.
Secondo quanto ripreso da Cutlip e Center24 sembrerebbe il modello “Press Agentry –
Publicity” quello sostanzialmente utilizzato
dal team per promuovere i Beatles, quantomeno sino alla morte del manager Brian Epstein, mentre gli anni della Apple potrebbero
aver visto associate attività afferenti a questo
modello con altre riconducibili al modello
“Two-way asymmetric”.
Brian Epstein ed il team che raccolse intorno
a sé, come si vedrà più avanti, era in buona
misura autodidatta, per cui il ricorso a tecniche
consolidate e semplici era probabilmente il
più immediato e facilmente utilizzabile.
La Apple invece era una società ben più
strutturata, quand’anche naive ed hippy in
numerose sue espressioni, per cui è probabile che tecniche di conoscenza del mercato di
riferimento siano state sviluppate, anche se
non se ne trova traccia nella numerosa pubblicistica analizzata.
Per quanto concerne la “Press agentry –
Publicity”, le attività afferenti a questo ambito,
alla promozione ed alla pubblicità del prodotto
non sono facilmente distinguibili tra di loro,
attività necessarie nel mondo dello spettacolo:
l’accostamento della persona o del prodotto ad
una celebrità, regalare prodotti sotto forma di
premi, meglio se nel corso di uno spettacolo,
meglio ancora se spettacolo televisivo, riuscire
a fare pubblicare gratis dai media notizie su
una persona o un prodotto, attirare l’attenzione
quanto più possibile, suscitare fiducia del
pubblico verso i produttori ed ottenere il loro
favore e la loro comprensione.
Ladies and gentlemen: “The Beatles!”
A Liverpool, porto di arrivo di navi e
musica d’oltreoceano, erano fioriti i gruppi
musicali imitatori di Elvis.
Tra questi si fece in qualche modo notare un
gruppo che si esibiva per pochi spiccioli nelle ba����������������������������������������
Cfr. S. M. Cutlip, A. H. Center Allen, op. cit., pag. 35-36.
92
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
lere di Liverpool e dintorni, sale da ballo parrocchiali e piccoli teatrini locali: il nome variò più
volte nel tempo, “Quarrymen” (dal liceo Quarry di
Liverpool), “John and the Moondogs”, “Tony Sheridan
and The Beatles”, “The Silver Beatles”, “The Beatles”.
Il gruppo comincia ad avere una sua
fisionomia più precisa in occasione della
prima tournée ad Amburgo, 17 settembre
1960, con Pete Best alla batteria e Stuart
Sutcliffe alla chitarra basso insieme alle altre
tre chitarre John Lennon (ritmica), Paul Mc
Cartney (basso) e George Harrison (solista).
Qui comincia il viaggio che trasforma una
sgangherata rock’n’roll band nel mito che fu,
che è, che presumibilmente sarà. E qui inizia
una breve analisi per individuare in che modo il
gruppo ed il suo management lavorò per creare
un’immagine identitaria in grado di reggere
il confronto con la musica indimenticabile
che il duo “Lennon&McCartney” sfornava a
ritmo sostenuto e che la band denominata
The Beatles interpretava in maniera perfetta,
sublime, ineguagliabile, indimenticabile.
Un’analisi che si conclude volutamente
con la morte di Brian Epstein, il collasso della
“Nems Limited”, la società da lui formata per
gestire il business dei Beatles e la nascita della
“Apple Ltd”, società voluta dai quattro Beatles
sia per dare spazio alla propria individualità
artistica che stava emergendo, sia per motivi
banalmente fiscali, sia per l’insoddisfazione
che stava crescendo in loro a fronte dell’incapacità dimostrata nel tempo dal loro manager
di gestire in maniera adeguata su scala globalizzata il business che così bene aveva saputo
gestire a livello nazionale.
Quello che oggi è lapalissiano, e cioè che lo show
business richiede capacità gestionali elevate con
particolare attenzione al ruolo della promozione,
della pubblicità, della comunicazione ed allo
loro gestione professionale, allora non era di
apparente immediatezza.
Nell’intero team che negli anni della Beatlemania gestì lo sviluppo di un impero artistico e commerciale non vi era un solo vero
esperto della materia: erano l’amicizia e la lealtà l’incipit della collaborazione ed il collante
del gruppo, oltre che una fiducia senza limiti
nelle capacità dei quattro ragazzi di arrivare al
”The Beatles”
issn 2035-584x
top del top. Perché, come diceva sempre Brian
Epstein nel presentare i suoi Beatles anche al
proprietario o gestore di una sperduta balera
dello Yorkshire, “sono speciali, diventeranno
più grandi di Elvis”.
“The Sgt Pepper’s lonely hearth club band”
Il quinto Beatle
Brian Epstein, 27 anni, direttore della “Nems
– “North End Music Stores di Whitechapel” a
Liverpool, sedeva alla cassa quando Raymond
Jones, 18 anni, in jeans e giubbotto di pelle
nera, intorno alle tre di sabato 28 ottobre
1961, entrò nel negozio e chiese un disco, “My
Bonnie”, registrato in Germania. Jones non
sapeva che in quel preciso istante innescava
un cataclisma che avrebbe sconvolto la società
contemporanea.
Brian Epstein non era nessuno, era
un tipo con giacca e cravatta, razionale, e
proprio per questo adatto a fare da ponte
tra “genio & sregolatezza” dei ragazzi e le
logiche organizzative dello show business25,
riuscendo ad introdurre ed imporre una logica
di disciplina e di operatività per obiettivi tipica
del mondo imprenditoriale.
Le foto professionali in studio e sul palco,
i programmi di sala prefissati, le divise con
giacca e cravatta, le conferenze stampa per
presentare ufficialmente le iniziative dei suoi
ragazzi “crearono per sempre un divario tra i
concetti di “rappresentazione” e di “realtà” per
quei quattro scapestrati di dubbia educazione
familiar-sociale e posero le basi per la tecnica
della comunicazione d’immagine applicata
al neo-nato mondo beat, dove era necessario
occuparsi di un gruppo di persone e non di
una persona sola, sperimentando la soluzione
innovativa più sorprendente: omogeneizzare
il profilo individuale dei quattro in un profilo
comune unico, poi culminato nella pettinatura
caratteristica (“the mop top”, la zazzera)”. Anche
se quello che riuscì ad applicare nel piccolo
inglese non gli riuscì nel grande del mondo,
con i Beatles per la prima volta “globalizzato”.
25 Simili considerazioni sulle competenze di Brian
Epstein sono più che consolidate, per tutti Cfr. S.
Pettinato, Nel nome dei Beatles, Milano, 1997, pag. 70.
93
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Fino ad allora i Beatles si segnavano da
soli su un taccuino le serate per le quali i vari
impresari e gestori di locali li prenotavano, in
maniera improvvisata, di volta in volta: quando
arrivò Brian, l’ingaggio del “Cavern” raddoppiò
di colpo da 7 sterline e 10 a 15.
Firmato il contratto (24 gennaio 1962),
ispirò il proprio modus operandi alla massima
cui si ispirava nel vendere mobili: “Se fai vedere
qualcosa di bello alla gente, lo compreranno”26,
imponendo cambiamenti radicali al gruppo,
nel look, nello stile, nel modo di comportarsi.
Portò efficienza ed organizzazione, preparò
con cura i programmi dei concerti, aumentò
il cachet del gruppo e scelse solo un certo tipo
di locali; ripulì il loro aspetto nel vestire ma
anche nel comportamento sul palco, ridusse la
durata delle esibizioni ad un’ora massima con
preselezione dei pezzi più graditi al pubblico.
Rifiutò sempre l’accusa (anche di Lennon)
di aver tradito lo spirito del gruppo per
cercare redditizi compromessi commerciali,
affermando di aver solo proiettato l’immagine
di ciò che già esisteva.
E comunque gli piaceva, come ricorda George Martin, “quel trafficare caotico, giocare con
i paesi e le date, l’eccitazione del potere”27.
Brian Epstein era assolutamente all’oscuro
di cosa significasse gestire un gruppo
rock ma affascinato dalla prospettiva si
buttò nell’avventura, anche per liberarsi
dall’abbraccio della famiglia che cominciava
ad andargli stretto. Ma in breve capì che anche
un gruppo rock aveva bisogno di pubblicità e
lui fu il primo nel “Merseyside” ad offrire ai
suoi ragazzi non solo un manager in grado
di trovare serate e raccogliere i compensi ma
anche una vera e propria attività di PR, in grado
di pensare al look ed al business, alla radio ed
alla televisione.
Fu lui, insomma, l’organizzatore ed il
promotore che modellò la loro immagine
pubblica, che selezionò tournée e spettacoli dal
vivo, apparizioni alla radio ed alla televisione, che
trovò un contratto discografico ed uno televisivo.
26 Anche in questo caso, si tratta di citazioni ricorrenti
nella storiografia beatlesiana, per tutti, Cfr. M. Hertsgaard,
La musica e l’arte dei Beatles, Milano, 1995, pag. 87.
������������������
Ibidem, pag. 89.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Ma è indubbio che nonostante il suo
grande fiuto promozionale e la devozione
totale al gruppo sprecò una serie incredibile di
opportunità commerciali, privando i Beatles
di milioni di sterline che avrebbero potuto
guadagnare dai contratti per i dischi e per i diritti
di autore, dai contratti per i film e per i concerti,
dal merchandising e da chissà cos’altro ancora.
In altre parole, nello show business
globalizzato Epstein non era cresciuto in
maniera proporzionale ai suoi ragazzi, che
oltretutto erano a loro volta cambiati in
un contesto artistico a sua volta in grande
fermento ed evoluzione, ognuno prendendo
un po’ alla volta una sua strada artistica e
personale, in un processo di allontanamento
che avrebbe portato di lì a qualche anno alla
definitiva separazione.
Quando morì nell’agosto del 1967 i Beatles,
insoddisfatti degli aspetti finanziari del loro
impero, avevano già fondato la Apple ed in
molti si chiedevano che ne sarebbe stato di
Brian Epstein, il cui contratto con i Beatles era
pure in scadenza di lì a poco (9 ottobre 1967).
“Non ce l’avremmo mai fatta senza di lui, e
viceversa”, disse una volta John Lennon28.
Di formazione teatrale, Epstein impose ai
rudi Beatles un cambio immediato di look: via
i giubbotti di pelle nera, il ciuffo alla Presley, i
fili delle corde delle chitarre che pendevano alle
estremità: “Se volete essere presentabili tagliate
quei fili, e fate un po’ di ordine; per essere presentabili smettetela di mangiare sul palco, di
bestemmiare, di fumare”. Pur lasciando spazio
alla loro individualità cominciò a pensare ad una
divisa diversa dai loro jeans ineleganti e addirittura impose loro un profondo inchino al termine dei pezzi musicali: ricorda Paul29 che “una
delle più grandi cose che ci ha detto Brian di fare
fu proprio quell’inchino, l’inchino alla “Beatles
from the waist”. Disse che sarebbe venuto molto
bene, era la sua formazione teatrale che lo guidava”. Se sei a teatro e vuoi esprimere a qualcuno
che è bravo, devi averlo davanti. Se se ne fossero
andati appena finito di suonare, invece, i fans ne
avrebbero perso il contatto visivo e non solo.
������������������
Ibidem, pag. 84.
������������������
Cfr. D. Geller, In my life, Thomas Dunn Books, New York
2000, pag. 49..
94
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Altra invenzione scenica imposta da
Epstein, visivamente accattivante30, fu la mossa
di Mc Cartney e Lennon che, cantando gli
“ooooo” in falsetto in alcuni pezzi, scuotevano
contemporaneamente i capelli pettinati a
caschetto: Starr ed Harrison all’inizio ne risero,
per Lennon l’idea avrebbe invece funzionato e
così fu: ogni volta che i Beatles eseguivano i
loro “ooooo” accompagnati dallo scuotimento
di testa il livello di entusiasmo tra il pubblico
saliva immediatamente.
Questa mossa, sempre più perfezionata
nel corso dei primi concerti, era resa possibile
anche dalla particolare disposizione scenica
dei quattro: il manico del basso-violino
“Hofner” di Mc Cartney girato verso destra (era
mancino) ed al suo fianco, testa a testa, con il
manico della chitarra solista “Gretsch” verso
sinistra, Harrison; sul retro appariva Starr
alla batteria “Ludwig” con la caratteristica T
allungata verso il basso, divenuta nel tempo
quasi logo ufficiale del gruppo, su una pedana
di un metro di altezza, elemento rassicurante
che domina dall’alto il tutto (la batteria,
oltretutto, è lo strumento che dà tempo e
ritmo al fluire musicale), mentre a destra la
figura di Lennon si stagliava con la chitarra
ritmica, una “Rickenbacker” bianca e nera
con il manico a sinistra. Disposizione che
rendeva scenico anche l’inchino, profondo,
dei quattro, incluso Starr che si piegava
seduto sulla sua batteria: “tenevamo l’inchino
contando: uno, due, tre… e lo facevamo tutti
assieme contemporaneamente” confessò una
volta Mc Cartney31.
Ricorda John che Epstein andava in giro ad
ingraziarsi tutti quanti, quelli dei giornali e
quelli che avevano considerazione di lui.
30 Anche I. Mac Donald, The Beatles, L’opera completa,
Mondadori, Milano 1994, pag. 82, riprende temi ampiamente conosciuti sulle modalità del profondo cambiamento che i Beatles vissero nei primi mesi di quello che
abbiamo chiamato Periodo-Epstein.
31 Cfr. L. Lange, The Beatles Way, Essere Felici, Diegaro di
Cesena 2002, pag. 133: si tratta di un manuale che trae
spunto dale vicende beatlesiane per dettare un vero e
proprio decaologo per vivere bene ed avere successo
nella vita. L’analisi che l’autore fa del cambiamento di
look del gruppo è da questo punto di vista particolarmente interessante.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Un po’ alla volta iniziò a fare il PR del
gruppo, cercare di farsi pubblicità era per
lui come un gioco, ricorda ancora John: li
portava in giro da un ufficio all’altro dei
giornali locali e delle riviste musicali chiedendo che scrivessero articoli su di loro, ai
quali chiedeva di farsi belli per i reporter,
anche per quelli più snob che non perdevano l’occasione di far sentire loro il favore di
cui li gratificavano dedicandogli la propria
attenzione.
Il 1 gennaio del 1962 proprio Epstein
procurò loro un’audizione a Londra alla
“Decca”, rimasta famosa non tanto per il livello
delle incisioni (era comunque l’alba del nuovo
anno …) quanto per il rifiuto a scritturarli di
Mike Smith, che sentenziò “I gruppi con tre
chitarre hanno fatto il loro tempo, signor
Epstein!” e divenne così famoso come l’uomo
che perse i Beatles.
Quella mattina, bighellonando per
Londra, incontrarono un gruppo musicale
che indossava stivaletti con un elastico
sui fianchi, li facevano in un negozio della
Charing Cross Road chiamato “Anello &
Davide”: di lì a breve il mondo li avrebbe
conosciuti come gli stivaletti alla Beatles.
Il look alla Beatles andava definendosi: via i
giubbotti di pelle ed i jeans, largo ai pullover a
collo alto e poi ai completi in mohair di Beno
Dorn, un piccolo sarto del Wirral londinese.
La prima donna
Astrid Kirchherr, fotografa di Amburgo,
ebbe una love story con Stuart Stu
Sutcliffe32, membro originario della band, e
frequentando il gruppo cominciò a criticare
l’abbigliamento, a cominciare dagli stivali
a cow boy e giubbotti di pelle, poi il taglio
di capelli e l’uso abbondante di brillantina,
molto stile teddy boy: con molta difficoltà
giunse a convincere Sutcliffe ad adottare un
taglio particolare, detto alla francese: gli tirò
giù tutti i capelli con la spazzola ed a colpi di
forbice aggiustò i capelli e li tagliò. George
32 Tra le numerose biografie dei Beatles, sul ruolo della
Kirchherr Cfr. H. Davies, The Beatles, The authorized biography, London, 1981, pag. 103.
95
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Harrison contribuisce a ricostruire l’origine
del famoso caschetto alla Beatle: l’ispirazione
venne ad Astrid vedendolo uscire da una
piscina, con l’acqua che aveva fatto scendere
i suoi capelli tenuti all’indietro da manate di
brillantina: “No, lasciali così, stai bene!”33.
Quando prese in mano la macchina
fotografica e cominciò a fotografarli, pretese
da loro vestiti più ricercati per le sessions
fotografiche in bianco e nero che avrebbero
ispirato la copertina del loro secondo album
“With the Beatles”. Famosa al riguardo la
battuta di Lennon:” OK, ragazzi, indosserò
un completo: posso mettermi anche un
preservativo se qualcuno mi paga”.
Cambiarono così più volte la loro uniforme,
dapprima indossando pantaloni neri attillati di
pelle di nappa, stivali da cowboys comprati ad
Amburgo e “cappellini a figa” rosa, questi ultimi però trovati a Liverpool. Poi, passarono alle
famose giacche senza colletto, anche in questo
caso grazie ad una ispirazione di Astrid: se ne
era cucita una, rielaborando un’idea in voga di
Pierre Cardin, che a Stu piaceva tanto al punto
che se ne fece fare una per sé. Gli altri lo presero in giro, all’inizio, per via di quella “giacca
della nonna”. Ma poi…
Fu lei il primo fotografo professionista
a riprenderli ed utilizzò con loro la tecnica
delle riprese in bianco e nero con il volto illuminato a metà che poi in tanti avrebbero
ripreso. Indubbiamente, fu anche lei la prima ad intuire il loro potenziale fotogenico,
elemento poi di assoluto valore.
Alla fine del 1962 i Beatles suonarono al
Cinema Embassy di Peterborogh e conobbero
Ted Taylor, dell’omonimo gruppo: “Vi vedo un
pò pallidi, ragazzi, là fuori sul palco dovreste
truccarvi un pò”. I Beatles protestarono, poi
però si misero cerone di scena e Lennon
anche l’eye liner nero.
In quel periodo Epstein aveva cominciato
a promuoverli in proprio e scoprì un vero
e proprio contrabbando di manifesti del
suo gruppo: la società che si occupava dei
manifesti, allora, decise di farne uno ufficiale:
manco a dirlo, in ognuno dei quattro riquadri
33 Ibidem, pag. 58.
”The Beatles”
issn 2035-584x
del poster il volto di un Beatle appariva con
tanto di linea nera attorno agli occhi ben
evidente.
Ricapitolando: stivaletti alla Beatles,
completi Cardin alla Beatles, camicia con
bottone alto e cravatta, capelli alla Beatles,
inchino alla Beatles: i quattro, in scena e fuori
erano ormai un’altra cosa. Si era avverato il
monito di Brian Epstein: per avere successo
“indossate un abito e cambiate pettinatura”.
Le idee non gli mancavano e cominciò così
a costruire una squadra da mettere al servizio
del progetto. Una squadra di persone di cui
lui ed i ragazzi si sarebbero fidati e che a
loro volta avevano fiducia e rispetto al limite
della devozione in loro. Nessuno dei quali
era un esperto del settore di cui si occupava,
così come peraltro nessuno dei Beatles aveva
studiato musica.
Gli altri
George Martin ricorda34 che Epstein venne al
negozio “HMV” di Oxford Street con una copia
dell’acetato dell’audizione “Decca”, se ne fece
fare una copia ed al tecnico incuriosito spiegò
che erano i Beatles e che lui cercava di fargli
avere un contratto. Il tecnico lo introdusse da
Sid Coleman, music publisher della EMI, che
a sua volta, saputo di un precedente rifiuto
della EMI stessa, lo introdusse da lui, George
Martin, che dirigeva la “Parlophone”, etichetta
del gruppo non particolarmente interessata
alla musica rock.
Martin aveva fiuto commerciale e capì che
quei ragazzi avevano qualcosa di particolare,
di speciale. Incredibile a dirsi, all’epoca della
Beatlemania Martin lavorò per i quattro
sulla base di un precedente contratto EMI
che non gli fruttò, letteralmente, un penny
in più dello stipendio contrattuale: 3. 200
sterline l’anno. Poi, concordi i Beatles, alla
scadenza del contratto quinquennale si mise
in proprio, prestando la sua collaborazione
anche ben oltre lo scioglimento del gruppo,
artefice e protagonista di tutto quello che
34 Anche in questo caso per le memorie di Martin Cfr.
D. Geller, op. cit., pag. 45.
96
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
è maturato nel mondo musicale Beatles
sino al 1999, quando si ritirò per problemi
all’udito.
Norman Smith fu lo studio engineer del
gruppo, uno dei protagonisti della rivoluzione musicale beatlesiana. Approdato alla EMI
all’inizio dei Sessanta, avviò il cambiamento
del modo di registrare in studio, proprio al sopraggiungere del “Mersey Sound”.
Neil Aspinall, compagno di scuola di
Harrison e Mc Cartney ed amico di Pete Best fu
il primo ad essere associato al gruppo quando
questo, reduce dalla tournée di Amburgo del
1962, si trovò nella necessità di muoversi
sempre più spesso da una città all’altra per
tenere sempre più numerosi concerti. Aspinall
aveva un furgone e bisogno di soldi, così
divenne il road manager del gruppo, lasciò
gli studi di ragioneria e cominciò a seguire il
gruppo in modo permanente. Appassionato
di rock’n’roll, cominciò così un sodalizio che
lo avrebbe poi portato, nel 1968, alla morte
di Epstein e nel caos anche finanziario che
travagliò gli affari del gruppo, a divenire il
manager della Apple.
Mal Evans era amico dei Beatles dal
tempo del “Cavern”, dove fu assunto quale
buttafuori grazie ad una raccomandazione
di Harrison. Dopo tre mesi, Brian Epstein gli
offrì di lavorare per il gruppo come equipment
road manager al posto di Neil Aspinall, che
nel frattempo aveva assunto incarichi più
importanti nella nascente organizzazione.
Girò il mondo al seguito dei Beatles, delle cui
tournée scriveva sul “Beatles Monthly”. Negli
anni successivi divenne uno dei loro assistenti
personali, sino a quando, morto Epstein ed
arrivato Klein, se ne andò in America.
Tony Barrow fu un altro acquisto di quei
tempi. I Beatles avevano appena inciso il
secondo 45 giri, Please please me, e stavano per
apparire, per la prima volta, in uno spettacolo
della “London TV”. Eppure erano praticamente
degli sconosciuti35.
35 Tra i pochi biografi che trattano in maniera esauriente il ruolo di Barrow, Cfr. H. Davies, op.cit., pag. 186.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Epstein allora scrisse al critico musicale del
“Liverpool Echo”, Tony Barrow, in arte Disker,
che oltre alle recensioni discografiche per il quotidiano scriveva commenti e contributi vari per
le copertina della “Decca”.
“Brian non aveva idea di come si fa a
promuovere un disco, per cui suggerii di mettersi
in contatto con l’Ufficio per le Relazioni con la
Stampa. Lui ammise allora di non avere ancora un
addetto stampa, stava ancora mandando in giro
comunicati scritti a mano di proprio pugno. E mi
chiese se potevo aiutarlo. E così, seduto alla mia
scrivania “Decca”, scrissi e mandai fuori il primo
comunicato stampa ufficiale dei Beatles!”36.
Barrow si dichiarò dunque disponibile ma ad
un patto: che si trattasse di una collaborazione
professionale indipendente quale PR Barrow
non poteva mandare in giro dagli uffici
“Decca” materiale promozionale di un disco
“Parlophone”, per cui si avvalse di Tony Calder,
che aveva lasciato la “Decca” per mettere su un
ufficio di PR insieme ad Andrew Loog Oldham,
ben contenti di diffondere i comunicati stampa
ed organizzare interviste per Epstein37.
Di lì a poco Oldham si chiamò fuori (per
andare a gestire un nuovo gruppo, i Rolling
Stones) e Brian Epstein offrì a Tony Barrow di
tenergli l’ufficio PR di Londra ad uno stipendio
pari al doppio di quello che percepiva alla
“Decca”, offerta difficilmente rifiutabile.
Nei primi sei mesi di lavoro Tony riuscì a
vedere pubblicato qualcosa sui Beatles una sola
volta, quando Maureen Cleave, dell’”Evening
Standard”, scrisse di quanto stava accadendo a
Liverpool intorno ad un nuovo gruppo con la
frangetta in avanti alla francese.
Ben presto Epstein allargò la scuderia della
NEMS ad altri artisti, per seguire i quali Tony lasciò
l’incarico di addetto stampa dei Beatles a Brian
Sommerville e Derek Taylor, pur continuando
a dare una mano al gruppo in più occasioni. Ad
esempio, fu sua l’idea del flexi natalizio per i
membri del Beatles Fans Club.
36 Ibidem, pag. 186.
37 Cfr. B. Harry, The ultimate Beatles Enciclopedia, Zurich,
1992, pag. 63: il mito dei Beatles è oggetto anche di approfondimenti a tutto campo in alcune pubblicazioni
enciclopediche,tra le quail quella di Harry è propbabilmente la più completa.
97
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Andrew Oldham era a Birmingham il 13
gennaio del 1963 quando i Beatles presero
parte al loro primo programma televisivo di
successo, il “Thank Your Lucky Stars” della
ABC38. Quel giorno Epstein si lamentò del fatto
che la “Parlophone” non lo aiutava molto nella
promozione del gruppo e gli chiese di battere
per loro da cima a fondo Londra. Tony Barrow,
nel tempo libero dalla “Decca”, gli dava una
mano come PR, ma aveva bisogno di qualcuno
che fosse solo suo. Detto e fatto39.
Oldham lavorò per i Beatles quattro mesi
a Londra40 come loro addetto stampa; Peter
Jones del “Record Mirror” era suo amico
e gli permetteva di superare il parziale
ostracismo di cui era vittima sul ben più
importante settimanale “NME”. Proprio
Peter Jones gli fece conoscere i Rolling
Stones ancora sconosciuti e senza manager,
per i quali abbandonò i Beatles.
Brian Sommerville dopo aver trascorso
14 anni nella Royal Navy, si dimise e si gettò
nelle PR.
All’età di 32 anni incontrò Brian Epstein in
un pub di Liverpool; fecero amicizia e quando
Epstein gli propose di andare a lavorare con lui
a Londra accettò di buon grado.
Di lì a poco Epstein decise di riorganizzare
l’attività di PR della “NEMS”, affidando a
Tony Barrow il resto della scuderia “NEMS”
e mettendo Sommerville a seguire a tempo
pieno i soli Beatles: “il lavoro più ingrato che
si possa desiderare”, come ebbe a dichiarare,
impegnato a dire di no ogni giorno a decine di
giornalisti, fotografi, cameramen che volevano
i Beatles.
Fu lui ad avere l’idea di sponsorizzare la
tournée dei Beatles a Parigi con la “British
European Airways”, primo sponsor ufficiale
del gruppo: i Beatles si affacciarono dall’aereo
a Parigi e scesero la scaletta portando a
tracolla una borsa da viaggio con il marchio
“BEAtles” ed in cambio andarono gratis
38 Al riguardo Cfr. la sua biografia A. L. Oldahm,
Stoned, Roma, 2001, pag. 180.
�������������������
Ibidem, pag. 182.
���������������������
Cfr. A. L. Oldham, Foreword in Days of Beatlemania,
Mojo, december 2002, pag. 4.
”The Beatles”
issn 2035-584x
su e giù per Londra, nelle tre settimane di
tournée francese. L’ingaggio all’”Olympia”
era modesto, per cui quel benefit fu
particolarmente utile ed apprezzato.
Dopo appena dieci mesi Sommerville
lasciò l’incarico: il loro contratto era stato
stipulato sulla parola, Epstein ne voleva uno
inoppugnabile, cercando di inserirvi clausole
che Sommerville ritenne inaccettabili.
Litigarono e Sommerville se ne andò.
Derek Taylor giovane giornalista del “Daily
Express”, il 30 maggio del 1963 era stato
inviato a coprire uno spettacolo all’”Odeon
Theater” con i Beatles e Roy Orbison. Al
termine di uno spettacolo trascinante, con
ragazzine che non volevano smettere di
urlare il loro entusiasmo, dettò al telefono la
sua recensione: il mondo aveva trovato i suoi
veri eroi popolari del secolo, macché: di ogni
tempo, dipingendo nel cielo un arcobaleno
dorato con pentole d’oro ad ogni estremità41.
Conosciuto in quell’occasione Brian Epstein,
accettò di aiutarlo nella stesura del suo libro
biografico A cellarful of Noise. Al terzo giorno di
lavoro Epstein gli chiese di unirsi a loro, Taylor
si licenziò e si unì al gruppo come assistente
personale di Brian Epstein ed addetto stampa
dei Beatles alla “NEMS”, divenendo in breve
il più amato PR man dell’intero business
musicale. Ma fu un amore di breve durata:
Brian Epstein, al ritorno dal primo tour negli
USA, lo accusò di aver usato la limousine che
era stata noleggiata per lui: Taylor negò, ci fu
un diverbio, si licenziò. Nell’ottobre del 1964
il suo posto quale assistente personale di
Epstein fu preso da Wendy Hanson (90 parole
al minuto a macchina e 140 stenonografiche),
quale addetto stampa fu ingaggiato a tempo
pieno Tony Barrow. Taylor restò nel giro delle
PR e poi tornò con i Beatles, su loro richiesta,
alla Apple Corps, dove rimase sino al 1° gennaio
1970.
Ken Mansfeld era a capo delle Relazioni artistiche della “Capitol” americana e responsabi41 Ancora una volta, ci soccorre H. Davies, op. cit., pag
110, con una colorita rappresentazione di uno di quegli spettacoli che fecero esplodere la Beatlemania in
Inghilterra.
98
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
le della promozione per la West Coast e come
tale, quando nel 1965 i Beatles fecero il secondo tour americano, curò i loro rapporti con la
stampa nell’area di propria competenza.
Tony Bramwell, amico d’infanzia di George
Harrison, impiegato della NEMS dopo che
Epstein aveva contrattualizzato i Beatles, ne
divenne amico e li accompagnò spesso in
tournée come autista, scrivendo cronache per
il “Beatles Montly”. Dopo la morte di Brian
Epstein, che l’aveva fatto manager della “NEMS
Presentations and Subafilms”, produzione di
spettacoli e film, fu messo a capo della “Apple
Promotion”, dove rimase sino al 1970, per poi
spostarsi a Los Angeles a gestire per breve
tempo la “Apple Music”42.
Sean O’Mahony fece partire il “Beatles
Monthly” nell’agosto 1963 e quattro mesi
dopo ne vendeva già 330.000 copie al mese.
Formalmente, era separato dall’attività del
“Beatles Fan Club” ma traeva giovamento
dall’euforia e dalla curiosità dei fans. Costava
due scellini a copia e in America era venduto
come supplemento del periodico “Datebook”,
nel resto del mondo in abbonamento postale.
Non aveva rapporti diretti con la “Nems”, era
pubblicato dalla “Beat Publications”, che però
pagava la “Nems” stessa per l’autorizzazione
allo sfruttamento dell’immagine. La “Nems”
al riguardo non cercava profitti dal “Beatles
Monthly”, però pretendeva la qualità del
prodotto, ad esempio richiedeva la presenza
di molte immagini a colori, “le più belle,
molto migliori di quelle che apparivano sui
quotidiani” a parere di Hunter Davis43.
issn 2035-584x
dedicò loro, nella sua rubrica “Over the Mersey
Wall”, un ampio servizio di lancio della loro prima
apparizione al programma televisivo “Thank your
Lucky Stars”. Harrison seguì per un certo tempo il
gruppo, li accompagnò nella prima tournée USA e
raccolse per il “Liverpool Echo” una serie dei suoi
articoli nel volumetto promozionale natalizio
Around the world with the Beatles. Andò in pensione
sul finire degli Anni Sessanta, quando i Beatles
erano ancora in piena attività discografica.
Peter Brown era uno dei migliori amici
di Epstein, seguì giorno dopo giorno sino
alla fine della Apple gli affari dei Beatles,
poi seguì le PR del Principe di Galles44. Sin
dall’inizio cominciò ad affiancare Epstein
nel gravoso doppio impegno di condurre
il negozio e gestire il crescente impegno
del management dei Beatles, sempre più in
movimento tra Liverpool e Londra.
Una volta che i Beatles cominciarono a girare, Brown lasciò il negozio e si concentrò
sul management del gruppo, assistente personale di Epstein, interessandosi di un po’ di
tutto, dagli aspetti contrattuali all’organizzazione di eventi sociali.
Alla morte di Epstein divenne general
manager della “Beatles & Co” e quindi dirigente
della “Apple Corps.”
Alistair Taylor fu il primo assistente
personale di Epstein nel negozio di famiglia. Lo
seguì a Londra, incaricato quale general manager
dell’organizzazione, ruolo che svolse sino alla
morte di Epstein. Per un breve periodo guidò
la “SIELKIE”, una delle etichette tardive della
“NEMS”. Alla morte di Epstein, su richiesta di
Lennon, divenne Office Manager della Apple,
incarico che svolse per alcuni anni.
George Harrison, giornalista, omonimo del più
giovane dei Beatles, era stato contattato da Brian
Epstein alla ricerca di recensioni sul “Liverpool
Echo”, di cui lo stesso era critico musicale, ma
invano. Ma dopo che Tony Barrow / Disker, che
oramai lavorava a part time per i Beatles, il 5
gennaio fece una lunga recensione del disco che
sarebbe uscito di lì a pochi giorni, anche l’omonimo
del “Liverpool Echo” saltò sul treno dei Beatles e
La “NEMS - North End Music Store
Enterprises Ltd”, ricorda Brian Epstein45 fu
fondata a Liverpol nel 1962 per gestire gli affari
degli artisti della scuderia creata da Epstein;
indubbiamente, la fondazione della “NEMS” fu
motivata anche da motivi fiscali, il gettito delle
�����������������
Cfr. B. Harry, op. cit., pag. 119.
������������������
Cfr. H. Davies, op. cit., pag. 278.
44 Cfr. D. Geller, op.cit., pag. XV.
�������������������
Cfr. B. Epstein, ib., pag. 96.
”The Beatles”
Le società
99
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
entrate stava aumentando a dismisura e creava
problemi, per cui insieme al fratello Clive, che
ne divenne direttore, nel luglio Epstein registrò
la società che in breve fu costretta, decisione
quasi indispensabile, a trasferirsi a Londra,
in Argyll Street W.1, giusto dietro il “London
Palladium”.
Con il suo staff Epstein cominciò a concentrarsi di più sulla promozione e sul benessere dei suoi artisti: soldi venivano da
tutte le parti, dai concerti come dalle apparizioni televisive, dai dischi e dalle radio, dai
film e dal merchandising, la vendita di talco,
chewing gum, chitarre, tutto prodotto alla
luce del sole, che può portare profitti, giorno
dopo giorno con sempre nuovi prodotti, caratterizzati dalla loro estrema caducità: passata la novità, cade l’interesse.
La “Northern Songs Ltd” fu la seconda
società a vedere la luce nel mondo degli affari
beatlesiano. Il primo 45 giri, Love me do,
inciso il 5 settembre 1962, aveva avuto scarsa
promozione e da molte parti si sussurrò che
sarebbe salito al 17 posto della classifica dei
45 giri più venduti solo grazie alle migliaia di
copie acquistate da “NEMS”, voce smentita
decisamente da Epstein46: “il disco era di per sé
sufficiente a convincere della validità del gruppo
e quel rumore che giunse fino all’insostenibilità,
per cui avrei comprato ingenti quantità del disco,
come si fa a pensarlo? Non avevo certo tutti i
soldi necessari per spingere così in su il disco
e comunque non l’avrei fatto. I Beatles hanno
avuto un successo naturale, senza trucchetti
di sorta, vorrei che fosse chiaro a tutti”. George
Martin qualche dubbio al riguarda ce l’ha47 e
ricorda che Epstein era arrabbiato con lui: “Non
abbiamo avuto alcun aiuto dai tuoi pubblicitari
per il disco, nessuna promozione”, minacciando
di rivolgersi allo studio “Hill&Range”, due
pubblicitari americani di stanza a Londra.
46 Si tratta di uno dei tanti classici misteri beatlesiani: Epstein
era proprietario della NEMS, il negozio di dischi più importanti del Merseyside, e ben sapeva come fare salire un disco
nella hit parade, cosa peraltro da lui sempre smentita. Cfr. B.
Epstein, The Beatles, A cellarful of noise, New York, 1965, pag. 61.
47 Ancohe in questo caso per i ricordi di Martin Cfr. D.
Geller, op. cit., pag. 61.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Martin lo sconsigliò vivamente, per loro sarebbe
stato uno tra i tanti clienti, e gli suggerì una rosa
di tre nomi.
Dick James, ex cantante, apprezzato e
benvoluto publisher, il primo di questi ad essere
contattato, fiutò subito l’affare, si mise al lavoro
duramente per promuovere Please please me, il
secondo 45 giri, e li portò per la prima volta
alla grande televisione48. In breve, suggerì a
Epstein di smettere di lavorare canzone dopo
canzone e di stringere un affare “a corpo” con
gli autori delle canzoni del gruppo, una società
in compartecipazione che gestisse il futuro
fluire delle loro canzoni: la “Northern Songs
Ltd”, che vide la luce nel gennaio 1963.
Una
compartecipazione
alquanto
azzardata ed infelice: 50% alla “Dick James
Music” e l’altro 50% diviso tra “Lennon & Mc
Cartney” (20% cadauno) ed Epstein (10%).
Allora i gruppi non si scrivevano le canzoni,
guadagnavano buoni diritti di riproduzione
ed incisione e nessuno nell’occasione poteva
aspettarsi quel che poi successe: con il senno
di poi, per George Martin, Epstein fu un vero
idiota49.
Fatto sta che attraverso la “Northern Songs
Ltd” Dick James controllò le canzoni del duo,
mentre Epstein dimostrava maggiore interesse per la “Jaep Music Company”, controllata
insieme allo stesso James, che gestiva le canzoni degli altri gruppi della scuderia Epstein. Il
quale Epstein a lungo si dichiarò fortunato di
tale partnership.
Quando la “Northern Songs Ltd” fu fondata
nel 1963 ed ottenne il controllo dei diritti della
musica dei due prolifici Beatles, James passò
in breve dall’essere uno dei tanti della scena
artistica inglese ad essere il più importante
del mercato. Quello fu il momento in cui
tutto cominciò a cambiare nel mondo della
musica, secondo Don Arden 50“gli autori
48 I Beatles avevano già partecipato a programmi minori su
alcune television indipendenti, ma il 4 ottobre 1963 “debuttarono” sulla BB nel programma Ready, Steady, Go!, esibendosi
dal vivo per un’audience ed un mercato tipicamente giovanili.
49 Ancora una volta Cfr. D. Geller, op.cit., pag. 61.
50 Cfr. A. Oldham, op. cit., pag. 272, la cui esperienza
è particolarmente interessante, atteso che lasciò dopo
pochi mesi I Beatles per fare da manager ad un nuovo
gruppo che proprio lavorando per i boys di Liverpool
100
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
cominciarono a mettere in discussione gli
accordi ed i manager hanno messo a rischio
l’esistenza stessa degli editori. I Beatles
sono stati come Pearl Harbor e molte navi
affondarono. L’industria musicale cambiò”.
Nel 1965 la società fu quotata in borsa:
James si ritrovò con il 37% insieme a Charles
Silver, il contabile della società; Lennon e Mc
Cartney il 15% ciascuno, Epstein il 5%, NEMS
7,5 e Harrison e Starr lo 1,6 % ciascuno.
Nonostante proteste e tentativi varii, Lennon
e Mc Cartney non riuscirono mai a prendere
il controllo delle loro canzoni. A loro insaputa
nel 1968 James e Silver vendettero la loro quota
azionaria all’”Associated Television Corporation”:
Epstein era morto e temevano che l’arrivo alla
Apple del nuovo manager, Allen Klein, avrebbe
potuto creare loro problemi. Klein infatti di lì a
poco cercò di creare un consorzio per acquistare il
20% delle azioni che, sommato al 32% dei Beatles,
avrebbe permesso di controllare la società. Ma
il tentativo fallì per il rifiuto di Lennon a farsi
fregare un’altra volta da quei signori in abito e
panciotto che sedevano nella city51.
La “Publicity Ink” fu una organizzazione di
promozione fondata nel 1963 da due studiosi
di Rabelais e membri dell’associazione
della stampa, che si si offrirono ad Epstein
per promuovere i Beatles (e gli altri artisti
“NEMS”) per 100 sterline l’anno attraverso
montature pubblicitarie, trovate ingegnose,
litigi e scenate, qualsiasi cosa insomma in
grado di portarli sui giornali: ma nonostante
le birre bevute insieme, Brian Epstein non
accettò simili mezzucci per fare girare il nome
dei Beatles.
Però non si può non ricordare che altri lo facevano: in occasione del loro primo atterraggio
negli USA, corse voce che il loro promoter locale, Nicky Byrne, avesse promesso una maglietta
nuova fiammante a tutti i ragazzi che sarebbero
andati all’aeroporto ad acclamare i Beatles.
La “Stramsact” e la “Seltaeb” sono le due società che proprio Nicky Byrne aveva costituito
aveva conosciuto, i Rolling Stones.
51 Cfr. B. Harry, op. cit., pag. 363: questa espressione, secondo alcuni biografi ancora più colorita, era tipica della
mentalità di John Lennon.
”The Beatles”
issn 2035-584x
nel 1963 in Inghilterra e negli USA per gestire le licenze di produzione, al di qua e al di là
dell’Oceano, di prodotti Beatles, che sempre più
venivano richiesti dal mercato dei teenager.
Inglese con quartiere generale negli USA,
Byrne era stato avvicinato dal legale di Brian
Epstein, David Jakobs, che gli aveva proposto
di prendere in mano la questione, ritenendolo
la persona adatta ad affrontare il mercato del
merchandising. Apparentemente riluttante,
Byrne si lasciò convincere ed allestì una cordata di amici per creare due società, la “Stramsact” e la “Seltaeb” per l’appunto.
I Beatles stavano per sbarcare in America
e Byrne, avvicinato dalla “Capitol Records”
che gli offrì 500.000 dollari in una banca alle
Bahamas per farsi da parte pur mantenendo la
metà delle royalties, capì subito in che miniera
d’oro era finito. Rifiutò, si diede da fare per
organizzare la presenza dei fans in delirio
all’aeroporto di New York ad attendere i Beatles
e cominciò ad incassare milioni di dollari,
lasciando ai Beatles il solo 10% dell’affare.
Quando Epstein realizzò che a loro spettava
il 10% e non il 90% che lui aveva originariamente pensato, chiese al proprio legale di andare a
fondo della vicenda: al termine di una lunga e
complessa vicenda legale l’accordo fu rinegoziato, ai Beatles venne riconosciuto il 46% delle
royalties, ma nel frattempo Epstein aveva riorganizzato la “NEMS” e iniziato a trattare direttamente con le aziende interessate al merchandising di parrucche e chitarre di plastica, pupazzi
e gadget di varia natura. Ma nel frattempo ci
avevano anche rimesso suppergiù cento milioni di dollari: “alla fine non valeva la pena di fare
causa a tutti. Era solo colpa di Brian. Era un ingenuo. L’ho sempre detto: un ingenuo” commentò
Peter Brown, l’assistente di Epstein52.
Nel caos totale nessuno si arrischiò più ad
investire nel nuovo business del merchandising. Una perdita enorme per il gruppo, di immagine oltre che di guadagni, tanto più che di
lì a breve, con il finire dei tour e dei concerti
dal vivo, venne meno anche la rincorsa agli
oggetti beatlesiani.
52 Al riguardo Cfr. M. Hertsgaard, op. cit., pag. 91, la cui
ricostruzione della vicenda Seltaeb è particolarmente
puntuale.
101
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Gli altri
Altre categorie di interesse per il gruppo erano dei song-pluggers e dei disc jokeys:
i primi devono essere uomini affascinanti,
esperti del settore, amici di tutti, che devono
riuscire a piazzare un disco in una trasmissione televisiva o in un programma radiofonico. Persone diligenti e piene di entusiasmo, Epstein si domandava come avrebbe
fatto senza di loro.
I disc jokeys sono tutt’altra cosa, se i
primi sono uomini senza volto, loro vivono
e lavorano esprimendo la loro personalità.
Magari vanagloriosi, hanno meno potere
di quel che credono ma, secondo Epstein,
gradevoli in quanto allegri estroversi e
gradevoli compagni.
Alan Freeman, particolarmente competente, professionale e pieno di entusiasmo, era
innamorato della musica e delle classifiche
dei dischi; così come Jimmy Faville, che diceva
sempre quel che gli passava per la testa, in maniera anche violenta, faceva previsioni assurde
e di pessimo gusto. Ed ancora Brian Matthew,
uno dei DJ più seri, secondo Epstein, che si
mise in società con lui in una piece teatrale a
Bromley; e David Jacobs, fascinoso e telegenico, uomo e DJ immacolato e molto gentile. E’
quello che aveva il miglior look e, contemporaneamente, particolarmente modesto.
Modesto era però anche il loro peso sui
gusti della gente, ben altro peso aveva (ed ha)
la stampa, che solo un pazzo, secondo Epstein,
poteva sottostimare. Essi hanno potere e
lo adoperano esattamente quando, come e
dove ad essi piace. Anche se, a differenza di
quel che altri andavano affermando, secondo
Epstein essi nulla avevano a che fare con
l’esplosione dei Beatles.
In effetti, il “Mersey sound” risuonò 18
mesi prima che una sua qualche eco giungesse
ad un qualche ufficio stampa nazionale anche
se, una volta scoperto ciò che stava avvenendo
nel campo della musica popolare, risposero
in modo splendido e ne parlarono con vigore:
punto di svolta il 27 dicembre 1963, quando
il “Times” di Londra fu il primo a pubblicare
”The Beatles”
issn 2035-584x
un articolo sul valore musicale del gruppo. Il
critico musicale del giornale, William Mann,
giudicò “Lennon e Mc Cartney i migliori
musicisti inglesi del 1963” 53, trovando
addirittura inferenze della canzone Not a
second time con “Il canto della terra” di Gustav
Mahler. Due giorni dopo il critico del Sunday
Time si spinse oltre: i due erano i più grandi
compositori dopo Beethoven!
Certo, il rapporto di Epstein con i giornalisti era pragmatico: non si vergognava apparentemente, se ce ne fosse stato bisogno,
di manipolare la stampa, la stessa cosa che
avrebbero fatto loro con lui se glielo avesse
permesso. Se c’era spazio su una pagina di
giornale, avrebbe fatto l’impossibile per riempirlo con una sua storia. In fin dei conti, tutti
facevano parte di un grande gioco: pubblico,
artisti, manager, stampa, l’intera industria
dell’intrattenimento, tutti uniti per “la grande causa del farsi acclamare tutti quanti”.
Bill Harry, ricorda Brian Epstein, energico
direttore del settimanale “Mersey Beat” e profondo conoscitore della scena beat locale, spingeva forte i Beatles, aiutandoli anche nella vendita dei biglietti per i loro spettacoli al Nord.
In effetti Harry avrebbe voluto pubblicare
una rivista di jazz ma i suoi amici John
Lennon e Stuart Sutcliffe lo convinsero a
fondarne una che promuovesse la scenario
rock’n’roll locale: nacque così la rivista,
denominata “Mersey Beat” per la copertura
geografica (la foce del fiume Mersey) e lo
specifico musicale (il nascente beat).
Il 6 luglio 1961 uscì il primo numero,
un’immagine grafica innovativa, 5.000 copie
di tiratura distribuite tra negozi, agenti,
locali di strumenti musicali e dischi, balere.
Lo stesso Brian Epstein ne vendeva dozzine
di copie nel suo negozio musicale ed i giovani
Beatles andavano spesso in redazione a dare
una mano, Lennon addirittura vi teneva
una sua rubrica, dopo il successo che aveva
avuto un suo lungo racconto “Being a short
diversion on the origin of the dubious Origins
of Beatles. Translated from the John Lennon”,
talora sotto lo pseudonimo di “Beatcomber”
53 Ibidem, pag. 80.
102
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
trovatogli da Bill Harry (“Beachcomber” era
una rubrica umoristica del Daily Express).
Lennon utilizzò spesso il “Mersey Beat”
anche per fare inserzioni pubblicitarie a
pagamento. Da parte sua Brian chiese ed
ottenne di potere pubblicare una rubrica,
“Stop the world – and listen to everything
in it”, di recensioni discografiche a firma
Brian Epstein della “NEMS”.
La rivista lanciò il “Mersey Beat Poll” che,
il 4 gennaio 1962, vide i Beatles vincitori
tra non poche critiche di partigianeria
lanciate alla redazione. Il disc jokey locale
Bob Wooler, autorevole ed influente oltre
che collaboratore della rivista, segnalò a
Harry l’ira degli altri gruppi, che parlavano
della rivista come del “Mersey Beatle”: detto
fatto, Bill Harrry creò l’inserto “The Mersey
Beatle”.
Con la sua rivista Harrry fece sviluppare
tutto il mondo musicale locale, fece conoscere i gruppi e gli avvenimenti, i concerti
ed i dischi, divenne un po’ il quartiere generale del beat che aveva ormai soppiantato il
rock’n’roll: in breve tempo la rivista si espanse su un grande territorio, da Birmingham a
Manchester, da Bristol alla Scozia, dando vita
ad almeno 18 supplementi locali, innovando
il giornalismo musicale (la prima guida delle
band, la “Top 100 Chart”, l’elenco settimanale
dei nuovi dischi) e divenendo il numero uno
del suo settore in Inghilterra.
Nel settembre 1964 Brian Epstein rilevò la
rivista, garantendo a Bill Harry la massima indipendenza editoriale e, al caso, il necessario
sostegno economico.
La rivista aumentò di prestigio, full color,
la prima rivista musicale inglese ad essere
distribuita in USA. Ma l’iniziale promessa di
Epstein venne progressivamente meno, chiese
ed impose cambiamenti editoriali per espandere
su Londra il peso della rivista, che nel frattempo
aveva assunto il nome di “Music Echo”, divenendo
fin troppo omologo ai suoi concorrenti londinesi.
E Bill Harry, nonostante la rivista avesse raggiunto
le 75.000 copie di vendita, si dimise dall’incarico.
Di lì ad un anno il “Music Echo” era già in crisi,
incapace di combattere i settimanali londinesi
sul loro terreno di gioco.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Ray Coleman, giornalista, una volta
specializzatosi in giornalismo musicale, dopo
la fusione di “Disc” e “Music Echo” (erede di
“Mersey Beat”) voluta dal proprietario Brian
Epstein, divenne editore di “Disc&Music
Echo” per poi approdare, negli anni Settanta,
al “Melody Maker” in qualità di editore capo.
Scrisse spesso dei Beatles e fu lui a realizzare
l’intervista (18 gennaio 1969) in cui John
dichiarò che la Apple era un fallimento e che
in sei mesi li avrebbe trascinati tutti a fondo.
Brian Mathew fu forse il giornalista che più
di chiunque altro lavorò con i Beatles dei primi
anni. Li portò ben 10 volte al “Saturday Club”,
prestigioso programma radiofonico della BBC,
tra il 16 marzo 1963 ed il 26 dicembre 1964; li
ospitò 4 volte all’”Easy Beat” e furono i primi
ospiti del suo nuovo show “Top Gear” il 14 luglio
1964. Realizzò con loro numerose interviste e
li seguì nel primo tour americano per la BBC.
Sempre per la BBc realizzò, nel 1972, la serie
radiofonica in 13 puntate “The Beatles Story”.
The Beatles Fans Club
Nella strategia promozionale di Brian
Epstein, la creazione della rete dei “Beatles
Fan Club” fu probabilmente la trovata più
ingegnosa e rivoluzionaria per l’epoca, tanto
più che fu messa in cantiere prima ancora della
pubblicazione del loro primo disco.
Il primo “Beatle Fans Club” sorse infatti
nel 1962 e fu condotto da Roberta “Bobbie”
Brown dalla sua casa di Wallasey, in Buchanan
Road, che raccolse intorno a sé un gruppo
di fan del gruppo e si impegnò a dare loro
puntuali informazioni sull’attività dei quattro.
E non solo: subito dopo la sua costituzione,
il Club si fece carico di prestare assistenza
all’organizzazione di un “Party di bentornati a
casa” dopo la terza tournée ad Amburgo.
Freda Kelly cominciò a dare una mano a
“Bobbie” e quando Brian Epstein attrezzò
un ufficio per la gestione degli affari
“NEMS” sopra il negozio di dischi nel
centro di Liverpool, affidò a Frieda Kelly
per 6 sterline e 10 scellini la settimana il
compito di scrivere a macchina lettere. In
una piccola stanza senza finestre Kelly si
103
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
mise al lavoro insieme ad un’altra ragazza,
spendendo parte del tempo a cercare soldi
per comprare francobolli e spedire così
sempre più numerose lettere di risposta ai
“fans: “Per la verità Paul a quel punto faceva
una rapida colletta tra i ragazzi e raccoglieva
la somma che mi serviva. Epstein ad un certo
punto dispose che i soldi delle iscrizioni al
Fan Club gli sarebbero serviti per pagare
le fatture dei francobolli e delle stampe. E
così non dovetti più mendicare soldi dai
ragazzi”.
Lo sviluppo dell’attività del Club trasse giovamento dalla nascita del “The Beatles Book”, il
mensile ufficiale lanciato nell’agosto del 1963:
nuovi membri giunsero al Club dai nuovi lettori mentre i vecchi membri trovarono una
newsletter loro dedicata all’interno del mensile, che comunque dedicava ampio spazio alla
vita del Club.
Nel giugno 1963 Barrow decise che ci voleva
una Segreteria Nazionale del Club a Londra,
nella sede di Monmouth Street, 13. Prima di
allora i fans del sud avevano come riferimento
Bettina Rose, nel Surrey, mentre a quelli del nord
pensava da Liverpool Freda Kelly. A capo della
nuova struttura fu messa “Anne Collingham”,
persona assolutamente virtuale, un avatar ante
litteram, idea di Tony Barrow presa non certo per
ingannare i fans. Chiaramente, all’aumentare del
numero di iscritti aveva corrisposto un aumento
del numero di impiegati ed assistenti a tempo
pieno, per cui era sempre più difficile la gestione
della corrispondenza, per cui mettere tutte le
lettere in capo ad un’unica figura inesistente
sembrò la cosa più logica: Anne era il nome di
sua moglie, mentre a Collingham abitava la sua
assistente personale 54. Ma c’era anche un’altra
ragione: l’attività era sempre più frenetica
e sempre più chiamate arrivavano all’unico
numero telefonico “COVent Garden 2332”, sia
che fossero per il Fan Club sia che fossero per
l’ufficio stampa. Quando qualcuno chiedeva
di Anne Collingham non vi era dubbio di cosa
stesse cercando, e veniva immediatamente
54 Cfr. T. Barrow, Their Fan Club, in S. O’Mahoney (a cura
di) The best of the Beatles Book, , Londra, 2005, pag. 74: anche la vicenda dell’avatar “Anne” del BFC è un classico
della storiografia beatlesiana.
”The Beatles”
issn 2035-584x
smistato ad una sua assistente. Chissà perché,
“Anne” era sempre molto impegnata, al punto
che nessuno riuscì mai a parlare con lei. A Natale
del ’63 Epstein fece un’eccezione alla regola per la
quale il Club non vendeva gadgets e, per aiutare
un parente proprietario della “Weldons of
Peckham”, che produceva uno stemma bicolore
ricamato in oro e rosso, mise in vendita per i fans
del Club un pulloverino polo nero con cucito
sul petto quello stemma, al prezzo di 1 sterlina
e 75, spedizione postale inclusa. La fotografia
pubblicitaria di una bella brunetta diceva “Anne
Collingham indossa il pullover ufficiale”, ma si
trattava di Mary Cockran, che lavorava al Fans
Club ed era stata usata anche come modella per
disegnare il capo.
L’esplosione della Beatlemania nell’autunno
del 1963 aumentò vertiginosamente il numero
dei fans e mise in pericolo quel rapporto anche
personale che aveva legato i quattro ai loro
fans. Il Club fece da parte sua l’impossibile
per affrontare le migliaia di lettere che
sommergevano quotidianamente il secondo
piano del palazzo di Monmouth Street, 13.
Due cose aiutarono a recuperare la fiducia
dei membri del Club: a Natale fu inviato
a tutti i fans che avevano aderito al Club
entro novembre, e solo a loro in esclusiva, il
primo disco natalizio; mentre a dicembre fu
organizzata una doppia Fan Club Convention
dei Beatles People, ben promosse attraverso la
newsletter del Fans Club: sabato 7 dicembre
all’”Odeon Theatre” di Liverpool ed al
“Wimbledon palais” di Londra sabato 14, per
complessive 6.000 presenze, quando il Club
ne contava ormai oltre 30.000, che esplosero a
80.000 l’anno seguente nel solo Regno Unito.
Ricorda Tony Barrow: “Quando aprimmo
il portone, fu come con i saldi di gennaio di
“Selfridges” moltiplicati per dieci! Dopo un
rapido confronto con Mal Evans, Neill Aspinall
e il press officer Brian Sommerville decidemmo
di mettere da parte i pochi poliziotti presenti e
di auto-organizzarci, in modo da permettere
a tremila scatenati, in gran parte ragazze,
di toccare i loro idoli, fotografarli e farsi
fotografare con loro, chiedere autografi,
guardarsi negli occhi con i boys, bersi un sorso
di Coca Cola dalla loro bottiglietta”.
104
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Ma per i ragazzi fu anche l’occasione,
autografando un po’ di tutto, di vedere quanta
spazzatura di pessima qualità veniva venduta
con le loro immagini, anche lì di fuori, a prezzi
astronomici, con i fans disposti a comprare di
tutto a qualsiasi costo pur di portarselo poi a
casa firmato dai loro beniamini. Il problema
del merchandising e del suo controllo era
lì evidente e sotto gli occhi dell’intero
management del gruppo”55.
Nonostante il lievitare degli iscritti i conti
non tornavano né tornarono mai, essendo
ben superiori agli introiti del tesseramento
le spese per la stampa della newsletter tre/
quattro volte l’anno più il flexi disc natalizio
(era infatti stampato su plastica con doppia
busta in cartoncino). Per non parlare delle
lettere di risposta ai sacchi di corrispondenza
che quotidianamente arrivavano.
L’aumento del lavoro creò in un’occasione
un vero e proprio disastro: miglia e migliaia
di lettere si erano accumulate e non c’era
tempo né personale per aprirle. Assente
Tony Barrow, all’estero con i Beatles, un
suo assistente decise di mandare al macero
migliaia di lettere mai aperte; avrebbe dovuto
farsi autorizzare da uno dei responsabili ma
nessuno era in zona e l’ufficio straripava, al
limite dell’ingovernabilità, e così parti l’ordine
di portare al macero una marea di posta mai
aperta, contenente ovviamente un po’ di tutto,
assegni e versamenti degli iscritti inclusi.
Al danno si unì la beffa: più di uno vide nella
discarica quelle lettere ancora chiuse ed i
giornali si impadronirono in un battibaleno
della vicenda: ecco come i Beatles trattano i loro
fans! Tony Barrow rientrò precipitosamente
e riuscì a chiudere la vicenda, ovviamente
dando disposizioni perché simili episodi non
potessero ripetersi.
Con la fine delle tournée, nel 1966, anche il
Club ridusse le proprie dimensioni e quindi la
propria attività; Dopo lo scioglimento, finito il
sogno, il Club ridusse progressivamente l’attività e chiuse i battenti nel marzo 1972.
������������������
Ibidem, pag. 74.
”The Beatles”
issn 2035-584x
Eugenio Ambrosi, direttore del Servizio Corecom
FVG, docente di comunicazione pubblica presso il
Master in “Analisi e gestione della comunicazione”
dell’Università degli studi di Trieste è fan beatlesiano e come tale ha promosso ed organizzato numerosi eventi
Bibliografia
G. Arnesano, Viral marketing, Milano, 2007
T. Barrow, Their Fan Club, in O’Mahoney S. (a cura
di) The best of the Beatles Book, Londra, 2005
R. Canziani, Comunicare spettacolo, Milano, 2005
G. Cartocci, Il caso del doppio Beatle, Roma 2005
S. M. Cutlip, A. H. Center, Nuovo manuale di relazioni pubbliche, Milano, 1983
A. Di Gregorio, La comunicazione internazionale
di marketing, Torino, 2003
R. D. Driver Richard, The Beatles image: mass marketing 1960sbritish and american music and culture, or
being a short thesis on the dubious package of the Beatles,
Graduate Faculty of Texas, Tech University, 2007
H. Davies, The Beatles, The authorized biography,
London, 1981
B. Epstein, The Beatles, A cellarful of noise, New
York, 1965
D. Geller, In my life, New York, 2000
J. E. Grunig, T. Hunt, Managing Public relations,
Orlando, 1984
B. Harry, The ultimate Beatles Enciclopedia, Zurich, 1992
M. Hertsgaard, La musica e l’arte dei Beatles, Milano, 1995
E. Invernizzi, Manuale di relazioni pubbliche,
Milano, 2005
L. Lange, Beatles Way, Essere Felici, Diegaro di
Cesena, 2002
I. Mac Donald, The Beatles, L’opera completa, Milano, 1994
M. Nesurini, Good Morning Mr. Brand, Milano, 2007
A. Oldham, Stoned, Roma, 2001
S. Pettinato, Nel nome dei Beatles, Milano, 1997
R. Walker, Murketing, Milano, 2009
Emerografia
A. Oldham, Foreword in Days of Beatlemania,
Mojo, dicembre 2002
105
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
I casi Englaro e Welby:
diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
M. Cristina Barbieri
Abstract
Parole chiave
Lo scritto prende in considerazione i casi giudiziari
Englaro e Welby, muovendo dalla sentenza della Corte
di Cassazione sul primo dei due casi per enuclearne i
principi che ne informano lo schema argomentativo,
principi sottesi anche alla sentenza sul caso Welby.
L’uno e l’altro caso vengono presi in considerazione sotto
il profilo penalistico, considerando anche la recente
conclusione in sede penale del caso Englaro. Lo scritto si
sofferma sulle differenze ‘fattuali’ tra i due casi e sulle
conseguenze giuridico – penali che ne derivano sul
piano della ‘posizione di garanzia’ del medico.
Englaro;
Welby;
Autodeterminazione;
Trattamenti medici;
Diritti fondamentali;
Libertà personale.
Introduzione
I
due casi di cui ci si occupa in queste pagine
hanno creato indubbiamente un turbamento nell’opinione pubblica, obbligata a riflettere
sul momento di morire, sul significato delle
cure mediche, sul valore delle scelte individuali. A più di due anni dall’emanazione delle due
sentenze sui casi che hanno provocato reazioni scomposte in un parlamento in larga parte
impreparato ad affrontare tematiche giuridiche così complesse, una riflessione si impone
ancora al giurista, e in particolare al penalista,
nella speranza che i problemi posti dal ‘finevita’ possano essere affrontati in futuro con la
razionalità e l’umanità che meritano.
I due casi, Welby e Englaro, presentavano
profili problematici differenti sotto l’aspetto
giuridico, sia civilistico sia penalistico.
Mentre il caso Englaro ha trovato una progressiva elaborazione in sede civile nell’arco di quasi
dieci anni, il caso Welby ha avuto la sua soluzione
in un tempo piuttosto rapido tra giudizio civile
e penale, trovando però nel solo giudizio penale
una sede di approfondimento dei problemi.
Accomunati dall’assenza di una legge apposita che ‘consentisse’ di porre fine ai trattamenti medici, i due casi hanno trovato una soluzione nelle sentenze della magistratura, che
ha saputo così svolgere fino in fondo il proprio
compito di applicare le leggi esistenti.1
1 E’ bene chiarire infatti che la sent. Cass. Sez. I civile n.
21748 che aveva dettato le condizioni per la sospensione
del trattamento di Eluana Englaro non ha agito esercitando una arbitraria supplenza giudiziaria: contro tale
pronuncia e contro la decisione della Corte d’Appello di
Milano che autorizzava la sospensione del trattamento
è stato sollevato un conflitto di attribuzioni che la Corte
Costituzionale ha ritenuto inammissibile con Ord. 8
ottobre 2008, n. 334 pubblicato in “Cassazione penale”,
2009, pp. 876 ss. Cfr. sul punto R. Romboli, Il conflitto tra
poteri dello Stato sulla vicenda E.: un caso di evidente inammissibilità, in “Foro Italiano”, 2009, I, cc. 49 ss. R. Bin, Se
non sale in cielo, non sarà forse un raglio d’asino? In www.
forumcostituzionale.it parla di “ricorso privo di qualunque fondamento giuridico”. Anche l’impugnazione proposta contro il decreto autorizzativo della Corte d’Appello di Milano dal Procuratore generale alle Sezioni Unite
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
106
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Tuttavia crediamo che sia rimasta nell’opinione pubblica, ma anche nell’opinione di qualche
giurista, l’idea che, in nessuno dei due casi la magistratura abbia agito ‘secondo le regole’, che non
abbia, fuor di metafora, rispettato la legge penale,
arrogandosi un potere di decidere, in violazione
della divisione dei poteri, anche contra legem.
Spesso infatti si sono ‘sbandierati’ i tre possibili reati previsti nel codice penale che possono
venire in considerazione: l’art. 575, omicidio
volontario, l’art. 579, omicidio del consenziente, l’art. 580 Istigazione e aiuto al suicidio, quasi
che la magistratura ne ignorasse l’esistenza2.
Ora che entrambi i casi si sono conclusi con
il riconoscimento della piena liceità del comportamento di interruzione del trattamento
medico, vorremmo in questo breve lavoro ripercorrere i momenti principali di queste due
vicende umane e giudiziarie, per darne una valutazione più distaccata di quanto non sia avvenuto quando la vicenda giudiziaria era ancora
in corso, cercando di individuare, in modo sintetico, quali sono le ripercussioni che queste
vicende hanno lasciato, quali problemi restano
ancora irrisolti e quali rischi di nullificazione
dei risultati raggiunti possono profilarsi.
Dedichiamo dunque la prima parte di questo
breve lavoro al caso Englaro, la seconda al caso
Welby, la terza alle considerazioni conclusive.
I
§1. La lunga lotta per il diritto. E’a tutti noto
che la vicenda giudiziaria di Eluana e Beppino Englaro si è instaurata per iniziativa di
quest’ultimo che, dopo aver ottenuto l’interdizione della figlia ed esserne stato nominato tutore ai sensi degli artt. 357 e 424 c.c., nel
lontano 1999 presentò al Tribunale di Lecco un
ricorso con il quale chiedeva l’autorizzazione
alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale (NIA) e di tutte quelle cure
della Corte di Cassazione è stata dichiarata inammissibile: Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 13 novembre
2008, n. 27145, in “Foro italiano”, I, 2009, c.35. Sulla legittimità della ‘creatività’ dei giudici S. Bartole, Il potere
giudiziario, Bologna, 2008, p. 15.
2 Cfr. il commento ‘a caldo’ di F. Gazzoni, La Cassazione
riscrive la norma sull’eutanasia, in www.judicium.it/
news_file/news_saggi.php .
issn 2035-584x
che, come ad es. le vitamine, assicuravano alla
figlia Eluana, in condizioni di Stato Vegetativo
Permanente (SVP) dal gennaio 1992 la sopravvivenza su un piano puramente biologico. Il
Tribunale di Lecco con decreto depositato il 2
marzo 1999 dichiarò inammissibile il ricorso
con una motivazione, che può essere definita
una motivazione basata su standard3:
“La richiesta contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento vigente, rispetto ai
quali ogni forma di eutanasia appare non altro
che un inaccettabile tentativo di giustificazione
della tendenza della comunità, incapace di sostenere adeguatamente i singoli costretti ad una
misura di estrema dedizione nei confronti dei
malati senza speranza di guarigione, a trascurare
i diritti dei suoi membri più deboli ed in particolare di quelli che non siano più nelle condizioni di
condurre una vita cosciente, attiva e produttiva;
l’art. 2 Cost. tutela il diritto alla vita come primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo, la cui
dignità attinge dal valore assoluto della persona
e prescinde dalle condizioni anche disperate in
cui si esplica la sua esistenza;
l’indisponibilità del diritto alla vita da parte
dello stesso titolare, desumibile dall’art. 579 c.
p. che incrimina l’omicidio del consenziente,
rende inconcepibile la possibilità che un terzo
rilasci validamente il consenso alla soppressione di una persona umana incapace di esprimere la propria volontà;
nel caso in esame la sospensione dell’alimentazione artificiale si risolve nella soppressione del malato per omissione nei suoi confronti del più elementare dei doveri di cura e
di assistenza”
A distanza di quasi otto anni, nel terzo procedimento proposto da Beppino Englaro, il giudizio arriva alla Corte di Cassazione sez. I civile
3 Il giudice adotterebbe, secondo la teoria cd. della ‘giustificazione basata su standard’, un criterio decisionale
che esiste nella “coscienza sociale collettiva, o semplicemente nel senso comune”. Ma, la giustificazione basata su questo criterio, anche se vero, non è adeguata se
il giudice non la arricchisce delle “ragioni che fondano
l’impiego del criterio nel caso particolare”: M.Taruffo,
La giustificazione delle decisioni fondate su standard, in M.
Bessone, R. Guastini (a cura di), La regola del caso. Materiali
sul ragionamento giuridico, Padova, 1995, pp. 278 ss.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
107
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
che con la sentenza 4 ottobre 2007, n. 21748, da
cui estraiamo una massima, segna una svolta
nella lunga vicenda giudiziaria:
“Ove il malato giaccia da moltissimi anni
(nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale
incapacità di rapportarsi al mondo esterno,
e sia tenuto artificialmente in vita mediante
un sondino nasogastrico che provvede alla
sua nutrizione e idratazione, su richiesta del
tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può
autorizzare la disattivazione di tale presidio
sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica
medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:
(a) quando la condizione di stato vegetativo
sia, in base ad un rigoroso apprezzamento
clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre la benché minima possibilità
di un qualche, sia pure flebile, recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del
mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti,
della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai
suoi convincimenti, corrispondendo al suo
modo di concepire, prima di cadere in stato
di incoscienza, l’idea stessa di dignità della
persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non
sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata
prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia, e di
capacità di intendere e di volere del soggetto
interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”
La massima estratta, contenente il punto di
diritto, non apre che uno spiraglio sulla complessità della lunga motivazione della sentenza che,
per ricchezza di contenuti e per sensibilità, non
solo giuridica, si pone come una delle sentenze
issn 2035-584x
più significative emanate nel nostro paese4.
Lo schema decisionale che sottosta a questa sentenza può essere, in questa sede, solo
accennato: la Corte opera un bilanciamento
di interessi nel quale prevale il diritto all’autodeterminazione nel rifiuto dei trattamenti
medici sul diritto alla conservazione della vita,
prevalenza che si dà in presenza delle sole condizioni del caso deciso dalla Corte 5.
Il diritto a rifiutare un trattamento medico
è infatti un diritto soggettivo perfetto che, fondantesi sull’art. 32 della Costituzione, non può
non ricevere immediata tutela.
“Anche in tale situazione, pur a fronte
dell’attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto
dei diritti coinvolti esige una loro immediata
tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel
quadro dei principi costituzionali”6.
Uno degli aspetti che ha suscitato più critiche
è la riconosciuta estensione dei poteri del tutore
fino alla decisione della sospensione di un trattamento essenziale per la vita del tutelato.
A questo proposito è bene osservare che la
legittimazione del tutore a chiedere un’autorizzazione alla sospensione di trattamenti anche
vitali non era peraltro più stata messa in discussione dal tempo del primo decreto con cui la Corte d’Appello di Milano nel 20017 , pur rigettando
nel merito il ricorso proposto contro il decreto
del Tribunale di Lecco, aveva appunto ritenuto
che il tutore che, ai sensi dell’art. 357 c.c. ha la
4 Cfr. S. Rodotà, Chi decide sul morire, in Repubblica, 25
ottobre 2007, p. 26
5 Sul bilanciamento di interessi cfr. R. Alexy, Theorie der
Grundrechte, Baden Baden, 1985, pp. 82 ss.; R.Bin, Diritti
e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, pp. 39 ss.
6 Così la sentenza p. 38 del testo originale. Cfr. per tutti R.Romboli, Il caso Englaro: la Costituzione come fonte
immediatamente applicabile dal giudice, in “Quaderni costituzionali”, 2009, p. 91.
7Cfr. Corte d’Appello di Milano 31 dicembre 1999, in
“Foro Italiano”, 2000, I, cc. 2022 ss con nota adesiva di
G. Ponzanelli, Eutanasia passiva: sì, se c’è accanimento terapeutico e, parzialmente critica, di A. Santosuosso, Novità
e remore sullo “stato vegetativo persistente”.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
108
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
“cura” della persona, fosse la figura legittimata
dalla legge a chiedere anche un provvedimento
così personale come la cessazione delle cure mediche quando questo corrispondesse alla volontà a suo tempo espressa dal soggetto tutelato.
Del resto, il criterio del “miglior interesse”, cui la Corte di Cassazione esplicitamente
si riferisce, è quello che anche attualmente
viene considerato come il criterio che deve
orientare le scelte dell’amministratore di
sostegno8 e non può che improntarsi, qualunque sia l’oggetto della decisione, alle aspirazioni, ai desideri, alla personalità della persona di cui ci si prende cura.
La possibilità di “dare voce” attraverso la
tutela, e ora attraverso l’amministrazione di
sostegno, anche a chi non può più esprimersi sembra alla Corte di Cassazione un dato da
cui non si può prescindere per fondamentale
rispetto del principio di uguaglianza.
Diversamente, le persone che non possono esprimere una volontà attuale riguardo ai trattamenti medici, sarebbero
completamente soggette alla volontà dei
medici e al loro operato, in palese contrasto con quanto richiesto dalla Convenzione
del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo
e sulla biomedicina, firmata a Oviedo il 4
aprile 1997 e resa esecutiva con la legge di
8 Sulla figura dell’amministratore di sostegno ci limitiamo a rimandare a S. Delle Monache, Prime note sulla figura
dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in “Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2004,
pp. 29 ss., in particolare p. 47 dove l’Autore afferma che il
riferimento, di cui all’art. 410 c.c., alle “aspirazioni” della
persona sottoposta all’amministrazione di sostegno, in
stretta relazione con la “cura” della stessa “non potrà che
riflettersi sulla valutazione relativa alla corrispondenza
all’interesse del medesimo dell’atto dell’amministratore: valutazione che perciò è da escludere possa essere
condotta alla stregua di meri parametri oggettivi”. Si vedano inoltre con riferimento agli albori della riforma P.
Cendon, Infermi di mente e altri “disabili” in una proposta di
riforma del codice civile, in “Politica del diritto”,1987, pp.
621 ss. e A.Venchiarutti, La protezione civilistica dell’incapace, Milano, 1995, p. 365-367 in cui l’Autore manifestava le sue perplessità sull’interdizione a favore dell’introduzione di un istituto meno invalidante; oggi, de iure
condendo, P.Cendon, S. Rossi, L’amministrazione di sostegno va rafforzata, l’interdizione abrogata, in “Politica del
diritto”., 3/2007, pp. 503 ss.
issn 2035-584x
autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001,
n. 145, che all’art. 6 recita:
“quando, secondo la legge, un maggiore
d’età non ha, a causa di un handicap mentale,
di una malattia o per un motivo similare, la
capacità di esprimere un consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di
un’autorità o di una persona o di un organo
designato dalla legge”
A questo proposito, la Corte di Cassazione
aveva in un precedente giudizio richiesto ai
ricorrenti di integrare il contraddittorio nominando un curatore speciale che dovesse accertare l’eventuale esistenza di un conflitto di
interessi tra tutore e tutelato.
La Corte di Cassazione prende dunque “sul
serio” la Convenzione e i diritti che essa attribuisce alla persona, potendo anche contare su
molti elementi di diritto interno che, in tempi
diversi, hanno enunciato il principio secondo
il quale deve essere sempre acquisito il consenso informato del paziente e nessun trattamento medico può essere iniziato o proseguito contro la volontà dello stesso. 9
Certo, per un malato che si trovasse nelle
condizioni di Eluana Englaro, non poteva essere acquisita una volontà attuale.
Per questa ragione la Corte dà molta importanza alla ricostruzione della volontà della
persona, raccomandando proprio nel ‘punto di
diritto’ che si portino elementi di prova
“chiari, univoci e convincenti, della voce del
paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti
dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal
suo stile di vita e dai suoi convincimenti, cor9 I riscontri normativi che riportiamo di seguito dovrebbero far comprendere come siano estremamente infondate le critiche secondo le quali la Corte di Cassazione
avrebbe deciso ‘scavalcando il legislatore’: art. 1 l.13 maggio 1978, n. 180 in materia di “accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”; art. 33 l. 23 dicembre
1978 n. 833, “istituzione del servizio sanitario nazionale”; art. 6 l. 19 febbraio 2004 n. 40 relativa alle “Norme
in materia di procreazione assistita”; art. 3 l. 21 ottobre
2005 n. 219 sulla “Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati”.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
109
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
rispondendo al suo modo di concepire, prima
di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di
dignità della persona”.
In questo modo la Corte vuole dare risalto
alla persona, alla sua esperienza di vita, e va
da sè che la prova testimoniale nel giudizio
civile sembra a questo proposito affatto inadatta a ricostruire il mondo di esperienza10
di una persona e a far emergere così le sue affermazioni da quella rete di affetti che hanno
costituito la sua vita di relazione e a cui ha affidato il proprio convincimento. 11
Il tutore non sostituisce, in questo modo, la
propria visione alla visione del tutelato, agisce
non ‘per l’incapace’ ma ‘con l’incapace’.12
La strada scelta dalla Corte di voler far dipendere dalla ricostruzione della volontà
della persona la sospensione del trattamento
10 R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia e
libertà individuale, Milano, 1994, pp. 277 ss. agli ‘interessi di esperienza’ si riferisce la Corte a p. 50, 7.4 della
motivazione.
11 Nella prospettiva civilistica in difesa della ricostruzione effettuata dalla Corte di Cassazione cfr. F. D. Busnelli,
Il caso Englaro in Cassazione, in “Famiglia, persone e successioni”, dicembre 2008, pp. 966 ss. A conferma della
nostra convinzione sulla idoneità della prova testimoniale a ricostruire la volontà rimandiamo a M. Taruffo,
La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, in A. Cicu, F.
Messineo (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, III, t. 2, sez. I, Milano, 1992, pp. 121 ss.; pp. 136 ss.; pp.
253 ss.; pp. 281 ss. L’obiezione sollevata contro la ricostruzione della volontà riguardante proprio la difficoltà
di portare una prova appare, secondo noi, quindi superabile: cfr. invece S. Seminara, Le sentenze sul caso Englaro
e sul caso Welby: una prima lettura, in “Diritto penale e
processo”, 12/2007, p. 1566; F. Viganò, L’interruzione
dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nel malato
in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica,
in www.forumcostituzionale.it, p. 18, sito consultato
il 10 marzo 2010, ritiene estremamente problematica
la soluzione adottata dalla Corte di affidare al tutore, o
comunque al rappresentante, la scelta sull’interruzione
del trattamento, pur sulla base della ricostruzione della volontà del paziente, preferendo invece la soluzione
‘inglese’ che affida interamente ai medici la decisione
di dismettere il trattamento sulla base della ritenuta
sua ‘futilità’: cfr. Airedale N.H.S. Trust–v-Bland, 4 February
1993 in www.swarb.co.uk/c/hl/1993airedale_bland.html.
Sul caso Bland si veda A. Ashworth, Principles of Criminal
Law, Oxford, 19952, pp. 416 ss.
12 Così testualmente la sentenza della Corte di Cassazione
a p. 45 del testo originale.
issn 2035-584x
della NIA è una scelta che, a suo tempo, anche
il Bundesgerichtshof – la Corte di Cassazione
tedesca - aveva intrapreso.
E’ del 2003 la prima sentenza del BGH13 con cui
si riconobbe la piena legittimità sul piano civile
della interruzione della NIA su richiesta del rappresentante del paziente e fondata sulla di lui pregressa volontà, anche non tradotta in uno scritto.
E questa sembra, a leggere per bene la sentenza, anche l’unica possibilità che lasci la Corte
di Cassazione per raggiungere il risultato della
��
sospensione del trattamento. 14
Diversamente invece si erano espressi
i Lords quando nel 1993 nel “leading-case
Bland” avevano ritenuto che, in assenza di
una volontà espressa sul punto dal paziente
prima di cadere in SVP, il parere dei medici,
e quindi la prognosi dello stato di ‘irreversibilità’ e la ritenuta ‘futilità’ del trattamento
di NIA, sarebbe stata determinante15.
La Corte d’Appello di Milano nel luglio
200816 svolge, come richiesto dalla Corte di
13 BGH, Beschluss v. 17. 3. 2003, in “Juristen Zeitung”,
2003, p. 734, con nota di A.Spickhoff, p. 739.
14 Sui rapporti tra ricostruzione della volontà e dichiarazioni anticipate di trattamento in rapporto ai principi
enunciati dalla Corte si Cassazione si veda F.D. Busnelli,
Il caso Englaro, cit, pp. 967-968.
15 Si veda la nota 11.
16 Corte d’Appello di Milano, sez. I, 25 giugno / 9 luglio
2008 in “Corriere giuridico”, n. 9/2008, pp. 1281 ss.. La
Corte non ritiene invece di esperire un nuovo accertamento diagnostico sulla paziente, potendo contare sui ripetuti a distanza di anni accertamenti effettuati dal medico
curante Prof. Carlo Alberto Defanti. Per un commento al
decreto della Corte d’Appello di Milano si veda F. Viganò,
L’interruzione di trattamenti di sostegno vitale dall’angolo visuale del penalista: riflessioni sul caso di Eluana Englaro, in
“Diritto penale e processo”, 2008, pp.1085 ss. Una descrizione della situazione clinica di Eluana Englaro si può trovare in C. Lalli, Qualche domanda a Carlo Alberto Defanti su
Eluana Englaro, in www.personaedanno.it; della letteratura
scientifica ci limitiamo a citare The vegetative State:guidance
on diagnosis and managment. Report of a working Party of the
Royal College of Physicians, in “Clinical medicine”, 3/2003,
pp. 249-254. Per ulteriori riferimenti bibliografici scientifici e per una descrizione clinica delle cure prestate a un paziente in SVP tratta dalla succitata fonte ci permettiamo di
rimandare a M.C. Barbieri, Stato vegetativo permanente: una
sindrome ‘in cerca di un nome’ e un caso giudiziario in cerca di
una decisione. I profili penalistici della sent. Cass. 4 ottobre 2007,
sez. I civile sul caso di Eluana Englaro, in “Rivista italiana di
diritto e procedura penale”, 2008, in particolare pp. 392 ss.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
110
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Cassazione, una istruttoria volta ad accertare la
corrispondenza alla personalità di Eluana delle
dichiarazioni da lei a suo tempo effettuate in occasione della morte di un amico, dichiarazioni
già provate attraverso dichiarazioni testimoniali giudicate attendibili dalla Corte d’Appello
nel 2006, ma che quella stessa Corte aveva disatteso perché pronunciate ‘in giovane età’.
Proprio questo aspetto aveva ‘cassato’ la Suprema Corte, inserendo nel punto di diritto
l’obbligo del giudice del rinvio di accertare la
corrispondenza di quelle dichiarazioni alla
personalità di Eluana.
§2. I profili penalistici del caso Englaro. Certo la sentenza della Corte di Cassazione lasciava impregiudicati i risvolti penalistici.
Ma nel momento in cui il supremo giudice civile indica le condizioni alle quali il giudice del rinvio
può autorizzare la sospensione della NIA a un malato in SVP implicitamente sottende che il fatto che
verrà autorizzato non può costituire un reato.17
Ma questo non spiega ancora perché le persone che avrebbero dovuto dar corso all’interruzione della NIA qualora, come poi avvenne, i
giudici del rinvio si fossero decisi per l’autorizzazione, non avrebbero commesso un reato.
In altri termini, restava da capire se il fatto
non avesse integrato una fattispecie tipica, oppure se pur corrispondendo a un fattispecie tipica, dovesse considerarsi giustificato, o ancora se dovesse considerarsi tipico, non sorretto
da cause di giustificazione, ma non colpevole.
Va precisato che l’unica imputazione possibile per un caso come quello della sospensione
della NIA ad Eluana Englaro è l’omicidio volontario, di cui all’art. 575 c.p. Infatti è da escludersi l’omicidio del consenziente di cui all’art. 579
c.p. perché l’integrazione di questa norma presuppone l’esternazione di una volontà attuale.
L’ufficio delle Indagini preliminari del Tri-
Per approfondimenti sul problema si veda il bel libro di C.
A. Defanti, Soglie. Medicina e fine della vita, Torino, 2007.
17 Già in questa prospettiva si erano mossa la House of
Lords, sapendo che la pronuncia nel senso di autorizzare la sospensione della Nia in sede civile aveva come logico presupposto che il fatto autorizzato non costituisse
un reato: cfr. Airedale N.H.S. Trust–v-Bland, cit., p. 19.
issn 2035-584x
bunale di Udine l’11 gennaio 201018 ha emesso decreto di archiviazione nei confronti di
Beppino Englaro e delle altre dodici persone
imputate di concorso in omicidio volontario
aggravato, medici e personale paramedico,
ritenendo che i fatti oggetto di giudizio fossero giustificati ai sensi dell’art. 51 c.p, “per la
necessità di superare l’altrimenti inevitabile
contraddizione dell’ordinamento giuridico
che non può da una parte attribuire un diritto
e dall’altra incriminarne l’esercizio”.
Ora, l’art. 51 recita : “non è punibile chi ha
commesso il fatto nell’esercizio di un diritto
o nell’adempimento di un dovere imposto da
una norma giuridica”, e indica dunque due
modelli di cause di giustificazione.
Tra le due è all’adempimento del dovere
che il decreto si riferisce, anche se non viene
detto esplicitamente.
Lo si evince comunque dalle premesse, dal
momento che il decreto richiama i punti salienti della sentenza della Corte di Cassazione
civile del 2007 ponendo l’accento sull’ormai assodato riconoscimento dell’esistenza nell’ordinamento giuridico di un diritto della persona
a rifiutare un trattamento medico a cui, per logica conseguenza, dovrebbe corrispondere un
dovere (del medico) di darvi attuazione, senza
incorrere in conseguenze penali, nel momento in cui fosse accertata la volontà di esercitare
un siffatto diritto.
E’ però l’esplicita citazione della sentenza
23 luglio 2007 sul caso Welby, che ha deciso
quel caso con il non luogo a procedere proprio
con questa formula giustificatoria dell’adempimento del dovere, a togliere ogni dubbio sul
punto, e ad indurre a ulteriori considerazioni.
Sembra infatti che la formula dell’adempimento del dovere sia destinata così ad assumere il ruolo di formula giustificatoria standard
per tutti i casi in cui un medico ottemperi alla
richiesta legittima di un paziente di porre fine
a un trattamento medico, indipendentemente
dalla considerazione del modo in cui un medico intervenga per porre fine al trattamento.
§3. Comportamento attivo e comportamento omissivo del medico. Da un punto di vista
18 Il testo del decreto si può reperire in www.personaedanno.it
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
111
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
medico, ma anche forse guardando alla ‘natura della cosa’, l’interruzione di un trattamento
attuata con una condotta omissiva o con una
condotta commissiva è del tutto equivalente.
Per il diritto penale invece condotta attiva
e condotta omissiva, nel momento in cui provocano un evento, come la morte nei casi che
consideriamo, portano a un accertamento di
responsabilità seguendo percorsi ricostruttivi differenti.
L’art. 40 c.p. c. 2 infatti declina in modo differente l’imputazione del nesso causale nel
caso di condotta omissiva: “Non impedire un
evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.
Gli aspetti tecnici dell’equivalenza causale
del non impedire al cagionare e dell’obbligo
giuridico di impedire l’evento creano una
nuova tipicità per il fatto omissivo, che comporta innanzitutto una differenziazione in
capo al soggetto che pone in essere la condotta: non può essere chiunque a porre in essere
l’omissione penalmente rilevante che provoca l’evento, ma solo chi aveva un obbligo giuridico di impedire lo stesso.
All’interno dunque della figura della posizione di garanzia, termine usato per indicare
la situazione di chi ha l’obbligo giuridico di
impedire l’evento, si muovono le dinamiche
degli obblighi di protezione di un bene da
parte di aggressioni che il suo titolare non è
in grado di fronteggiare, o di obblighi di controllo di determinate fonti di pericolo19.
La posizione di garanzia del medico è certo
una delle più classiche, ma allo stesso tempo
costituisce oggi un esempio paradigmatico
di come i suoi contorni e il suo contenuto
debbano essere compresi insieme all’evolversi della posizione soggettiva del paziente, al
19 Sulla posizione di garanzia ci limitiamo a ricordare
tra i contributi più recenti F. Mantovani, L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà e di responsabilità penale, in “Rivista italiana
di diritto e procedura penale”, 2001, pp. 337 ss.; F. Giunta,
La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in “Diritto penale e processo”, 1999, pp.
620 ss.; I. Leoncini, Obbligo di garanzia, obbligo di attivarsi e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999; e, risalendo nel
tempo, G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Milano,1979 e G. Grasso, Il reato omissivo improprio,
Milano, 1983.
issn 2035-584x
quale l’ordinamento non assegna più un ruolo meramente passivo, che secondo la Corte
di Cassazione finirebbe per trasformarsi in
“soggezione”20, ma un ruolo di soggetto consapevole dei propri diritti.
Soggetto attivo di quell’alleanza terapeutica che vede medico e paziente legati da un
rapporto, alla ricerca di uno scopo condiviso, in cui trovino spazio i doveri dell’uno e
dell’altro, ma dove i doveri del medico oggi
non possono più travalicare il rispetto della libertà e dignità del paziente, come si può
ricavare dall’art 32 della Costituzione e come
espressamente indicano gli artt. 3, 4, 35, 38,
39, 48, 51 del Codice di Deontologia medica.
Questa premessa si è resa indispensabile
per comprendere alcuni aspetti fondamentali
della vicenda Englaro.
La sospensione del trattamento medico
- nel caso di Eluana Englaro la NIA - consisteva infatti di una mera condotta omissiva. La
mancata sostituzione da parte dei medici delle
sacche contenenti le sostanze chimiche che,
somministrate alla paziente tramite sonda
nasogastrica consentivano di tenerla in vita,
non è infatti situazione diversa da quella di un
medico che ometta di continuare a sottoporre
a dialisi un paziente che dichiari di non voler
continuare nella terapia.
Di fronte alla accertata volontà del paziente
di non voler continuare un trattamento, viene meno l’obbligo del medico di continuare a
praticare quel trattamento.
Su questo punto la migliore dottrina penalistica non ha da tempo dubbi:
“…se il paziente, adeguatamente informato, pretende o acconsente, in piena coscienza,
all’interruzione della cura e alle sue conseguenze mortali, nulla questio: il medico deve
senz’altro considerarsi esonerato dall’obbligo
di cura”21.
20 Citazione da p. 30 del testo originale.
21 F. Stella, Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche, in “Rivista italiana
di medicine legale”, 1984, p. 1018; cfr. anche F. Giunta,
Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione
problematica, in “Rivista italiana di diritto e procedura
penale”,1997, pp. 91-92.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
112
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
La posizione di garanzia del medico viene
dunque meno quanto all’obbligo di salvaguardare ad ogni costo la vita del paziente quando
questi esprima una volontà contraria. Le ragioni e i fondamenti giuridici per cui anche
un paziente nelle condizioni di Eluana Englaro
dovesse poter ‘far sentire la propria voce’ sono
già stati sopra richiamati. Si comprende pertanto perchè la Corte di Cassazione abbia voluto dare questo grande risalto all’accertamento
della volontà della persona e valorizzare una
sorta di ‘giudizio sostitutivo’22.
Venendo meno l’obbligo giuridico di impedire la morte del paziente, il fatto del medico
non costituisce un fatto tipico e la formula assolutoria di conseguenza dovrebbe essere “perchè il fatto non sussiste”. 23
All’opposto, adottare la formula assolutoria
dell’adempimento del dovere come causa di
giustificazione, come è stato fatto dal Tribunale di Udine, significa da un lato sorvolare
sull’aspetto della ‘realtà dei fatti’ – il comportamento dei medici è una pura omissione di
trattamento- e dall’altro lato non vedere che
una tale causa di giustificazione non può essere attribuita indifferentemente a tutti i soggetti che concorrono nel fatto: si sarebbe dovuto
differenziare infatti tra la posizione del tutore,
dei medici, e del personale ausiliario.
E la modulazione dei diversi obblighi di ciascuno, che sono evidentemente di natura diversa,
avrebbe potuto trovare una adeguata collocazione e un approfondimento all’interno delle diverse posizioni di garanzia, del tutore e del medico.
In definitiva ci sembra che appiattire le
diverse ‘assenze di responsabilità penale’sot22 Il giudizio sostitutivo fu adottato, proprio per casi di
pazienti nelle condizioni di Eluana Englaro, per la prima volta negli Stati Uniti d’America. Per l’evoluzione
della giurisprudenza americana si può confrontare C.
Baron, Life and Death Decision-Making. Judges v. Legislators
as Sources of Law in Bioethics, in A. Santosuosso, G.
Gennari, S. Garagna, M. Zuccotti, C.A. Redi, (a cura di)
Science, Law and Courts in Europe, Pavia, 2004, trad. italiana Decisioni di vita o di morte. Giudici vs. legislatori come
fonti del diritto in bioetica, in “Ragion pratica”, 19/2002, p.
142; una rassegna anche in F. Viganò, Decisioni mediche di
fine vita e ‘attivismo giudiziale’, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, pp 1595 ss.
23 Così anche F. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e
dell’idratazione, cit., p. 14.
issn 2035-584x
to l’etichetta della causa di giustificazione
dell’adempimento del dovere mortifichi la
stessa posizione del medico il cui operato pienamente legittimo anche sul piano della deontologia medica viene invece dall’ordinamento
considerato comunque conforme a una fattispecie tipica di reato, seppur giustificato.
L’esito penalistico della vicenda Englaro, rispetto alla profondità di riflessione della sentenza della Corte di Cassazione civile ci sembra quindi piuttosto deludente e un’occasione
mancata per la Fortbildung del diritto cui anche
ogni giudice può contribuire.
II
§1 La specificità del caso Welby. Come si
sarà potuto dedurre da quanto detto sopra, il
caso Welby presentava aspetti fattuali e profili
giuridici differenti da quelli del caso Englaro.
Piergiorgio Welby infatti soffriva di distrofia muscolare, una patologia altamente
invalidante durante il decorso della quale, a
seguito di una crisi respiratoria che lo aveva
condotto in coma, era stato rianimato e destinato da quel momento a vivere attaccato
a un respiratore, macchina che gli ‘insuflava’
aria nei polmoni, ormai incapaci di svolgere
il loro compito di ‘organi respiratori’.
La piena coscienza di sè e del mondo esterno gli aveva permesso di continuare una vita
di relazione, pur con tutte le difficoltà del
caso, fino a che il decorso peggiorativo inevitabile della malattia lo aveva costretto in una
situazione in cui gli era divenuto impossibile
svolgere quelle attività che fino a quel momento avevano dato un senso pieno alla sua vita,
come leggere, collegarsi a internet, scrivere.
Inoltre poteva essere alimentato solo artificialmente e anche questo, oltre alle difficoltà
respiratorie che comunque, nonostante l’ausilio del respiratore, aumentavano sempre di
più e che lo avrebbero portato incontro a una
morte per soffocamento, aveva fatto crescere
in lui il proposito di chiedere ai medici di poter porre fine alle sue sofferenze.
Chiedeva dunque ai medici il ‘distacco’ del
respiratore, in definitiva l’unico trattamento
medico che lo tenesse in vita, e una sedazione
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
113
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
che gli consentisse di non avvertire la sensazione della morte per soffocamento. 24
In questo caso la sospensione del trattamento avrebbe dovuto consistere in una, sia
pur blanda, condotta attiva: lo spegnimento
di una macchina.
Il Tribunale civile di Roma a cui Piergiorgio
Welby presentò ricorso per accertare il suo diritto a rifiutare un trattamento medico e per
autorizzare di conseguenza il medico curante
a staccare il respiratore, pur riconoscendo che
sussistesse il diritto di autodeterminazione del
paziente e quindi il diritto a rifiutare un trattamento medico ritenne di non poter assecondare la richiesta del ricorrente in quanto “trattasi di un diritto non concretamente tutelato
dall’ordinamento” e in assenza di “una forma
di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito” ciò non può che comportare
“l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesa
la sua finalità strumentale e anticipatoria degli
effetti del futuro giudizio di merito”25.
I fatti che seguirono sono noti. Piergiorgio
Welby ottenne la disponibilità e l’assistenza del
dott. Mario Riccio, anestesista rianimatore, che,
dopo un colloquio prolungato con il paziente
volto a attestare la sussistenza della sua determinazione a interrompere il sostegno vitale, pose
in essere l’atto del distacco del respiratore, previa
sedazione volta a preservare l’equilibrio psicofisico del paziente nel momento del passaggio.
Nel procedimento penale avviato al Tribunale di Roma nei confronti del dott. Riccio
viene formulata l’imputazione del reato di
omicidio del consenziente di cui all’art. 579
c.p., essendo stato Piergiorgio Welby perfettamente cosciente e nel totale possesso delle sue
facoltà mentali al momento della richiesta.
24 La ricostruzione della vicenda è contenuta in Sentenza
del Tribunale di Roma, Ufficio per le Indagini preliminari 23 luglio 2007 n. 2049, pp. 13 ss del testo originale.
La sentenza è pubblicata in “Cassazione penale”, 2008,
pp.1791 ss con nota di C. Cupelli, Il “diritto” del paziente
(di rifiutare) e il “dovere“ del medico (di non perseverare), e
in “Diritto penale e processo”, pp. 59 ss con nota di A.
Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza.
25 Cfr. ordinanza del Tribunale civile di Roma, I sez., 16
dicembre 2006, p. 11 testo originale.
issn 2035-584x
Come abbiamo anticipato, il procedimento penale a carico del dottor. Riccio si conclude con una sentenza di non luogo a procedere
per la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
Il giudice effettua una lunga premessa sulla
consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale attestante
la natura di diritto fondamentale della persona
del diritto a rifiutare le cure mediche, concludendo, in contrasto con le precedenti pronunce
civili e con le affermazioni del giudice delle Indagini Preliminari, per la necessità di dare immediata tutela a tale diritto, anche in assenza di
una legge apposita che ne regoli l’attuazione.
Attestata la corrispondenza dell’operare del
medico a quanto richiesto dal paziente, e attestata la non eziologia causale della sedazione
sull’evento morte – fatto che avrebbe mutato la
responsabilità del medico in omicidio volontario, in quanto non corrispondente il fatto a
una semplice interruzione di cure – non può
che constatare che ricorrono gli estremi della
fattispecie penale dell’art. 579 c. p., omicidio
del consenziente, ma che al contempo tale atto
sia giustificato dalla scriminante dell’adempimento del dovere di cui all’art. 51 c. p.
La “norma giuridica” in cui deve trovare la
sua fonte tale dovere è, ad avviso del giudice,
l’art. 32 della Costituzione c. 2 ove enuncia che
“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana”, soluzione che a suo tempo la
dottrina penalistica aveva suggerito26.
Tale dovere assume un particolare significato in quanto incombente solo sul medico, che
è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, e non invece su qualunque
persona che su richiesta dello stesso ponesse
in essere l’operazione di spegnimento del respiratore e di distacco dal corpo dello stesso27.
Il giudice giustamente riconosce dunque la
specificità dell’operare del medico, in quanto
professionista e garante, il solo alla cui con26 F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit., p. 95.
27 Sentenza del Tribunale di Roma 23 luglio 2007, p. 44
del testo originale.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
114
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
dotta possa essere riconosciuto il significato di
una ‘sospensione del trattamento’.
Nell’affermare questo il giudice richiama
e interpreta il Codice di Deontologia Medica
che vieta da un lato al medico di intraprendere qualunque atto diretto a cagionare la morte
del paziente anche su sua specifica richiesta,
integrando altrimenti in questo caso un atto
eutanasico, ma che dall’altro lato impone al
medico di astenersi dal praticare trattamenti
che incidano sulla capacità di resistenza psico-fisica del paziente stesso28.
Ritiene tuttavia il giudice di non poter negare
la “realtà dei fatti”, in quanto il comportamento di
spegnimento di un respiratore è una condotta dotata di efficacia eziologica attiva rispetto all’evento morte e, come tale, non può che integrare la
fattispecie tipica dell’art. 579 c. p. nella sua forma
attiva, scriminata dall’adempimento del dovere.
Va detto che questa soluzione, pure essendo
stata in larga parte bene accolta dalla dottrina29, ha suscitato qualche rilievo.
Alcune voci hanno infatti dubitato che l’art.
32 Cost. , pur enunciando un principio incontestabile, possa costituire una fonte idonea a
individuare il dovere del medico. 30
A nostro parere, queste perplessità possono
essere affrontate e superate solo considerando la
norma nella sua struttura e nella sua funzione al
fine di individuarne un ambito di applicazione.
Non possono, a nostro avviso infatti semplicemente essere portati come argomento
contrario la ratio storica dell’art. 32 c.2 della
Costituzione e il dettato letterale, che si riferirebbero ai ‘trattamenti obbligatori’31.
28 L’art. 18 del Codice deontologia medica recita infatti
testualmente: “I trattamenti che incidono sulla integrità
e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere
attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio
clinico al malato o di alleviarne le sofferenze”.
29 A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita”, cit., pp. 59 ss.; C.
Cupelli, Il “diritto” del paziente (di rifiutare), cit, pp. 1791 ss..
F.Viganò, Decisioni mediche, cit., p. 1605.
30 S. Seminara, Le sentenze sul caso Welby e sul caso
Englaro, cit., p. 1564.
31 Così invece L. Eusebi, L’eutanasia come problema giuridico, in
Ragion pratica, 19/ 2002, p. 103 e Laicità e dignità umana nel diritto
penale, in Scritti per Federico Stella, Milano, 2006, p. 215; A. Berardi,
Una breve disamina dei casi Welby e Englaro, in “Tigor: rivista di
scienze della comunicazione”, A.I (2009) n.2 (luglio-dicembre)
issn 2035-584x
L’ambito di una applicazione di una norma
deve poter essere determinato anche a distanza di molto tempo dalla sua emanazione valutando se un nuovo assetto di quegli stessi interessi che erano sottesi alla sua emanazione
può essere coperto dalla stessa. 32
Che la nostra Costituzione sia anche in parte
già cambiata proprio per l’uso che dei suoi principi e delle sue norme ne hanno concretamente fatto gli operatori giuridici è stato ben messo
in luce dalla dottrina costituzionalista33.
Per quanto riguarda appunto il problema
dei trattamenti medici indesiderati dal paziente sembra evidente che se questi vengono praticati o continuati contro la sua
volontà, diventino in qualche misura dei
trattamenti ‘obbligati’.
Inoltre si deve osservare che se al medico fosse imposto per legge di non interrompere un
trattamento medico essenziale per la sopravvivenza del paziente, ipotesi non del tutto improbabile viste le reazioni parlamentari in costanza
dei due casi di cui ci occupiamo34, questi si trasformerebbero in ‘trattamenti sanitari obbligatori’, in netto contrasto con i soli presupposti a
cui l’art. 32 della Costituzione ricollega la possibilità di prevederli da parte della legge, vale a
dire nel rispetto della persona umana.
h t t p : / / w w w. o p e n s t a r t s. u n i t s. i t / d s p a c e /
handle/10077/3411
incidentalmente, ma in un contesto diverso, fa riferimento al fatto che l’art. 32 Cost. vieterebbe soltanto i ‘trattamenti obbligatori’ F.Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, cit, p. 7.
32 F. Müller, Juristische Methodik, Berlin, 2004,pp. 139 ss.
33 R. Bin, Diritti e argomenti, cit., pp. 136-137 S. Bartole,
Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana,
Bologna, 2004, pp. 15-16.
34 In diversi disegni di legge sulle ‘direttive anticipate’
proposti nell’inverno del 2009 erano contenute norme
in questo senso, come, correlativamente, norme volte a
impedire l’inserimento nelle direttive anticipate di disposizioni in ordine al rifiuto di trattamenti medici ‘salva-vita’. Tra i tanti disegni di legge presentati, solo quello
a firma del senatore Ignazio Marino riflette consapevolmente i principi contenuti nella sentenza n. 21748 della Cassazione: cfr. sul punto anche F. D. Busnelli, Il caso
Englaro, cit, p. 569. Precedentemente a questo disegno di
legge solo quello a firma di Grillini, Belillo, Turci,Turco,
presentato alla Camera dei Deputati il 26 settembre
2006 disciplinava compiutamente il problema della disattivazione del sostegno artificiale.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
115
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Da ultimo non può essere trascurato che
lo stesso comportamento del medico che non
ottemperi alla volontà del paziente di sospendere un trattamento medico non può essere
considerato a priori un fatto lecito.
Infatti, almeno in situazioni come quella
di Piergiorgio Welby, è astrattamente configurabile il sequestro di persona di cui all’art.
605. La forma libera che caratterizza questa
norma permette di farvi rientrare anche la forma omissiva – il non liberare il paziente dal
respiratore - e l’estensione del bene giuridico
tutelato fino a comprendere la libertà da intrusioni nella propria sfera personale35 permette
di tutelare anche le persone prive permanentemente della capacità di movimento.
Se questa ipotesi incontrasse opinioni contrarie
in dottrina, difficilmente si potrebbe però contrastare l’idea che sussista almeno una illiceità civile.
E in entrambi i casi sarebbe molto difficile poter
sostenere una giustificazione in capo al medico
rintracciabile nel dovere o nel diritto di curare.
In definitiva, e concludendo sul punto, la
formula dell’adempimento del dovere come
causa di giustificazione invocata dal giudice
per il non luogo a procedere nei confronti del
dott. Riccio ci sembra, allo stato attuale della
legislazione e del dibattito dottrinale, l’unica
soluzione ragionevolmente possibile, perché
saldamente fondata su una motivazione coerente e rispettosa della legge. E per questo va,
a nostro avviso, sostenuta36.
issn 2035-584x
§2 Limiti e aporie del sistema in margine al
caso Welby. Ma, proprio per il fatto di essere
stata adottata anche per la soluzione penalistica del caso Englaro, con tutti i dubbi che abbiamo sollevato, deve essere considerata un nuovo punto di partenza per ulteriori riflessioni.
Riflessioni che, certo potrebbero appa-
rire in parziale contraddizione con quanto
esposto sopra, ma che invece semplicemente muovono da una diversa prospettiva, cioè
dalla prospettiva di una possibile alternativa decisionale più consona alla realtà sociale
dell’operato del medico.
Fondamentalmente, ciò che non soddisfa è
che, a fronte di una evoluzione del diritto civile nel senso della progressiva affermazione del
diritto di autodeterminazione del paziente,
la rigidità strutturale del diritto penale e una
innegabile impasse legislativa impediscano di
dare una risposta convincente nel momento
in cui si deve valutare l’operato del medico che
ottemperi alla legittima richiesta del paziente
di sospendere le cure che lo tengono in vita.
E’innegabile infatti che la fattispecie di omicidio del consenziente come imputazione per
il medico non convinca nessuno, se non chi
voglia ragionare solo nella logica rigida della
‘corrispondenza alla fattispecie tipica’37.
Ed è altrettanto innegabile che non è nel
codice penale che la attività quotidiana di un
professionista come il medico deve cercare la
fonte dei suoi doveri professionali nonché incontrare dei limiti, indubbiamente condizionanti, allo svolgimento di un’attività doverosa
sul piano professionale, nonché giuridico.
Nel caso specifico del medico che stacchi
il respiratore (un ‘classico’ tra gli esempi del
c.d. ‘diritto penale della medicina’)38 i tentativi di riqualificare il comportamento da
commissivo a omissivo, per poterlo ‘attirare’ nella sistematica del reato omissivo e
quindi della posizione di garanzia si sono
originati, proprio da osservazioni simili, in
ordinamenti che contemplano nel codice
penale fattispecie simili al nostro art. 579
c.p. : es. § 216 StGB -Tötung auf Verlangenomicidio su richiesta.
35 Questo aspetto è ancora di recente ribadito da F.
Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio) delle Sezioni Unite, in “Cassazione penale”, 2009, p.
1827 nota a Cass. Sezioni Unite Penali 18 dicembre 2008,
n. 2437, ivi, p. 1793 ss.
36 Cfr. anche C. Cupelli, La disattivazione di un sostegno
artificiale tra agire e omettere, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2009, p. 1175; F. Viganò, Decisioni
mediche, cit, p. 1605.
37 Già S. Canestrari, Le nuove tipologia di eutanasia: una
legislazione possibile, in “Rivista italiana di. medicina
legale”, XXV, 2003, p. 753 aveva sottolineato i limiti di
una argomentazione che si attenesse rigorosamente a
schemi ‘tecnico-giuridici’ “in quanto tale atteggiamento
condurrebbe a legittimare l’obsolescenza della disciplina attualmente vigente risalente al 1930”.
38 C. Roxin, Zur strafrechtlichen Beurteilung der Sterbehilfe, in
C. Roxin, U. Schroth, Medizinstrafrecht. Im Spannungfeld von
Medizin, Ethik und Strafrecht, 20012, München, 2001, p. 101.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
116
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
La dottrina italiana non è disposta, in linea
di massima, ad accettare il punto di vista di
quella parte della dottrina tedesca che, in questa ipotesi, parla appunto di omissione mediante commissione, o della necessità di guardare al senso sociale dell’interruzione (attiva)
del trattamento39. E, tuttavia se l’ordinamento
giuridico deve essere strutturato, e dal cittadino visto, come insieme di norme di comportamento, non può che notarsi che, nella soluzione adottata nel caso Welby, la successione
di norme di comportamento che si presentano
al medico è quantomeno poco coerente.
Se si muove infatti dall’interno della posizione di garanzia del medico il complesso
diritti/doveri si presenta nei termini che
esponiamo di seguito.
La premessa è che il diritto del paziente a
rifiutare un trattamento medico già iniziato
debba avere una piena operatività.
Non può negarsi inoltre che all’interno della posizione di garante del medico, proprio in
conseguenza di quel diritto venga meno almeno l’obbligo di proseguire il trattamento, l’obbligo di impedire hic et nunc quell’evento, ma
che contestualmente però il dovere di rispettare la volontà del paziente comporti il dovere di
cagionare quello stesso evento, in attuazione
del diritto del paziente.
Trasferendo il tutto nella prospettiva
dell’adempimento del dovere in funzione scriminante, per rendere lecita la condotta attiva,
significa dire che il medico ha comunque il dovere di cagionare - ex art. 51 c.p./art. 32 Cost ciò
che non è più obbligato a impedire ex art. 40
c.p./art. 32 Cost. Il che fa ben capire perché Karl
Engisch usasse il termine Paradoxie in uno dei
saggi più significativi su questo problema. 40
Paradosso che non sarebbe tale se le indicazioni di comportamento venissero considerate nell’ottica della modulazione dei doveri professionali del medico.
39 S.Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e eutanasia,
in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1995,
p. 695 ritiene necessario un intervento del legislatore; F.
Giunta, Diritto di morire e diritto penale, cit, pp.94-95.
40 K. Engisch, Konflikte, Aporien und Paradoxien bei
der rechtlichen Beurteilung der ärztlichen Sterbehilfe, in
Festschrift für Eduard Dreher zum 70° Geburtstag, Berlin,
1977, pp. 309 ss.
issn 2035-584x
Di recente la dottrina sembra più orientata
all’apertura verso soluzioni che, improntate a
una visione più ermeneutica che analitica, consentano di interpretare la tipologia dei fatti sopra descritta come una omissione di trattamento e conseguentemente a non ritenerla ‘tipica’
ai sensi dell’art. 579 c.p. in quanto non volta a
‘uccidere’ o, per usare le parole del codice a ‘cagionare la morte’, ma a ‘lasciar morire’4142.
Il superamento di simili aporie richiede
molto lavoro di seria riflessione e impegno
da parte della dottrina e dalla giurisprudenza,
soprattutto in un momento in cui il rischio di
una legislazione involutiva, che potrebbe azzerare i progressi compiuti dalla giurisprudenza
civile e penale sui diritti del paziente e sui doveri del medico, è concreto.
Il disegno di legge già approvato in Senato il
26 marzo 2009 “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di
dichiarazioni anticipate di trattamento ” con
l’affermare che “nessun trattamento sanitario
può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato” sembra voler
proprio limitare la necessità del consenso del
paziente all’intrapresa del trattamento medico, e non invece a ritenerlo necessario durante
il perdurare del trattamento.
Oltre all’indubbia ricaduta nel paternalismo, se fosse così, sarebbe di immediata evidenza la disparità di trattamento che verrebbe
a verificarsi tra chi è sottoposto a un trattamento medico a somministrazione periodica,
come ad es. la dialisi, e chi invece è sottoposto
a un trattamento che si effettua in modo continuativo attraverso una macchina come il respiratore.
Nel primo caso il medico, che non potrebbe
in nessun caso ‘abbandonare’ il paziente, non
potrebbe però neppure farlo ‘tradurre’ coattivamente in una struttura sanitaria ed obbligarlo a
continuare il trattamento, e tutto questo senza
incorrere in alcuna responsabilità penale.
41 F.Viganò, Decisioni mediche di fine-vita, cit., p. 1604; C. Cupelli,
La disattivazione di un sostegno artificiale, cit., pp. 1164 ss.
42 Sulla cattiva sofistica dell’equiparazione del ‘desistere dall’ulteriore agire’ e ‘l’agire’, cioè ‘dell’uccidere’ al ‘lasciar morire’ H. Jonas, Tecnica, medicina e etica. Prassi del
principio responsabilità, Torino, 1997, p.197.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
117
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Nel secondo caso invece, se il medico non
fosse più tenuto a rilevare un perdurante consenso del paziente e quindi a rispettarne il dissenso, la posizione di ‘minorità’ del paziente
dovuta all’impossibilità di ‘staccarsi’ dalla macchina, lo obbligherebbe a subire un trattamento
altamente invasivo della propria sfera fisica.
Per converso, se il medico decidesse, in presenza del dissenso del paziente, di interrompere tale trattamento, essendo precisato in
quello stesso testo all’art. 1, c.1, lett c che “l’attività medica nonché di assistenza alle persone
(è) esclusivamente finalizzata alla tutela della
vita e della salute” non potrebbe più invocare
evidentemente l’adempimento del dovere di
cui all’art. 51 c.p. e incorrerebbe quindi in una
sicura responsabilità penale per omicidio del
consenziente ex art. 579 c.p.
Quest’ultimo articolo, così come l’art. 575 e
580 c.p. sono infatti ‘simbolicamente’ richiamati proprio nella stessa norma.
Ma al di là del fatto che queste norme
debbano essere riconosciute come applicabili nel caso concreto ad opera dell’attività
giudiziale e non certo per richiamo legislativo, resta il fatto che limitare con legge
l’attività medica “alla tutela della vita e della
salute” significa sovrapporsi e prevaricare le
regole del Codice di Deontologia medica che
riguardo ai compiti del medico sono certamente più articolate.
L’art. 3 del Codice di Deontologia Medica
infatti estende il dovere del medico alla tutela della “salute fisica e psichica” e precisa che
la salute deve essere intesa “nell’accezione più
ampia del termine, come condizione di benessere fisico e psichico della persona”. 43
L’art. 18 recita che “i trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psicofisica del malato possono essere attuati...solo
al fine di procurare un concreto beneficio clinico o di alleviarne le sofferenze”.
43 Cfr. nella dottrina civilistica le significative osservazioni di P. Zatti, Il diritto a scegliersi la propria salute (in
margine al caso San Raffaele), in “Nuova giurisprudenza
civile commentata”, 2000, II, pp. 3 ss.: “Se invece il concetto di salute si apre agli aspetti interiori della vita
come sentiti e vissuti dal soggetto...Salute diviene un
concetto che esprime anzitutto una percezione di sè
come soggetto integro”.
issn 2035-584x
Se quel testo verrà dunque approvato anche
alla Camera, ci darà una legge che renderà ancora più incerta per un medico la linea da seguire,
e questo non potrà che rendere un cattivo servizio alla certezza del diritto, nonché diffondere una diffidenza che porterà a risolvere ogni
problema ‘lontano dalle aule giudiziarie’.
III
Considerazioni conclusive. Quando un ordinamento giuridico viene obbligato a riflettere su di sè e sui propri strumenti da casi come
quelli di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, l’uscita dalla fase acuta di queste situazioni
induce sempre a una considerazione di quanto è stato aggiunto al diritto e di quanto può
essere fatto in futuro per affrontare in modo
razionale simili situazioni.
Le due sentenze – Cass. Sez. I civile 4 ottobre 2007 n. 21748 e Tribunale di Roma 17 ottobre 2007 – intervenute rispettivamente sul
caso Englaro e sul caso Welby hanno indubbiamente segnato un passo avanti nel riconoscimento dei valori della laicità nel diritto e, più
in generale, hanno riconosciuto l’esistenza di
un pluralismo dei valori nella società in cui viviamo, un pluralismo dei valori ‘normativo’44,
che viene dunque riconosciuto nelle posizioni
soggettive giuridiche.
Nei momenti più drammatici della vicenda
umana di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby si è acceso il dibattito, nonché lo scontro
parlamentare, sulle direttive anticipate.
L’esperienza di questi due casi e i punti
fermi che si sono raggiunti devono mettere
sull’avviso il legislatore sul fatto che una futura eventuale legge sulle direttive anticipate,
avvertita da molti come una necessità, non
potrà che tenere in grande considerazione il
percorso argomentativo della sentenza della
Corte di Cassazione sul caso Englaro.
Diversamente, se si arrivasse a promulgare
una legge limitativa del diritto del cittadino di
44 La contrapposizione è a un pluralismo dei valori
‘sociologico’: G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica,
Milano, 2005, pp. 89. Cfr. i riferimenti in Cass. Sez. I civile 4 ottobre 2007 n. 21748 p. e in Tribunale di Roma 17
ottobre 2007, Riccio, punto e) della motivazione.
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
118
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
disporre anche in ordine ai trattamenti sanitari essenziali per la propria sopravvivenza,
questa si esporrebbe a seri dubbi di legittimità
costituzionale nei confronti degli artt. 32 c. 2 e
13 della Costituzione.
Il diritto a non subire trattamenti medici contro la propria volontà e il diritto all’inviolabilità
del proprio corpo sono principi scolpiti nella Costituzione quali diritti fondamentali della persona e costituiscono un limite invalicabile45.
Allo stesso modo una legge sulle direttive
anticipate che escludesse il potere del rappresentante legale del paziente di chiedere ‘nel
migliore interesse’ del tutelato anche l’interruzione di trattamenti essenziali per la sopravvivenza dello stesso si esporrebbe a fondati dubbi di legittimità costituzionale sotto
il profilo del mancato rispetto dell’art. 3 della
Costituzione.
Proprio l’impossibilità di transigere sul rispetto di tutti questi principi fa dubitare della
necessità assoluta di una regolazione normativa che, risultato di inevitabili mediazioni,
potrebbe calpestare diritti fondamentali46 che,
come la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale47 hanno chiaramente enunciato, sono
tali da dover ricevere invece diretta attuazione
in sede giudiziale anche in assenza di una legge che ne disciplini l’esercizio.
La scienza penalistica dal suo canto non può
che continuare nell’approfondimento dello
studio delle posizioni di garanzia, e in particolare di quella del medico, nella prospettiva di
costruire, proprio muovendo dal complesso
delle regole deontologiche, una regolamentazione ‘integrata’ e altamente specialistica. 48
45 Tali principi sono stati recentemente ribaditi da Cass.
Sezioni Unite Penali 18 dicembre 2008, n. 2437, cit., p.
1793 ss., che riconosce anche che il concetto di salute trascende la mera sfera fisica: cfr. p. 1804.
46 Inevitabile riferirsi a R. Dworkin, Taking rights seriousely, London, 20042, pp. 131 ss.
47 Sent. Corte cost. 347/1998, n. 4 del considerato in diritto.
48 Questa era l’impostazione del Progetto Grosso che,
come è noto, conteneva nell’articolato le diverse posizioni di garanzia. Se si guarda alla relazione al progetto
Grosso si vede come compito dei riformatori sarebbe
stato quello di inserire nel codice i presupposti e le condizioni di operatività delle singole tipizzate posizioni di
garanzia, non certo quello di codificare gli specifici dove-
issn 2035-584x
Da ultimo preme mettere in risalto che le
conquiste finora raggiunte in ordine alla libertà di autodeterminazione nel campo del trattamento medico non rappresentano l’introduzione di un generico ‘diritto a morire’.
In altri termini, non segnano affatto l’anticamera dell’introduzione dell’eutanasia.
E testimonianza ne sono i paesi, come il Regno Unito o la Germania, dove il diritto a rifiutare le cure mediche si è da tempo affermato e
nei quali l’eutanasia non è stata introdotta.
La morte di Piergiorgio Welby e di Eluana
Englaro non rappresentano forme di eutanasia, ma, per usare un termine preso a prestito
dalla lingua tedesca, Sterbehilfe, un aiuto nel
morire, perchè la morte possa assumere quel
significato di scelta consapevole, che solo la
singola persona le può dare, all’interno della
propria vita.
Maria Cristina Barbieri, ricercatrice di diritto penale nell’università di Trieste
ri del medico: cfr. Relazione sull’articolato in I Lavori della
commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1°ottobre 1998, in “Rivista italiana di diritto
e procedura penale”, 2001, pp. 592 ss. L’art. 16, Capo III
dell’articolato stabilisce una riserva di legge per le posizioni di garanzia, ma, al secondo comma, specifica che:
“i doveri inerenti alle posizioni di garanzia sono determinati in conformità alla disciplina speciale (corsivo nostro) delle situazioni considerate (ibidem, p. 664).
I casi Englaro e Welby: diritto e fine della vita fuori dei ‘casi di scuola’
119
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
L’autonomia illusoria.
Il diritto di autodeterminazione tra le maglie
dell’eterodeterminazione
Letizia Mingardo
Abstract
Di fronte all’avanzare delle biotecnologie, la capacità
individuale di decidere della propria vita e della propria
salute è avvertita come componente irrinunciabile nella
vita di ciascuno. ‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e
‘volontà’ sono endoxa spesi costantemente nell’attuale
dibattito biogiuridico, ma non per questo privi di
ambiguità e profili problematici. Nel presente contributo
ci si domanda quale concezione di autonomia
individuale e quale visione antropologica siano sottese
all’appello al diritto di autodeterminazione.
Dall’esame di alcune recenti questioni biogiuridiche,
emerge la diffusione di una declinazione dell’autonomia
in termini individualistici, razionalistici e volontaristici.
Il modello antropologico di riferimento appare quello del
moderno homo faber, teso a massimizzare l’utile in un
mondo concepito come insieme di oggetti manipolabili.
Il carattere di assolutezza attribuito alla volontà
1. Premessa
D
a decenni, soprattutto nelle società occidentali, si assiste a una crescente accelerazione del progresso scientifico, favorita da un
legame sempre più stretto tra sapere teorico e
applicazione pratica. Si è accresciuta non solo la
conoscenza scientifica, ma anche la possibilità
tecnica e tecnologica di intervenire sul reale e
sul vivente. Lo sviluppo della tecno-scienza in
ambito biomedico, in particolare, dischiude opportunità e rischi che suonano inediti all’uomo
di oggi e sui quali riflette, con la sua vocazione
interdisciplinare, la bioetica.
La �����������������������������������������
«����������������������������������������
sfida tecnologica�����������������������
»����������������������
investe anche l’espe1
rienza giuridica , chiamando il giurista a fornire soluzioni a problemi nuovi, attraverso quello
che viene ormai comunemente chiamato ‘bio1 Cfr. S. Cotta, La sfida tecnologica, Bologna, 1968.
L’autonomia illusoria
individuale dal pensiero giuridico moderno, tuttavia,
non risulta in grado di proteggere l’autodeterminazione
dall’eterodeterminazione. Come si evince, ad esempio,
tanto dalle tesi dei sostenitori del cd. diritto a non
nascere, quanto dalla dottrina del ‘giudizio sostitutivo’
(volta a ricostruire l’ipotetica volontà sulle cure del
paziente incosciente), il richiamo al diritto individuale
alla autodeterminazione può nascondere il diritto di
altri a decidere sulla vita o la salute dell’individuo.
All’insegna di un diritto alla (auto)determinazione.
Parole chiave
Autonomia; Autodeterminazione;
Eterodeterminazione; Volontà;
Modernità; Dibattito biogiuridico.
diritto’2. Uno strumento che è stato definito
«cieco» in assenza della riflessione bioetica,
così come questa rischia di risultare «vuota»
senza l’ausilio del diritto3.
Si parla spesso, a tale proposito, di problematiche
del tutto originali e ‘di frontiera’, ma, a ben guardare,
l’era tecnologica pone in forme nuove interrogativi
antichi4. I dilemmi biogiuridici e bioetici, ��������
«�������
se esa2 Cfr. C. Casonato, Introduzione al biodiritto, Torino, 2009.
Per una riflessione sui principi informatori del biodiritto, cfr. F. Mantovani, Principi personalistici di biodiritto, in
“Archivio giuridico”, 2007, n. 2, pp. 163-185.
3 D. Gracia, Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo,
Cinisello Balsamo, 1993, p. 685. Sul problema dei rapporti
tra bioetica e diritto, cfr. altresì P. Borsellino, Bioetica tra
autonomia e diritto, Milano, 1999, p. 191 ss., nonché P. Zatti,
Maschere del diritto e volti della vita, Milano, 2009, p. 5 ss.
4 Osserva Eligio Resta: «mentre, con una certa enfasi, si
esaltano le cesure rispetto al passato operate dalla tecnica
(…), al diritto si rivolgono sempre più forti richieste di indi-
120
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
minati nella loro radice e ragion d’essere ultima»5,
propongono domande ricorrenti per la filosofia, e
per la filosofia del diritto in special modo.
Interrogarsi sulla liceità degli interventi
tecno-scientifici dell’uomo sulla vita, infatti, significa interrogarsi sul senso della vita
umana e sul fondamento del suo valore, «sui
limiti della disponibilità e indisponibilità
dell’uomo rispetto alla vita (propria e altrui),
sui confini della libertà e della responsabilità
dell’uomo nei confronti degli altri»6.
I giuristi, dunque, sono stimolati «non solo
ad abbandonare la loro neutralità assiologica,
ma soprattutto a ritornare alle origini della loro
stessa disciplina: riprendere l’esame della funzione propria del divieto, del senso incluso nelle
nozioni giuridiche, della finalità del diritto»7.
2. Autonomia, un concetto ambiguo
Fra tutti, un tema risulta particolarmente
sollecitato dal potenziarsi della tecnica: quello inerente la capacità di governarsi da sé,
di ‘darsi una regola’, il tema, in altre parole,
dell’autonomia individuale8. Di fronte al rischio di predominio sull’uomo di una tecnica
«��������������������������������������������
in-cosciente��������������������������������
»�������������������������������
, che, assorbita dall’apprestamento dei mezzi e dimentica del fine, finisce
col porsi essa stessa come fine piuttosto che
come mezzo, oggi viene sempre più rivendicare i limiti e di esplicitare confini normativi dentro i quali
definire le possibilità. La tradizione giuridica, dalla quale la
tecnica prende distanza travolgendone tutti i riferimenti,
mostra consapevolezza di tali problemi; e non da oggi. Il
rapporto che il diritto ha da sempre stabilito con la ‘vita’ è
meno ingenuo di quanto possa apparire» (E. Resta, Diritto
vivente, Roma-Bari, 2008, p. 81).
5 F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia, 2007, p. 10.
6 Ibidem, pp. 10-11.
7 C. Labrusse-Riou, Destino biologico e finalità del diritto,
in S. Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, Roma-Bari,
1993, pp. 375-385:381.
8 Per una introduzione al dibattito contemporaneo sull’autonomia, cfr. R. Giovagnoli, Autonomia: questioni di contenuto, in
“Ragion pratica”, 2006, n. 2, pp. 555-572; nonché E. Santoro, Per
una concezione non individualistica dell’autonomia individuale,
in “Rassegna italiana di sociologia”, 1991, n. 3, pp. 268-311. Su
temi e problemi dell’autonomia in bioetica, cfr. P. Cattorini, E.
D’Orazio, V. Pocar (a cura di), Bioetiche in dialogo. La dignità della
vita umana, l’autonomia degli individui, Milano, 1999.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
cata la centralità del soggetto libero e capace
di decisione autonoma9.
Il potere della tecnica medica viene subordinato alla essenziale autonomia del paziente:
«�������������������������������������������
questi si presenta come l’autentico soggetto etico poiché da una parte è oggetto di cure
mediche (come corpo) e dall’altra parte gli è
riconosciuto il primato di decidere di sé, cioè
della propria vita e del proprio corpo, in quanto l’istituzione non deve contrapporre alcuna
istanza alla libera volontà del paziente»10.
Tale primato nel decidere della propria vita
e della propria salute assume la veste giuridica
del diritto alla autodeterminazione ed è evidente quanto l’appello a tale diritto permei l’attuale dibattito biogiuridico, tanto nelle discussioni intorno alla vita umana nascente, quanto
in quelle intorno alla vita umana morente.
‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e ‘volontà’ si presentano nell’argomentare biogiuridico come veri e propri endoxa di aristotelica memoria, «opinioni comuni, professate dai più
o dai più autorevoli, attorno alle quali sembra
formarsi il consenso»11. Al pari di altri endoxa
biogiuridici, tali concetti costituiscono �����
«����
ideali punti di partenza per l’argomentazione»12.
9 Tale rischio risulta sì avvertito, ma non sufficientemente indagato: spesso, in risposta alla minaccia che la tecnica reca alla soggettività dell’uomo, ci si appiglia a un gioco di rimandi alle norme
giuridiche, alla morale, alla società, all’utilità, che è solo apparentemente risolutivo (queste considerazioni si devono alla lettura,
in bozza, del contributo di M. Manzin, Mizzi e i mostri. Riflessioni
su secolarizzazione e bioetica nell’età della incoscienza della tecnica, di
prossima pubblicazione, a cura di Laura Palazzani, negli atti del
Convegno Filosofia del diritto e secolarizzazione: profili giuridici, etici e
bioetici, tenutosi a Roma, alla LUMSA, il 26 settembre 2009).
10 R. Kirchmayr, Morire da soli. La medicalizzazione come supplemento di cura, in “Aut aut”, 2008, n. 340, pp. 37-58:41.
11 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche. Argomentazione e
decisione nel dibattito biogiuridico, in F. Zanuso (a cura di), Il
filo delle Parche. Opinioni comuni e valori condivisi nel dibattito
biogiuridico, Milano, 2009, pp. 9-54:19. Per l’importanza degli endoxa nel discorso giuridico, cfr. F. Cavalla, voce Topica
giuridica, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1992, pp. 720739; nonché G.M. Azzoni, Endoxa e fonti del diritto, in G.A.
Ferrari, M. Manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, Milano, 2004, pp. 123-155.
12 F. Zanuso, Laicità e laicismo nell’argomentazione biogiuridica, in F.
Cavalla (a cura di), Retorica Processo Verità. Principi di filosofia forense,
Milano, 2007, pp. 227-254:228. In generale, sull’argomentazione
bioetica, cfr. C. Viafora, S. Mocellin (a cura di), L’argomentazione del
giudizio bioetico. Teorie a confronto, Milano, 2006.
121
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Tuttavia, connotati come sono da una strutturale vaghezza di significato, essi risultano «per
lo più ambigui e atti, quindi, a costituire la premessa per un argomentare eristico»13.
La natura di luogo comune ‘apparente’ si manifesta in particolar modo nel principio di autonomia, il cui effettivo significato non può che determinarsi in base alla concezione antropologica
adottata di volta in volta dagli interlocutori. È stato
osservato, per l’appunto, come «�����������������
������������������
la reale pregnanza» di questo peculiare endoxon sia «�������������
��������������
legata al significato dell’auto e del nomos, ovvero sia alla concezione antropologica che fonda il discorso e al
concetto di regola e regolarità che vi è sotteso»14.
Così, il richiamo ��������������������������������
«�������������������������������
altamente evocativo e persuasivo» al rispetto dell’autonomia, effettuato soprattutto
(ma non solo) dai sostenitori della cd. bioetica prochoice, «������������������������������������������������
�������������������������������������������������
rischia di rendere “torbide” le acque del dibattito proprio laddove si pretende di offrire un trasparente criterio di avvaloramento dell’esperienza»15.
‘Autonomia’, ‘autodeterminazione’ e ‘volontà’
sono, dunque, luoghi comuni massimamente
spesi, ma non per questo privi di ambiguità e
profili problematici. Riconoscere l’indubbia importanza dei criteri di autonomia e autodeterminazione lascia impregiudicata una serie di questioni: disporre della propria vita e del proprio
corpo assecondando solo personali progetti esaurisce il senso dell’autonomia o dell’autodeterminazione? L’autonomia e l’autodeterminazione
comprendono anche la possibilità di disporre di
altre vite e di altri corpi e di decidere, per sé o per
altri, la prospettiva dell’essere tecnicamente prodotto o condizionato16?
Se, come generalmente si riconosce, la sfera dell’autogoverno coincide con la libertà di
agire indipendentemente da cause esterne determinanti, assume primaria importanza ����
«���
essere sicuro che solo la mia voce esca dalle mie
13 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 19.
14 Cfr. F. Zanuso, Neminem laedere. Verità e persuasione nel
dibattito bio-giuridico, Padova, 2005, pp. 105-106.
15 Ibidem, p. 106. Per una ricostruzione della contrapposizione fra bioetica pro-life, fautrice del concetto di sacralità
della vita (e solitamente associata alla bioetica cattolica), e
bioetica pro-choice, fautrice del concetto di qualità della vita
(e solitamente associata alla bioetica laica), cfr. G. Fornero,
Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2005.
16 Cfr. A.C. Amato Mangiameli, Corpi docili. Corpi gloriosi, Torino, 2007, p. 143.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
labbra»17. Ma ciò è realmente garantito dalla
concezione di autonomia e autodeterminazione che traspare dalla esperienza giuridica al
confronto con le biotecnologie?
3. Una eco moderna
Per tentare di rispondere a queste domande, sembra utile volgere lo sguardo al passato,
per cercare nel nostro patrimonio giuridicoculturale quel carico di significati, non sempre
evidenti, che gli argomenti impiegati nell’attuale dibattito biogiuridico portano con sé.
In effetti, oggi nessuno contesta l’esistenza del
diritto alla vita e del diritto alla salute, di cui ogni
uomo sarebbe titolare in quanto uomo; ma solo
la consapevolezza delle premesse culturali di tale
convinzione può svelare come nell’era tecnologica si intenda realmente il rapporto fra l’individuo
e la sua stessa vita, e con quali conseguenze. Infatti, sebbene si parli abitualmente di diritto alla vita
e alla salute, si può notare come questi vengano
spesso pensati come se si trattasse di diritti sulla
vita e sulla salute: corpo, salute e vita sono considerati beni a disposizione del soggetto titolare,
ad esclusione di altri soggetti, come avviene nella
relazione giuridica di proprietà18.
La cultura giuridica contemporanea si dimostra in questo frangente fortemente tributaria
del pensiero della modernità. In particolare, è
la moderna Scuola del Diritto Naturale a creare
quel contesto unitario che finisce col concepire
la titolarità del singolo di un naturale diritto sulla vita. Il giusnaturalismo, che vede nella legge
naturale un sistema di valori di riferimento, oggettivo e conoscibile, ha dell’uomo una visione
individualistica, razionalistica e volontaristica:
l’essere umano è pensato in grado di conoscere
la verità, tramite la ragione, e di raggiungere ciò
che è bene per sé, tramite la volizione19.
17 Ibidem, p. 144.
18 Cfr. F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita: sulle origini del
problema dell’eutanasia, in G. Bax, E. Berti, F. Casson, La vita: realtà e valore: studi in onore di mons. Girolamo Bortignon, Padova,
1990, pp. 169-192 (cfr. altresì Id., Diritto alla vita, diritto sulla vita.
Alle origini delle discussioni sull’eutanasia, in “Diritto e società”,
2008, n. 1, pp. 1-64; il saggio è stato recentemente ripubblicato
in F. Zanuso ( a cura di) , Il filo delle Parche, cit., pp. 59-89).
19 Su origini e temi del pensiero giusnaturalista, cfr. F. Todescan,
Etiamsi daremus. Studi sinfonici sul diritto naturale, Padova, 2003.
122
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Il mondo considerato quale insieme di oggetti
diventa completamente disponibile al moderno
homo faber20. Ed è la proprietà, assunte le vesti di
diritto soggettivo, a farsi paradigma dell’affermazione della sovranità del volere individuale sugli
oggetti21. D’altra parte, la libertà, intesa come
assenza di vincoli esterni al volere, garantisce
l’autonomia del soggetto, che può essere legittimamente compressa solo ove sia lesiva della libertà e dell’autonomia altrui22. Risulta, dunque,
insindacabile ogni decisione del singolo che non
danneggi gli altri, anche quando tale decisione
riguardi la sua stessa vita o la sua salute.
Così, il rapporto tra l’uomo e la sua sfera biologica si delinea in epoca moderna seguendo i canoni dell’oggettivismo, del razionalismo e del volontarismo: l’individuo può dirsi libero se dominante
il mondo che lo circonda (compresa la sua stessa
corporeità), e se incondizionato nel suo volere23. Si
tratta di una visione antropologica e di un patrimonio concettuale che si sono depositati pressoché inalterati nelle legislazioni contemporanee24.
20 Per le radici neoplatoniche del moderno atteggiamento
tecnico-dominativo dell’uomo sul mondo, favorito da un pensiero dualista che separa nettamente il Principio e le cose, cfr. M.
Manzin, Ordo iuris. La nascita del pensiero sistematico, Milano, 2008.
21 Si passa dal concetto medievale di dominium, «����������
�����������
espressione di un mondo permeato dal Sacro», al concetto moderno
di proprietà, «espressione di un mondo secolarizzato»; il
diritto di proprietà viene ������������������������������
«�����������������������������
inteso come potere di un soggetto, anzi, come il potere per eccellenza dell’individuo; non
regola che l’uomo legge nelle cose perché nelle cose scritta,
ma sua creatura, finalizzata al consolidamento della sua posizione di superiorità, facendo dell’avere una, anzi, la prima,
dimensione dell’essere del soggetto» (F. Gentile, Esperienza
giuridica e secolarizzazione, Milano, 1993, pp. 28-29).
22 Sulla libertà concepita, in senso moderno, come liberazione, ossia come «la condizione in atto (in ‘movimento’)
di eliminazione dei vincoli di volta in volta determinati»,
cfr. M. Manzin, Libertà e liberazione: due paradigmi a confronto, in “Diritto & Questioni pubbliche”, 2006, n. 6, pp. 101111:103 (ora in G. Maniaci, G. Pino, A. Schiavello (a cura di),
Differenza culturale e minoranze nello spazio pubblico europeo,
Palermo, 2007, pp. 135-147), il testo è disponibile alla URL:
http://www.dirittoequestionipubbliche.org.
23 Osserva Martin Heidegger: ��������������������������
«�������������������������
l’uomo decide in proprio
del modo in cui deve situarsi rispetto all’ente ridotto ad oggetto. Ha così inizio quel modo di esser uomo che consiste
nel prender possesso della sfera dei poteri umani come
luogo di misura e di dominio dell’ente nel suo insieme»
(M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1984, p. 93).
24 P. Sommaggio, Il dono preteso. Il problema del trapianto di
organi: legislazione e principi, Padova, 2004, p. 224. Per una ri-
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
Queste ultime continuano per molti aspetti a considerare il corpo (vivente o in stato di
morte, intero o in parti) come una res; inoltre, tendono a configurare il rapporto che il
soggetto (privato o pubblico) intrattiene con
la ‘bio-materia’ secondo lo schema giuridico
della proprietà. Su tale rapporto la volontà soggettiva è incline a esercitare un dominio che si
pretende incontrastabile. Nell’intreccio fra le
componenti razionali e le componenti volitive
della deliberazione, il ruolo della ragione sembra farsi subordinato a quello della volontà:
hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas25.
Tuttavia, tale presupposto individualistico
dell’uomo ‘padrone di se stesso’ non evita, anzi
alimenta, grazie alla sua connaturata ambiguità, la discussione su chi debba essere il titolare
dei diritti umani (se il singolo o la comunità) e
a quali limiti (sempreché si considerino necessari) debba essere sottoposto il loro esercizio26.
Lo stato civile della collettività organizzata
viene così concepito alternativamente come
«�����������������������������������������������
l’organismo che è al servizio della volontà individuale», oppure come «l’autorità nella cui
libertà ogni individuo deve identificarsi»27.
Ecco delinearsi due prospettive le cui matrici
culturali affondano, rispettivamente, nel pensiero
di Locke e di Rousseau: mentre la prima individua
flessione specifica sulla configurazione giuridica del rapporto dell’individuo con se stesso nel sistema del diritto penale,
cfr. M. Romano, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del
diritto penale, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, n. 3, pp. 984-1003. Per una riflessione sullo stesso
tema, ma inerente il sistema del diritto civile, cfr. G. Cricenti,
Il lancio del nano. Spunti per un’etica del diritto civile, in “Rivista
critica del diritto privato”, 2009, n. 1, pp. 21-39.
25 Per Paolo Moro, il noto brocardo di Giovenale descrive
espressivamente il senso e la portata del primato della volontà
umana che surroga la ragione (P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche, cit., pp.
131-153:144). Sul rapporto tra volontà e ragione nell’esperienza
giuridica, cfr. E. Opocher, Lezioni metafisiche sul diritto, a cura di
F. Todescan, Padova, 2005, pp. 45-69 in particolare (in tema di
validità assiologica del diritto e di diritto e libertà).
26 Francesco Gentile parla di �����������������������������
«����������������������������
aporia dell’individualismo��
»�
per sottolineare come l’antropologia moderna finisca per
perseguire la reificazione dell’uomo attraverso la umanizzazione delle cose. L’Autore evidenzia come questo
fenomeno, solo apparentemente paradossale, risulti manifesto nella società tecnologica, cfr. F. Gentile, Intelligenza
politica e ragion di stato, Milano, 1983, pp. 223-229.
27 F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita, cit., p. 183.
123
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
nel singolo l’unico soggetto legittimato a disporre
del proprio corpo e della propria salute, la seconda
riconosce nella collettività il soggetto deputato a
regolare l’esercizio individuale del diritto alla vita
e alla salute, nel nome degli interessi sociali.
Tali prospettive tornano a riemergere con vigore all’interno dell’attuale dibattito biogiuridico in
tema di autonomia e autodeterminazione. Ciò si
riscontra tanto nelle questioni di fine vita, quanto
in quelle di inizio vita: si pensi, ad esempio, alle
discussioni sulla legittimità delle direttive anticipate di trattamento sanitario (può il singolo disporre liberamente della propria vita o la collettività deve imporre dei limiti?)28, o alle discussioni
sulla titolarità del materiale biologico embrionale
utile alla ricerca (spetta all’embrione stesso, ai genitori, agli scienziati, alla collettività?).
Il problema è che finché si resta fedeli ai presupposti dell’antropologia moderna non si può non
ammettere che la legittimazione a disporre del bene-vita finisca col ricadere sulla volontà del più forte,
sia essa singola o collettiva. Tale volontà «pretende e
spesso ottiene di arrogarsi la titolarità di un bene che
è pensato come disponibile e fungibile»29.
In questo modo, risulta impossibile fondare un criterio univoco che imponga di reprimere la volontà che non tenda più alla conservazione della vita e della salute; né si riesce ad
affermare che la libertà pretenda l’intangibilità della vita per la natura intrinseca di tale
bene: «���������������������������������������
����������������������������������������
giacché si è indotti a ritenere piuttosto che la vita è inviolabile perché (e, dunque,
finché) il soggetto lo vuole»30.
Il contesto culturale appena descritto favorisce una crescente amplificazione del potere e
delle pretese della volontà individuale. La tendenza ad assolutizzare il principio di autonomia risulta manifesta in più punti dell’attuale
panorama bioetico. Ad esempio, si possono
citare quelle teorie che subordinano l’attribuzione di personalità al concepito a un atto di
28 Cfr. T. Pasquino, Autodeterminazione e dignità della
morte, Padova, 2009.
29 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 49. Per
una critica della concezione antropologica moderna che
ricorre nella legislazione e nella giurisprudenza in tema
di diritti indisponibili, cfr. P. Moro, I diritti indisponibili.
Presupposti moderni e fondamento classico nella legislazione
e nella giurisprudenza, Torino, 2004.
30 F. Cavalla, Diritto alla vita e diritto sulla vita, cit., p. 177.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
volontà della madre, il quale risulta in grado
di creare la persona: �������������������������
«������������������������
la decisione sulla natura di (futura) persona dell’embrione non può
che essere rimessa all’autonomia morale della
donna, in forza della natura appunto morale e
non semplicemente biologica dell’atto con cui
la madre lo concepisce (letteralmente) come
persona»31. Tali teorie tendono a giustificare
ed estendere la liceità delle pratiche abortive e
delle pratiche di utilizzazione degli embrioni
a fini medico-scientifici.
Ad ulteriore esempio, si possono citare le
istanze volte a ottenere il riconoscimento giuridico di un diritto alla eutanasia o al suicidio assistito32. L’aspetto rilevante consiste non tanto nella volontà eutanasica o suicidiaria in sé (tutt’altro
che sconosciuta all’essere umano), ma nella sua
aspirazione a configurarsi come diritto soggettivo positivo: non si reputa più sufficiente che
l’ordinamento lasci l’individuo libero di darsi,
nel privato, la morte; piuttosto, si ritiene lo Stato
tenuto a predisporre un apparato in grado di assecondare le richieste in tal senso, pena la violazione del diritto alla autodeterminazione33.
4. Padroni di sé, soggetti ad altri
La volontà individuale, insindacabile e autosufficiente, sembrerebbe priva di limiti di principio.
Tuttavia, nell’esaminare alcuni fra i casi recentemente affrontati dalla cd. biogiurisprudenza34, si può intravedere nella esaltazione dell’autodeterminazione
un esito aporetico: contro le sue stesse aspirazioni,
il diritto di autodeterminazione non riesce a porre
l’individuo al riparo da qualunque ingerenza esterna, ma, anzi, finisce surrettiziamente col consentire
l’innescarsi di dinamiche eterodeterminative.
Questo esito si appalesa tanto nella prospettiva individualistico-libertaria di un diritto all’au31 L. Ferrajoli, Teoria del diritto, vol. 1 di Principia iuris. Teoria
del diritto e della democrazia, Roma-Bari, 2007, p. 352.
32 Cfr. G. Dworkin, R.G. Fey, S. Bok, Eutanasia e suicidio
assistito: pro e contro, Torino, 2001.
33 Per una riflessione critica sul continuo emergere di
nuovi diritti umani, cfr. M. Manzin, La barba di Solženicyn
e la frammentazione dei diritti umani, in “Persona y
Derecho”, 2008, n. 58, pp. 455-472; F. Riccobono, Soggetto
Persona Diritti, Napoli, 1999, p. 75 ss.
34 Cfr. S. Amato, Biogiurisprudenza. Dal mercato genetico al
self-service normativo, Torino, 2006.
124
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
todeterminazione proprio del singolo, tanto
nella prospettiva ‘sociale’ di un diritto all’autodeterminazione che finisce per slittare in capo …
alla collettività. Quanto al primo profilo, si rifletterà sul tema della ricostruzione della volontà individuale presunta; quanto al secondo, si accennerà al tema delle ripercussioni delle esigenze
sovra-individuali nell’esercizio dell’autonomia.
Si considerino i meccanismi di ricostruzione
della volontà presunta del nascituro o del paziente, che possono nascondere dietro l’appello
al diritto alla autodeterminazione del singolo la
decisione di altri. A questo proposito assumono
rilievo paradigmatico le tesi dei sostenitori della sussistenza nell’ordinamento italiano di un
diritto a non nascere se non sano (passate al vaglio della Cassazione in questi ultimi anni); così
come assume rilievo la dottrina del cd. giudizio
sostitutivo, volta a demandare a un ‘decisore surrogato’ la ricostruzione della volontà ipotetica
del paziente incosciente (filtrata in una recente
pronuncia della Cassazione).
In tema di danni da procreazione, le fattispecie
più controverse riguardano i casi in cui la patologia
che colpisce il nato non è direttamente causata dalla
condotta del medico, ma è dovuta a tare genetiche
non diagnosticate durante la gestazione35. In ambito
anglosassone si discute, a tal proposito, di wrongful
life, che involgerebbe una tutela risarcitoria rivendicabile dal figlio stesso sia nei confronti del medico,
responsabile di una erronea assistenza ai genitori,
sia nei confronti degli stessi genitori, colpevoli di
non avere effettuato un aborto che avrebbe evitato
al figlio la nascita e una vita infelice36.
Il punctum dolens della questione, delicata sia dal
punto di vista giuridico che da quello etico, coinvolge il concetto problematico di ‘vita come danno’: può
un bambino essere considerato un danno per sé
stesso e/o per i suoi genitori? Non venire al mondo è
preferibile ad una vita malata? Può essere giustificata
l’eliminazione di un feto nel suo stesso interesse37?
35 Cfr. P. Rescigno, Danno da procreazione e altri scritti tra
etica e diritto, Milano, 2006; A. D’Angelo (a cura di), Un
bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999.
36 Cfr. A. D’Angelo, Wrongful birth e wrongful life negli ordinamenti inglese e australiano, in A. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è
un danno risarcibile?, cit., pp. 155-177; L. Bregante, Dignità del bambino
e diritto alla pianificazione familiare negli USA, ibidem, pp. 179-208.
37 Cfr. E. Picker, Il danno della vita. Risarcimento per una
vita non desiderata, Milano, 2004.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
La Cassazione italiana, che si è trovata ad affrontare la questione, ha affermato che, pur essendo
ipotizzabile un diritto a nascere sani, non è altrettanto configurabile un diritto a non nascere se non
sani. Quest’ultimo, infatti, si presenterebbe come
un nonsense logico-giuridico, un ‘diritto adespota’,
il cui soddisfacimento negherebbe la stessa soggettività di chi lo aziona38.
La giurisprudenza italiana, dunque, ha recisamente negato la sussistenza di tale diritto. Ma se si
sposta l’attenzione alla pretesa risarcitoria presentata dai genitori in qualità di rappresentanti legali
del figlio (la domanda di risarcimento per i danni
subiti dal minore per il fatto di essere vivo, gravemente malato), si nota come l’invocato diritto a
non nascere veda solo nominalmente il figlio quale suo titolare. Il giudizio ex ante e in sostituzione
del nascituro circa la meritevolezza o meno della
sua vita, più che comportare una rappresentazione
della volontà del figlio, sembra configurarsi come
una vera e propria sostituzione nella sua volontà39.
Allora, posto che in nessun modo può dirsi conoscibile l’opinione del nascituro sulla desiderabilità o meno di venire al mondo, l’appello al diritto
del nascituro ‘a non nascere’ non fa che nascondere la pretesa di vedere riconosciuto un vero e proprio diritto dei genitori ‘a non far nascere’40.
Una dinamica non dissimile si può notare
in tema di autodeterminazione terapeutica del
paziente incapace. Una recente e innovativa
sentenza della Cassazione ha indicato i criteri
che consentono al tutore di un paziente in stato
vegetativo permanente di ottenere dal giudice,
in contraddittorio con il curatore speciale, l’autorizzazione a sospendere i trattamenti di idra����������������������������������������������������������������
Cass. Civ., sez. III, sent. ����������������������������������
29.7.2004, n. 14488, in “La nuova
giurisprudenza civile commentata”, 2005, n. 1, pp. 418-433,
con nota di E. Palmerini, La vita come danno? No…, sì…, dipende,
pp. 433-444 (conforme è Cass. Civ., sez. II, sent. 14.7.2006,
n. 16123). Nel 2009 la Cassazione ha avuto l’occasione di riprendere, e ribadire, parte delle medesime argomentazioni,
pur in relazione a una diversa fattispecie, in cui il comportamento colposo del medico era stato causa diretta delle
malformazioni del bambino (cfr. Cass. Civ., sez. III, sent.
11.5.2009, n. 10741, in “La Responsabilità Civile”, 2009, nn.
8-9, pp. 706-714, con nota di L. Viola, Il nascituro ha il diritto di
nascere sano, ma non quello di non nascere, pp. 714-719).
39 Cfr. F. Bacchini, Il diritto di non esistere, Milano, 2002.
40 Cfr. F. Reggio, La vita come danno. Alcune note in margine
ad una recente sentenza in tema di ‘diritto a non nascere’, in F.
Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche, cit., pp. 155-174.
125
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
tazione e alimentazione artificiali che tengono
in vita l’incapace. Le due condizioni individuate,
che devono essere cumulativamente sussistenti,
sono l’irreversibilità accertata dello stato vegetativo permanente e la riconduzione dell’istanza di
sospensione dei trattamenti alla volontà del paziente, desunta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dal suo complessivo sistema di vita41.
Il secondo requisito, relativo alla ricostruzione
della volontà, configura l’aspetto più delicato della pronuncia. Esso appare parzialmente mutuato
dalla dottrina nordamericana del substituted judgement (giudizio sostitutivo), la quale consente di
individuare un ‘decisore surrogato’ che, rivestiti i
‘panni mentali’ del paziente incosciente (impossibilitato a esprimersi), decida per lui se proseguire
o interrompere il sostegno vitale artificiale42.
Nello specifico, il punto più problematico consiste nell’ammettere che, in mancanza di precise
direttive anticipate di trattamento sanitario, la
volontà di rifiuto dei trattamenti salva-vita possa
essere desunta anche solo dal complessivo sistema di vita e valori del paziente. Vi è chi ha sottolineato come il rischio sia quello che, sulla base di
un «�����������������������������������������
������������������������������������������
concetto di autonomia assolutamente autoreferenziale» e di una «presunta idea di dignità»,
il sostituto si ‘appropri’ della volontà del paziente,
sfruttando �������������������������������������
«������������������������������������
elementi di valutazione fragili, manipolabili, ma soprattutto extra-giuridici e irrilevanti per il diritto», quali sono gli orientamenti
di vita del soggetto o sue precedenti esternazioni
vaghe ed estemporanee43.
���������������������������������������������������������������������
Cfr. Cass. Civ., sez. II, sent. 16.10.2007,
�����������������������������������
n. 21748, in “Corriere
giuridico”, 2007, n. 12, pp. 1676-1686, con nota di E. Calò, La
Cassazione “vara” il testamento biologico, pp. 1686-1695.
42 Per una disamina della giurisprudenza nordamericana sul
tema, cfr. G. Ponzanelli, Il diritto a morire: l’ultima giurisprudenza
della corte del New Jersey, in “Foro italiano”, 1988, pt. IV, coll. 291301; Id., Nancy Cruzan, la Corte suprema degli Stati uniti e il “right to
die”, in “Foro italiano”, 1991, pt. IV, coll. 72-75; A. Santosuosso, Il
paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà
dopo il caso Cruzan, in “Foro italiano”, 1991, pt. IV, coll. 66-72;
G. Smorto, Note comparatistiche sull’eutanasia, in “Diritto e questioni pubbliche”, 2007, n. 7, pp. 143-179 (il testo è disponibile
alla URL: http://www.dirittoequestionipubbliche.org).
43 G. Gambino, La sentenza della Cassazione su Eluana
Englaro: il diritto “oltre” il testamento biologico e il consenso
informato, in “L’Arco di Giano”, 2007, n. 54, pp. 15-30:2628. Contra, per la piena rilevanza giuridica degli elementi individuati dalla Cassazione come utili a ricostruire la
volontà del paziente, cfr. M.C. Barbieri, Stato vegetativo
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
Ciò può comportare che quella che prima facie appare come una ricostruzione della volontà
effettiva del paziente, a tutela della sua autodeterminazione, sia, in realtà, la vera e propria costruzione, da parte di terzi, di una volontà ipotetica, non necessariamente esistente in quei
termini e, dunque, in buona sostanza, fittizia44.
Dunque, l’autodeterminazione e l’autonomia,
oggi pur tanto invocate e perseguite come baluardo
della dignità umana45, rischiano di sciogliersi nella
inconsapevole delega ad altri del potere di prendere decisioni sulla propria vita e salute. Come si
anticipava, questo fenomeno può essere osservato anche sotto un altro profilo, quello che fa capo
a esigenze lato sensu sovra-individuali, in grado di
limitare l’esercizio dell’autodeterminazione46.
Vi è chi nota come, rispetto al passato, il fondamento volontaristico sia «�������������������
��������������������
oggi esposto a maggiori rischi, sia perché appare vulnerabile alle
pressioni, all’ignoranza, agli eccessi, alle contrattazioni economiche, sia perché appare sensibile
a una nuova visione prevalentemente sociale
dei diritti dell’uomo». Quest’ultima, infatti, nel
campo della ricerca scientifica, «spinge più di
ieri all’accantonamento della volontà del paziente» in nome dei vantaggi ricavabili dalle nuove
applicazioni biomediche per la collettività47.
permanente: una sindrome ‘in cerca di un nome’ e un caso
giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della
sentenza Cass. 4 ottobre 2007 sez I, civile sul caso di Eluana
Englaro, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2008, n. 1, pp. 389-421.
44 Cfr. R. Campione, Stato vegetativo permanente e diritto alla identità personale in un’importante pronuncia della
Suprema Corte, in “Famiglia e Diritto”, 2008, n. 2, pp.
136-145; P. Stanzione, G. Salito, Il rifiuto presunto alle
cure: il potere di autodeterminazione del soggetto incapace,
in “Iustitia”, 2008, n. 1, pp. 55-80; nello stesso senso, A.
Berardi, Una breve disamina dei casi Welby ed Englaro, in
questa stessa Rivista, 2009, n. 2.
45 Sull’attuale operare del concetto di dignità quale topos argomentativo, cfr. U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Roma-Bari, 2009. Per una disamina giusfilosofica
sul tema, cfr. altresì P. Becchi, Il principio dignità umana,
Brescia, 2009.
46 Si pensi alle tesi foucaultiane sul controllo della sfera
biologica individuale da parte della biopolitica e dei biopoteri (M. Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica, 1974-1985, Milano, 2001; Id., La nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979, Milano, 2005).
47 L. d’Avack, Verso un antidestino. Biotecnologie e scelte di vita,
Torino, 2004, p. 85.
126
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Conformemente, altri individuano nel sistema economico, nel sistema amministrativo e nei
sistemi di comunicazione di massa le principali
«forze anonime di eteronomia» dei nostri tempi, in grado di compromettere seriamente l’autonomia individuale48. Si pensi, in particolare, alla
burocratizzazione del principio del consenso informato, la quale induce il soggetto a delegare allo
Stato (al giudice, al legislatore, al burocrate) la tutela della propria libertà e della propria salute49.
5. autonomia e libertà
Molti sono i fenomeni che si accompagnano alla assolutizzazione del principio di autonomia: affievolimento della tutela giuridica
della vita, crescente contrattualizzazione del
rapporto medico-paziente, graduale espunzione della considerazione dei principi di beneficialità e giustizia dalle deliberazioni bioetiche50. E, non da ultimo, quello svuotamento
dello stesso diritto all’autodeterminazione
fin qui descritto, che rappresenta un vero e
proprio scacco per l’autonomia: proprio nel
momento in cui più pretende di affermarsi,
essa corre il rischio di perdersi nelle maglie
dell’eterodeterminazione.
Si è sostenuto come questo esito si verifichi
in ragione della concezione antropologica individualistica e volontaristica che assiste il concetto odierno di autodeterminazione. Si tratta
di una antropologia di matrice moderna che intende l’uomo come un essere originariamente
autosufficiente e irrelato, unica fonte dei suoi
propri poteri e doveri51. La conseguente declinazione in senso solipsistico dell’autonomia, unita ad una visione radicalmente individualistica
della libertà, conduce il singolo, inconsapevole
dei suoi limiti e dei legami che lo avvincono ne48 B. Melkevik, Vulnerabilità, diritto e autonomia. Saggio
sul soggetto di diritto, in M. Pasquazi, L. Scillitani (a cura
di), Filosofia sociale. Scritti in memoria di Luigi Pasquazi,
Milano, 2007, pp. 105-132:121 ss.
49 P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, cit., p. 144.
50 Cfr. M. Ronco, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione
del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale
della vita, in “Cristianità”, 2007, nn. 341-342, pp. 11-34.
51 Cfr. F. Cavalla, La pretesa indebita alla “società dei perfetti”, in E. Opocher (presentazione di), La società criticata.
Revisione fra due culture, Napoli, 1974, pp. 331-346.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
cessariamente all’altro da sé, a vivere nel mondo
seguendo la sola verità dei rapporti di forza52.
E allora sarà, di volta in volta, in ogni ambito,
la volontà del più forte a prevalere, sia essa quella individuale o quella collettiva: ����������������
«���������������
questo è il destino delle pretese che si illudono di tutelare la
libertà supponendola incarnata nella volitività
e nei desideri soggettivi e su questi presumono
di poter fondare le scelte bioetiche nell’ambito
dei cc.dd. diritti riproduttivi e in quello relativo
alle scelte tragiche di fine-vita»53.
Nella loro perenne attualità, gli insegnamenti di ascendenza classica possono contribuire
a superare questa impasse. La consapevolezza
classica della presenza di un principio, inobiettivabile, che è in ogni cosa e che non si esaurisce
in nessuna di esse, conduce, attraverso il rifiuto
tanto degli atteggiamenti dogmatici che di quelli
scettici, a riconoscere come destituita di fondamento la premessa individualistica: «dissolta la
presunzione di tutto sapere o di tutto ignorare,
gli uomini non appaiono più come esistenze
individualmente autosufficienti: anzi si rivelano tanto strutturalmente bisognosi di vero e di
bene, e perciò votati a cercarlo, che nessuno può,
in linea di principio, rinunciare a domandare, e
incessantemente, all’altro il fondamento di ogni
parola pronunciata. I soggetti, in altri termini,
appaiono stretti originariamente da un vincolo
che li costituisce nel dialogo: il principio del quale non è nulla di pienamente disponibile per la
volontà e per la ragione dei singoli»54.
Il riconoscimento della struttura ontologicamente relazionale dell’essere umano non
può che avere ricadute importanti in campo
giuridico: ‘valori’ e ‘diritti dell’uomo’ escono «dal convenzionalismo, dalla genericità e
52 Osserva Maurizio Manzin che la concezione moderna della libertà come ‘eliminazione dal vincolo’ comporta
sempre un rischio: «ad ogni atto teso alla rescissione di un
vincolo seguono effetti imprevisti, e talvolta per nulla desiderabili; in ogni caso, il limite pòsto dal vincolo tende sempre a ripresentarsi in forme diverse, imponendo alla libertàliberazione il carattere di una praxis incessante (come Marx
aveva peraltro individuato), una sorta di “rivoluzione continua” nella quale vincolo e liberazione si susseguono perpetuamente» (M. Manzin, Libertà e liberazione, cit., p. 105).
53 F. Zanuso, L’indisponibile filo delle Parche, cit., p. 49.
54 F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto. Saggio
sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991, p. 20.
127
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
molteplicità babelica delle loro determinazioni empiriche o ideologiche����������������
»���������������
quando si conformano alla «struttura antropo-ontologica,
sinolica e relazionale dell’individuo»55.
Sul fronte del dibattito in tema di autodeterminazione da più parti si tenta un recupero della
dimensione relazionale dell’autonomia. In molti
avvertono l’insufficienza delle concezioni intellettualistiche e individualistiche, e sottolineano
«il ruolo ineliminabile che la relazione gioca sia
nella concezione personale del sé che nello stesso auto-governo»56; vi è chi riflette «sul valore
indisponibile e relazionale della volontà, proponendo di ripensare il consenso all’atto medico in
una concezione dialogica dell’uomo come quella
inaugurata in Occidente dal pensiero classico»57;
vi è chi suggerisce, quindi, di ripensare alla relazione medico-paziente come una relazione dialogica in cui, alla ricerca di una composizione tra
il principio di beneficialità e il principio di autonomia, la verità si costituisce mediante il movimento dialettico di domanda e risposta e mediante il riconoscimento dell’alterità dell’altro58.
In particolare, in riferimento alle direttive anticipate di trattamento sanitario, vi è chi propone
di �������������������������������������������������
«������������������������������������������������
prevedere nella stesura delle direttive il coinvolgimento di più persone: non nel ruolo di censori, e neanche tanto in quello di certificatori, ma
in funzione di ciò che si potrebbe definire deliberazione autoesaminata, e insomma per imporre al
disponente … una sorta di onere di dialettizzazione
delle proprie determinazioni» 59.
Recuperata una visione relazionale dell’autonomia, il cd. testamento biologico può essere inteso
come una preziosa possibilità di mantenere il dialogo paziente-medico nonostante l’incapacità del
malato, una opportunità di ricondurre ad unità la
persona nel tempo, consentendo una comunicazione fra il suo (silenzioso) presente e il suo passato.
55 S. Cotta, Soggetto umano. Soggetto giuridico, Milano,
1997, p. 109.
56 R. Giovagnoli, Autonomia: questioni di contenuto, cit., p. 557.
57 P. Moro, Dignità umana e consenso all’atto medico, cit., p. 153.
58 Cfr. F. Borgia, Hans-Georg Gadamer: dove si nasconde la
salute, in “Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”,
2005, n. 1, pp. 141-160.
59 D. Carusi, Tutela della salute, consenso alle cure, direttive
anticipate: l’evoluzione del pensiero privatistico, in “Rivista
critica del diritto privato”, 2009, n. 1, pp. 7-20:20.
L’autonomia illusoria
issn 2035-584x
La direttrice sembra essere chiara: recuperare
la dimensione relazionale dell’autonomia, riconoscendo l’originarietà e l’indisponibilità di ciò che
precede ed anticipa la stessa volontà individuale
(e ne costituisce la fonte). Tuttavia, resta da sottolineare come non esistano, e non possano esistere, ricette precostituite: in ogni punto dell’esperienza si è chiamati a determinare il principio di
autonomia e il diritto alla autodeterminazione in
senso relazionale, oppure in senso solipsistico60.
D’altra parte, è l’uomo stesso ad essere,
costantemente, «in bilico, oscillante tra la
realizzazione e la distruzione di ciò che lo costituisce nel suo essere più proprio, tra la realizzazione e la dissoluzione di questo apice
del suo essere, che è la libertà»61.
Letizia Mingardo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Giurisprudenza all’Università di
Padova (tesi in Filosofia del diritto, Supervisore
prof. Francesco Cavalla). Collabora con il Cermeg Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica.
60 «������������������������������������������������
�������������������������������������������������
Ciò che appare come Principio, per sua essenza,
compare come ciò che richiede all’uomo una decisione, la decisione appunto di riconoscere la presenza del
Principio. La realtà necessaria che anticipa ogni atto gli
richiede necessariamente la decisione di riconoscerla:
in ogni punto dell’esistenza è presente tale richiesta; in
ogni punto dell’esistenza la decisione può esserci o non
esserci» (F. Cavalla, La verità dimenticata. Attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione, Padova, 1996, p. 90).
61 F. Chiereghin, Dall’antropologia all’etica. All’origine
della domanda sull’uomo, Milano, 1997, p. 140. Osserva
Stefano Fuselli: «l’uomo è per se stesso, cioè in quel
rapporto con quanto lo costituisce in modo proprio ed
esclusivo, sempre rimesso alla possibilità di perdere la
propria umanità. Dal momento che anche la possibilità concreta di negarsi in quanto uomo è costitutiva del
suo essere uomo, l’uomo è allora responsabile della sua
umanità, nel senso che può adottare atteggiamenti e
comportamenti per i quali ne va della sua stessa umanità, ne va di se stesso in quanto uomo» (S. Fuselli, La
lanterna di Diogene: alla ricerca dell’uomo negli esperimenti
di ibridazione, in F. Zanuso (a cura di), Il filo delle Parche,
cit., pp. 91-109:104).
128
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Libertà di migrazione:
da diritto fondamentale a reato di clandestinità?
Note su alcune ordinanze di rinvio alla Corte costituzionale
in merito all’articolo 10 bis del D. L. n. 286 del 1998
Marco Cossutta
Abstract
Parole chiave
Il contributo analizza alcune ordinanze di rinvio alla
Corte costituzionale sul reato di clandestinità. Dalle
stesse emergono punti di criticità rispetto all’assetto
costituzionale della fattispecie in questione, dalla
lesione del fondante principio di solidarietà, al
depotenziamento dell’effettivo godimento di diritti
umani, al rovesciamento dei canoni informanti la
materia penale nel vigente ordinamento, alla infrazione
di vicoli internazionali. Al fine di vagliare la capacità
persuasiva delle argomentazioni proposte dai giudici
di merito, si richiamano alcuni indirizzi assunti dalla
Consulta in materia di migrazione. Al di là di ogni
possibile ipotesi in merito alla futura pronuncia della
Corte, si rileva come l’operato del legislatore, in una
democrazia costituzionale e non maggioritaria, sia
vincolato da principî invalicabili, i quali debbono
informare anche le scelte in politica migratoria.
Diritti dello straniero;
Funzione della pena; Migrazione;
Politiche penali; Reato di clandestinità;
Tutela dei diritti umani;
Vincoli internazionali.
Le reazioni critiche all’articolo 10 bis.
L
’introduzione nell’ordinamento giuridico italiano del reato di clandestinità, avvenuto con
l’articolo 16 della legge n. 94 del 15 luglio 2009, del
quale avevamo fatto cenno sullo scorso fascicolo
di codesta Rivista1, ha suscitato, accanto a prese
di posizione critiche2, un notevole dibattito dot1 Cfr. Alcune digressioni sull’esecuzione della pena con particolare riguardo al cittadino straniero. Dalla comunicazione
interculturale alla funzione rieducativa della pena ed al pieno sviluppo della persona umana, nel fascicolo 2 del 2009
di “Tigor. Rivista di scienze della comunicazione”.
http://www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/3400
2 Richiamiamo, anche per la rilevanza dello stesso nella redazione di alcune ordinanze di rinvio alla Corte
costituzionale, l’Appello dei giuristi contro il reato di clan-
Libertà di migrazione
In memoria degli ospiti dell’Hôtel International,
“un piccolo albergo in una laterale dell’Avenue
Wagram, dietro Palace de Ternes” Erich Maria
Remarque, Arc de Triomphe).
destinità del 30 giugno del 2009: “il disegno di legge n.
77-B attualmente all’esame del Senato prevede varie
innovazioni che suscitano rilievi critici. In particolare, riteniamo necessario richiamare l’attenzione della
discussione pubblica sulla norma che punisce a titolo
di reato l’ingresso e il soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato, una norma che, a nostro
avviso, oltre ad esasperare la preoccupante tendenza
all’uso simbolico della sanzione penale, criminalizza
mere condizioni personali e presenta molteplici profili di illegittimità costituzionale. La norma è, anzitutto,
priva di fondamento giustificativo, poiché la sua sfera
applicativa è destinata a sovrapporsi integralmente a
quella dell’espulsione quale misura amministrativa, il
che mette in luce l’assoluta irragionevolezza della nuova figura di reato; inoltre, il ruolo di extrema ratio che
deve rivestire la sanzione penale impone che essa sia
utilizzata, nel rispetto del principio di proporzionalità,
solo in mancanza di altri strumenti idonei al raggiun-
129
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
gimento dello scopo. Né un fondamento giustificativo
del nuovo reato può essere individuato sulla base di una
presunta pericolosità sociale della condizione del migrante irregolare: la Corte costituzionale (sent. 78 del
2007) ha infatti già escluso che la condizione di mera
irregolarità dello straniero sia sintomatica di una pericolosità sociale dello stesso, sicché la criminalizzazione
di tale condizione stabilita dal disegno di legge si rivela
anche su questo terreno priva di fondamento giustificativo. L’ingresso o la presenza illegale del singolo straniero non rappresentano, di per sé, fatti lesivi di beni
meritevoli di tutela penale, ma sono l’espressione di
una condizione individuale, la condizione di migrante:
la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non
solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in
base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali. L’introduzione del reato in esame, inoltre, produrrebbe una crescita abnorme di ineffettività del sistema
penale, gravato di centinaia di migliaia di ulteriori processi privi di reale utilità sociale e condannato per ciò
alla paralisi. Né questo effetto sarebbe scongiurato dalla attribuzione della relativa cognizione al giudice di
pace (con alterazione degli attuali criteri di ripartizione
della competenza tra magistratura professionale e magistratura onoraria e snaturamento della fisionomia di
quest’ultima): da un lato perché la paralisi non è meno
grave se investe il settore della giurisdizione del giudice
di pace, dall’altro per le ricadute sul sistema complessivo delle impugnazioni, già in grave sofferenza. Rientra
certo tra i compiti delle istituzioni pubbliche “regolare
la materia dell’immigrazione, in correlazione ai molteplici interessi pubblici da essa coinvolti ed ai gravi problemi connessi a flussi migratori incontrollati” (Corte
cost., sent. n. 5 del 2004), ma nell’adempimento di tali
compiti il legislatore deve attenersi alla rigorosa osservanza dei principi fondamentali del sistema penale e,
ferma restando la sfera di discrezionalità che gli compete, deve orientare la sua azione a canoni di razionalità finalistica. «Gli squilibri e le forti tensioni che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni
di estrema emarginazione, sì che […] non si può non cogliere con preoccupata inquietudine l’affiorare di tendenze, o anche soltanto di tentazioni, volte a nascondere la miseria e a considerare le persone in condizioni di
povertà come pericolose e colpevoli». Le parole con le
quali la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità del
reato di «mendicità» di cui all’articolo 670, comma 1,
cod. pen. (sent. n. 519 del 1995) offrono ancora oggi una
guida per affrontare questioni come quella dell’immigrazione con strumenti adeguati alla loro straordinaria
complessità e rispettosi delle garanzie fondamentali riconosciute dalla Costituzione a tutte le persone”. Per la
disamina di ulteriori interventi critici in argomento si
possono consultare, fra gli altri, i siti della Associazione
per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (www.asgi.it)
e di Magistratura Democratica. (www.magistraturademocratica.it).
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
trinale3. Al di là di queste reazioni, va altresì sottolineato come l’articolo in questione, ora numerato come il 10 bis del Decreto legislativo n. 286
del 1998 (d’ora in avanti richiamato anche come
Testo unico), sia stato oggetto in anche in ambito
giurisprudenziale di forti perplessità.
Queste si sono istituzionalizzate in ordinanze
di rinvio alla Corte costituzionale contenenti i forti dubbi di legittimità costituzionale riscontrati in
fase processuale dalla magistratura di merito.
Appare pertanto interessate osservare le motivazioni per i quali le autorità giudicanti hanno ritenuto che la sussistenza di un vizio materiale inficiante la legittima presenza del reato di
clandestinità nel nostro ordinamento non fosse
manifestamente infondata.
A tale proposito verranno qui richiamate le
ordinanze dei Giudici di pace di Pesaro, del 31
agosto 2009, di Pordenone, del 8 ottobre 2009,
di Cuneo, del 16 ottobre 2009, e di Agrigento, del
15 dicembre 2009 e del Giudice del lavoro di Voghera, del 20 novembre 20094. Anche alla luce
del vasto dibattito dottrinali in materia, appare
rilevante enucleare le motivazioni che hanno
indotto i giudici di merito a promuovere il rinvio alla Corte costituzionale al fine di osservare
le argomentazioni addotte in favore dell’illegittimità della disposizione in questione.
L’ordinanza di Pescara (la lesione
del principio di solidarietà)
Utilizzando un criterio cronologico l’esame inizierà dall’ordinanza emessa dal Giudi3 In proposito richiamiamo il numero monografico
della rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, XI (2009), n. 4, con contributi di L. Pepino, L.
Miazzi, A. Sciortino, G. Palombarini, S. Rodotà, C.
Renoldi, G. Savio, P. Bonetti, P. Morozzo della Rocca,
M. Paggi, A. Casadonte e M. Pipponzi, M. Pastore,
L. Miazzi e G. Perin, S. Furlan, A. Simoni. Una vasta
eco ha ritrovato la legge n. 94 del 2009 nelle relazioni presentate al Convegno della Associazione
Italiana dei Costituzionalisti tenutosi a Cagliari
14-17 ottobre 2009 sul tema Lo statuto costituzionale del non cittadino, con relazioni di V. Ondina, P.
Stancati, B. Caravita di Toritto, B. Pezzini, E. Grosso,
B. Nascimbene, A. Pugiotto, G. F. Ferrari (la pubblicazione provvisoria delle relazioni è consultabile
sul sito www.associazionedeicostituzionalisti.it)
4 Le ordinanze sono visionabili sul sito www.asgi.it
130
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ce di pace di Pesaro; questa presenta notevole
interesse per le argomentazioni proposte, le
quali però appaiono, nel loro complesso, più
legate a rilevi di politica penale e, in generale, a questioni socio-politiche, che a considerazioni proprie a questioni di legittimità costituzionale, le quali pur ritrovano richiamo
nell’ordinanza stessa.
Per quanto riguarda il primo ordine di
questioni, il giudice di merito rileva anzitutto essere tale figura di reato “incompatibile con la civiltà del nostro Paese”. A tal fine
all’interno dell’ordinanza vengono riprodotti “il testo dell’appello 30.6.2009 di insigni
giuristi, appartenenti ad aree culturali e ideologiche diverse […] e le considerazioni provenienti da aree significative del volontariato sociale, laiche e religiose”5.
5 Dell’appello dei giuristi abbiamo dato conto nella nota
2. Il secondo documento citato si riferisce ad un appello
del 5 luglio del 2009, per il quale “come cittadini italiani riteniamo che il provvedimento varato oggi al Senato
sia un vero e proprio «atto eversivo» verso la civiltà
del diritto espressa nella Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani (la dignità della persona umana), nella
Costituzione italiana (articoli 2 e 3), in tanti testi delle Nazioni Unite il cui spirito è presente nella Dottrina
Sociale della Chiesa, orientata ad affermare il «bene comune», che è il bene di tutti e di ciascuno, sintesi di libertà e giustizia. Come credenti nel Dio che tutti ama e nel
Vangelo di Cristo nostra pace pensiamo che per i cristiani
nessuno sia straniero e, soprattutto, che nessuno straniero sia di per sé un delinquente. Chi ostenta i valori cristiani conosce le parole di Cristo «Ero straniero e mi avete
accolto» (Matteo 25). Rinnoviamo l’appello ad operare
con urgente fermezza per respingere la deriva autoritaria e totalitaria basata sulla logica dello straniero-nemico
che nasconde i veri pericoli della criminalità organizzata,
della corruzione economica e politica, del degrado etico e
che alimenta la paura, eccita gli animi al peggio, diffonde
modelli di violenza e prepara a mali più grandi. Dolore e
orrore. Il 2 luglio 2009 è stata votata una legge che rompe l’unità della famiglia umana e ne offende la dignità,
prende piede l’idea che esistano esseri umani di seconda
e terza categoria, un popolo di «non persone», di esseri
umani, uomini e donne invisibili. È una perdita totale di
senso morale e di sentimento umano; questo accade, nel
nostro paese che ha prodotto milioni di emigrati. La legge «porterà solo dolore». Il dolore nasce dall’orrore giuridico e civile del «reato di clandestinità», dall’idea del
povero come delinquente e della povertà come reato. La
legge votata non è solo contraria alla nostra Costituzione
ma a tutta la civiltà del Diritto. Punisce una condizione
di nascita, l’essere straniero, invece che la commissione
di un reato. Dichiarare reato una condizione anagrafica.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
Al di là del merito dei appelli e della loro irrituale proposizione all’interno di un’ordinanza, va rilevato che in questi è chiaramente individuabile il richiamo alla sentenza della Corte
costituzionale n. 519 del dicembre del 1995 in
merito all’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, ex comma primo dell’articolo
670 del Codice penale6. Su questa sentenza e
basata in gran parte l’argomentazione in favore della illegittimità costituzionale del reato
di clandestinità. Tale ipotesi verrà ripresa di
lì a poco, sia pure con sfumature diverse, anche dal magistrato di Voghera; risulta pertanto
utile soffermarsi brevemente sulla pronuncia
della Corte di tre lustri fa.
In questa la Corte costituzionale, in riguardo
al bene giuridico protetto da tale figura di reato
(la tranquillità ed il decoro della civile convivenza), aveva sottolineato come, e su questo punto
il Giudice di Pesaro costruirà la similitudine,
“l’ipotesi della mendicità non invasiva integra
una figura di reato ormai scarsamente perseguita in concreto, mentre nella vita quotidiana,
specie nelle città più ricche, non è raro il caso di
coloro che – senza arrecare alcun disturbo – domandino compostamente, se non con evidente
A questo punto, quanti stranieri frequenteranno un servizio sociale o si rivolgeranno, se vittime della «tratta»,
ad associazioni volontarie o istituzionali, forze di polizia
comprese, oggi messe in un angolo dalla diffusione delle
cosiddette «ronde»? Quanti stranieri andranno a far registrare una nascita, si presenteranno in ospedale per farsi curare? Quali gravi conseguenze questo potrà produrre sulla salute di tutti i cittadini è già stato evidenziato da
moltissime associazioni di medici. La legge è pericolosa
perché accrescerà la clandestinità che dice di combattere,
favorirà il «si salvi chi può», darà spazio alla criminalità
organizzata, aumentando l’insicurezza di tutti. Non c’è
futuro senza solidarietà. La legge tra l’altro è inutilmente
crudele. Ci fa tornare ai tempi della discriminazione razziale. È una forma di accanimento contro i poveri anche
se la povertà più grande oggi è la nostra: povertà di coraggio, di umanità, di capacità di scommetter sugli altri, di
costruire insieme una sicurezza comune. La sicurezza basata sulla paura sta diventando un alibi per norme ingiuste e dannose, per scaricare il malessere di molti italiani
sugli immigrati, capro espiatorio della crisi, bersaglio facile su cui sfoghiamo il tramonto di ogni etica condivisa
e della testimonianza cristiana. La tutela della vita e della
dignità umana va assunta nella sua interezza per tutti e
in ogni momento dell’esistenza”.
6 L’intero articolo ritrova la sua abrogazione con la successiva sentenza n. 205 giugno 1999.
131
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
imbarazzo, un aiuto ai passanti. Di qui, il disagio degli organi statali preposti alla repressione
di questo e altri reati consimili – chiaramente
avvertito e, talora, apertamente manifestato –
che è sintomo, univoco, di un’abnorme utilizzazione dello strumento penale”.
La Consulta, forse influenzata dal ricordo
dalle immagini del pensionato Umberto Domenico Ferrari, interpretato dal professore di
glottologia dell’Università degli Studi di Firenze Carlo Battisti, che con una dignitosa ritrosia
chiede la carità nella memorabile opera cinematografica «Umberto D.» diretta da De Sica,
riconosce che “gli squilibri e le forti tensioni
che caratterizzano le società più avanzate producono condizioni di estrema emarginazione, sì che – senza indulgere in atteggiamenti
di severo moralismo – non si può cogliere
con preoccupata inquietudine l’affiorare di
tendenze, o anche soltanto tentazioni, volte
a «nascondere» la miseria e a considerare le
persone in condizioni di povertà come pericolose e colpevoli. Quasi un sorta di recupero
della mendicità quale devianza, secondo linee
che il movimento codificatorio dei secoli XVIII
e XIX stilizzò nelle tavole della legge penale,
preoccupandosi nel contempo di adottare forme di prevenzione attraverso la istituzione di
stabilimenti di ricovero (o ghetti?) per i mendicanti”. E continua, “ma la coscienza sociale
ha compiuto un ripensamento a fronte dei
comportamenti un tempo ritenuti pericolo
incombente per una ordinata convivenza, e la
società civile – consapevole dell’insufficienza
dell’azione dello Stato – ha attivato autonome
risposte, come testimoniano le organizzazioni
di volontariato che hanno tratto la loro ragion
d’essere, e la loro regola, dal valore costituzionale della solidarietà”.
Nella sentenza compare a questo punto una
frase che è bene tenera a mente perché verrà
implicitamente ed in negativo utilizzata, dal
Giudice di Pordenone, per ravvisare un ulteriore aspetto di anticostituzionalità nell’articolo 10 bis; la Corte, infatti, rileva: “d’altra parte, i
paventati effetti di ulteriore affollamento delle
carceri e d’un accrescimento del carico penale
sono irrealistici e comunque potranno essere
scongiurati se e in quanto si consoliderà l’inLibertà di migrazione
issn 2035-584x
dirizzo del legislatore verso la «depenalizzazione»”. In buona sostanza, pur non ritenendo
rilevante l’osservazione per la quale gli istituti
di pena sono già così affollati che appare del
tutto irragionevole pensare di comprimervi
dentro anche i rei di accattonaggio, la Corte invita il legislatore a ripensare, anche sotto questa luce, le sue politiche penali.
La Consulta conclude che “in questo quadro”,
il quale comprende sia la mutata percezione
sociale dell’accattone, sia la constatazione della sua non pericolosità sociale, sia, da ultimo,
aggiungiamo noi, l’irragionevolezza di sovraccaricare il sistema penale nel suo complesso
con dei poveracci che chiedono la carità senza
disturbare nessuno, “la figura criminosa della
mendicità non invasiva appare costituzionalmente illegittima alla luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun
modo necessario il ricorso alla regola penale.
Né la tutela dei beni giuridici della tranquillità pubblica, con qualche riflesso sull’ordine
pubblico, può dirsi invero seriamente posta in
pericolo dalla mera mendicità che si risolve in
una semplice richiesta d’aiuto”.
Fin qui il Giudice delle leggi del 1995, che
abroga il primo comma dell’articolo 670 del
Codice penale.
Su questa falsariga il Giudice di Pesaro ritiene anzitutto che il reato di clandestinità operi
una “gravissima lesione del principio di solidarietà umana e sociale che permea l’intera Costituzione e che è espresso in particolare negli
artt. 2, 3, 4”. Di medesimo avviso appare anche il
magistrato di Voghera, il quale, sia pur attraverso altre argomentazioni, le quali avremo modo
d’osservare, ritiene anch’egli che tale reato sia
“in contrasto con l’impegno dello Stato di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo
e con il principio di solidarietà sociale, entrambi sanciti dall’art. 2 della Costituzione”.
Ciò che però più conta per il Giudice di Pesaro, sempre in tema di solidarietà sociale, è la
ratio della disposizione, la quale permette di
riconoscere che “un criterio di razionalità, di
perversa razionalità, c’è e consiste nell’obiettivo e nella predisposizione di strumenti idonei
a rendere la vita impossibile all’immigrato non
regolare, a fare terra bruciata intorno a lui, a
132
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
minare radicalmente la possibilità stessa della
solidarietà nei suoi confronti [… tale progetto
si attua con] la configurazione del concorso nel
reato ex art. 110 CP a carico di tutti coloro che
esprimono nei confronti del c.d. «clandestino» concreta e fattiva solidarietà, accogliendolo, ospitandolo, aiutandolo a trovare alloggio,
a nutrirsi e a fare qualche attività per sostentarsi […]. La contravvenzione con ammenda salatissima, inutile e inefficacie per l’immigrato
irregolare, è invece efficacissima nei confronti
di tutti gli altri”7. Si rileva altresì che l’obbligo
di denuncia del clandestino da parte di pubblici
ufficiali e di incaricati di pubblico servizio fa sì
che lo stesso non possa usufruire del godimento di diritti sociali (dall’assistenza sanitaria
all’istruzione) sanciti dall’ordinamento internazionale, più precisamente per il magistrato
in questione, dai “principi del diritto internazionale generalmente riconosciuto”.
Per tanto, “ed in sintesi, la norma introdotta viola la Costituzione perché favorisce e
induce a comportamenti e a prassi che contrastano e mettono a rischio il principio fondamentale della solidarietà umana e sociale,
che la Costituzione, al contrario, pone come
valore primario da realizzare e promuovere
(in particolare artt. 2 e 3)”.
Prima di passare alla argomentazioni in materia di violazione del principio di solidarietà
sociale addotte dal magistrato del lavoro di Voghera, è bene riassumere tutte le cause di illegittimità costituzionale che, a detta del giudice
di Pesaro, inficiano l’articolo 10 bis. Oltre al già
rilevato contrasto con il principio di solidarietà che investe gli articoli 2 e 3 del dettato costituzionale, si ravvisa una violazione del principio di ragionevolezza (“razionalità finalistica,
adeguatezza dei mezzi ai fini, proporzionalità,
rispetto sostanziale dei valori della Costituzione”) che deve informare “l’esercizio dell’attività legislativa in materia penale”; si ravvisa anche la lesione del principio d’uguaglianza e del
principio di personalità della responsabilità
penale (articoli 3 e 27 della Costituzione) “sanzionando penalmente in modo indiscrimina7 L’articolo 110 del Codice penale prevede che “quando
più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna
di esse soggiace alla pena per questo stabilità”.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
to gli stranieri che soggiornano illegalmente
nel territorio dello Stato, presumendone arbitrariamente riguardo a tutti l’esistenza di una
condizione di pericolosità sociale”; la violazione dell’articolo 10 dato che, secondo i parametri assunti dal magistrato pesarese, la configurazione come reato del soggiorno non regolare
dello straniero contravviene di “principi affermati in materia di immigrazione nel diritto
internazionale generalmente riconosciuto” ed
infine vi sarebbe ancora violazione degli articoli 3 e 27 non prevedendo la disposizione il
giustificato motivo dell’ingresso o della permanenza irregolare sul suolo dello stato quale
causa “esimente codificata”, allo stesso modo
in cui è prevista dall’articolo 14 del Testo unico per lo straniero clandestino che si trattenga
nel territorio dello stato in violazione dell’ordine di espulsione impartito dal Questore.
L’ordinanza di Voghera (titolarità
versus godimento dei diritti)
L’ordinanza del Tribunale di Voghera concentra l’attenzione dell’osservatore anzitutto
sulla mancanza di “deroghe all’obbligo di denuncia da parte dell’autorità giudiziaria cui lo
straniero privo di titolo di soggiorno si rivolga per la tutela dei propri diritti (come invece
previsto con riguardo agli operatori sanitari
dall’art. 35, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998 n.
286), ritenendo che ciò pregiudichi il diritto
alla tutela giurisdizionale”. Rammentiamo che
la vicenda sorge all’interno d’una controversia
di lavoro (accertamento dell’esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato e risarcimento
di danni patiti in conseguenza di infortunio
occorso nello svolgimento della prestazione e
di licenziamento intimato verbalmente), ove
l’attore, trovandosi in una condizione di clandestinità, non si è presentato all’udienza (a detta del giudice ricorrente, al fine di evitare una
“pressoché certa condanna e probabile espulsione” ex articolo 10 bis). Per il magistrato del
lavoro, la non previsione legislativa di “una
deroga all’obbligo di denuncia da parte dell’autorità giudiziaria nell’ambito di processi che
attengono alla tutela di diritti dello straniero
privo di titolo di soggiorno, appare in conflitto
133
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
innanzitutto con l’art. 24, commi 1 e 2, della Costituzione”; si tratterebbe pertanto, in primis, di
un pregiudizio della tutela giurisdizionale.
Per inciso, va rilevato che l’argomentazione
qui presentata pare debole; tant’è vero che il
clandestino ha intentato causa contro il datore
di lavoro (in nero) e che il tribunale ha fissato
l’udienza per l’interrogatorio libero delle parti;
la spada di Damocle dell’incriminazione ai sensi
dell’articolo 10 bis ha fatto desistere l’attore dal
presentarsi in udienza, ma certamente non il
tribunale dall’adempiere agli accertamenti del
caso. Sicché il diritto statuito dal primo comma dell’articolo 24, parimenti al diritto di difesa ed alla parità delle parti sancito dall’articolo 111 del dettato, non subiscono pregiudizi
(allo stesso modo in cui non sono pregiudicati
i diritti della difesa del contumace o ancora il
diritto di agire in giudizio a tutela di propri diritti o interessi legittimi, di colui che, per altri
motivi, non si presenti in udienza per non correre il rischio di vedersi, per altri fatti imputatigli, suo malgrado trattenuto).
Certo è anche che, come rileva il giudice del lavoro, la figura di reato in oggetto pregiudica non
poco le concrete possibilità di far valere in giudizio i propri diritti, primi fra tutti il godimento
dei diritti sociali, a chi versa nella condizione di
clandestinità, condizione che denota una situazione di disagio sociale e come tale meritevole
di solidarietà. Da qui il richiamo al principio di
solidarietà che verrebbe anch’esso leso.
Infatti, argomenta più compiutamente il
magistrato, la statuizione di un reato per un
comportamento che viene giudicato dalla stessa Corte costituzionale non sintomatico di una
particolare pericolosità sociale (il richiamo è alla
sentenza n. 78 del 2007, sulla quale ritorneremo) senza prevedere la deroga di cui sopra, che
permetterebbe “di garantire il pieno esercizio di
tutti i diritti di rango costituzionale”, comporta
“un’irragionevole disparità di trattamento tra situazioni egualmente meritevoli di tutela”.
Sicché, se riproduciamo correttamente il
ragionamento del Giudice di Voghera, nonostante la conclamata non pericolosità sociale
del comportamento, la possibilità di provvedere in modo diverso di fronte alla situazione di clandestinità, vedi l’espulsione ammiLibertà di migrazione
issn 2035-584x
nistrativa dello straniero, viene introdotto,
contro il principio di ragionevolezza, il reato
di cui all’articolo 10 bis, il quale di per sé non
solo non tutela beni giuridici o ne sanziona
l’offesa (data l’assenza di pericolosità sociale
del comportamento racchiuso nella figura di
reato), ma, di converso, lede diritti costituzionali quali, nello specifico, l’azione di tutela dei
propri diritti e, più in generale, il principio di
solidarietà nonché precise norme di diritto
internazionale pattizio in materia di esercizio della difesa dei diritti propri al lavoratore
e del godimento dei diritti sociali; per questi
motivi, la irragionevole ed ingombrate figura di
reato deve venire abrogata dall’ordinamento
giuridico italiano.
Nuovamente pare di dover riconoscere la debolezza degli argomenti, dato che la presenza
del reato in oggetto nell’ordinamento italiano
solo in maniera lata ed indiretta inibisce l’esercizio di diritti fondamentali sanciti dal diritto
interno e da quello internazionale (infatti, sia
pur latitante a seguito di un mandato di cattura, chiunque può presentare istanza per far valere i propri diritti o interessi legittimi, sarà la
condizione di latitanza a determinare l’arresto
dello stesso, ma non è la condizione di latitante
ad inibire l’esercizio di diritti riconosciti)8. Può
spiacere che in queste condizioni soggiacciano
persone deboli e, nella maggior parte dei casi,
soggettivamente non pericolosi socialmente,
quali sono gli immigranti clandestini, i quali si
ritrovano in condizioni non dissimili da quelle
proprie ai conclamati membri della criminalità
organizzata, ma non pare che di per sé l’introduzione di tale reato possa arrecare danno al godimento di diritti fondamentali (anche nel citato
mondo della salute, “bene primario ed assoluto
dell’individuo, tutelato dall’art. 32 della Costitu8 Va in proposito richiamato l’articolo 17 del Testo unico il quale prevede che “lo straniero sottoposto a procedimento penale è autorizzato a rientrare in Italia per il
tempo strettamente necessario per l’esercizio della difesa, al sono fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza”.
Pur richiamando espressamente il procedimento penale, la disposizione in oggetto non pare sia assoggettata
da quanto stabilito dall’articolo 14 delle Disposizioni sulla
legge in generale, e che pertanto possa ritrovare, per analogia, applicazione anche negli altri riti del processo.
134
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
zione”, il clandestino viene prima curato, quindi
gode a pieno titolo di questo diritto, e poi, una
volta sanato, si ritrova, se non abbastanza lesto,
a dover intraprendere a ritroso e questa volta
con il viatico delle pubbliche autorità, la via che
lo ha condotto in Italia).
Sicché non pare che, per questi motivi la
disposizione in oggetto produca effetti in diretto e palese contrasto con i principi espressi
dagli articoli 117 e 10 del dettato come, invece,
il Tribunale di Voghera afferma.
Ma quel che rileva, prima di passare alla
questione della pericolosità sociale, da cui la
richiamata sentenza n. 78 del 2007, la cui disamina risulta centrale al fine di fondare o
meno il vizio di ragionevolezza della disposizione dell’articolo 10 bis, vi è un altro problema
adombrato dalla ordinanza di Voghera.
Nella stessa, infatti, il magistrato rileva
come la norma censurata, che qui appare in
contrasto con il primo comma dell’articolo 3
della Costituzione, determinando “la disparità
di trattamento nell’accesso alla tutela giurisdizionale e al diritto alla difesa” (la qual cosa non
si ritiene, da parte dello scrivente, pienamente condivisibile), è “fondata sulla mera condizione personale dello straniero, costituita
dal mancato possesso di un titolo abilitativo
all’ingresso e alla permanenza nel territorio
dello Stato, che è poi la condizione tipica del
migrante economico e, dunque, anche una
condizione sociale”. Legando questa constatazione alla mancanza di pericolosità sociale del
comportamento, sopra ipotizzata attraverso
il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale, si palesa all’orizzonte una figura di
reato connotata dalla presenza del cosiddetto
tipo d’autore, ovvero la statuizione nell’ordinamento di una situazione di pericolosità sociale
oggettiva, nella quale verserebbe, al di là cioè
delle personali inclinazioni di un soggetto,
chiunque si trovasse nella condizione descritta dalla fattispecie astratta; in questo contesto
il soggetto risulta pericoloso socialmente in
quanto appartenete ad una data categoria e
soltanto per tale appartenenza è destinatario
di misure repressive9.
9 Per un primo approccio al tema in oggetto si rimanda a L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
L’ordinanza di Cuneo (i limiti della
ragionevolezza e della razionalità
finalistica)
All’articolo 3 della Costituzione si richiama anche il Giudice di pace di Cuneo, il quale,
nell’ordinanza del 16 ottobre 2009, sottolinea,
sulla scorta dell’istanza di remissione alla Corte costituzionale di illegittimità dell’articolo 10
bis, presentata il 15 settembre dello stesso anno
della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino al Giudice di pace torinese, essere tale disposizione in contrasto con il predetto
articolo del dettato in quanto irragionevole; infatti, la potestà legislativa “trova limiti insuperabili nell’osservanza dei principi fondamentali
del sistema penale stabiliti dalla Costituzione e
nell’adozione di soluzioni orientate a canoni di
ragionevolezza e razionalità finalistica; la irragionevolezza della nuova fattispecie criminosa
è chiaramente evidenziata dalla carenza di un
pur minimo fondamento giustificativo: la penalizzazione di una condotta dovrebbe intervenire, come extrema ratio, in tutti i casi in cui non
sia possibile individuare altri strumenti idonei
al raggiungimento dello scopo”. L’ordinamento
ha a disposizione strumenti idonei a limitare
la presenza sul suolo nazionale di clandestini,
in primis l’espulsione amministrativa, già prevista nel Testo unico. Si rileva, intatti, sempre
sulla scorta della Procura torinese, che “la effettiva espulsione in via amministrativa costituisce causa di non procedibilità dell’azione penale, il che rende plasticamente evidente quale
penale, Roma-Bari, 1990, ove l’autore rileva che i modelli di diritto penale autoritario “raggiungono […] la
forma più perversa nello schema penale del cosiddetto tipo d’autore, ove l’ipotesi normativa di devianza è
simultaneamente «senza azione» e «senza evento
offensivo». La legge, in questo caso, non proibisce né
regola comportamenti, ma prefigura status soggettivi
direttamente incriminabili; non ha funzione regolativa, ma costitutiva dei presupposti della pena; non è
osservabile o violabile dall’omissione e dalla commissione di fatti da essa difformi, ma è costitutivamente
osservata o violata da condizioni personali conformi o
difformi”, così a p. 77 del citato testo. Su questo tema
appare utile, fra le molte, anche la lettura dello studio
di A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della
società di controllo, Roma, 2000, che, nel discutere di migranti e di devianti, concentra la sua analisi su forme di
controllo sociale di natura attuariale.
135
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
sia l’interesse primario del legislatore; infine,
non è richiesto alcun nulla osta dell’Autorità
Giudiziaria per l’esecuzione dell’espulsione via
amministrativa, al chiaro scopo di non creare
intralci alla predetta operazione. Orbene, l’evidente finalità della nuova fattispecie incriminatrice, strumentale all’allontanamento dello
straniero irregolare dal territorio dello stato,
ne sottolinea l’assoluta inutilità e, dunque, la
mancanza di una ratio giustificatrice, perché lo
stesso obiettivo era perfettamente raggiungibile prima dell’introduzione della nuova figura
di reato, mediante l’adozione dell’espulsione
coattiva in via amministrativa ai sensi dell’art.
13 co. 4 D. L.vo n. 286/98”.
Come rileva anche il magistrato di Pesaro, l’articolo 3 verrebbe poi violato in considerazione di
una irragionevole disparità di trattamento operata dall’articolo 10 bis rispetto al precedente articolo 14, quinto comma del Testo unico; quest’ultimo prevede la punibilità dello stranero espulso
solo se si trattiene sul territorio dello stato “senza
giustificato motivo”, mentre l’articolo 10 bis non
prevede alcuna clausola giustificativa o, per usare
le parole della Corte costituzionale della sentenza n. 5 del 2004, “valvola di sicurezza”. L’articolo
in questione pertanto “non appare conforme alla
Costituzione, in quanto punisce indiscriminatamente tutti i soggetti irregolarmente presenti nel territorio dello Stato, senza tenere conto
dell’eventuale esistenza di situazioni legittimanti tale presenza, differentemente dall’altra ipotesi
di reato di cui sopra”.
Dopo un richiamo alla violazione dell’articolo
97, dovuto alla inutile ed ingiustificata sopraposizione di due tipi di procedure (provvedimento
amministrativo e processo giudiziario) per ottenere l’espulsione dello straniero irregolare dal territorio dello stato, viene fatta menzione dal Giudice di pace di Cuneo alla violazione degli articoli
24 e 27 del dettato, nella parte in cui statuiscono
il diritto di difesa e la presunzione di innocenza
dell’imputato. Tali diritti verrebbero palesemente violati nel momento in cui l’esecuzione del
procedimento amministrativo di espulsione determina una sentenza di non doversi procedere
dal parte del giudice di merito, ma solo quando la
misura dell’espulsione ha già avuto esecuzione.
All’imputato, meglio all’indagato, è preclusa ogni
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
possibilità di difesa; si palesa pertanto “in concreto una discrezionalità legislativa che si è, nel complesso, orientata ad un principio di presunzione
di colpevolezza, in netto contrasto con l’art. 27, II
comma della Costituzione”.
Quest’ultimo rilevo del Giudice di pace di
Cuneo induce a riflettere, cosa del resto ripresa, sia pure in differente maniera, dal giudice
del lavoro di Voghera, sul problema relativo
alla mera titolarità e non al pieno godimento
dei diritti in ambito giurisdizione che investe
il clandestino e, più in generale, lo straniero
extracomunitario in Italia10.
I rilevi del Giudice di pace di Cuneo in merito alla violazione degli articolo 24 e 27 del
dettato, anche se succintamente argomentati, paiono fondati e fanno palesare una sorta
di ordinamento penale speciale dello straniero
clandestino rispetto a quello in vigore per i cittadini comunitari ed i cittadini stranieri regolari. Di ciò si ha sentore nella sentenza n. 22
del 2007, ove compare l’espressione “«diritto
penale speciale» in conflitto, per sua stessa
natura, con i parametri costituzionali”11. Va
ribadito che in una ancor più recente sentenza la Corte stessa ha riconosciuto ancora una
volta, avuto riguardo all’articolo 10 del detta10 Sull’argomento si sofferma specificatamente Andrea
Pugiotto nella sua relazione su “Purché se ne vadano”. La tutela
giurisdizionale (assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello straniero al Convegno nazionale della Associazione
Italiana dei Costituzionalisti, richiamato in nota 3.
11 Cfr. ibidem, nonché G. Savio, Il diritto degli stranieri e i limiti del
sindacato della Corte costituzionale: una resa del giudice delle legge?,
in “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, IX (2007), n. 1, il quale
sottolinea che “la Corte deve aver pensato che sia giunta l’ora di
una revisione organica e completa della materia, che superi i limiti angusti connessi ad una visione del fenomeno migratorio
in termini esclusivamente di ordine pubblico. E questa è una
questione politica. Quando si legge che la Corte «non può, in
ogni caso, procedere ad un nuovo assetto delle sanzioni penali
[…] giacché mancano nell’attuale quadro normativo in subiecta
materia precisi punti di riferimento che possono condurre a
sostituzioni costituzionalmente obbligate», vuol dire che è la
normativa sull’immigrazione ad essere intrinsecamente in
contrasto con i parametri costituzionali, poiché non offre, al
suo interno, punti di riferimento costituzionalmente orientati
tali da consentire un riassetto mirato a correggere le asimmetrie esistenti”, p. 84. Sulla sentenza in oggetto si può consultare
anche il commento di D. Brunelli, La Corte costituzionale “vorrebbe
ma non può” sulla entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa, in “Giurisprudenza
costituzionale”, LI (2007), n. 1, pp. 181-189.
136
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
to, l’obbligo di “garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall’appartenenza a determinate entità politiche” ed
il divieto di introdurre “discriminazioni nei
confronti degli stranieri”, così la sentenza n.
306 del luglio 2008.
L’ordinanza di Pordenone (il problema
della offensività della condotta)
Le osservazioni prodotte dal Giudice di
pace di Pordenone appaiono parimenti utili
al fine di indagare la presunta anticostituzionalità dell’articolo in questione; il magistrato
rileva, da prima, che la figura di reato prevista dall’articolo 10 bis, che pur presenta tutti i
crismi relativi al principio di legalità, appare
carente sotto il profilo del principio di colpevolezza e del principio di offensività.
Se, per quanto concerne la questione relativa alla colpa, il giudice si limita a rilevare
che “la funzione educativa della pena verrebbe compromessa nell’ipotesi di previsione di
una sanzione penale a carico di un soggetto
resosi responsabile di una mera disobbedienza, in quanto il soggetto abbia commesso un fatto
inoffensivo non riuscirebbe a comprendere la ragione della punizione” (va rilevato che nell’ordinanza non si fa menzione alla sentenza della
Corte costituzionale n. 364 del marzo 1988),
il principio di offensività, ovvero l’assenza di
un atto di per sé lesivo proprio alla condizione di clandestinità, attira specificatamente al
sua attenzione.
In proposito rileva, per un verso che “affinché possa configurarsi un reato, occorre
un comportamento che, oltre a corrispondere alla fattispecie descritta dalla norma, sia
colpevole ed offensivo, idoneo, cioè, a ledere o
porre in pericolo un bene costituzionalmente significativo o comunque non incompatibile con la Costituzione”, per altro che la Corte costituzionale con sentenza n. 78 del 2007,
ha definito che “«il mancato possesso del titolo abilitativo alla permanenza nello Stato»
da parte dello straniero non può considerarsi
reato, in quanto non è di per sé idoneo a produrre una particolare pericolosità sociale”;
tutto ciò implica che per la Corte “la mera
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
condizione di clandestino non può considerarsi idonea a porre seriamente in pericolo la
sicurezza pubblica”.
Sottolineando anche che l’ordinamento
giuridico può prevedere una sanzione penale solo in mancanza di alternativi strumenti
idonei ad arginare il fenomeno in oggetto,
“mentre nel caso di specie, la nuova figura di
reato si sovrappone integralmente a quella
dell’espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce la sua assoluta irragionevolezza”, il magistrato pordenonese,
richiamando la sentenza n. 519 del 1995,
ritiene che “il legislatore, quindi, non può
delineare fattispecie incriminatrici che prescindano dall’esistenza dell’offesa ad un bene
giuridico”. Infatti, per il magistrato autore
dell’ordinanza, “il concetto di bene giuridico
[…] impone un limite nelle scelte del legislatore”. Su questo punto, come vedremo in seguito, consente ampiamente anche il Giudice
di pace di Agrigento.
Dal Tribunale della città friulana ci giungono altre due considerazioni che rendono
l’illegittimità di tale disposizione non manifestatamente infondata. Per un verso, l’applicazione della disposizione legislativa “rischia di
aggravare la crisi degli uffici giudiziari” perché
“la macchina giudiziaria verrà onerata di un
carico di lavoro tale da incidere pesantemente
sul buon funzionamento degli uffici”, pertanto, l’articolo 10 bis sarebbe “in evidente contrasto con l’art. 97 Cost.”; per altro, l’impossibilità
di far ricorso nel reato di ingresso e soggiorno
clandestino, da parte del contravventore, all’articolo 162 del Codice penale, il quale permette,
attraverso il pagamento delle eventuali spese
processuali e di un terzo della pena pecuniaria
comminata di estinguere il reato. Tale mancanza di previsione darebbe vita a un conflitto con
il principio di uguaglianza sancito dall’articolo
3 del dettato costituzionale.
Forse dal divieto di oblazione della contravvenzione, previsto dal legislatore, che porterebbe all’estinzione del reato, si può dedurre che la
ratio legis sottendente al reato di clandestinità
sia quella di dover arginare un grave pericolo
sociale, così grave da impedire al legislatore
di consentire al contravventore di poter estin137
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
guere il reato con il semplice pagamento in via
preventiva di un terzo dell’ammenda massima
prevista. Se così fosse, la ipotetica discriminazione rilevata dal giudice pordenonese ritroverebbe giustificazione nella oggettiva pericolosità sociale del comportamento, il quale però,
due anni prima della statuizione della fattispecie in questione, era stato altrimenti definito
dalla Corte costituzionale stessa; d’altro canto,
non si comprende la ragione del perché il legislatore, a fronte di un così grave pericolo sociale, non abbia rubricato la condizione di clandestinità fra i delitti e non, come avvenuto, fra le
contravvenzioni, e non abbia pertanto comminato, accanto alla sanzione pecuniaria, anche la
pena detentiva della reclusione.
Al di là di queste considerazioni, che verranno riprese in fase conclusiva, va rilevato
che il magistrato pordenonese, nel concentrare di fatto la sua ordinanza sulla mancanza
di ragionevolezza del provvedimento legislativo, che istituisce il reato di clandestinità, e
questo punto si ritrova evidenziato sia pur
declinato in diversa maniera, anche nelle ordinanze di Pesaro, Voghera e di Agrigento,
parimenti alla lesione del principio di uguaglianza, che tutte le ordinanze hanno, da diversi punti di vista, posto in rilievo, abbia a
sua volta posta la questione relativa alla lesione dell’articolo 97 della Costituzione, nella
parte in cui statuisce il principio di buon andamento delle pubbliche amministrazioni.
A prima vista tale rilevo appare, come quello proposto dall’ordinanza di Cuneo, se non totalmente incongruo, quanto meno debole; in
proposito va sottolineato come la Corte costituzionale nella sentenza n. 5 del 2004 abbia ribadito che “la giurisprudenza di questa Corte è
costante nel ritenere che il principio del buon
andamento della pubblica amministrazione,
pur potendo riferirsi anche all’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle
leggi concernenti l’ordinamento degli uffici
giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, mentre e del tutto estraneo
all’esercizio della funzione giurisdizionale”.
Pertanto, sotto questo profilo non vi sarebbe
spazio per un rilevo di illegittimità costituzionale, che non sia manifestatamente infondato.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
Va però rammentato, a parziale sostengo della
tesi uscita dal Tribunale di Pordenone, come
la stessa Corte, nella qui più volte richiamata
sentenza n. 519 del 1995 abbia, proprio avuto
riguardo all’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, fatto menzione alla necessità
di un processo di depenalizzazione al fine di
scongiurare un “accrescimento del carico penale”; è ben vero che la Corte in tale sentenza
ritiene non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 670, secondo comma, in riferimento al primo comma dell’articolo 97 del dettato, e pertanto, con ogni probabilità, rigetterà lo specifico rilevo al predetto
articolo del magistrato pordenonese, ciò non
di meno la questione sollevata, se non palesa
rilevanza di legittimità costituzionale, quanto
meno riveste un’indubbia centralità nell’ambito delle politiche legislative.
L’ordinanza di Agrigento (i vincoli
internazionali)
Chiusa la digressione, esaminiamo le motivazioni che hanno indotto il Giudice di pace di
Agrigento ad addire alla Corte costituzionale.
Se nell’ordinanza del dicembre dello scorso
anno si ritrovano, in buona sostanza, questioni
già sollevate dalle ordinanze precedentemente
esaminate, vi è in questa un elemento innovatore, che va con attenzione esaminato.
Per quanto riguarda le prime questioni, vanno richiamate dall’ordinanza le osservazioni in
merito alla violazione del principio di offensività della legge racchiuso negli articoli 25 e 27 del
dettato dai quali si desumerebbe, con particolare riguardo a pronunce della Corte, il non essere “invero, consentito, che – per finalità di mera
deterrenza – siano introdotte sanzioni che non
si ricollegano a fatti colpevoli ma, piuttosto,
a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore, anche potenziale, per
un determinato bene giuridico che si deve proteggere”. Non essendo, come più volte rilevato,
per la Corte costituzionale “il mancato rispetto
delle norme sull’ingresso o sulla permanenza
nel territorio dello Stato […] di per sé indice di
pericolosità sociale”, il magistrato deduce che
l’incriminazione per un reato che è “espressio138
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
ne di una condizione individuale, la condizione
di migrante […] assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante, tra le altre
cose, con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale in base alla quale si può
essere puniti solo per fatti materiali”.
Implicitamente ricollegandosi alle osservazioni del giudice pordenonese, ritiene che
la sanzione penale sia soltanto una extrema ratio, che interviene nel caso in cui lo scopo protettivo non possa altrimenti venire raggiunto.
In presenza del provvedimento amministrativo di espulsione questa appare priva di fondamento; infatti, “appaiono evidenti sia la
piena corrispondenza della sfera applicativa
della nuova figura di reato con l’area dei casi
per i quali era già – ed oggi continua ad essere – prevista l’espulsione amministrativa o di
respingimento differito e sia il carattere obiettivamente superfluo della sanzione penale,
testimoniato dalla chiara volontà legislativa
di privilegiare risultati (l’effettivo allontanamento dello straniero clandestino o irregolare) ottenibili attraverso l’uso di strumenti
amministrativi già esistenti prima della riforma, alla cui concreta operatività ostavano
non già carenze normative bensì difficoltà
di carattere amministrativo/organizzativo”.
La norma si palesa pertanto in violazione dei
principi di ragionevolezza, proporzionalità e
sussidiarietà della legge penale (ex articoli 3,
25 e 27 della Costituzione).
Il principio di uguaglianza verrebbe
violato vuoi attraverso la “applicazione
della condanna penale nei confronti di un
soggetto la cui condotta in nulla si discosta da quella di un altro soggetto, il quale,
tuttavia, per il verificarsi di condizioni che
prescindono dalla sua volontà e dalla sua
azione (l’esecuzione del provvedimento
di espulsione e di respingimento nei suoi
confronti) e, comunque, in assenza di una
valida ragione che giustifichi al disparità di
trattamento, deve essere prosciolto”, vuoi
per la mancanza di previsione nell’articolo
10 bis, a differenza dell’articolo 14, comma
quinto ter, dello stesso testo unico, di “giustificati motivi che potrebbero determinare le condotte punite”.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
L’elemento innovatore, a cui si era fatto
cenno, riguarda l’argomentazione prodotta
in proposito della violazione dell’articolo 117
della Costituzione, con esclusivo riguardo al
comma primo, il quale dispone, come noto,
che la potestà legislativa si eserciti nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Argomento questo già presente nelle ordinanza
di Pesaro e di Voghera, ma qui sviluppato con
particolare originalità e cogenza.
L’ordinanza del Giudice di pace di Agrigento
richiama il Protocollo addizionale della Convenzione della Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico
di migranti via terra, via mare e via aria, sottoscritto nel corso della conferenza di Palermo, tenutasi il 12-15 dicembre 2000.
All’articolo 5 del succitato Protocollo gli stati
firmatari si impegnano acciocché “i migranti
non diventino assoggettati all’azione penale
fondata sul presente Protocollo per il fatto di essere stati oggetti delle condotte di cui all’articolo 6”, ovvero di essere stati oggetto di “traffico di
migranti” nelle sue varie articolazioni. Ai sensi
dell’articolo 16 del Protocollo qui richiamato,
“ogni Stato parte prende […] misure adeguate,
comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i diritti delle
persone che sono state oggetto delle condotte
di cui all’articolo 6 del presente Protocollo”.
Il magistrato rileva che, rebus sic stantibus,
l’articolo 10 bis, introducendo il reato di clandestinità contravvenga con quanto previsto
dall’articolo 5 del Protocollo, ovvero l’impegno
assunto a non assoggettare ad azione penale
quanti sono stati oggetto di “traffico di migranti”, e che, pertanto, il legislatore ordinario con
la legge 94 del luglio 2009 sia venuto meno al
vincolo costituzionale contenuto nell’articolo
117. Posta la questione in altri termini, il legislatore ordinario avrebbe aggirato la limitazione di sovranità consentita con l’adesione al
Protocollo e prevista all’articolo 11 del dettato.
Va in ogni caso rilevato che il richiamo al
Protocollo fa emergere dal genere clandestini
una sola particolare specie, ovvero esclusivamente coloro che sono stati oggetto di traffico da parte altrui; lo scopo del Protocollo, come
139
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
recita l’articolo 2 dello stesso, è ”di prevenire
e combattere il traffico di migranti, nonché
quello di promuovere la cooperazione tra gli
Stati Parte a tal fine, tutelando al contempo i
diritti dei migranti oggetto di traffico clandestino”. Sicché dallo stesso risulterebbero esclusi coloro che siano entrati e soggiornino illegalmente sul territorio dello stato senza, per
così dire, aver usufruito di servizi da parte della
criminalità organizzata. Certo è che, al di là di
ogni constatazione quantitativa sul fenomeno,
dovrebbero essere non assoggettati all’azione
penale i clandestini che sono stati oggetto di
“traffico di migranti”, e, pertanto, una figura di
reato che indistintamente ricomprende tutti
i clandestini appare, alla luce di quanto sopra
esposto, costituzionalmente illegittima.
Le argomentazioni qui proposte appaiono,
a prima vista, forti e verranno riprese in fase
di conclusioni.
Su alcuni orientamenti della Consulta
Appare d’uopo cercare di riassumere le posizioni sopra espresse e richiamate dalle varie
ordinanze di rinvio al fine di compararle con
gli orientamenti della Consulta in materia.
Per intanto rileviamo che i magistrati di
Pordenone e di Cuneo, sostanzialmente con
motivazioni simili, richiamano la violazione dell’articolo 97 della Costituzione contente il principio di efficacia ed efficienza della
pubblica amministrazione, il quale verrebbe
inficiato da un’irragionevole mole di lavoro
riversatasi sulla autorità giudiziaria a seguito
della istituzione del reato di clandestinità, reato, come sopra osservato inutile, in quanto le
medesime finalità possono, nell’ordinamento
vigente, venire perseguite per mezzo di provvedimenti amministrativi, quali l’espulsione
intimata dal Questore. In proposito, come già
osservato, la Corte ha ribadito, nella sentenza
n. 5 del 2004, che “la giurisprudenza di questa
Corte è costante nel ritenere che il principio
del buon andamento della pubblica amministrazione, pur potendo riferirsi anche all’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento
degli uffici giudiziari e il loro funzionamento
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
sotto l’aspetto amministrativo, mentre è del
tutto estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale”, sicché questioni di legittimità
costituzionale come quelle proposte nelle ordinanze di Pordenone e di Cuneo andrebbero
dichiarate, secondo questo consolidato indirizzo, come non fondate. Si rammenta che in
occasione dell’abrogazione dell’articolo 670,
primo comma del Codice penale, la Corte, nella qui richiamata sentenza 519 del dicembre
1995, ritenesse irrealistici “i paventati effetti
di ulteriore affollamento delle carceri e d’un
accrescimento del carico penale” e dichiarava
non fondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’articolo 670
in riferimento all’articolo 97 del dettato.
Pare pertanto che anche questa volta il rilievo sollevato ritrovi il diniego della Corte.
Un forte portato emotivo assume il riferimento effettuato dai magistrati di Pesaro e di
Voghera al principio di solidarietà fondante
l’ordinamento costituzionale italiano e sul
quale la Corte si è ampiamente soffermata nella più volte citata sentenza n. 519 del 1995.
In proposito ad un necessario allargamento
del principio di solidarietà anche agli stranieri
che versano in una condizione di clandestinità
si può senza ombra di dubbio richiamare, per
la speculare similitudine con il nostro caso, la
sentenza n. 269 del 16 dicembre 1986, ove in
merito al problema della presenza nell’ordinamento di disposizioni inibitorie del fenomeno
emigratorio, retaggio di una politica demografica posta in essere a cavallo delle due guerre
mondiali, la Corte riconosceva, anzitutto, che
“non va dimenticato che l’emigrante è soggetto economicamente debole, che versa in situazioni di particolare bisogno e che, pertanto,
è razionale che sia tutelato dallo Stato contro
speculazioni, inganni ed errori”, ma soprattutto e con veemenza, richiamandosi anche
ai lavori della Costituente, come “la libertà
d’emigrazione è costituzionalmente, ed in maniera espressa, sancita; allorché, come è stato
esplicitamente dichiarato da alcuni Costituenti, essa deve rimanere, quanto più possibile,
scevra da limiti (solo eccezionalmente può
essere condizionata da obblighi derivanti dal
bene comune, dalla tutela di interessi generali
140
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
d’una comunità democraticamente orientata);
allorché tale libertà non soltanto non è guardata con sfavore ma è «riconosciuta» come bene,
valore fondamentale, realizzativo della personalità umana (non nasce, infatti, quale «graziosa concessione» dello Stato) essa va tutelata e garantita”. Ancora la Corte nella sentenza
del 1986 insiste sull’originalità di tale diritto;
infatti, “non è pensabile che la Costituzione
vigente conceda o permetta al legislatore ordinario monopolii tesi ad indirizzare arbitrariamente (per fini contingenti) l’emigrazione:
un legislatore che, ancorato a visioni arretrate
del fenomeno emigratorio, ritenesse, oggi, di
poterlo determinare autoritariamente, come
anonimo fenomeno di massa, si porrebbe nettamente contro la Costituzione”.
È ben vero che la Corte in questa sentenza
ha di fronte il caso del fenomeno della emigrazione italiana nel mondo12, e non quello specifico dell’immigrazione dal terzo mondo verso
l’Italia, che investe la società contemporanea,
pur tuttavia, la sentenza in oggetto consente
una lettura speculare del fenomeno, tanto da
poter trarre della indicazioni in merito al trattamento della figura, più generale e comprensiva delle specie sopra indicate, del migrante:
infatti, come è stato sottolineato, “di fronte
ad una lettura tanto valorizzante della visione costituzionale del fenomeno migratorio,
che pone al centro del progetto migratorio la
persona umana con la sua proiezione, costituzionalmente garantita, al libero sviluppo di sé,
mi sembra che i, pur necessari, distinguo tra la
posizione del cittadino emigrante e quella dello
straniero immigrato, non possano far ritenere
costituzionalmente accettabile che il legislatore orienti le politiche sull’immigrazione in
chiave di disciplinamento autoritario, scordando l’irriducibile e primaria qualità umana
dei soggetti migranti”13.
12 Si rimandiamo in proposito al contributo di Laura
Capuzzo, Emergenza comunicazione per gli italiani nel mondo,
apparso sullo scorso fascicolo di codesta Rivista.(http://
www.openstarts.units.it/dspace/handle/10077/3410 )
13 B. Pezzini, Lo statuto costituzionale dei non cittadini: i
diritti sociali relazione presentata al Congresso dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Cagliari 16-17 ottobre 2009 (citiamo dalla versione provvisoria reperibile
sul sito www.associazionedeicostrituzionalisti.it, p. 30).
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
Tenuto conto di tali orientamenti non v’è
dubbio che la Corte possa richiamare ancora
una volta il legislatore a utile riflessione in materia di immigrazione (questa volta con particolare riguardo al reato di clandestinità), cosa
del resto di recente avvenuta nella sentenza
n. 22 del 2007, anche in ragione del fatto che,
come la stessa Corte ebbe a riconoscere, la società contemporanea è “comunità di diritti e
di doveri, più ampia e comprensiva di quella
fondata sul criterio di cittadinanza in senso
stretto, accoglie ed accomuna tutti coloro che,
quasi come una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo
quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là
dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo
e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi
doveri di solidarietà, prescinda del tutto, per
l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza”,
così nella sentenza n. 172 del maggio 1999.
Appare pertanto probabile che la Corte ritenga, come nel caso della sentenza del 2007
sopra richiamata, che queste argomentazioni
non possano “rendere ammissibile una pronuncia”, riproducendo nuovamente il non
possumus che ha caratterizzato la sentenza del
gennaio del 200714.
14 Vedi in argomento le osservazioni critiche di Andrea
Pugiotto, “Purché se ne vadano”. La tutela giurisdizionale
(assente o carente) nei meccanismi di allontanamento dello
straniero, cit., pp. 43-44. L’autore richiama anche i contributi di D. Brunelli, La corte costituzionale “vorrebbe ma
non può” sulla entità delle pene: qualche apertura verso un
controllo più incisivo della discrezionalità legislativa, cit. e
G. Savio, Il diritto degli stranieri e i limiti del sindacato della
Corte costituzionale, cit. In proposito Brunelli rileva, nel
testo qui richiamato, come la Consulta, in tale occasione
fosse stata investita da ordinanze relative alla parte comminatoria e non precettiva della norma penale e che, per
quanto “la parte sanzionatoria della norma penale incriminatrice non sia territorio libero per le scorribande
politico-criminali del legislatore […] lo scrutinio circa la
ragionevolezza e la proporzionalità della comminatoria
penale si materializza presentando molti coni d’ombra,
quasi circondato da tabù e sospetti”; viceversa “la Corte
costituzionale in più di una occasione ha mostrato di
poter interloquire sulle scelte politico-criminali operate dal legislatore […]. In particolare il principio di sussidiarietà del diritto penale, il principio di offensività,
il principio di colpevolezza, oltre al principio di ragionevolezza, si sono trasformati da enunciazioni dottrinali concernenti il volto del diritto penale moderno a
parametri di valutazione di quelle scelte, perfettamente
141
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Va sottolineato che tutte le ordinanze qui
richiamate rilevano, sia pure in campi diversi, la violazione del principio d’uguaglianza;
da Pesaro giunge il richiamo all’assunzione
presupposta della pericolosità sociale del comportamento in oggetto senza l’obbligo di alcun
accertamento dello stesso nel caso di specie;
tale posizione emerge anche dal giudice del
lavoro di Voghera che pone l’accento su una
discriminazione fondata su base e dati personali; da Tribunale di Pordenone si sottolinea la
discriminazione operata dalla non applicabilità dell’articolo 162 del Codice penale ed infine
Agrigento e Cuneo sottolineano una disparità
di trattamento dato che, come rileva il magistrato di Agrigento, “la esecuzione dei provvedimenti di espulsione e/o respingimento è
rimessa alla discrezionalità (ed alla disponibilità di mezzi) dell’Autorità amministrativa,
senza che nessun rilievo ricoprano a tal fine
la volontà e le azioni dello straniero, l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche
potrà determinare effetti diversi (sentenza di
condanna o di non luogo a procedere) in forza di circostanze assolutamente estranee alla
sfera di intervento degli imputati”. Il Giudice
di pace di Cuneo rileva altresì una disparità,
che sorge dalla lesione del diritto di difesa, che
in qualche modo muove anche l’ordinanza di
Voghera, nonché la lesione del principio della
presunzione di innocenza.
È fuori dubbio che queste argomentazioni
abbiano il loro peso nella futura pronuncia
della Corte, non ultima quella relativa alle diverse ed ingiustificate conseguenze prodotte
da una espulsione a seguito di condanna rispetto a quelle relative ad una espulsione eseguita dall’autorità amministrativa, a seguito
della quale si palesa un non luogo a procedere.
compatibili con il principio democratico, che impone la
legalità in materia penale come baluardo del monopolio
riservato in materia alla volontà parlamentare”. Sicché
non appare del tutto improbabile che, stante alle considerazioni svolte da Brunelli e da Savio, la Consulta possa, questa volta, affondare “il coltello nella carne e nel
sangue della fattispecie criminosa, valutandone il volto
in termini di reale contenuto offensivo [… riconoscendo
…] che la norma rischia di punire condotte di mera disobbedienza poste in essere da soggetti non pericolosi”,
estrapoliamo ancora dal contributo di Brunelli.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
Non pare invece che possa presentare problemi di lettura costituzionale il comma secondo
dell’articolo 10 bis ove prevede che l’azione penale non si applichi “allo straniero destinatario del provvedimento di respingimento”, di
cui all’articolo 10, comma primo del Testo unico, ai sensi del quale “la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi
di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal
presente testo unico per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Il respingimento si palesa quale misura preventiva alla commissione di un
reato, ovvero all’ingresso clandestino nel territorio dello stato; in assenza della materialità
del fatto, non si palesa il reato.
Al di là di ciò pare dalla lettura delle ordinanza che il punto su cui tutte convergano nel ritenere non manifestatamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale sia il duplice
problema della ragionevolezza e della razionalità finalistica della disposizione in oggetto.
I dubbi in merito a questi problemi si declinano in più punti e su questi pare possa venire
decisa la questione sottoposta alla Corte.
Tutte le ordinanze, con eccezione di quella
presentata dal giudice del lavoro di Voghera15,
concordano nel rilevare che, in generale, la
sanzione penale quale reazione ad un’offesa
di un bene giuridico è da impiegarsi, nell’ordinamento vigente, come extrema ratio, e
soltanto quando l’ordinamento non preveda
alcuna via alternativa per reagire ad un comportamento offensivo. Viene più volte rilevato che l’ordinamento prevede, nel Testo unico, la misura dell’espulsione dello straniero
illegalmente presente sul suolo nazionale;
tale misura è ritenuta sufficiente al fine della
tutela del bene giuridico. Vi è anche da considerare che la misura di sicurezza e la pena
conseguente al reato di cui all’articolo 10 bis,
operano nello stesso ambito, tanto da provocare una inutile e, come rilevato, dannosa sovrapposizione di competente amministrative
e giurisdizionali, che porterebbero alla violazione di principi costituzionali (dal principio
di uguaglianza, al principio di efficacia ed efficienza della pubblica amministrazione).
15 Va in ogni caso tenuta presente la specificità dell’ambito in cui sorge l’ordinanza sopra richiamata.
142
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
A fronte della non ragionevolezza della compresenza nell’ordinamento della statuizione di
due differenti modelli di reazione alla violazione del bene giuridico, l’uno ascrivibile alle misure di sicurezza e l’altro alle pene, le ordinanze
in oggetto sottolineano l’acclamata non pericolosità sociale del comportamento descritto nella
fattispecie racchiusa nell’articolo 10 bis (ingresso e soggiorno illegale nel e sul territorio dello
stato). In proposito richiamano la stessa Corte
costituzionale, che, con sentenza n. 22 del gennaio 2007, ha rilevato, in merito all’articolo 14
del Testo unico, che “il reato di indebito trattenimento nel territorio nazionale dello straniero
espulso riguarda la semplice condotta di inosservanza dell’ordine di allontanamento dato dal
questore, con una fattispecie che prescinde da
una accertata o presunta pericolosità sociale dei
soggetti responsabili”. Sicché, due anni prima
dell’entrata in vigore della disposizione contenente il nuovo reato di clandestinità, la Corte
aveva riconosciuto la non oggettiva pericolosità
sociale di tale comportamento.
Tale tendenza viene ribadita dalla stessa
Corte nella sentenza n. 78 del marzo dello stesso anno, nella quale viene rimarcato, in proposito della misura dell’affidamento in prova
al servizio sociale di un clandestino detenuto
e preclusa dal giudice di legittimità, che “tale
preclusione risulta collegata in modo automatico ad una condizione soggettiva – il mancato
possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato – che, di per
sé, non è univocamente sintomatica né di una
particolare pericolosità sociale […] né della sicura assenza di un collegamento col territorio
[…]. In conseguenza di siffatto automatismo,
vengono quindi ad essere irragionevolmente
accomunate situazioni soggettive assai eterogenee: quali, ad esempio, quella dello straniero
entrato clandestinamente nel territorio dello
Stato in violazione del divieto di reingresso e
detenuto proprio per tale causa, e quella dello
straniero che abbia semplicemente omesso di
chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno
e che sia detenuto per un reato non riguardante la disciplina dell’immigrazione”.
Ciò che preme sottolineare è che la Corte
pone in rilievo nella sentenza qui richiamata
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
due elementi: per un verso, la possibile radicalizzazione del clandestino nella società civile,
tanto da non poter escludere un collegamento
con il territorio, la qual cosa evoca quell’idea di
“comunità di diritti e di doveri”, richiamata nella sentenza n. 172 del maggio 1999 sopra citata,
della quale sarebbe parte anche il clandestino
detenuto, la cui appartenenza renderebbe, nel
caso di specie, possibile “la proficua applicazione della misura” alternativa alla detenzione; per
altro la Corte evidenzia, esemplificando, l’illegittima similitudine fra figure di clandestinità
diverse per motivazioni soggettive. Similitudine che invece appare fondante la ratio del reato di clandestinità, che pone sullo stesso piano
l’ingresso illegale nel territorio dello stato con
il mancato rinnovo del permesso di soggiorno,
senza, fra l’altro, contemplare richiami al giustificato motivo, che è invece presente all’interno dell’articolo 14 del Testo unico e, in quanto
clausola di carattere elastico “assolve al ruolo,
negativo, di escludere la punibilità di condotte
per il resto corrispondenti al tipo legale”, così la
Corte nella sentenza n. 5 del gennaio 2004 ove,
fra l’altro, si stabilisce, proprio in proposito del
carattere elastico della clausola, “la verifica del
rispetto del principio di determinatezza va condotta non già valutando isolatamente il singolo
elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi della fattispecie e con
la disciplina in cui questa si inserisce”.
Da quanto accennato, la fattispecie sarebbe
il frutto della “tendenza alla configurazione
normativa di «tipi d’autore»”, che la Corte ha
censurato con la sentenza n. 306 del 1993, tendenza non giustificata, all’interno del vigente
ordinamento penale, nemmeno da una conclamata pericolosità sociale del comportamento,
e questa presunzione è stata più volte esclusa
dalla Corte nel corso del 2007.
Tutto ciò vanificherebbe, come sottolineato dal
Giudice di pace di Agrigento, la funzione rieducativa della pena, di cui all’articolo 27 della Costituzione. Infatti, la presupposizione della presenza
di reati configurati come tipi d’autore, per la stessa
Corte costituzionale, ha come conseguenza che,
per gli autori degli stessi, “la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita”, ancora dalla sentenza n. 306 del 1993.
143
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
Pericolosità sociale e limiti della reazione
difensiva
La questione relativa alle finalità della pena
potrebbe essere, fra i molti possibili, un fulcro
intorno a cui raccogliere ed ordinare le argomentazioni e su cui appoggiare le riflessioni
favorevoli o contrarie alla legittimità costituzionale della disposizione penale in oggetto16.
Come abbiamo notato, nel caso di specie,
il principio di ragionevolezza del precetto
penale si declina in varie maniere, ma si può
presumere che l’articolo 10 bis risulti ragionevole (anche avuto riguardo alla constatazione
della presenza nell’ordinamento della misura
di espulsione dello straniero clandestino) nel
momento in cui si sostenga che alla fattispecie
corrisponda, per il comportamento descritto,
nella realtà sociale un grave (gravissimo) pericolo sociale, che scuota le basi stesse della civile
convivenza, un fenomeno altamente lesivo in
nessun altro modo fronteggiabile che attraverso la criminalizzazione e repressione dello
stesso. Occorre pertanto che le obiezioni poste
dalla Corte nel 2007 siano superate a fronte
della constatazione della minaccia all’ordine
costituito. Sarà il riconoscimento della diffusa
pericolosità sociale del comportamento a giustificare all’intero dell’ordinamento giuridico
vigente la presenza di misure estreme, che
possono portare, come nel caso della cosiddetta criminalità organizzata, ad un riposizionamento dei principi fondanti ed informanti
nell’ordinamento la funzione della pena, sino
a giungere, nei limiti dei principi costituzionali, ai confini, senza mai superarli, di un ordinamento penale speciale.
Va riconosciuto come, già all’indomani della sentenza n. 364 del marzo del 1988, la Corte
riconosce, con la sentenza n. 282 del maggio
del 1989, che “non è dato delineare una statica, assoluta gerarchia tra le finalità” della pena;
“è certo necessario, indispensabile, di volta in
volta, per le varie fasi (incriminazione astratta,
commisurazione, esecuzione) o per i diversi
16 Il tema della funzione rieducativa della pena era stato
oggetto di argomentazione nel intervanto apparso sullo scorso fascicolo di codesta Rivista ed a cui si fa riferimento nella nota 1.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
istituti di volta in volta considerati, individuare a quale delle finalità della pena, ed in che
limiti, debba esser data prevalenza ma non
è consentito stabilire a priori, una volta per
tutte (neppure a favore della finalità rieducativa) la precitata gerarchia”. Ciò viene ribadito
nella già richiamata sentenza n. 306 del 1993,
ove si afferma “che tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena – da un lato, quella
di prevenzione generale e difesa sociale, con i
connessi caratteri di afflittività e retributività,
e, dall’altro, quelle di prevenzione speciale e di
rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione
dell’obiettivo di risocializzazione del reo – non
può stabilirsi a priori una gerarchia statica
ed assoluta che valga una volta per tutte ed in
ogni condizione”. In considerazione a quanto
premesso, “il legislatore può cioè – nei limiti
della ragionevolezza – fare tendenzialmente
prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne
risulti obliterata”.
Di recente la Corte ha riconosciuto, con la
sentenza n. 257 del luglio 2006, come “le differenti contingenze, storicamente mutevoli, che
condizionano la dinamica dei fenomeni delinquenziali, comportano logicamente la variabilità delle corrispondenti scelte di politica criminale che il legislatore è chiamato a compiere:
così da dar vita ad un sistema normativamente
«flessibile», proprio perché potenzialmente
idoneo a plasmare i singoli istituti in funzione delle diverse esigenze che quelle scelte per
la loro natura coinvolgono. Da qui l’impossibilità di stabilire, ex ante, un punto di equilibrio
dogmaticamente «cristallizzato» tra le diverse
funzioni che il sistema penale, nel suo complesso, è chiamato a soddisfare nel quadro dei
valori costituzionali; e, quindi, la impossibilità,
anche, di censurare, in astratto opzioni normative, sol perché di tipo «repressivo» rispetto al
quadro preesistente, o, all’inverso, perché ispirate ad un maggior favor libertatis”.
Osserviamo pertanto come la Corte ritenga
che la funzione della pena possa oscillare fra
una forte connotazione alla prevenzione generale o difesa sociale che dir si voglia (quanto il
legislatore ragionevolmente ritenga che il feno144
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
meno delinquenziale necessiti di una decisa
risposta repressiva) ed una altrettanto spiccata
tendenza rieducativa, ove le considerazioni di
politica penale inducano verso una risocializzazione del reo. In nessun caso però la pena
potrà cristallizzarsi lungo uno dei due assi
estremi, obliare per tanto l’una o l’altra funzione, nemmeno nei casi di più estremo pericolo
per la sicurezza pubblica.
In proposito la Corte, nella richiamata sentenza del luglio 2006, ben sunteggia questa
radicale ed imprescindibile presa di posizione;
riconoscendo ancora una volta che “soltanto
nel quadro di un sistema informato ai parametri della «adeguatezza e proporzionalità» delle
misure (per mutare principi tipici delle cautele
personali) è possibile sindacare la razionalità
intrinseca (e, quindi, la compatibilità costituzionale) degli equilibri normativi prescelti dal
legislatore”, la Corte rammenta infine come “in
tale cornice [… ed … ] a proposito delle misure
di rigore che, in tema di ordinamento penitenziario, furono adottate – dopo i tragici fatti
di Capaci – […] dovesse ritenersi non in linea
con la finalità rieducativa della pena la scelta
di precludere l’accesso ai benefici penitenziari
in ragione del semplice nomen juris per il quale era stata pronunciata la condanna”. Infatti,
nella sentenza implicitamente richiamata dalla Corte, la sentenza n. 306 del 1993, si rileva
senz’ombra di dubbio che “la tipicizzazione per
titoli di reato non appare consona ai principi di
proporzione e di individuazione della pena che
caratterizzano il trattamento penitenziario”.
Sicché nemmeno agitando lo spettro della assoluta pericolosità sociale del fenomeno
migratorio17, che genera il clandestino, e ritenendo la presenza dello stesso sul suolo patrio
esiziale per il consorzio civile18, pare per la
Corte possibile abdicare completamente alla
funzione rieducativa della pena e giustificare una fattispecie che, non solo criminalizza
un comportamento, a suo dire, socialmente
non pericoloso (a fronte, come osservato, di
altre possibili misure che tutelino il bene ri17 Vedi però in proposito la richiamata sentenza n. 269
del 16 dicembre 1986.
18 Vedi però in proposito le richiamate sentenze n. 22 e
n. 78 del 2007.
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
conosciuto come protetto), ma che assegna
palesemente alla pena la esclusiva funzione di
minaccia e che la sua esecuzione consista nella mera espulsione del condannato, ove ciò sia
possibile, mentre nella maggior parte dei casi
si palese una espulsione preventiva, disposta
dall’autorità amministrativa, la quale determina, per un verso, il non luogo a procedere
pronunciato dal giudice di merito e, per altro,
il palesarsi della recidiva qualora il clandestino,
espulso ma mai condannato in Italia, ritorni
sul nostro patrio suolo.
Tale modo di procedere, come rilevato dal magistrato di Cuneo, lede pesantemente, fra gli altri, i fondamentali diritti racchiusi negli articoli
24 e 27 del dettato costituzionale: il diritto inviolabile alla difesa, ed il diritto alla presunzione di
innocenza sino alla condanna definitiva.
Qui la Corte è chiamata in buona sostanza
a pronunciarsi su una questione forse piuttosto spinosa, ma essenziale per comprendere
l’umore politico del paese: può concedere che il
legislatore ordinario, sorretto da una concezione maggioritaria della democrazia19, proceda a
fronte dell’ingresso e della permanenza in Italia di migranti clandestini allo stesso modo in
cui ha inteso procedere a fronte dei tragici fatti
di Capaci incontrando però, in quella occasione, la netta censura del giudice di legittimità
costituzionale?
Sui vincoli internazionali a tutela dei
migranti
Le argomentazioni presentate nell’ordinanza di rinvio dal Giudice di pace di Agrigento,
il quale rileva una violazione dell’articolo 117
della Costituzione, in quanto l’articolo 10 bis
contrasterebbe palesemente l’articolo 5 del
Protocollo addizionale della Convenzione della Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti,
necessitano di una, sia pur breve, trattazione
specifica.
Per il magistrato siciliano, l’articolo 117 della Costituzione sarebbe stato violato, nel suo
primo comma, “con riferimento agli obblighi
internazionali assunti dall’Italia in materia
19 Vedi in proposito la sentenza n. 24 del 2004.
145
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
di trattamento dei migranti”. Nello specifico,
come già rilevato, l’articolo 10 bis sarebbe in
contrasto con l’articolo 5 del Protocollo citato,
il quale impegna gli stati sottoscrittori a non
assoggettare all’azione penale i migranti che
sono stati oggetto di traffico da parte di organizzazioni criminali.
Nell’ordinanza si ritiene, richiamandosi alla
sentenza n. 349 del ottobre del 2007, che dall’articolo 117 del dettato “discende l’obbligo del Legislatore ordinario di rispettare le norme poste
dai trattati e dalle convenzioni internazionali,
con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con gli obblighi internazionali di
cui all’art. 117, 1° comma, della Costituzione viola, per ciò stesso, tale parametro costituzionale
che realizza un c. d. rinvio mobile alla norma
convenzionale di volta in volta conferente, la
quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati”.
Al fine di comprendere la portata delle affermazioni contenute dell’ordinanza, pare conveniente seguire le argomentazioni proposte dalla Corte, la quale ebbe a rammentare, nella sopra
richiamata sentenza, come “uno degli elementi
caratterizzanti dell’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione [sia] costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale
è più in generale delle fonti esterne”. Ciò premesso, la Consulta ritiene che non vi è dubbio
“che il nuovo testo dell’articolo 117, primo comma, Cost., ha colmato una lacuna e che, in armonia con le Costituzioni di altri Paesi europei, si
collega, a prescindere dalla sua collocazione sistematica nella Carta costituzionale, al quadro
dei principi che espressamente garantivano a
livello primario l’osservanza di determinati obblighi internazionali assunti dallo Stato”.
Pur ribadendo che non è possibile attribuire,
richiamandosi all’articolo 117, rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, e pertanto, per ciò che ci concerne,
risolvere l’antinomia riscontrata fra l’articolo
10 bis e l’articolo 5 del Protocollo con il ricorso al
criterio della legge superiore che deroga la legge
inferiore, “il parametro costituzionale in oggetto comporta l’obbligo del legislatore ordinario
di rispettare dette norme, con la conseguenza
che la norma nazionale incompatibile […] con
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
gli obblighi internazionale di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro
costituzionale”.
Pertanto il legislatore che ponesse in essere
disposizioni contrastanti con gli obblighi internazionali assunti, violerebbe il parametro
costituzionale desumibile dal primo comma
dell’articolo 117 del dettato, ai sensi del quale,
come noto, “la potestà legislativa è esercitata
[…] nel rispetto della Costituzione, nonché dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Solo per
inviso va rammentato che, ai sensi dell’articolo 10, comma secondo della Costituzione, “la
condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei
trattati internazionali”.
Stante la pronuncia della Consulta, “con
l’art. 117, primo comma, si è realizzato, di definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale
dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi,
al parametro, tanto da essere comunemente
qualificata «norma interposta»; e che è soggetta a sua volta […] ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione”.
Seguendo queste indicazioni il magistrato
di Agrigento ha correttamente rilevato “che al
Giudice interno spetta interpretare la norma
nazionale in modo conforme alla disposizione
internazionale e, qualora dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione
convenzionale interposta, deve porre la relativa questione di legittimità costituzionale”20.
Come osservato, il Giudice di pace, procedendo nel modo indicatogli dalla Corte e, pertanto, ponendo a confronto la norma interna, racchiusa nella disposizione dell’articolo 10 bis,
20 L’ordinanza di rinvio riproduce quasi letteralmente
l’opinione della Consulta, per la quale, nella richiamata sentenza n. 349 del 2007, “al giudice comune spetta
interpretare la norma interna in modo conforme alla
disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò
sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia
possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma
interna con la disposizione convenzionale interposta,
egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro
dell’art. 117, primo comma”.
146
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
con la norma internazionale, di cui all’articolo 5 del Protocollo, rileva che “la norma di cui
all’art. 10 bis del D. L.vo n. 286/98, comportando l’incriminazione di persone che si trovano
in una determinata condizione in relazione
alla quale si è assunto l’impegno di assisterle
e proteggerle, versi in una contraddizione nei
confronti delle disposizioni appena enunciate”; infatti, l’ordinanza puntualizza come il Protocollo, all’articolo 16, punto 3, preveda che gli
stati firmatari si impegnino “a fornire un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita, o incolumità, è in pericolo dal fatto di essere stati
oggetto delle condotte di cui all’art. 6”.
Dalle argomentazioni offerte nell’ordinanza in oggetto emerge, quindi, un contrasto fra
l’ordinamento interno ed gli obblighi internazionali assunti dalla Repubblica.
Questo contrasto, a ben vedere, dà sì vita
ad una antinomia, ma, per riprendere la nota
teoria di Alf Ross21, tale contrasto non si palesa come incompatibilità totale-totale22, infatti,
estrapolando dalla disposizione di diritto interno riscontriamo che “lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello
Stato […] è punito con l’ammenda da 5.000 a
10.000 euro”, mentre la disposizione del Protocollo prevede che “i migranti non diventano assoggettati all’azione penale fondata sul presente Protocollo per il fatto di essere stati oggetto
delle condotte di cui all’art. 6”. È il rifermento
all’articolo 6 che risulta centrale nello stabile il
tipo di incompatibilità fra le due disposizioni23,
21 Il riferimento va a Diritto e giustizia, trad. it., Torino
1965 (ma Copenhagen, 1953), § 26.
22 Tale incompatibilità “si verifica quando nessuna
delle due norme può essere applicata a qualsiasi circostanza senza venire in conflitto con l’altra. Se le fattispecie delle norme sono rappresentate con un cerchio,
si ha incompatibilità di questo tipo quando i due cerchi si sovrappongono”, ibidem, p. 122.
23 Tralasciamo la disamina del problema sollevato dalla
presenza nell’articolo 5 del Protocollo dell’inciso fondata
sul presente Protocollo, che lascia supporre, cosa non rilevata dal Giudice di pace di Agrigento, la possibilità di fondare, da parte degli stati sottoscrittori, la responsabilità
penale del migrante clandestino su altre basi (una semplice volizione del legislatore?), purché non riconducibili ad
azioni volte a contrastare le organizzazioni criminali internazionali che promuovono e sfruttano il traffico internazionale di migranti; si veda in proposito il Preambolo al
Libertà di migrazione
issn 2035-584x
perché è questo che offre la misura al divieto di
azione penale nei confronti dei migrati. Come
già rilevato, l’articolo 6 fa menzione al traffico
di migranti quale “atto […] commesso intenzionalmente e al fine di ottenere, direttamente o
indirettamente, un vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale”.
Pertanto, l’incompatibilità avviene fra una
disposizione che sottopone ad azione penale
un intero genere (tutti i clandestini), ed una disposizione che salvaguardia dall’azione penale
solo una specie del genere clandestini, presupponendo che gli altri appartenenti al genere,
ma non ricompresi nella descrizione di quella
particolare specie, possano venire assoggettati
ad azione penale. Si tratterebbe per tanto di una
incompatibilità totale-parziale24 fra le due disposizioni e su questa la Corte sarebbe chiamata a
pronunciarsi. L’esito potrebbe essere una sentenza additiva, ovvero che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10 bis nella parte
in cui non esclude dall’azione penale i clandestini di cui all’articolo 5 del Protocollo, ritenendo
per altro legittima l’azione penale nei confronti
di colore che non versino nelle condizioni previste dalla predetta disposizione25.
citato Protocollo. Sicché, escludendo la possibilità di criminalizzare il migrante per farlo desistere dall’usufruire dei
servizi di dette organizzazioni e, pertanto, indirettamente
ridurre il mercato da cui il crimine organizzato attinge
profitto, nulla osterebbe al promuovere l’istituzionalizzazione dell’azione penale nei confronti dello straniero
irregolare per l’offesa dell’ordine pubblico (si pensi al reato di cui all’articolo 559 del Codice penale rubricato come
Disturbo delle occupazioni o del riposto delle persone, sanzionato con arresto ed ammenda). Se queste appaiono le ragioni del divieto di sottoporre ad azione penale i migrati,
allora pare che la questione sollevata dall’ordinanza difficilmente potrà venire considerata fondata.
24 Per Ross questa “si verifica quando una delle due norma non può essere applicata a qualsiasi circostanza senza
entrare in conflitto con l’altra, mentre l’altra norma ha un
ulteriore campo di applicazione in cui essa non viene in
conflitto con la prima”, Diritto e giustizia, cit., p. 122. Il terzo
tipo di incompatibilità e quello parziale-parziale che “si
verifica quando ognuna delle due norma ha un campo si
applicazione in cui viene in conflitto con l’altra, ma possiede anche un ulteriore un campo di applicazione in cui
non sorge conflitto”, ibidem. Tali argomenti sono, fra i vari
luoghi, sviluppati con utili esemplificazioni da C. Nino,
Introduzione all’analisi del diritto, trad. it. Torino, 1996 (ma
Buenos Aires, 1990), pp. 242-246.
25 Tutto ciò fatte salve le considerazioni accennate nella nota 23.
147
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A.II (2010) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Sui rischi della democrazia maggioritaria
Alla luce delle passate pronunce della Consulta in merito alla legislazione posta in essere
nell’arco degli ultimi lustri al fine di regolamentare (o, meglio, reprimere) il fenomeno migratorio, la quale si palesa sempre più come un
diritto penale speciale informato dal tipo d’autore, non appare scontato la lettura che la stessa offrirà, alla luce delle ordinanze presentate,
dell’articolo 10 bis.
Al di là degli esiti della specifica vicenda,
sembra in ogni caso necessario un forte monito da parte della Corte ad un legislatore che, anche in materia di immigrazione, pare sempre
più attratto dalle lusinghe dei cantori di una
democrazia maggioritaria, il cui perseguimento
lo allontana man mano dai limiti posti, come
invalicabili, quali Colonne d’Ercole, dai principi
costituzionali e dagli obblighi internazionali, i
quali restringono inoppugnabilmente, al di là
del mandato popolare, la sua discrezionalità.
Tutto ciò al fine di non dover leggere, in future cronache costituzionali del paese, che di
fronte alla democrazia maggioritaria, sempre
più evocata,
“Noi ci allegrammo; e tosto tornò ‘n pianto:
Ché dalla nuova terra un turbo nacque,
E percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;
Alla quarta, levar la poppa in suso,
E la prora ire in giù, com’altrui piacque;
Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”
Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXIV, 136
Marco Cossutta, professore associato di Filosofia
del diritto nell’Università degli Studî di Trieste, ove
dirige il corso di master in primo livello in Analisi e
gestione della comunicazione organizzato in collaborazione con il CERMEG.
Libertà di migrazione
148