N. 2/2014 - Associazione Italiana per l`Arbitrato

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N. 2/2014 - Associazione Italiana per l`Arbitrato
ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXIV - N. 2/2014
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
© Copyright - Giuffrè Editore
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PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXIV - N. 2/2014
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
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DELL’ARBITRATO
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INDICE
DOTTRINA
MAURO BOVE, Responsabilità degli arbitri.....................................................
CHRISTIAN ASCHAUER, Le nuove Regole di Vienna e la riforma del diritto
dell’arbitrato austriaco .............................................................................
ALDO FRIGNANI, The application of the New York Convention by Italian
courts..........................................................................................................
265
281
303
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) Italiana
Sentenze annotate:
Cass. 26 ottobre 2011, n. 22333, con nota di G. CARDACI, La dipendenza
ex art. 336, comma I, c.p.c. tra capo rescindente e capo rescissorio
della sentenza di annullamento del lodo arbitrale che decide anche
nel merito...................................................................................................
Cass. 11 novembre 2011, n. 23651, con nota di F. UNGARETTI DELL’IMMAGINE, L’arbitrato irrituale tra negozio e processo: la qualifica della
relativa eccezione tra rito e merito .........................................................
Trib. Potenza 19 settembre 2012, n. 965, con nota di A. VANNI, Legittimità della apposizione, in via convenzionale, di un termine decadenziale per l’introduzione del procedimento arbitrale.............................
Trib. Milano 30 novembre 2012, con nota di D. AMADEI, Vie parallele ed
efficacia del lodo sul processo giurisdizionale......................................
329
343
357
367
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb., Roma 22 novembre 2011, con nota Rita TUCCILLO, Riflessioni
sulla litispendenza nell’arbitrato irrituale ..............................................
383
III
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II) Internazionale e straniera
Lodi annotati:
ICSID 8 febbraio 2013, con nota T. ISHIKAWA, International Sovereign
Debt and Investment Treaty Arbitration: The Ambiente Case..........
415
RASSEGNE E COMMENTI
LUCA DAMBROSIO, La “determinazione contrattuale” ex art. 808-ter c.p.c.
quale espressione di potere dispositivo ex lege ....................................
449
DOCUMENTI E NOTIZIE
New York Convention Roadshow, a cura dell’ICCA, a Napoli ...............
IV
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489
DOTTRINA
Responsabilità degli arbitri
MAURO BOVE (*)
1. Introduzione. — 2. Sostituzione sanzionatoria. — 3. Rinuncia ingiustificata
all’incarico. — 4. Omessa pronuncia del lodo nel termine. — 5. Il ruolo della legge
sulla responsabilità civile dei magistrati. — 6. Ulteriori ipotesi atipiche? — 7.
Sanzioni.
1. Una volta che si sia perfezionato il percorso di formazione del
tribunale arbitrale (sequenza nomina-accettazione), alla luce degli articoli
813-ter e 814 c.p.c. insorge tra tutte le parti e tutti gli arbitri un rapporto
contrattuale unitario, a prescindere dal modo in cui sia avvenuta la
nomina dell’intero collegio, dell’arbitro unico o dei diversi membri del
collegio (1). Detto rapporto contrattuale ha, dal punto di vista delle
obbligazioni degli arbitri (art. 813-ter c.p.c.), un contenuto principale ed
uno accessorio relativo ad obblighi strumentali (2). Quello consiste nell’obbligo, ad attuazione congiunta, di pronunciare un lodo, che altro non
è se non una sentenza privata con la quale si decide una controversia tra
le parti (3). Questi consistono nel duplice obbligo di non rinunciare
all’incarico senza giustificato motivo e di non omettere o ritardare il
compimento degli atti necessari per giungere alla pronuncia del lodo.
Gli arbitri, se non rispettano i detti obblighi, sempre alla luce dell’art.
813-ter c.p.c. perdono il diritto al pagamento del corrispettivo ed al
rimborso delle spese, oltre ad incorrere in un obbligo risarcitorio (4) ed a
(*) Professore ordinario nell’Università di Perugia.
(1) Insomma, non ha alcuna importanza dal punto di vista che stiamo assumendo il fatto
che il tribunale arbitrale derivi, in tutto o in parte, da nomine dei compromittenti o da interventi
di terzi designatori ovvero dall’intervento del Presidente del tribunale ai sensi dell’art. 810 c.p.c.
(2) Vedi in tal senso anche in giurisprudenza Cass. 27 febbraio 2009, n. 4823, in Foro
pad., 2009, I, 5.
(3) A fronte di questo obbligo si pone, normalmente, l’obbligo delle parti di pagare agli
arbitri il compenso nonché di rimborsare le spese sostenute, così come è previsto dall’art. 814 c.p.c.
(4) Fermo restando la necessità di approfondire le condizioni in presenza delle quali può
scattare la sanzione, sia in riferimento all’elemento psicologico sia in riferimento ad altri
presupposti, qual è quello dato dal previo annullamento del lodo.
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subire, in caso di ostruzionismo a giudizio arbitrale pendente, la c.d.
sostituzione sanzionatoria di cui all’art. 813-bis c.p.c. Tutto ciò, come
specifica lo stesso art. 813-ter c.p.c., con la precisazione che pur essendo
quella degli arbitri, in caso di loro pluralità, un’obbligazione ad attuazione
congiunta, tuttavia ciascuno di essi risponde solo per fatto proprio (5).
Questa disciplina sommariamente tratteggiata, rinvenibile nel codice
di rito, offre un quadro sostanzialmente compiuto del contenuto del
contratto che si perfeziona tra le parti e gli arbitri. Di conseguenza, oggi
sembra poco proficuo attardarsi su un’esercitazione classificatoria, chiedendosi se il contratto in parola possa essere riportato ad uno dei tipi
disciplinati nel codice civile, in ipotesi al contratto di mandato (articoli
1703 ss. c.c.) ovvero a quello di prestazione d’opera (articoli 2222 ss. c.c.),
ovvero se debba vedersi qui un contratto misto tra quelli appena citati (6).
Invero, se è difficile immaginare questioni concrete che troverebbero
soluzioni radicalmente diverse scegliendo l’uno o l’altro tipo di riferimento, la verità più evidente è che ormai il contratto tra le parti e gli
arbitri ha una sua disciplina ampiamente tratteggiata nel codice di procedura civile (7).
Fatte queste brevi premesse, è ora nostro compito indagare le diverse
ipotesi di responsabilità degli arbitri. Innanzitutto è necessario soffermarsi
sulle quattro fattispecie esplicitamente previste dall’art. 813-ter c.p.c.
Quindi ci si dovrà interrogare sulla possibilità di ipotizzare fattispecie
diverse da quelle previste in detta norma. Infine sarà necessario descrivere
le sanzioni conseguenti e così anche le condizioni perché queste possano
essere applicate in concreto.
2. Per comprendere il caso della sostituzione sanzionatoria, bisogna
integrare la disciplina dell’art. 813-ter con quella dell’art. 813-bis c.p.c.,
tenendo presente che questa norma ha un campo di applicazione più
ampio di quella.
(5) Sul punto vedi MARULLO di CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008, 192 ss.
(6) Sulla ricostruzione storica della disputa vedi PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato,
I, Padova 2012, 336 ss. e MARULLO di CONDOJANNI, op. cit., 22 ss.
(7) Peraltro, confermo quanto in altra sede (vedi La giustizia privata, Padova, 2013, 91)
mi sono sentito di affermare e cioè che il contratto in oggetto è comunque avvicinabile al
mandato, che gli arbitri assolvono nell’interesse di tutte le parti, più che alla prestazione
d’opera, perché gli arbitri, lungi dal limitarsi ad approntare una sorta di “materia logica” che va
a dare contenuto ad un atto statale, in ipotesi l’unico giuridicamente efficace per l’ordinamento,
pongono in essere propriamente l’atto di normazione concreta autonomamente vincolante per
i litiganti. Opera, questa, che essi compiono nell’interesse collettivo dei loro mandanti (i
litiganti), che, pur, ovviamente, contrapponendosi nel giudizio arbitrale, hanno tuttavia nella
pronuncia del lodo (la sentenza privata) il loro interesse comune. Non mi paiono decisive per
contrastare questa idea le critiche di MARULLO di CONDOJANNI, op. cit., 25 ss., il quale nega qui
la spendibilità della categoria del “mandato” per la duplice ragione che, per un verso, gli arbitri
non pongono in essere negozi giuridici e, per altro verso, essi pongono in essere un’attività, la
decisione della controversia, che le parti altrimenti non potrebbero compiere. Entrambi i rilievi
sono da accogliere. Ma non si vede perché essi dovrebbero escludere il richiamo al mandato.
Comunque, si ripete, non sembra utile attardarsi su una simile polemica classificatoria.
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L’art. 813-bis c.p.c. prevede la possibilità di sostituire l’arbitro che
ometta di compiere gli atti da lui dovuti, a prescindere dal fatto che ciò
accada a causa di un suo dolo o una sua colpa grave. Le vie per giungere
a tale risultato sono tre. È possibile che le parti revochino congiuntamente
il mandato oppure è possibile che le parti si affidino ad un terzo a ciò
incaricato dalla convenzione di arbitrato, eventualità immaginabile essenzialmente quando i compromittenti si siano affidati ad un arbitrato organizzato che preveda una tale situazione nel suo regolamento. Infine, non
potendosi percorrere alcuna delle strade appena indicate, è dato a ciascuna parte la facoltà di diffidare l’arbitro interessato per poi ricorrere al
Presidente del tribunale di cui all’art. 810 c.p.c., il quale, seguendo un
percorso camerale, provvede alla decadenza dell’arbitro.
Ora, si deve sottolineare come nell’ambito dell’art. 813-bis c.p.c.
l’inerzia dell’arbitro rilevi oggettivamente, si ripete a prescindere dall’elemento psicologico del dolo o della colpa grave. Di conseguenza, l’arbitro
dichiarato decaduto per inerzia è certamente “giustamente” sostituito, ma
non per questo è detto che gli sia imputabile una responsabilità ai sensi
dell’art. 813-ter c.p.c. Così, alla luce dell’art. 2237, 1º comma, c.c., l’arbitro
“giustamente” sostituito manterrà il diritto al rimborso delle spese ed al
pagamento del compenso per l’opera prestata (8). A meno che non
emerga quel dolo o quella colpa grave, insomma a meno che non emerga
che l’inerzia fosse un vero ostruzionismo, unico caso in cui si avrà il
perfezionamento di una fattispecie di responsabilità dell’arbitro, con la
conseguenza che questi, oltre a perdere il diritto al rimborso delle spese ed
al pagamento del compenso, sarà obbligato al risarcimento del danno nei
confronti delle parti.
Resta solo da rilevare come l’attività svolta nel procedimento disciplinato nell’art. 813-bis c.p.c. di fronte al Presidente del tribunale di cui
all’art. 810 c.p.c. sia riportabile all’area della giurisdizione volontaria.
Quindi, ove detto giudice dovesse sostituire l’arbitro per ostruzionismo,
resterà sempre da compiere un vero accertamento su detta questione
nell’ambito del giudizio dichiarativo in cui, in ipotesi, le parti dovessero
azionare una pretesa risarcitoria a titolo di responsabilità dell’arbitro.
3. La seconda ipotesi di responsabilità si ha quando l’arbitro rinuncia all’incarico senza giustificato motivo. Qui si pone il problema d’individuare il contenuto di un simile concetto giuridico indeterminato, vale a
dire di delineare le ipotesi concrete ad esso riportabili. Fermo restando
che sta evidentemente all’arbitro convenuto nell’ambito di un giudizio di
(8) Peraltro, a me sembra che qui debba applicarsi pure l’art. 1725, 1º comma, c.c., per
cui le parti, se dovessero revocare l’incarico per una presunta inerzia, in realtà non sussistente,
siano anche obbligate a pagare i danni all’arbitro.
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responsabilità l’onere di provare che la sua rinuncia fosse sorretta da un
giustificato motivo (9), l’interprete deve, per un verso, fare appiglio a
specifiche disposizioni di legge e, per altro verso, fondarsi su un’interpretazione sistematica.
Da questo secondo punto di vista io direi che, in generale, si possa
ritenere sussistente un giustificato motivo di rinuncia ove ci si trovi di
fronte al sopraggiungere di situazioni involontarie che rendono irragionevole per l’arbitro la prosecuzione del suo ufficio e così giustificano il suo
recesso dal contratto (10). Così, tra le situazioni che possono sopraggiungere, può giustificare la rinuncia un motivo di salute, un (successivo)
motivo di ricusazione (11) ovvero l’intervenuta revoca di un’autorizzazione
in precedenza concessa (12).
Ma, al di là dei casi che si possono individuare in via interpretativa (13), la legge indica due ipotesi specifiche di rinuncia giustificata.
La prima la si rinviene nell’art. 816-sexies c.p.c., che, trattando di
alcune delle ipotesi che di fronte al giudice statale comporterebbero
l’interruzione del processo, attribuisce agli arbitri il potere di assumere
« le misure idonee a garantire l’applicazione del contraddittorio ai fini
della prosecuzione del giudizio », prevedendo, di conseguenza, che se
(9) Così, per tutti, GIOVANNUCCI ORLANDI, in Arbitrato. Commentario diretto da F. Carpi,
Bologna, 2007, sub art. 813-ter, 266.
(10) Perché, evidentemente, qui di questo si tratta: solo di un atto negoziale, appunto un
atto di recesso, rilevante all’interno del contratto tra le parti e l’arbitro. Né mi pare che a tal
proposito si possa ipotizzare la pronuncia di un provvedimento. Invero, l’idea che la rinuncia
possa esprimersi con un provvedimento, se appare del tutto fuori luogo quando essa provenga
solo da uno dei membri del collegio arbitrale, appare irragionevole pure nel caso in cui sia tutto
il collegio a rinunciare. Invero, ipotizzare qui la pronuncia di un lodo significherebbe dare agli
arbitri una via, direi “conquistata” in modo improprio, per avvalersi del procedimento di
liquidazione dei compensi di cui all’art. 814 c.p.c.
(11) In modo condivisibile GIOVANNUCCI ORLANDI, op. cit., 265, sottolinea come la
situazione deve essersi verificata indipendentemente dalla volontà dell’arbitro, negando, ad
esempio, che « si possa considerare giustificata la rinuncia di colui che, in corso di arbitrato,
decide di accettare un’offerta più conveniente per un’attività professionale propostagli da una
delle parti ».
(12) Si pensi al caso dei professori universitari a tempo pieno, che, in base ai regolamenti
accademici, possono doversi munire di autorizzazione per svolgere l’incarico di arbitro.
(13) Aggiungo che tra questi a me non sembra che si possano inserire né quello derivante
dall’allargamento concordato tra le parti del thema decidendum né l’ipotesi in cui « le parti
rifiutino una proroga del termine qualora richiesta dagli arbitri per causa loro non imputabile »
(GIOVANNUCCI ORLANDI, op. cit., 265). Il primo caso a mio parere non si pone perché credo che
un allargamento oggettivo del giudizio arbitrale, avvenga esso tra le parti originarie del giudizio
arbitrale o a causa dell’intervento di un terzo, sia possibile solo col consenso (anche) degli
arbitri, essendo appunto il loro obbligo di giudicare fondato su un contratto, nel quale si
delimita l’oggetto della loro prestazione (vedi, se vuoi, per approfondimenti BOVE, op. cit.,
151-152, 153). Ma, non credo che si possa ipotizzare neanche il secondo caso, perché, se gli
arbitri non hanno nulla da imputarsi, essi potranno andare avanti, nonostante la mancata
concessione della proroga del termine, senza che poi essi possano in ogni caso incappare in una
responsabilità, ove il lodo dovesse essere annullato perché pronunciato fuori termine. Invero in
una simile situazione mancherebbe l’elemento psicologico necessario all’insorgenza della responsabilità, ossia il dolo o la colpa grave.
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« nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono rinunciare all’incarico ». Così, la
legge, senza fissare regole predeterminate, si affida alla prudenza degli
arbitri per salvaguardare l’attuazione del principio del contraddittorio, che
potrebbe essere messa in pericolo dal fatto che una parte sia venuta meno,
per morte o altra causa, ovvero abbia perso la capacità legale (14). Ma,
allora, senza che qui sia necessario un ulteriore approfondimento su detta
norma, è evidente la ragione che ha spinto il legislatore a giustificare la
rinuncia all’incarico da parte degli arbitri, ragione che consiste nel rilievo
per cui non è ragionevole imporre agli arbitri la prosecuzione di un
incarico che essi sanno di non poter più svolgere in modo legittimo.
Invero, a fronte di una situazione sopraggiunta gli arbitri hanno operato
scrupolosamente per salvare l’attuazione nel giudizio del fondamentale
principio del contraddittorio. Ma, se la loro scrupolosità non ha incontrato
la collaborazione delle parti, perché essi dovrebbero continuare il giudizio
sapendo che in esso si vulnera il detto principio?
La seconda ipotesi tipica di rinuncia giustificata all’incarico si ha nella
previsione dell’art. 816-septies, 1º comma, c.p.c., secondo la quale gli
« arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento al versamento anticipato delle spese prevedibili ». A tal proposito a me sembra
che la lettera della norma dica meno di quello che il legislatore abbia
voluto intendere, dovendosi applicare la disposizione in parola anche agli
anticipi relativi ai compensi. Invero, qui non si comprenderebbe il motivo
di escludere, in ausilio all’interpretazione dell’art. 816-septies c.p.c., l’operatività di principi civilistici da trarre dagli articoli 1719 c.c. e, direi
soprattutto, 2234 c.c., per fondare in capo agli arbitri un diritto agli anticipi
più estesamente inteso, comprendente, si ripete, sia le spese prevedibili sia
i compensi (15).
Il problema emerge per il fatto che certamente non sta agli arbitri il
potere di stabilire unilateralmente l’ammontare del proprio compenso (16)
e così pure l’ammontare degli anticipi da richiedere. Ma, se questo rilievo
non esclude tuttavia in astratto il diritto degli arbitri agli anticipi, con
conseguente possibilità di rinunciare giustificatamente all’incarico per la
(14) Leggendo col classico grano di sale la norma, se ne deve anche ricavare che in essa,
per un verso, si concede agli arbitri la possibilità di non ritenere a rischio il principio del
contraddittorio ove gli eventi descritti colpiscano una parte rappresentata e difesa in giudizio da
un avvocato e, per altro verso, si impone ragionevolmente la necessità di trattare allo stesso
modo anche il caso non previsto in cui a venir meno sia il difensore di una parte, ove questa stia
in giudizio per mezzo di quello. Se, infatti, la logica della norma sta nel salvaguardare
l’effettività del diritto di agire e di difendersi, effettività che comprende evidentemente il diritto
di farsi rappresentare in giudizio da un avvocato, non mi sembra che possa essere ignorata
l’ipotesi che venga meno l’avvocato dal quale la parte abbia scelto di farsi rappresentare.
(15) Nello stesso senso VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2010, 89 e
GIOVANNUCCI ORLANDI, op. cit., 265.
(16) Principio, fra l’altro, confermato nello stesso codice di rito all’art. 814.
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loro mancata corresponsione, ponendosi con esso un problema attinente
al quantum debeatur e non all’an debeatur, in concreto il problema può
essere superato con la stipula, in sede di costituzione del tribunale arbitrale, di accordi sui compensi o quantomeno sui criteri per la loro
liquidazione, accordi assai opportuni dopo l’abolizione del sistema tariffario (17).
4. La terza ipotesi di responsabilità prevista dall’art. 813-ter c.p.c. si
ha quando l’arbitro ha con dolo o colpa grave omesso o impedito la
pronuncia del lodo entro il termine fissato dalla legge ovvero dalle parti.
Per comprendere in concreto l’operatività di questa disposizione bisogna
leggerla in collegamento, per un verso, con quanto prevede l’art. 821 c.p.c.
in merito alla rilevanza del decorso del termine per la pronuncia del lodo
e, per altro verso, col principio, sancito nell’art. 813-ter, 4º comma, c.p.c.,
per cui, se è stato pronunciato il lodo, l’azione di responsabilità può essere
proposta soltanto dopo l’accoglimento dell’impugnazione con sentenza
passata in giudicato e per i motivi per cui l’impugnazione è stata accolta (18).
Dal primo punto di vista, dall’art. 821 c.p.c. emerge come la sola
scadenza del termine non rilevi di per sé, dovendosi avere, a tal fine, il
rilievo di un’eccezione ad opera della parte interessata con atto notificato
alle altre parti ed agli arbitri prima della deliberazione del lodo, insomma
prima che si conosca l’esito della lite (19).
Se questa eccezione non è sollevata nelle dette forme, la scadenza del
termine è giuridicamente irrilevante, sia dal punto di vista processuale sia
sul piano dei rapporti contrattuali tra le parti e gli arbitri: gli arbitri
mantengono il potere-dovere di pronunciare il lodo, che non è fondatamente impugnabile ai sensi dell’art. 829, 1º comma, n. 6), c.p.c., e, di
conseguenza, gli arbitri non potranno essere chiamati a rispondere di
(17) Insomma, ove il tribunale arbitrale all’atto della sua costituzione concordi con le
parti un criterio di liquidazione applicabile per l’opera che si accinge a svolgere e, congiuntamente, pronunci un’ordinanza sugli anticipi, comprendenti spese (tra cui anche quella del
segretario) e onorari (ovviamente in parte), non vedo come, poi, le parti potrebbero avere
qualcosa da obiettare ove gli arbitri dovessero rinunciare all’incarico per mancato pagamento
dei relativi anticipi nel termine da loro fissato. Peraltro, se è vero che è stato abolito il sistema
tariffario, vedi oggi per gli avvocati l’art. 10, 1º comma, del Regolamento sui parametri per la
liquidazione dei compensi (decreto del Ministero della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55) in cui si
prevede che per « i procedimenti arbitrali rituali e irrituali, agli arbitri sono di regola dovuti i
compensi previsti sulla base dei parametri numerici di cui alla tabella allegata ». Ovviamente
detti parametri operano solo in caso di mancato accordo sui compensi.
(18) Sul detto principio vedi ZUMPANO, in La nuova disciplina dell’arbitrato a cura di S.
Menchini, Padova, 2010, sub art. 813 ter, 150; NELA, in Le recenti riforme del processo civile.
Commentario diretto da S. Chiarloni, II, Bologna, 2007, sub art. 813 ter, 1687.
(19) La detta eccezione può essere rilevata anche dal difensore della parte pur non
munito di procura ad hoc. Ciò si ricava dal rilievo, emergente dall’art. 816-bis c.p.c., per cui il
difensore può compiere ogni atto del procedimento, compresa la determinazione o proroga del
termine per la pronuncia del lodo.
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alcunché, proprio perché, come è stato appena sopra detto, a seguito della
conclusione del giudizio arbitrale una responsabilità in capo agli arbitri è
configurabile unicamente per l’eventualità di un annullamento del lodo e
a causa del motivo che lo ha fondato, annullamento qui non ipotizzabile.
Se, al contrario, l’indicata eccezione viene sollevata, la scadenza del
termine per la pronuncia del lodo diventa giuridicamente rilevante.
Prima della riforma dell’arbitrato del 2006, nel silenzio della legge,
non era chiaro come emergesse la detta rilevanza, potendosi prospettare
due soluzioni (20). Si poteva ritenere che gli arbitri dovessero comunque
pronunciare il lodo, pur consapevoli di un suo eventuale, successivo
annullamento, con conseguente insorgenza, in questo caso, di una loro
responsabilità (21). Oppure si poteva ritenere che il giudizio arbitrale
dovesse estinguersi e che gli arbitri fossero comunque chiamati a rispondere in virtù del principio generale ricavabile dall’art. 1218 c.c., pur
mancando il presupposto che l’allora vigente art. 813 c.p.c. prevedeva,
ossia un lodo annullato appunto perché pronunciato fuori termine.
Quale che fosse allora la soluzione migliore, oggi il problema è stato
risolto dal combinato disposto dell’art. 821, 2º comma, e dell’art. 813-ter,
1º comma, n. 2) c.p.c., disponendo quello che, se la parte fa valere la
decadenza degli arbitri, questi, verificata la scadenza del termine, dichiarano estinto il procedimento e prevedendo questo che insorge un obbligo
risarcitorio in capo all’arbitro che con dolo o colpa grave abbia omesso o
impedito la pronuncia del lodo entro il termine, superando il principio
previgente secondo il quale il mancato rispetto del termine rilevava solo
nel caso di pronuncia di un lodo poi annullato per quel motivo.
Scendendo più in dettaglio, sempre presupponendo che una parte
abbia rilevato l’eccezione ai sensi dell’art. 821 c.p.c., si può fare la seguente
distinzione.
Se, come è previsto dal secondo comma della norma in parola, gli
arbitri dichiarano l’estinzione del giudizio arbitrale, essi o alcuni di essi
risponderanno dei danni che abbiano cagionato per avere, con dolo o
colpa grave, impedito la pronuncia di un lodo (di merito (22)) nel termine
stabilito. Se, invece, violando il disposto di cui all’art. 821, 2º comma, c.p.c.
o comunque ritenendo infondata l’eccezione attinente alla scadenza del
(20) Vedi una sintesi in BORGHESI, in Arbitrato. Commentario diretto da F. Carpi cit., sub
art. 821, 541 ss.
(21) Responsabilità alla quale magari gli arbitri potevano sfuggire dando ragione appositamente alla parte che aveva rilevato l’eccezione.
(22) L’estinzione di cui stiamo parlando nel testo a mio parere va dichiarata con un lodo,
a questo punto di rito, perché si deve dare la possibilità a colui che dissente di far valere di
fronte alla Corte d’appello competente il vizio di cui all’art. 829, 1º comma, n. 10) c.p.c., ossia
lamentare che si sia avuta un’estinzione, e così la mancata pronuncia di una decisione nel merito
della lite, senza che ve ne fossero i presupposti. Non si dimentichi che la questione attinente
all’avvenuta scadenza del termine per la pronuncia del lodo potrebbe essere controversa.
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termine, gli arbitri decidono la controversia tra le parti, il lodo da essi
pronunciato sarà impugnabile ad opera della parte che abbia rilevato
quella eccezione, la quale, risultata vittoriosa nel giudizio di nullità del
lodo, potrà poi esercitare l’azione di responsabilità nei confronti del o dei
responsabili.
Questo sistema sembra, però, dimenticare un’ipotesi. Cosa succede se
gli arbitri, decidendo nel merito la lite, pronunciano un lodo a favore di
colui che aveva in precedenza rilevato l’eccezione di cui al secondo comma
dell’art. 821 c.p.c.? È in questo caso impossibile ipotizzare ogni forma di
responsabilità in capo agli arbitri?
A fronte di un simile caso, a mio parere, anticipando quanto andremo
a dire sul ruolo che qui svolge la legge sulla responsabilità civile dei
magistrati, la parte soccombente potrebbe lamentare la violazione del
secondo comma dell’art. 821 c.p.c., avvalendosi della via d’impugnazione
offerta dall’ultimo inciso dell’art. 829, 1º comma, n. 4), c.p.c., quando la
norma dice che il lodo è annullabile ove abbia deciso nel merito la
controversia quando questa non poteva essere decisa nel merito. Se si
accetta un simile percorso argomentativo, si può ipotizzare una possibile
azione di responsabilità avverso gli arbitri, non perché questi abbiano
pronunciato un lodo fuori termine, motivo che, non essendo spendibile da
parte di chi non si è previamente attivato ai sensi del secondo comma
dell’art. 821 c.p.c., non può causare l’annullamento del lodo e la conseguente sanzione risarcitoria in capo agli arbitri, bensì imputando loro una
grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, come
recita l’art. 2, 3º comma, della legge n. 117 del 1988, richiamata dall’art.
813-ter, 2º comma, c.p.c.
5. Se gli arbitri sono contrattualmente obbligati a rendere il lodo nel
termine stabilito, ci si chiede poi se essi siano anche obbligati a rendere un
lodo rituale e giusto. Qui emerge la posizione dell’arbitro quale soggetto
che, oltre ad essere visto come la parte di un contratto alla quale è
richiesto un dato adempimento, è investito del compito di giudicare, non
quale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, qualifiche escluse
esplicitamente dall’art. 813, 2º comma, c.p.c., bensì quale giudice privato
che gestisce un’attività giurisdizionale, ancorché fondata sul e delimitata
dal consenso dei compromittenti (23).
Da questo punto di vista l’art. 813-ter, 2º comma, c.p.c. accosta
l’arbitro al giudice statale, rinviando, quale fonte della quarta ipotesi di
responsabilità, all’art. 2, commi 2 e 3, della legge n. 117 del 1988 in materia
appunto di responsabilità civile dei magistrati. Le disposizioni a cui qui si
rinvia, per un verso, dettano un’esimente e, per altro verso, chiariscono il
significato da attribuire al concetto di “colpa grave”.
(23) Vedi in argomento BRIGUGLIO, La responsabilità dell’arbitro al bivio fra responsabilità professionale e responsabilità del giudice, in Giust. Civ., 2006, II, 57 ss.
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Per quanto riguarda l’esimente l’art. 2, 2º comma, della legge in parola
esclude che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie possa dare luogo a
responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto o la valutazione del fatto e delle prove.
Per quanto riguarda la “colpa grave” il terzo comma del medesimo
articolo stabilisce che costituiscono « colpa grave: a) la grave violazione di
legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata
da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento
concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge
oppure senza motivazione ».
Ora, posto che quest’ultimo caso evidentemente non interessa l’arbitrato, per comprendere la portata degli altri si deve ancora una volta
ricordare il principio, contenuto nell’art. 813-ter, 4º comma, c.p.c., secondo
il quale a seguito dello svolgimento del giudizio arbitrale un’azione di
responsabilità avverso gli arbitri è ipotizzabile solo dopo l’annullamento
del lodo ed unicamente fondandosi sul motivo che ha causato il detto
annullamento.
Ma, allora, il caso più certo di responsabilità dell’arbitro alla luce del
secondo comma dell’art. 813-ter c.p.c. è quello del dolo dell’arbitro, che
abbia giudicato volutamente contro una parte, con ciò violando palesemente il suo dovere di imparzialità. E ciò, si badi, è ipotizzabile anche a
prescindere da una eliminazione del lodo a seguito di revocazione fondata
sull’art. 395, n. 6), c.p.c., che di per sé presuppone una sentenza penale in
cui si sia accertato il dolo dell’arbitro (24), sentenza difficilmente immaginabile perché difficilmente è ipotizzabile un’ipotesi di reato di cui imputare l’arbitro. Invero, il caso è prospettabile anche a seguito dell’annullamento del lodo a causa della provata partigianeria dell’arbitro, emergendo
qui la violazione di quell’ordine pubblico processuale al quale evidentemente deve pur riferirsi l’art. 829, 3º comma, c.p.c., quando in esso si dice
che è « ammessa in ogni caso l’impugnazione delle decisioni per contrarietà all’ordine pubblico ».
Per il resto, si deve distinguere tra errori di diritto ed errori di fatto.
Per questi, si tratti di errori di giudizio o di un mero travisamento di
fatti, non è immaginabile, ancorché essi possano essere del tutto grossolani, alcuna responsabilità risarcitoria degli arbitri fondata sulla colpa
grave, perché non vi è alcuna possibilità di ottenere previamente dal
giudice statale l’annullamento del lodo per errore di fatto. Non in sede di
impugnazione per nullità, non prevedendosi nell’art. 829 c.p.c. alcun
(24)
ZUMPANO, op. cit., 152.
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motivo al riguardo, né in sede di revocazione, posto che l’art. 831 c.p.c.,
che disciplina i motivi di revocazione del lodo, non richiama anche il n. 4)
dell’art. 395 c.p.c.
Per quanto riguarda gli errori di diritto, invece, la responsabilità degli
arbitri è ipotizzabile, alla duplice condizione che emerga una grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile e che questa abbia
fondato l’annullamento del lodo. Così è immaginabile che la violazione di
legge riguardi: 1) una norma che presiede alla valutazione della valida
esistenza del patto compromissorio, dopo che la sua violazione abbia
causato l’annullamento del lodo in virtù dell’art. 829, 1º comma, n. 1)
c.p.c.; 2) una norma di attività in ordine allo svolgimento del giudizio
arbitrale ovvero in ordine alla formazione del lodo, sempre dopo che la
sua violazione abbia fondato l’annullamento del lodo in virtù degli errores
in procedendo sanzionabili ai sensi dei motivi d’impugnazione disegnati
dall’art. 829 c.p.c.; 3) la norma utilizzata dagli arbitri per il giudizio,
sempre che detta violazione abbia causato l’annullamento del lodo, cosa
possibile, in base all’art. 829, 3º comma, c.p.c., se la via d’impugnazione è
aperta da una disposizione delle parti o della legge o comunque se trattasi
di una norma di ordine pubblico.
6. Se quelle finora viste sono ipotesi di responsabilità esplicitamente
previste dall’art. 813-ter c.p.c., sorge a questo punto la domanda: si
possono ipotizzare ulteriori fattispecie di responsabilità degli arbitri al di
fuori del dettato legislativo? Insomma, quello tratteggiato dalla citata
disposizione è un sistema chiuso, comprendente solo ipotesi tipiche,
oppure vi sono altri obblighi degli arbitri la cui violazione può far
insorgere un profilo di loro responsabilità, sempre che vi sia anche il dolo
o la colpa grave?
La risposta a questa domanda è assai dibattuta (25). A me sembra che
meriti soffermarsi su due dei casi più discussi: quello legato ad eventuali
obblighi di disclosure e quello derivante dalla violazione del termine di cui
all’art. 824 c.p.c.
Trattando della prima ipotesi, si tenga presente che, se in linea di
principio il nostro ordinamento non costruisce un generale obbligo di
disclosure in capo agli arbitri, tuttavia è possibile che questo sia imputabile
agli arbitri nel caso concreto o in virtù di regolamenti negoziali, come
accade di solito quando l’arbitrato è gestito da un’istituzione, oppure in
virtù di codici deontologici vigenti per certe categorie di professionisti,
come ad esempio gli avvocati. Così, in queste ipotesi, le parti hanno, non
solo il diritto ad avere un arbitro terzo ed imparziale, ma anche il diritto
a che l’arbitro rispetti un suo preciso obbligo di trasparenza, ossia renda
(25)
In argomento vedi, fra gli altri, ZUMPANO, op. cit., 148-149.
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palese alle parti l’eventuale sussistenza di oggettive situazioni di carenza di
terzietà, anche se queste non necessariamente metterebbero in crisi la sua
imparzialità.
Nel sistema il valore finale alla cui protezione l’ordinamento tende è
quello dell’imparzialità del tribunale arbitrale, strumentalmente al quale
viene posto l’istituto della ricusazione e quello, eventuale, della disclosure.
Invero, un arbitro può essere del tutto imparziale, ancorché si trovi in una
delle situazioni di carenza di terzietà di cui all’art. 815 c.p.c., e, al contrario,
egli può essere del tutto partigiano, ancorché non si trovi in una delle
situazioni elencate nell’art. 815 c.p.c. Così, come già si accennava sopra, la
partigianeria dell’arbitro è certamente sanzionata a titolo di dolo, dopo
che essa abbia comportato l’annullamento del lodo sulla base della clausola dell’ordine pubblico contenuta nell’art. 829, 3º comma, c.p.c.
Ma, qui l’ipotesi ulteriore che va prospetta è la seguente: se la parte
ottiene l’annullamento del lodo dopo aver invano tentato la ricusazione
dell’arbitro in virtù di una sua carente terzietà, ossia per la presenza di uno
dei motivi di cui all’art. 815 c.p.c. (26), può poi essa esercitare un’azione di
responsabilità avverso l’arbitro se nel caso concreto egli aveva l’obbligo di
rendere nota la sussistenza della situazione squalificante?
Il punto è che la violazione dell’obbligo di disclosure, se è certamente
sanzionabile sul piano disciplinare nell’ambito degli ordini professionali
ovvero all’interno dei sistemi camerali, di per sé non comporta un vizio del
lodo, che possa quindi condurre all’annullamento del lodo stesso. Invero,
ove la parte interessata venga a sapere in uno stato avanzato del giudizio
arbitrale di una situazione di carenza di terzietà dell’arbitro che possa
giustificare una tardiva istanza di ricusazione e poi, sulla base dell’effetto
prenotativo di questa, possa, rigettata l’istanza di ricusazione, fondare in
un momento successivo una fondata impugnativa del lodo, con ciò l’annullamento del lodo è causato dalla lesione del diritto della parte alla
terzietà dell’arbitro e non direttamente dalla violazione da parte dell’arbitro di un suo obbligo di trasparenza. Insomma, l’annullamento del lodo,
anche quando è ipotizzabile un aggiuntivo obbligo di disclosure in capo
agli arbitri, è fondato, non sulla violazione di questo obbligo, che di per sé
non vizia il lodo, bensì sulla vulnerazione del diritto della parte alla
terzietà dell’arbitro.
Ma, allora, se questo ragionamento è condivisibile e se l’interprete
deve attenersi al principio per cui, dopo la conclusione del giudizio
arbitrale un’ipotesi di responsabilità degli arbitri è configurabile solo dopo
(26) Per fare il caso più semplice si pensi ad un tribunale arbitrale monocratico. Ove,
invece, ci si dovesse trovare di fronte ad un collegio, a me sembra che l’annullamento del lodo
possa essere chiesto solo se la causa di squalificazione riguardi il presidente del collegio ovvero
l’arbitro che la parte interessata abbia nominato senza prima conoscere della sua carenza di
terzietà. Sul punto vedi, se vuoi, BOVE, op. cit., 108.
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l’annullamento del lodo e unicamente per il motivo che ha fondato detto
annullamento, evidentemente non si può dire che la violazione dell’obbligo di disclosure, ove configurabile, sia fonte di responsabilità degli
arbitri, per il semplice fatto che esso, per così dire da sé solo, non può
fondare l’annullamento del lodo (27).
Venendo, ora, alla seconda ipotesi indicata, l’art. 824 c.p.c. prevede
che gli arbitri diano comunicazione alle parti del lodo entro dieci giorni
dalla sua sottoscrizione. La domanda è: si può ipotizzare una responsabilità degli arbitri (28) ove detta comunicazione avvenga con tale ritardo da
pregiudicare il diritto della parte interessata ad impugnare il lodo?
Preliminarmente si tenga presente che nella situazione ipotizzata
l’interprete non potrebbe sminuire il problema rilevando che comunque
alla parte soccombente potrebbe essere restituito il diritto all’impugnazione in virtù dell’art. 153, 2º comma, c.p.c. Invero, potrebbe darsi il caso
che la parte non riesca ad ottenere la rimessione in termini perché non
riesca a dimostrare la sussistenza di una causa ad essa non imputabile,
eventualità nella quale, però, non si può escludere la sussistenza di una
colpa grave o addirittura del dolo degli arbitri nella violazione del termine
di cui all’art. 824 c.p.c. Anche immaginando una qualche colpa della parte
nella perdita del termine per l’impugnazione del lodo, con ciò si potrebbe
ipotizzare una riduzione nella quantificazione del danno risarcibile, in
applicazione del principio di cui all’art. 1227 c.c., ma non certo una
esclusione della responsabilità degli arbitri, sempre che, si ripete, emerga
nel caso concreto il dolo o la colpa grave.
Fatta questa precisazione preliminare, francamente a me sembra che
non si possa escludere la detta ipotesi di responsabilità in capo agli
arbitri (29). Non credo che a questa affermazione si possa contrapporre
l’idea che quella degli arbitri sarebbe una responsabilità ipotizzabile solo
nei casi tipicamente previsti dalla legge, perché francamente non mi
sembra che vi siano ragioni forti per ritenere che questa idea sia stata
trasfusa nelle previsioni del codice di rito. Piuttosto la tesi qui sostenuta
(27) Mi sembra quindi non condivisibile l’idea di AULETTA, Arbitri e responsabilità civile,
in questa Rivista, 2005, 745 ss., spec. 754 ss., che ipotizza una responsabilità in capo all’arbitro
il quale, avendo violato il suo obbligo di disclosure, abbia provocato un ritardo nel procedimento per una ritardata istanza di ricusazione. Il motivo di dissenso è di fondo, perché il detto
autore ipotizza la prospettabilità di casi di responsabilità dell’arbitro a valle del giudizio
arbitrale che prescindano dall’annullamento del lodo. Ciò nell’eventualità in cui un comportamento dell’arbitro, commesso con dolo o colpa grave, provochi un danno ingiusto. Ed, appunto,
a suo parere il caso di un arbitro che differisca con colpa grave la disclosure rientrerebbe proprio
in questo ambito.
(28) Quand’anche l’attività in parola sia devoluta al segretario del tribunale arbitrale, ove
si ipotizzi una responsabilità, ovviamente questa, a fronte delle parti, è imputabile comunque
agli arbitri, i quali evidentemente, alla luce dell’art. 1228 c.c., rispondono del fatto dei loro
ausiliari. Su questo aspetto vedi da ultimo D’APREA, Particolari ipotesi di responsabilità degli
arbitri, in Giust. Civ., 2013, II, 747 ss., spec. 750 ss.
(29) Nello stesso senso PUNZI, op. cit., 499-500.
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finisce per creare un’eccezione al principio per cui, se è stato pronunciato
il lodo, « l’azione di responsabilità può essere proposta soltanto dopo
l’accoglimento dell’impugnazione con sentenza passata in giudicato e per
i motivi per cui l’impugnazione è stata accolta ». Ma, francamente non
vedo come si potrebbe evitare una simile eccezione, posto che stiamo
ipotizzando un caso di responsabilità in capo agli arbitri proprio perché il
loro comportamento doloso o gravemente colposo ha causato l’impossibilità di giungere all’annullamento del lodo.
7. Le sanzioni in caso di responsabilità, come sopra si accennava,
consistono nella perdita del diritto al rimborso delle spese ed al compenso,
nonché nell’insorgenza di un obbligo risarcitorio. A tal proposito si
pongono alcuni problemi in ordine alle condizioni in presenza delle quali
esse sono applicabili, alla quantificazione del risarcimento del danno e al
coordinamento tra le pretese delle parti avverso gli arbitri ed altri istituti
previsti nel codice di rito.
Per quanto riguarda le condizioni che determinano la concreta applicazione delle sanzioni dobbiamo ripetere i due principi di fondo già sopra
ricordati. Il primo: ipotizzando l’opera di un collegio, ancorché ci si trovi
di fronte ad un’obbligazione ad attuazione congiunta, ciascun arbitro
risponde solo del fatto proprio compiuto con dolo o colpa grave (30). Il
secondo: un’azione di responsabilità è concepibile a giudizio arbitrale
pendente solo nelle ipotesi di cui all’art. 813-ter, 1º comma, n. 1) c.p.c.,
ossia avverso un arbitro che abbia con dolo o colpa grave omesso o
ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto ovvero abbia
rinunciato all’incarico senza giustificato motivo; mentre a seguito della
pronuncia del lodo la detta azione è esercitabile solo dopo l’annullamento
del lodo, oltretutto con sentenza passata in giudicato, e fondandosi sullo
stesso motivo che abbia causato quell’annullamento.
Per quanto riguarda la quantificazione del danno, il quinto comma
dell’art. 813-ter c.p.c. prevede che, se la responsabilità non dipende da
dolo dell’arbitro, la « misura del risarcimento non può superare una
somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di determinazione convenzionale, pari al triplo del compenso previsto dalla tariffa
applicabile ». Tuttavia, con l’avvenuta abolizione delle tariffe professio(30) Per quanto riguarda gli oneri probatori, qui dovrebbe trovare applicazione la
giurisprudenza in materia di responsabilità contrattuale per cui, se le parti devono solo allegare
il fatto costituente fonte di responsabilità e la violazione dell’obbligo di diligenza, sta all’arbitro
provare al contrario di non avere alcuna colpa, insomma che il fatto o l’errore sono dovuti a
causa a lui non imputabile o comunque il suo comportamento sia scusabile. In tema vedi Cass.
17 febbraio 2014, n. 3612, in Diritto e Giustizia online, 2014; Cass. 31 luglio 2013 n. 18341, in
Guida al diritto 2013, fasc. 43, 60; Cass. 7 giugno 2011 n. 12274, in Resp. Civ. e prev., 2012, 2, 536
con nota di RONCHI.
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nali (31), detta disposizione si applica solo se le parti e gli arbitri abbiano
stipulato un accordo su un criterio applicabile (32), che può anche rinviare
alle vecchie tariffe ovvero ai criteri assunti da una camera arbitrale o a
qualsiasi altri criterio, ovvero propriamente sui compensi da corrispondere (33).
Ma, evidentemente, i problemi più spinosi si pongono in riferimento
al terzo ordine di problemi.
Innanzitutto ci si deve chiedere se il procedimento dettato dall’art.
814 c.p.c. per la liquidazione dei compensi degli arbitri possa essere
condizionato da questioni attinenti ad eventuali profili di responsabilità.
Possono le parti in quella sede eccepire profili di responsabilità che
facciano ipotizzare la perdita per gli arbitri del diritto al compenso? Può
quel procedimento liquidatorio dover subire un arresto per la contemporanea pendenza del giudizio di impugnazione del lodo, il quale, potendo
portare all’annullamento di questo, potrebbe poi fondare l’insorgenza di
una fattispecie di responsabilità degli arbitri, con conseguente perdita del
diritto al compenso?
A me sembra che ad entrambe le domande debba certamente darsi
risposta negativa (34) per il semplice fatto che il procedimento di cui
all’art. 814 c.p.c. non ha la funzione di accertare se gli arbitri abbiano o
meno il diritto al compenso, bensì solo lo scopo di determinarne l’ammontare. Insomma, in esso, quale che sia l’idea che se ne abbia (35), in ogni
(31) Art. 9 della legge 24 marzo 2012, n. 27 (che ha convertito il d.l. n. 1 del 2012).
(32) A meno che non si ritenga che il rinvio alle tariffe oggi debba intendersi come il
rinvio ai parametri per la liquidazione giudiziale dei compensi nei casi in cui non vi siano accordi
tra gli interessati. In tal caso tornerebbe utile per gli arbitri-avvocati il richiamo all’art. 10, 1º
comma, di cui si accennava sopra alla nota 17.
(33) Nella prassi si tende a concordare un criterio in sede di costituzione del tribunale
arbitrale, al fine di consentire anche la pronuncia da parte degli arbitri dell’ordinanza sugli
anticipi, per poi, dopo gli atti introduttivi delle parti, nei quali si delinea con precisione l’oggetto
del giudizio arbitrale, siglare un accordo dettagliato sui compensi, che diversifichi le somme da
corrispondere al tribunale arbitrale a seconda dell’attività che questo sarà chiamato a svolgere.
È opportuno distinguere quantomeno cinque scaglioni a seconda che il giudizio si concluda: 1)
con conciliazione raggiunta nella fase preliminare, 2) con conciliazione raggiunta in una fase
successiva, 3) con la pronuncia di un lodo di rito, 4) con la pronuncia di un lodo di merito senza
una previa attività istruttoria né pronuncia di lodi parziali, 5) con la pronuncia di un lodo di
merito a seguito di attività istruttoria ovvero la pronuncia di lodi parziali.
(34) Vedi Cass. 7 settembre 2012 n. 15051, in Giust. Civ. rep., 2012, v. Compromesso e
arbitrato, 13, in cui si dice che il procedimento disciplinato dall’art. 814 c.p.c. non si sospende per
la pendenza del giudizio di impugnazione, perché la mera operazione di liquidazione del
quantum non è condizionata dalla verifica di eventuali vizi del lodo. Ma si trova qualche
decisione di merito in senso contrario: così Trib. Sondrio 6 ottobre 2006, in questa Rivista, 2007,
613, con nota di SANTAGADA.
(35) In altra sede (op. cit., 101) ho affermato che il detto procedimento ha una funzione
decisoria solo in ordine alla quantificazione del compenso dovuto agli arbitri, restando alle parti
la facoltà di contestare in un successivo giudizio dichiarativo, non più l’ammontare, bensì la
spettanza dei compensi, proprio in virtù di una causa di responsabilità. Ma la giurisprudenza più
recente, partendo dal presupposto che qui si avrebbe solo una quantificazione sostitutiva della
volontà negoziale, nega a quel procedimento ogni valenza decisoria, pure in riferimento alla
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caso si tratta di fissare il quantum debeatur, senza interrogarsi sull’an
debeatur, con la conseguenza che di quest’ultimo aspetto parti ed arbitri
potranno discutere nell’ambito del processo dichiarativo in cui sia esercitata l’azione di responsabilità.
Né si dica che in questo modo potrebbe addossarsi alle parti l’inconveniente di trovarsi prima a dover pagare i compensi agli arbitri, per poi
chiederne le restituzioni. Invero, posta la necessità, prima di poter far
emergere un’azione di responsabilità degli arbitri, di ottenere l’annullamento del lodo, il rischio è certamente prospettabile. Ma è anche vero che,
per un verso, si deve tenere presente come spesso la gran parte dei
compensi sia richiesta alle parti già prima della pronuncia del lodo, quindi
a giudizio arbitrale pendente (36), e, per altro verso, il problema non
deriva certo dalle caratteristiche del procedimento disciplinato nell’art.
814 c.p.c. Invero, da questo ultimo punto di vista, se in quel procedimento
nulla si può discutere in ordine all’an debeatur, resta però possibile per le
parti sollevare ogni contestazione in sede di opposizione all’esecuzione (37).
Infine, si pone il problema del rapporto tra il giudizio in cui si sia
ottenuto l’annullamento del lodo ed il processo dichiarativo che abbia ad
oggetto la causa di responsabilità. Qui si deve partire da due rilievi: 1) che
l’annullamento del lodo è certamente una condizione necessaria perché
sia esperibile l’azione di responsabilità; 2) che gli arbitri, convenuti nell’azione di responsabilità, normalmente non hanno prima preso parte al
giudizio d’impugnazione del lodo.
Ed, allora, non ci si può limitare a dire che l’annullamento del lodo è
solo un fatto che come tale vale anche per gli arbitri (38). È vero che, se
così si può dire, il fatto-annullamento è condizione necessaria per l’azione
quantificazione. La conseguenza di questa posizione è duplice: 1) si nega l’ammissibilità del
ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, 7º comma, Cost. avverso il provvedimento del
giudice e 2) si afferma che in sede di opposizione all’esecuzione l’interessato potrebbe
contestare anche detta quantificazione. Così Cass. 8 febbraio 2013 n. 3069, in Giust. Civ., 2013,
I, 2060; Cass., S.U., 31 luglio 2012 n. 13620, in questa Rivista, 2012, 847 con nota di TISCINI; Cass.
3 luglio 2009 n. 15592, in Foro it., 2009, I, 3340.
(36) Con la conseguenza che normalmente le parti che vogliano esperire azioni di
responsabilità dovrebbero trovarsi a chiedere la restituzione di somme già pagate.
(37) Diversa è la costruzione di AULETTA, op. cit., 765-766, il quale ritiene che, perfezionatasi la fattispecie di responsabilità (quindi a valle dell’annullamento del lodo), il giudice
investito ai sensi dell’art. 814 c.p.c. debba rigettare la domanda degli arbitri, dovendosi, però, in
questo caso ricorrere ad una cognizione piena. Ma non credo che questa soluzione sia
prospettabile. Al più potrebbe in astratto prospettarsi la soluzione offerta da GARBAGNATI,
Sull’ordinanza di liquidazione dell’onorario degli arbitri, in Giur. It., 1968, I, 1, 676, secondo il
quale il giudice dovrebbe dichiarare inammissibile il ricorso presentato dagli arbitri ai sensi
dell’art. 814 c.p.c. ove emerga una contestazione, non sulla quantificazione, bensì sull’an
debeatur. Ma questa idea non sembra accoglibile alla luce della funzione che ormai la
giurisprudenza attribuisce la procedimento in parola, il quale, comunque lo si veda, resta
limitato alla questione della quantificazione.
(38) Così ZUMPANO, op. cit., 151, nt. 16.
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di responsabilità, ma è altrettanto vero che, per la normale applicazione
dei principi vigenti in materia di limiti soggettivi della cosa giudicata,
l’accertamento che fonda quel fatto non è opponibile agli arbitri, che ben
possono affermare l’ingiustizia dell’avvenuto annullamento (39).
The article, having considered in general terms the contractual nature of the
relationship between the parties to an arbitration and the members of the arbitral
tribunal, surveys the areas of potential liability of arbitrators. The writer does this
both by reference to the typical fact situations of liability provided in the Code of
Civil Procedure (CPC), as well as by exploring the possible further areas of liability
not expressly foreseen in the Code, before then examining the consequences deriving
from the liability of an arbitrator and the conditions which are required to exist for
the purposes of the application of sanctions. The writer concludes by examining the
relationship between legal proceedings for the liability of an arbitrator and proceedings, on the one hand, for the determination of the remuneration of the arbitrators
pursuant to article 814 CPC and, on the other hand, for the setting aside of an award.
(39) In tal senso in fondo Cass. 10 settembre 2012 n. 15067, Rep. Giust. Civ. 2012, v.
Compromesso e arbitrato, 14. Peraltro questo assunto dovrebbe, a rigor di logica, anche
costituire un ulteriore argomento per negare la possibilità di sospendere il procedimento di cui
all’art. 814 c.p.c. in attesa della definizione del giudizio di annullamento del lodo, posto che il
giudicato prodotto in questo non varrebbe in quel procedimento.
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Le nuove Regole di Vienna e la riforma
del diritto dell’arbitrato austriaco
CHRISTIAN ASCHAUER (*)
I. Le nuove Regole di Vienna. — II. La riforma del diritto dell’arbitrato austriaco.
— III. Conclusione.
I. Gli ultimi 12 mesi hanno visto due novità di grande rilievo per lo
sviluppo dell’arbitrato internazionale in Austria: il 1º luglio 2013, è entrata
in vigore una riforma del Regolamento di Arbitrato della Camera Federale dell’Economia d’Austria (“Regole di Vienna”) (1) che si applica per
tutti i procedimenti arbitrali nei quali l’azione è stata proposta dopo il 30
giugno 2013 (2). Dal 1º gennaio 2014 (3), inoltre, si applicano nuove
disposizioni per il giudizio d’annullamento del lodo, secondo le quali la
competenza per il giudizio d’annullamento è attribuita alla Corte Suprema
che decide come primo e ultimo grado di giurisdizione. Nelle pagine
seguenti, l’autore descrive in grandi linee queste riforme, entrambe destinate a promuovere l’Austria come sede di arbitrati internazionali.
1. Il Centro Arbitrale Internazionale della Camera Federale dell’Economia d’Austria (“VIAC”) è fra le istituzioni più prestigiose in materia
di arbitrato in Europa. Risalendo all’anno 1975, il VIAC ha amministrato
(*) Avvocato del Foro di Vienna.
(1) Nelle pagine seguenti, il riferimento a un articolo senza un’ulteriore specificazione va
inteso come riferimento alle Regole di Vienna nella versione in vigore dal 1º luglio 2013. La
nuova versione delle Regole di Vienna è reperibile sul sito internet del Centro Arbitrale
Internazionale della Camera Federale dell’Economia d’Austria, www.viac.eu, dove si trovano
inoltre traduzioni delle nuove Regole di Vienna in lingua inglese, cinese, portoghese, russa,
slovacca, spagnola e ceca.
(2) Cfr. l’art. 47; il nuovo regolamento si applica senza riguardo alla data in cui la
clausola arbitrale è stata convenuta.
(3) Ai sensi dell’art. 3 della Legge sulla riforma dell’arbitrato 2013 (“SchiedsrechtsÄnderungsgesetz 2013”) dell’11 luglio 2013, Gazzetta Ufficiale 2013, vol. 1, n. 118, il nuovo rito
si applica a tutte le procedure d’annullamento nelle quali l’atto di citazione è stato depositato
dopo il 31 dicembre 2013; la data dell’emanazione del lodo o dell’inizio della procedura arbitrale
è assolutamente ininfluente.
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oltre 1600 procedure arbitrali di carattere internazionale. Al giorno del 31
dicembre 2013, il numero di casi pendenti era di 76, di cui 56 iniziati nel
corso dell’anno 2013. Il valore complessivo delle controversie pendenti è
stato all’incirca EUR 1,36 miliardi. Sono rappresentati tutti i settori
dell’economia, dal commercio (21%) alle attrezzature e macchinari
(17%), finanza (16%), appalti (14%), i settori business services e distribuzione (ciascun settore 10%), fino all’energia (8%), fusioni e acquisizioni
(2%) e immobiliare (2%). Al giorno del 31 dicembre 2013, 94 parti erano
d’origine europea, 11 dell’Asia e 1 dell’Africa e delle Americhe ciascuna;
si osserva una continua espansione dell’istituzione anche oltre i confini
europei (4).
2. Il VIAC è un’istituzione creata all’interno della Camera Federale
dell’Economia d’Austria. I suoi organi sono il Comitato Direttivo (“Präsidium”) e il Segretariato (“Sekretariat”). Tutti i membri del Comitato
Direttivo, compresi il Segretario Generale e il Sostituto Segretario
Generale, sono completamente indipendenti e non vincolati da alcuna
direttiva nell’esercizio delle loro funzioni (5). Il Comitato Direttivo è
composto da almeno cinque membri; il numero attuale dei membri è di
10, scelti tra i rappresentanti delle scienze giuridiche, avvocati e magistrati (6). I membri del Comitato Direttivo sono nominati dalla Presidenza della Camera Federale dell’Economia d’Austria su proposta del
Presidente del Comitato Direttivo, per un periodo rinnovabile di cinque
anni (7). Il Segretariato, diretto dal Segretario Generale e dal Sostituto
Segretario Generale, si occupa delle questioni amministrative del centro
arbitrale, non espressamente riservate al Comitato Direttivo (8). Esiste,
inoltre, un Comitato Internazionale di Consultazione (9). Le lingue di
corrispondenza del Comitato Direttivo e del Segretariato sono il tedesco
e l’inglese (10).
3. La più recente riforma delle Regole di Vienna fa seguito alla
riforma del 2006 e tiene conto delle esperienze acquisite dal VIAC
nell’intervallo di tempo intercorso tra le due ultime riforme. Inoltre, il
VIAC ha organizzato per gli utenti un sondaggio online per valutare le
(4) Cfr. la più recente statistica al 31 dicembre 2013, reperibile sul sito internet del VIAC
su www.viac.eu.
(5) Art. 2, comma 4, e art. 4, comma 4. Cfr., in oltre, il § 139, comma 4, della Legge sulla
Camera Federale dell’Economia d’Austria, che garantisce l’indipendenza degli organi del
VIAC.
(6) Tutti i membri del Comitato direttivo e del Segretariato vengono presentati sul sito
internet del VIAC.
(7) Art. 2, comma 1 e 2.
(8) Art. 4, comma 2.
(9) Art. 3.
(10) Art 5.
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loro esigenze. È risultato che gli utenti apprezzavano la grande flessibilità
delle Regole di Vienna; si manifestava comunque la necessità sia di
un’esauriente disciplina sull’arbitrato con pluralità di parti, un fenomeno
d’importanza sempre crescente, sia di una specifica normativa dedicata al
rito accelerato (11).
4. Per promuovere la conoscenza dell’applicazione delle nuove regole, il VIAC ha pubblicato, in versione tedesca e inglese, una guida
dettagliata in forma di commentario (12). Il nuovo regolamento è stato
presentato, inoltre, in una serie di “roadshows” in varie città straniere ed
è stato ampiamente oggetto di approfondimenti da parte della dottrina (13).
5.1. Il procedimento arbitrale del VIAC inizia con la presentazione
della domanda presso il Segretariato. I requisiti formali della domanda
sono disciplinati dall’art. 7. Con la riforma del 2013, il VIAC ha abrogato
la condizione secondo cui l’attore deve allegare una copia della convenzione da cui risulti la competenza del VIAC (14), tenendo conto delle
fattispecie in cui la competenza sia stata stabilita nell’ambito di un
Accordo sulla protezione degli investimenti, nonché di quei casi in cui
l’attore domanda l’applicazione della convenzione arbitrale nei confronti
di una parte che non l’abbia firmata. La domanda deve contenere, invece,
le “indicazioni sulla convenzione arbitrale e sul suo contenuto” (15). È
stata abrogata, inoltre, la disposizione secondo cui la domanda deve
contenere l’indicazione delle “prove richieste” (16), permettendo così la
presentazione di una domanda simile ad una Notice of Arbitration. Oltre
alle indicazioni sulla convenzione arbitrale, la domanda deve comunque
contenere (17):
(11) Per l’iter della riforma, cfr. FREMUTH-WOLF, VIAC und die neuen Regeln 2013,
b-Arbitra 2014, 139.
(12) Handbuch Wiener Regeln. Ein Leitfaden für die Praxis, Vienna, 2013 e Handbook
Vienna Rules. A Practitioner’s Guide, Vienna 2014, con i contributi di (in ordine alfabetico):
BAIER, BREDOW, BUSSE, FREMUTH-WOLF, GANTENBERG, GRILL, HAHNKAMPER, HAUGENEDER, HAUSER, HEIDER, HORVATH, HOßFELD, KLÖTZEL, KOLLER, KREINDLER, KÜHN, NETAL, OBERHAMMER,
PETERS, PETSCHE, PITKOWITZ, PÖRNBACHER, RECHBERGER, RIEGLER, SCHÄFER, SCHIFFERL, SCHWARZENBACHER, STEINDL, STIPPL, TRITTMANN, WONG E ZEILER.
(13) Cfr. BAIER, Die neue Schiedsordnung des Internationalen Schiedsgerichts der WKÖ,
ecolex 2013, 697; HEIDER e NUEBER, Institutionelle Schiedsgerichtsbarkeit am Schiedsort Wien, in
Liber Amicorum Hellwig Torggler, Vienna, 2013, 451; FREMUTH-WOLF, VIAC und die neuen
Regeln 2013, b-Arbitra 2014, 140 s.; SCHWARZ e KONRAD, The Revised Vienna Rules, ASA
Bulletin 2013, 797.
(14) Cfr., l’art. 9, comma 4, delle Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º
luglio 2006.
(15) Art. 7, comma 3, n. 3.6.
(16) Cfr., l’art. 9, comma 3, lettera b, delle Regole di Vienna nella versione entrata in
vigore il 1º luglio 2006.
(17) Art. 7, comma 3.
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— la denominazione delle parti e i loro indirizzi,
— “l’indicazione dei fatti” e la “richiesta specifica”,
— l’indicazione del “valore monetario della controversia al momento
della presentazione della domanda” qualora essa non miri esclusivamente
al pagamento di una certa somma di denaro,
— il numero degli arbitri qualora esso non sia stato definito nella
convenzione arbitrale,
— la nomina di un arbitro nei casi in cui le parti si siano accordate
oppure l’attore richieda la costituzione di un collegio di tre arbitri.
5.2. Il Segretario Generale provvede alla notifica della domanda alla
parte convenuta, invitandola a presentare la risposta entro un termine di
30 giorni. Il nuovo regolamento dispone che la comparsa di risposta deve
contenere, oltre ai requisiti già previsti nel precedente regolamento (18),
una “dichiarazione attinente ai fatti” e la “richiesta specifica” (19). Questi
nuovi requisiti mirano all’impedimento di risposte evasive e all’accelerazione della procedura.
5.3. Anche la domanda riconvenzionale va presentata ugualmente
presso il Segretariato. Le Regole di Vienna non pongono un limite di
tempo per la presentazione della domanda riconvenzionale. Qualora il
tribunale arbitrale sia già stato costituito, il Segretariato, dopo il versamento dell’anticipo delle spese fissato per la domanda riconvenzionale,
trasmette la domanda riconvenzionale al tribunale arbitrale. Qualora le
parti non siano le stesse del procedimento principale, oppure nei casi in
cui il trattamento della riconvenzionale nel procedimento principale comporti un notevole ritardo, il tribunale arbitrale può destinare la domanda
riconvenzionale ad un procedimento separato. Se il tribunale arbitrale
ammette invece la domanda riconvenzionale, quest’ultimo inviterà l’attore a presentare la sua difesa (20).
5.4. Tutti gli arbitri devono svolgere la loro funzione in piena
indipendenza dalle parti, con imparzialità, secondo scienza e coscienza, e
non devono essere vincolati da alcuna direttiva (21). La riforma non incide
sulla regola generale delle Regole di Vienna secondo cui, qualora la
(18) Cfr., l’art. 10, comma 2, delle Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º
luglio 2006, secondo cui la risposta doveva contenere una dichiarazione sull’oggetto della
domanda, indicazioni sul numero degli arbitri oppure la designazione di un arbitro qualora la
convenzione arbitrale facesse riferimento ad un collegio di tre arbitri.
(19) Art. 8, comma 2.
(20) Art. 9, comma 1 a 4.
(21) Art. 16, comma 2.
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decisione spetti ad un collegio di tre arbitri, ciascuna parte (ovvero la
pluralità di attori o la pluralità di convenuti) può nominare un arbitro e il
presidente del collegio arbitrale viene nominato da quest’ultimi (22).
5.5. Dopo la nomina, il Segretario Generale invita la persona designata a dichiarare espressamente la sua indipendenza, imparzialità e
disponibilità all’incarico (23), nonché l’accettazione delle Regole di
Vienna (24). La persona designata è obbligata a rivelare tutte le circostanze che potrebbero far sorgere dubbi circa la sua imparzialità e indipendenza; questo obbligo permane anche nel caso in cui queste circostanze si manifestino durante il corso del suo mandato (25). In una
sentenza recente (26), la Corte Suprema Austriaca (27) ha stabilito che la
mancata rivelazione, da parte dell’arbitro, di un difetto d’indipendenza
particolarmente grave può costituire un motivo per l’annullamento del
lodo ai sensi del § 611, comma 2, n. 4 o 5 del Codice di procedura civile
austriaco (28) (29), anche se i fatti rilevanti si siano manifestati solo dopo la
pronunzia del lodo.
5.6. Il nuovo regolamento prevede che il Segretario Generale debba
confermare la nomina dell’arbitro qualora non ci siano dubbi circa la sua
indipendenza e imparzialità, oppure sulla sua capacità di svolgere regolarmente la sua funzione. Se lo ritiene opportuno, il Segretario Generale
può deferire questa decisione al Comitato Direttivo (30). Con il nuovo
requisito della conferma, il regolamento mira a garantire in modo più
efficace l’indipendenza e l’imparzialità del tribunale arbitrale. Se una
persona nominata non viene confermata, il Segretario invita la parte alla
quale spetta la designazione dell’arbitro a designare un altro arbitro entro
un termine di 30 giorni. Nell’ipotesi in cui anche il secondo candidato non
possa essere confermato, l’arbitro è designato dal Comitato Direttivo (31).
5.7.
Non è stato modificato il principio secondo cui un arbitro può
(22) Cf., art. 14 delle Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º luglio 2006;
art. 17 delle Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º luglio 2013.
(23) La dichiarazione sulla disponibilità è stata introdotta dal nuovo regolamento.
(24) Art. 16, comma 3.
(25) Art. 16, comma 4.
(26) Corte Suprema, sentenza del 17 giugno 2013, n. 2 Ob 112/12b, in Der Gesellschafter
2014, 7 ss., con commenti di REINER e VANOVAC.
(27) “Corte Suprema”.
(28) Il § 611, comma 2, n. 4, del Codice di procedura civile austriaco (“CPC”) dispone che
il lodo deve essere annullato se la costituzione o la composizione del tribunale arbitrale è stata
irregolare.
(29) Il § 611, comma 2, n. 5 CPC contiene un motivo particolare di annullamento, e cioè
la violazione dell’ordine pubblico procedurale (se il procedimento arbitrale è stato condotto in
modo tale da risultare contrario ai valori fondamentali dell’ordinamento austriaco).
(30) Art. 19, comma 2.
(31) Art. 19, comma 4.
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essere ricusato solamente se sussistono delle circostanze che fanno nascere
legittimi dubbi circa la sua imparzialità e indipendenza oppure se non
soddisfa eventuali requisiti precedentemente concordati tra le parti (32).
Ai sensi dell’art. 20, comma 2, l’atto di ricusazione deve essere depositato
presso il Segretariato entro 15 giorni dal momento in cui la parte abbia
conoscenza del motivo di ricusazione. Nel caso in cui l’arbitro ricusato non
si dimetta, la decisione sulla ricusazione spetta al Comitato Direttivo (33).
Il tribunale arbitrale, ivi compreso l’arbitro ricusato, può procedere, a
dispetto della ricusazione, con il giudizio arbitrale; il lodo invece può
essere pronunziato solo dopo la decisione del Comitato Direttivo sulla
ricusazione (34). Qualora la sede dell’arbitrato sia in Austria (35), la decisione del Comitato Direttivo con cui è stata negata la ricusazione è
soggetta ad un ricorso al giudice statale che deve essere depositato entro
quattro settimane dalla notifica della decisione alle parti. Secondo la più
recente riforma del CPC, il giudice statale competente in materia è la
Corte Suprema che decide in primo e ultimo grado di giurisdizione (36).
6.1. Un punto essenziale della riforma è stata la revisione delle
regole circa l’arbitrato “complesso”, riesaminando le problematiche attinenti alla costituzione del tribunale arbitrale in situazioni con più di due
parti, alla chiamata in arbitrato e alla riunione delle procedure arbitrali.
L’arbitrato commerciale deve, infatti, venire incontro alle esigenze dell’economia contemporanea, caratterizzata da relazioni multilaterali di cooperazione sempre più sofisticate. Il fatto che si riesca, in sede arbitrale, a
comporre conflitti fra più di due parti con interessi che non s’iscrivono
nell’antagonismo tradizionale fra attore e convenuto, costituisce ormai un
pregio dell’arbitrato rispetto alla giurisdizione dei tribunali statali.
6.2.1. Per quel che concerne la costituzione del tribunale arbitrale in
situazioni con più di due parti, l’art. 18, comma 2, prevede che, qualora la
decisione sia deferita ad un collegio di tre arbitri, gli attori congiuntamente e/o i convenuti congiuntamente devono designare un arbitro. L’art.
18, comma 3, precisa che la partecipazione delle parti alla nomina congiunta di un arbitro non comporta la rinuncia a sollevare l’eccezione
d’incompetenza del tribunale arbitrale, eccezione che può anche riferirsi
solamente alla impossibilità che le domande siano decise in un singolo
(32) Cfr., l’art. 16, 1 comma, Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º luglio
2006 e l’art. 20, comma 1.
(33) Art. 20, comma 3.
(34) Art. 20, comma 4.
(35) Questo è il caso di quasi tutte le procedure amministrate dal VIAC; infatti, ai sensi
dell’art. 25, comma 1, la sede dell’arbitrato è Vienna, se le parti non hanno disposto diversamente.
(36) V. il seguente punto II.
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arbitrato. La decisione circa queste questioni è sempre riservata al tribunale arbitrale: l’art. 24, comma 2, dispone chiaramente che il tribunale
arbitrale decide sulla propria competenza, nello stesso lodo con cui decide
sul merito ovvero con un lodo apposito.
6.2.2. Qualora una pluralità di parti appartenenti ad uno stesso
gruppo (attori o convenuti) non riesca a designare congiuntamente un
arbitro, ai sensi dell’art. 18, comma 4, l’arbitro è nominato dal Comitato
Direttivo. L’art. 18, comma 4, dispone inoltre che il Comitato Direttivo,
avendo sentito le parti, può, a titolo eccezionale, nominare ex novo tutti i
membri del collegio arbitrale. Questa nuova disposizione, ispirata dalla
decisione della Corte di Cassazione francese nel caso Dutco (37), permette
al Comitato Direttivo di garantire l’assoluta parità di tutte le parti nella
costituzione del tribunale arbitrale (38). Si tratta di un’eccezione al principio generale secondo cui il Comitato Direttivo si limita alla nomina per
sopperire alla decisione da parte della pluralità di attori o convenuti che
non riescano (o pretendano di non riuscire) congiuntamente alla nomina,
lasciando all’altra parte l’arbitro scelto dalla medesima.
6.3.1. L’art. 14, intitolato “chiamata in arbitrato di un terzo”, costituisce un’assoluta novità nel sistema delle Regole di Vienna: il suo 1º
comma dispone infatti quanto segue: “La decisione sulla chiamata di un
terzo nel procedimento arbitrale così come sulle modalità in cui esso
parteciperà all’arbitrato spetta al tribunale arbitrale, il quale decide su
richiesta di una parte o su richiesta del terzo, dopo aver sentito tutte le
parti ed il terzo chiamato in arbitrato, considerando tutte le circostanze
rilevanti in materia” (39). Questa regola è di grande flessibilità (40), non
escludendo qualsiasi fenomeno di partecipazione di un terzo. Il terzo può
intervenire a seguito di una domanda proposta da una delle parti dell’arbitrato (attore o convenuto) nei confronti del terzo oppure una domanda
proposta dal terzo nei confronti di una delle parti; e può chiamare in
(37) Cfr. in proposito, SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999,
189-191.
(38) Il Comitato Direttivo dispone di una discrezione in quanto l’art. 18, comma 4,
prevede che il Comitato direttivo “possa” nominare tutti i membri del collegio arbitrale.
(39) “Art. 14(1): Über die Einbeziehung einer Drittperson in ein Schiedsverfahren sowie
über die Art ihrer Teilnahme entscheidet auf Antrag einer Partei oder einer Drittperson das
Schiedsgericht nach Anhörung aller Parteien und der einzubeziehenden Drittperson sowie
unter Berücksichtigung aller maßgeblichen Umstände.” / “Artikel 14(1): The joinder of a third
party in an arbitration, as well as the manner of such joinder, shall be decided by the arbitral
tribunal upon the request of a party or a third party after hearing all parties and the third party
to be joined as well as after considering all relevant circumstances.” In questo articolo le
traduzioni dalle versioni originali tedesca ed inglese delle Regole di Vienna sono a cura
dell’autore.
(40) Per una discussione complessiva della regola, cfr. OBERHAMMER e KOLLER, in Handbook Vienna Rules. A Practitioner’s Guide, 69-81.
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arbitrato un altro terzo (41) (“chiamata del terzo con domanda”). Non è
esclusa nemmeno la partecipazione di un terzo che non faccia valere un
proprio diritto, oppure che non si difenda nei confronti di una domanda
(“chiamata del terzo senza domanda apposita”), come per esempio la
partecipazione nella veste di un semplice litisconsorte, amicus curiae o il
cosiddetto “vouching in”. Inoltre, la norma non pone limiti di tempo,
permettendo la chiamata del terzo in arbitrato non solo prima ma anche
dopo la costituzione del tribunale arbitrale.
6.3.2. La grande flessibilità della norma non implica per nulla che
tutte queste fattispecie di partecipazione siano possibili nel caso concreto.
Nell’ipotesi in cui il terzo proponga una domanda, oppure se una domanda venga proposta nei confronti di un terzo (“chiamata del terzo con
domanda”) (42), il terzo, qualora non accetti la composizione del tribunale
già costituito, deve avere la possibilità di partecipare alla costituzione del
tribunale arbitrale. Per conseguenza, la chiamata del terzo con domanda
va proposta prima della costituzione del tribunale arbitrale. Inoltre, l’art.
14 non può servire come fondamento per la competenza del tribunale
arbitrale nei confronti del terzo. Dal momento che l’arbitrato è una
procedura basata sul consenso delle parti, il tribunale arbitrale, una volta
costituito, deve esaminare (i) se la convenzione d’arbitrato sia valida nei
confronti di tutte le parti della procedura, ivi compreso il terzo, e, (ii) se
le parti abbiano acconsentito che tutte le domande proposte siano definite
in un singolo arbitrato. A questo proposito, entrano in gioco l’interpretazione e la concreta applicazione della clausola arbitrale. Qualora le parti
siano vincolate all’arbitrato da una singola ed unica clausola arbitrale, si
deve presumere cha abbiano acconsentito alla definizione di tutte le
domande in una singola procedura. Qualora si tratti invece di una serie di
clausole arbitrali contenute in contratti diversi, bisogna esaminare se le
clausole arbitrali siano identiche oppure compatibili fra loro ed inoltre, se
il rapporto sostanziale fra le parti plurime sia tale da consentire una
singola procedura arbitrale. In ogni caso, vanno considerate le disposizioni
di natura imperativa della lex arbitri. Saranno rilevanti anche altre circostanze, come quelle attinenti alla natura confidenziale dell’arbitrato, alla
tempistica della chiamata del terzo (nella fase introduttiva del procedimento arbitrale o in una fase successiva in cui la partecipazione del terzo
potrebbe ritardare la definizione della causa), ai costi della procedura, etc.
6.3.3.
Nei casi di “chiamata del terzo con domanda”, detta domanda
(41) Un’azione del terzo presuppone ovviamente che abbia avuto conoscenza dell’arbitrato pendente da una delle parti. I membri del Comitato esecutivo o del Segretariato sono
vincolati ad uno stretto obbligo di confidenzialità; cfr. l’art. 2, comma 4, e l’art. 4, comma 4.
(42) Cf., art. 14, comma 3.
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deve essere depositata presso il Segretariato; l’art. 7 in materia di requisiti
formali della domanda e l’art. 8 in materia di risposta alla domanda si
applicano mutatis mutandis. Il tribunale arbitrale, una volta costituito,
decide sulla sua competenza nei confronti del terzo mediante lodo, emanato insieme alla decisione sul merito, oppure separatamente (43).
6.3.4. Se il tribunale arbitrale nega la sua competenza nei confronti
del terzo, si pone il problema su come proseguire le procedure arbitrali.
Per quel che concerne la procedura “originale”, si potrebbe, infatti,
obiettare che le parti abbiano dovuto scegliere un arbitro congiuntamente
ad un terzo, in seguito “espulso” per decisione del tribunale arbitrale, e
che la scelta sarebbe stata diversa in assenza del terzo. Inoltre, basti
pensare all’ipotesi in cui il Comitato Direttivo abbia nominato tutti i
membri del tribunale arbitrale sulla base dell’art. 18, comma 4, a causa
dell’impossibilità di una parte di designare un arbitro congiuntamente al
terzo. Al fine di rimediare efficacemente a queste situazioni, l’art. 14,
comma 3, no. 3.3, dispone che il Comitato Direttivo può revocare la
conferma degli arbitri, e procedere alla ricostituzione del tribunale arbitrale “originale”. Per quel che concerne invece la procedura in materia di
domanda nei confronti del terzo (oppure in materia di domanda del
terzo), il tribunale arbitrale deve rinviare la causa al Segretariato il quale,
sentito il terzo, conclude il procedimento (nell’ipotesi in cui il terzo rinunzi
alla domanda) oppure provvede alla costituzione di un altro tribunale
arbitrale chiamato a decidere sulla domanda in un procedimento separato.
6.3.5. Se il terzo viene chiamato in arbitrato (oppure chiede di essere
ammesso all’arbitrato) nella veste di un semplice litisconsorte o amicus
curiae (“chiamata in arbitrato senza domanda”), non si pongono problematiche concernenti la costituzione del tribunale arbitrale e/o la competenza del tribunale arbitrale. Il tribunale arbitrale deve comunque esaminare se la partecipazione del terzo sia conforme alla volontà comune,
espressa o tacita, delle parti; se la natura confidenziale dell’arbitrato
escluda o meno la chiamata del terzo; oppure, se la chiamata in arbitrato
contribuisca alla risoluzione complessiva della controversia o comporti un
ritardo della procedura, etc. Il tribunale arbitrale, sentite le parti e il terzo,
può decidere con ordinanza motivata.
6.4. La terza novità concernente l’arbitrato “complesso” è l’art. 15
sulla riunione di due o più arbitrati. Si tratta di una misura amministrativa
(43) Qualora il terzo non faccia valere un proprio diritto oppure non si difenda nei
confronti di una domanda, il tribunale arbitrale decide sull’ammissibilità della chiamata in causa
tramite ordinanza.
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di competenza del Comitato Direttivo, e non del tribunale arbitrale.
Anche questa volta, la regola è molto flessibile, limitandosi a prescrivere
che, presupponendo che il luogo dell’arbitrato relativo a tutte le clausole
arbitrali che riguardano le domande proposte sia uguale, la riunione può
aver luogo, su richiesta di una parte:
— se le parti abbiano acconsentito alla riunione, oppure,
— se i tribunali arbitrali costituiti siano identici.
L’art. 15, comma 2, dispone inoltre che il Comitato Direttivo decide,
dopo aver sentito tutte le parti e gli arbitri già confermati, alla luce di
“tutte le circostanze rilevanti per la riunione, fra cui la compatibilità delle
clausole arbitrali e la rispettiva fase procedurale raggiunta”. Questa decisione va fatta nel pieno rispetto dell’autonomia delle parti e dei loro
accordi sulla procedura. Il Comitato Direttivo valuterà quindi se le regole
per la costituzione del tribunale arbitrale siano in sintonia (arbitro unico
o collegio di tre arbitri; nomina del presidente ad opera dei co-arbitri
oppure dal Comitato Direttivo); la lingua degli arbitrati; se le parti
abbiano acconsentito a trattare tutte le domande in una singola procedura
(il che sembra ovvio nel caso in cui le parti siano vincolate da una singola
ed unica clausola arbitrale). Ci saranno pure considerazioni pratiche come
la questione se la riunione sia utile o meno per accelerare la risoluzione
della controversia e idonea a evitare decisioni contradittorie. La riunione
di arbitrati sarà presumibilmente un avvenimento raro, considerando i
rigidi presupposti, però certamente utile e conveniente.
7. Non è stata modificata la sostanza delle regole sulla sede dell’arbitrato: se le parti non hanno disposto diversamente, la sede dell’arbitrato
è Vienna; il tribunale arbitrale può invece procedere ad atti di procedura
in qualsiasi luogo da esso ritenuto idoneo ed è libero di deliberare in
qualsivoglia luogo e modo (44). Inoltre, il tribunale arbitrale decide sulla
lingua dell’arbitrato, tenendo conto di tutte le circostanze, in particolare
della lingua del contratto (45).
8. Ai sensi dell’art. 28, comma 1, il tribunale arbitrale deve procedere secondo le Regole di Vienna e gli accordi raggiunti dalle parti; in
assenza di un’apposita disposizione nelle Regole di Vienna e negli accordi
delle parti, il tribunale arbitrale ha un grande potere discrezionale e può
procedere come giudica appropriato. Le parti devono invece essere trattate con equità (“fair”) dovendo essere concessa a ciascuna di loro il
diritto di essere sentita in ogni fase della procedura (46). Ciononostante, il
(44)
(45)
(46)
Art. 25.
Art. 26.
Art. 28, comma 1.
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tribunale arbitrale è autorizzato a dichiarare, con preavviso, che allegazioni, presentazioni di mezzi di prova oppure richieste istruttorie saranno
ammissibili solo entro una determinata fase del procedimento (47). Inoltre,
il tribunale arbitrale ha un ampio potere di assumere prove di sua
iniziativa e può, se lo ritiene opportuno, interrogare parti o testimoni,
invitare le parti a presentare documenti ed oggetti d’ispezione e consultare
esperti e periti (48). La fissazione di udienza è obbligatoria solo a seguito
di istanza di parte. Le parti possono, di comune accordo, rinunciare alla
fissazione dell’udienza (49).
9. Non appena il tribunale arbitrale abbia accertato che le parti
avevano avuto opportunità sufficienti per produrre le loro allegazioni e
prove, dichiara il procedimento concluso (50). Una novità molto apprezzata dalle parti è la disposizione secondo cui il tribunale arbitrale deve
informare il Segretario Generale e le parti sulla data presumibile per la
pronunzia del lodo (51). Si considera che un termine da 2 a 3 mesi dalla
chiusura della procedura sia appropriato per la pronunzia del lodo nel
caso della competenza di un arbitro unico, e da 3 a 4 mesi nel caso di un
collegio arbitrale (52). Se la decisione spetta ad un collegio arbitrale, il lodo
deve essere adottato con la maggioranza dei voti; se la maggioranza non
si forma, il presidente decide da solo (53).
10. Il lodo non viene esaminato dal VIAC; si è consolidata invece la
prassi di portare a conoscenza del Segretario Generale una bozza del lodo
per avere eventuali commenti. Questa prassi risulta molto utile, soprattutto nell’ipotesi di un arbitro unico che non ha l’opportunità di confrontarsi con co-arbitri. Il Segretario Generale può anche verificare se i
requisiti di forma per il lodo siano adempiuti e controllare il calcolo della
ripartizione delle spese della procedura.
11. In Austria, è riconosciuto il potere dei tribunali arbitrali di
emanare misure provvisorie e cautelari (54). Il giudice statale può anche
eseguire un provvedimento provvisorio o cautelare emanato da un tribunale arbitrale restando ininfluente la sede dell’arbitrato, quindi sia che si
(47) Art. 28, comma 2.
(48) Art. 29, comma 1.
(49) Art. 30, comma 1; questa regola deriva dal § 598, comma 2, CPC che dispone, in
sostanza, che l’udienza orale su richiesta di parte è obbligatoria a meno che le parti non abbiano
esclusa tale facoltà.
(50) Art. 32.
(51) Art. 32.
(52) FREMUTH-WOLF, VIAC und die neuen Regeln 2013, b-Arbitra 2014, 176.
(53) Art. 35, comma 1.
(54) V. § 593, comma 1, CPC.
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trovi in Austria che all’estero (55). Il § 593, comma 1, del CPC contiene
invece una certa limitazione dei poteri del tribunale arbitrale in sede
cautelare nella misura in cui dispone che il tribunale arbitrale può ordinare provvedimenti provvisori o cautelari “da esso ritenuti necessari”, ma
solo “in relazione all’oggetto della controversia”, e “per evitare che la
realizzazione del diritto sia messa in pericolo o resa ancora più onerosa o
che si verifichi un danno irreparabile”. L’art. 22 delle Regole di Vienna
nella versione entrata in vigore il 1º luglio 2006 ha mutuato dal CPC
questa limitazione. La formula limitativa non si trova più nell’art. 33,
comma 1, delle Regole di Vienna nella versione entrata in vigore il 1º
luglio 2013, laddove viene disposto che il tribunale arbitrale “può ordinare
provvedimenti provvisori o cautelari”, specificando solo che l’altra parte
va sentita prima dell’emanazione del provvedimento. Si tratta quindi di
un’altra misura per rendere le Regole di Vienne più flessibili. Dal momento che i presupposti piuttosto rigidi stabiliti dal § 593, 1 comma, CPC
sono considerati di natura imperativa qualora la sede dell’arbitrato si trovi
in Austria (56), la nuova flessibilità concerne solo i casi — piuttosto rare
nell’arbitrato del VIAC — in cui la sede dell’arbitrato non sia in Austria.
12.
La nuova versione delle Regole di Vienna non contiene disposizioni secondo cui un arbitro d’urgenza potrebbe emanare provvedimenti
provvisori o cautelari prima della costituzione del tribunale arbitrale. Si
tratta di una differenza notevole rispetto alle riforme eseguite da altre
istituzioni arbitrali negli ultimi anni (57). Gli autori del nuovo regolamento, ovviamente, non vedevano un grande bisogno per l’introduzione
dell’arbitro d’urgenza, presumibilmente in considerazione che le parti
possono, ai sensi dell’articolo 33, comma 5, chiedere ogni specie di tutela
cautelare al giudice statale competente, sia prima, sia dopo l’inizio dell’arbitrato. La scelta sarà anche dovuta a una certa prudenza degli autori
del nuovo regolamento, che sembrano ansiosi di vedere quali sono le
esperienze fatte da altre istituzioni arbitrali in materia. Secondo quest’autore, l’arbitro d’urgenza è un organo molto utile perché le parti hanno la
tendenza a violare i diritti dell’avversario nella calda fase che precede il
deposito della domanda. La competenza cautelare dei giudici statali non
può rimediare alla situazione per ogni caso ed evenienza, soprattutto
(55) § 593, commi 3-6, CPC.
(56) V. ZEILER, in Handbook Vienna Rules. A Practitioner’s Guide, 192.
(57) Cfr., in ordine cronologico, art. 6, ICRD International Arbitration Rules 2014; art.
32, 4 comma e Appendice II, Regolamento dell’Arbitration Institute of the Stockholm Chamber
of Commerce 2010; art. 29 e Appendice V, Regolamento di arbitrato della CCI 2012; art. 43,
Swiss Rules 2012; art. 26, comma 2, e Appendice 1, Regolamento del Singapore International
Arbitral Centre 2013; art. 38 e Appendice III, Ljubljana Arbitration Rules 2014; art. 49,
Regolamento del WIPO nella versione 2014.
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quando i tribunali statali non sono pienamente indipendenti e imparziali.
In occasione della prossima riforma, la valutazione se l’arbitro d’urgenza
sia o meno utile sarà probabilmente diversa.
13. Mentre le nuove Regole di Vienna non provvedono alla competenza di un arbitro d’urgenza, la riforma ha invece introdotto un nuovo
rito accelerato, conformemente alle proposte ricevute dagli utenti nel
corso del sondaggio online. Le regole in materia, contenute nell’art. 45,
non sono di applicazione automatica; devono essere applicate, senza
riguardo al valore della controversia, solo qualora le parti l’abbiano
convenuto nella clausola arbitrale oppure con un accordo successivo il
quale può essere perfezionato fino al deposito della risposta alla domanda
di arbitrato. Si tratta in sostanza di una procedura arbitrale regolare che si
svolge nel pieno rispetto del contradittorio. Affinché il lodo possa essere
emanato entro 6 mesi dalla consegna degli atti al tribunale arbitrale, l’art.
45 dispone in particolare:
— che la competenza spetta ad un arbitro unico, salvo un diverso
accordo tra le parti;
— che la parte convenuta può fare valere un diritto di compensazione o proporre una domanda riconvenzionale solo fino al deposito della
risposta;
— che i termini per il pagamento dell’anticipo delle spese sono di 15
giorni dall’invito del Segretario Generale (invece di 30 giorni, come nel
rito ordinario);
— che le parti, su riserva di una disposizione contraria dell’arbitro
unico, possono depositare ciascuna, oltre alla domanda arbitrale e alla
risposta, solo un’altra comparsa scritta nella quale devono fare tutte le
allegazioni e con la quale devono produrre tutti i documenti;
— che il dibattimento orale e l’istruttoria della causa si svolgono in
una sola udienza.
Il termine di 6 mesi per la pronunzia del lodo può essere prolungato
su richiesta (motivata) dell’arbitro unico oppure su iniziativa del Segretario Generale. La scadenza del termine (originale o prolungato) non
sottrae la competenza al tribunale arbitrale; esso può procedere all’emanazione del lodo anche dopo il decorso dei 6 mesi (o del termine
prolungato).
14.1. Al momento del deposito della domanda, di una domanda
riconvenzionale, oppure della chiamata di un terzo (sia con, sia senza
domanda apposita (58)), il proponente deve versare una tassa d’iscrizione
(58)
V. sopra, punto 6.3.1.
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di Euro 1.500 (59). Inoltre, il Segretario Generale deve fissare un anticipo
sulle spese del centro arbitrale e gli onorari degli arbitri in funzione del
valore della controversia secondo una tariffa allegata alle Regole di
Vienna (60). A questo proposito, la domanda principale, la domanda
riconvenzionale, la chiamata del terzo (con domanda) e l’eccezione di
compensazione (qualora il trattamento di quest’ultima esiga un notevole
onere aggiuntivo per il tribunale arbitrale) vanno considerate separatamente (61). Conseguentemente alla partecipazione di un terzo, le spese del
centro arbitrale e gli onorari degli arbitri aumentano nella misura del 10%
per ciascun terzo; questi supplementi, invece, non saranno mai superiori al
50% (62).
14.2. La riforma non cambia il principio tradizionale secondo cui le
parti devono versare, in parti uguali, l’anticipo sulle spese prima della
consegna al tribunale arbitrale degli atti sul caso. Nel caso di una pluralità
di parti, una metà dell’anticipo va pagata dagli attori congiuntamente e/o
dai convenuti congiuntamente (63). Se la quota dovuta dal convenuto (o
dall’attore che deve confrontarsi con una domanda riconvenzionale) non
perviene entro il termine fissato, il Segretario Generale invita l’attore (o il
convenuto che propone domanda riconvenzionale) a versare la parte
mancante. Nel maggior numero dei casi, l’attore (il convenuto che propone domanda riconvenzionale) versa la parte mancante, pur non volendo, per evitare l’arresto della procedura. Secondo il nuovo regolamento, inoltre, l’attore (il convento che propone domanda
riconvenzionale) non deve accontentarsi di una soluzione così poco soddisfacente. Infatti, l’art. 42, comma 2, dispone espressamente che le parti
sono obbligate a versare la loro porzione dell’anticipo sulle spese. Ai sensi
dell’art. 42, comma 4, inoltre, il tribunale arbitrale, presupposto che esso
si ritenga competente, è autorizzato, anche prima della decisione finale
sulle spese della procedura, ad ordinare alla parte che si è rifiutata di
pagare la sua quota di rimborsare l’importo versato in sua sostituzione
dall’altra parte. Si tratta di una regola veramente utile che impedisce la
tattica dilatoria di non pagare la propria porzione dell’anticipo sulle spese.
La regola crea il fondamento per la competenza del tribunale arbitrale,
lasciando a quest’ultimo la discrezionalità di non ordinare il rimborso del
(59) Art. 10, comma 1, art. 14
(60) Art. 42, comma 1; sul sito internet del VIAC (www.viac.eu/en), l’utente troverà un
mezzo (“cost calculator”) che calcola le spese prospettive della procedura (tassa d’iscrizione,
spese del centro arbitrale, onorari degli arbitri).
(61) Art. 42, comma 1, e art. 44, comma 5.
(62) Art. 44, comma 4.
(63) Nell’ipotesi in cui una parte abbia proposto una domanda nei confronti di un terzo,
che non faccia parte né degli attori, né dei convenuti, si applica le regola dell’art. 44, comma 5,
secondo cui la domanda nei confronti del terzo va trattata separatamente.
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pagamento, se lo ritiene appropriato. Per esempio, nell’ipotesi in cui
l’attore provocasse la propria insolvenza ai fini di frustrare il futuro diritto
del convenuto al rimborso delle spese dell’arbitrato, il convenuto, a titolo
eccezionale, non sarebbe obbligato a partecipare al versamento dell’anticipo sulle spese/oppure sarebbe obbligato a farlo solo su prestazione di
idonea garanzia da parte dell’attore.
14.3. Quando il procedimento si conclude, in ogni caso prima dell’emendamento del lodo finale, il Segretario Generale determina l’importo delle spese del centro arbitrale e gli onorari degli arbitri (64). Il
tribunale arbitrale decide sulla ripartizione delle spese con un lodo che
può essere il lodo finale sul merito della causa o un lodo separato emanato
dopo il lodo finale sul merito. Se le parti non abbiano disposto diversamente, il tribunale arbitrale ha piena discrezione per quel che concerne la
ripartizione delle spese, come espressamente confermato con una nuova
formula contenuta nell’art. 37 (65).
15. L’ultima novità da segnalare, anche questa destinata a rendere la
procedura ancora più flessibile, è l’art. 40 che disciplina la procedura nei
casi in cui il giudice statale, per esempio a seguito di una domanda di
annullamento del lodo, abbia rimesso la procedura al tribunale arbitrale.
Questo è possibile nel Regno Unito secondo l’art. 68(3)(a) dell’Arbitration Act 1996 oppure in tutti i paesi che hanno adottato l’art. 34, 4 comma,
della legge modello UNCITRAL (66). Qualora la sede dell’arbitrato sia in
Austria, la regola non entrerà in gioco perché la decisione del giudice
statale che decide di annullare il lodo è di natura strettamente cassatoria (67).
II. 1. La seconda riforma in Austria è costituita dalla legge dell’11
luglio 2013 sulla riforma del diritto dell’arbitrato (“Schiedsrechts-Änderungsgesetz 2013”) (68). Il punto essenziale della riforma, entrata in vigore
il 1º gennaio 2014, è l’attribuzione della competenza per il giudizio di
annullamento del lodo alla Corte Suprema, la quale decide in primo e
ultimo grado di giurisdizione. Si tratta di una misura legislativa senza
precedenti nell’ordinamento austriaco (69).
(64) Art. 44, comma 2.
(65) “Haben die Parteien nichts anderes vereinbart, entscheidet das Schiedsgericht über
die Kostentragung nach freiem Ermessen.” / “Se le parti non hanno disposto diversamente, il
tribunale arbitrale decide a sua discrezione sulla ripartizione delle spese”.
(66) Si tratta, per esempio, della Germania; v. il § 1059, comma 4 del CPC tedesco e i
commenti di KLÖTZEL e PÖRNBACHER, in Handbook Vienna Rules. A Practitioner’s Guide, 235.
(67) V., infra, punto 5.5.
(68) Gazzetta ufficiale, I, 118/2013.
(69) L’unico istituto comparabile che esiste nell’ordinamento austriaco si trova in mate-
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2. Secondo la disciplina in vigore prima del 1º gennaio 2014, la
competenza per il giudizio di annullamento spettava in primo grado al
Tribunale (“Landesgericht”) nella cui circoscrizione si trova la sede del
tribunale arbitrale (70). Il giudizio d’annullamento poteva così protrarsi
per tre gradi di giurisdizione, dal Tribunale (“Landesgericht”) alla Corte
d’Appello (“Oberlandesgericht”) e, infine, alla Corte Suprema. Come
osservava una certa parte della dottrina, i gradi di giurisdizione erano
quattro, tenendo in considerazione il fatto che, nel momento in cui una
parte chiede l’annullamento del lodo, il tribunale di primo grado opera
come una giurisdizione d’appello (71). L’Austria si trovava, quindi, in una
situazione poco vantaggiosa rispetto ad altri paesi, dove i gradi di giurisdizione per il giudizio d’annullamento sono due (Germania) oppure solo
uno (Svizzera e Liechtenstein) (72). In Italia, l’impugnazione per nullità va
proposta alla Corte d’Appello, con successiva possibilità di un ricorso in
cassazione (73).
3. Tenendo conto di questi svantaggi della disciplina austriaca, verso
l’inizio del 2012 si costituì un gruppo di lavoro, aperto a tutti gli operatori
dell’arbitrato, che riuscì abbastanza velocemente ad interessare i responsabili della politica in materia di giustizia e il Ministero della Giustizia.
Quest’ultimo ha presentato una bozza di legge verso la fine del 2012. Nella
procedura pre-parlamentare di valutazione, la Corte Suprema ha sollevato
una critica riassunta nel paragrafo seguente, che, però, non fu accolta. La
riforma fu finalmente pubblicata sulla Gazzetta ufficiale l’11 luglio
2013 (74).
4. L’opposizione della Corte Suprema alla riforma riposa sul principio consolidato dell’ordinamento austriaco secondo il quale la Corte
ria di diritto del lavoro; il § 54, comma 1, della Legge sulla giurisdizione in materia di lavoro e
previdenza sociale (“Arbeits- und Sozialgerichtsgesetz”) dispone che certe associazioni dei
lavoratori e dei datori di lavoro possono domandare alla Corte Suprema di accertare l’esistenza
o l’inesistenza di un diritto rilevante per un minimo di tre lavoratori; anche in relazione a queste
procedure di accertamento, la Corte Suprema non esamina il merito su cui la domanda è basata
e svolge una valutazione di mera legittimità.
(70) § 615, comma 1, CPC nella versione in vigore dall’1 luglio 2006 fino al 31 dicembre
2013; le parti potevano anche scegliere il foro di primo grado competente per il giudizio di
annullamento, ma l’autore non è a conoscenza di applicazioni pratiche di questa facoltà.
(71) RECHBERGER, Zum Instanzenzug bei der Anfechtung von Schiedssprüchen, ecolex
2011, 886 (887).
(72) § 1062, comma 1, no. 4, del CPC tedesco; art. 191 della LDIP svizzera; § 632 del CPC
del Liechtenstein: v. a proposito, ASCHAUER, Il nuovo diritto dell’arbitrato austriaco, in Rivista
dell’arbitrato 2006, 262.
(73) Art. 830 del CPC italiano; v. in materia BENEDETTELLI, CONSOLO e RADICATI DI
BROZOLO, Commentario breve al diritto dell’arbitrato, 2010, 830.
(74) Per l’iter della riforma v. OBERHAMMER, Schiedsrechts-Änderungsgesetz 2013: Der
Rechtsstandort Österreich legt vor, ecolex 2013, 625.
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suprema, in sede civile, non giudica nel merito (75). Come osservava la
Corte Suprema, l’azione di annullamento, invece, riguarda spesso questioni attinenti al merito della controversia, come per esempio la valutazione dell’effettiva esistenza di un accordo tra le parti sulla clausola
arbitrale. Un’altra critica da parte della Corte Suprema verteva sulle
conseguenze dell’abbreviazione dei gradi di giudizio, abbreviazione che
consente un accesso immediato alla Corte Suprema, privilegio accordato,
però, esclusivamente agli utenti dell’arbitrato commerciale, i quali non
rappresentano proprio una parte debole della società, mentre altri ceti
sociali, meno benestanti, non godono di tale accesso all’ultimo grado di
giurisdizione. In una sentenza del 16 dicembre 2013 (76), la Corte Suprema
ebbe di nuovo occasione di sollevare delle critiche nei confronti della
riforma, osservando che non poteva avviare, nel caso de quo, una procedura di controllo della legittimità della Legge dell’11 luglio 2013 presso la
Corte della Costituzione, perché il rito applicato in proposito era ancora
quello esistente prima della riforma.
5.1. La nuova regola di competenza è contenuta nel § 615 CPC, in
vigore dal 1º gennaio 2014, il quale paragrafo dispone che la Corte
Suprema è competente sia per il giudizio di annullamento che per l’accertamento giudiziale dell’esistenza o inesistenza del lodo (77). La novella,
invece, non ha modificato né i motivi d’annullamento, che rimangono
specificati nel § 611, comma 2, CPC (78), né il termine per l’azione
d’annullamento, che va proposta entro tre mesi dal giorno in cui l’attore
ha ricevuto il lodo (79). Inoltre, la riforma non intacca il resto della
normativa austriaca in materia di impugnazione del lodo che può essere
riassunta come segue (80):
(75) Cfr. parere ufficiale della Corte Suprema, p. 3, pubblicato, con tutti gli altri pareri
depositati nel corso della procedura pre-parlamentare di valutazione, sul sito internet del
parlamento austriaco: www.parlament.gv.at/PAKT/VHG/XXIV/I/I_02322/#tab-VorparlamentarischesVerfahren.
(76) N. 6 Ob 43/13m.
(77) Secondo il § 612 CPC, la parte interessata può chiedere al giudice l’accertamento
dell’esistenza o inesistenza del lodo. Quest’azione può servire, ad esempio, per fare accertare se
un atto è una semplice valutazione peritale (“Schiedsgutachten”) oppure un lodo (“Schiedsspruch”).
(78) Vedi a proposito ASCHAUER, Il nuovo diritto dell’arbitrato austriaco, in questa
Rivista, 2006, 260.
(79) § 611, comma 4, CPC. A titolo eccezionale, nell’ambito di arbitrati fra imprenditori
e consumatori o fra datori di lavoro e lavoratori, la domanda di annullamento può essere basata
sulla scoperta di fatti o mezzi di prova l’esame dei quali nell’arbitrato ormai concluso avrebbe
comportato una decisione più favorevole per la parte interessata (§ 617, comma 6, n. 2, CPC e
§ 618 CPC). In questi casi, il termine d’impugnazione è quello per la domanda di revocazione
(§ 611, comma 4 CPC), e cioè quattro settimane dalla scoperta del nuovo fatto o del nuovo
mezzo di prova (§ 534, comma 2, no. 4, CPC).
(80) V. ASCHAUER, Neue Gerichtszuständigkeiten für Schiedssachen in Österreich, bArbitra 2014, 16 ss..
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5.2. Il deposito dell’azione d’annullamento non ha di per sé effetti
sospensivi sull’esecutorietà del lodo. Se il lodo è stato emanato in Austria,
l’attore può chiedere la sospensione dell’esecuzione forzata sulla base del
§ 42, comma 1 della Legge sull’Esecuzione Forzata (“Exekutionsordnung”); ai sensi del § 44, comma 3 della Legge sull’Esecuzione
Forzata, in presenza di determinati presupposti, la sospensione dell’esecuzione del lodo è subordinata alla prestazione di una adeguata garanzia
da parte del debitore. Nei casi in cui il lodo non sia stato emanato in
Austria, l’eventuale sospensione dell’esecuzione forzata e il prerequisito
della garanzia sono disciplinati dall’art. VI della Convenzione di New
York.
5.3. Il giudizio di annullamento dinanzi alla Corte Suprema si svolge
secondo il rito ordinario previsto per la procedura di primo grado (81). La
procedura è avviata con atto di citazione, da depositare direttamente
presso la Corte Suprema. Quest’ultima provvede alla notifica e invita la
parte convenuta a depositare la comparsa di costituzione e risposta.
Eventuali scritture successive possono essere depositate entro una settimana prima della prima udienza oppure, dopo la prima udienza, su invito
espresso della Corte Suprema. L’udienza dinanzi alla Corte Suprema è
obbligatoria, salvo il caso in cui la Corte Suprema rigetti la domanda
d’annullamento con ordinanza (non impugnabile) per mancato rispetto
dei termini. L’assunzione di prove testimoniali e di tutti gli altri mezzi di
prova si svolge direttamente dinanzi alla Corte Suprema. Non è previsto
che gli arbitri siano sentiti d’ufficio, ma le parti possono citarli come testi,
premesso che la loro testimonianza non violi il segreto delle deliberazioni.
5.4. Per trattare le cause di annullamento dei lodi, la Corte Suprema
ha costituito una sezione speciale (82). Questa sezione non è, però, competente per l’ultimo grado nei giudizi di esecuzione forzata del lodo, che
rimangono soggetti a tre gradi di giurisdizione (83). Sarebbe auspicabile
unificare la competenza su entrambi i giudizi in materia arbitrale in una
sola sezione della Corte Suprema. Questa esigenza è sostenuta anche dalla
considerazione che, a norma dell’Art V della Convenzione di New York,
applicabile nel caso in cui il lodo non sia stato emanato in Austria, i motivi
per negare sia il riconoscimento che l’esecuzione forzata di un lodo
straniero coincidono o sono simili ai motivi di annullamento di un lodo
pronunciato in Austria definiti dal § 611, comma 2 CPC.
(81) § 616, comma 1, CPC nella versione in vigore dal 1º gennaio 2014.
(82) Cfr. l’ordinamento interno della Corte Suprema sulla ripartizione delle cause
pendenti davanti alla Corte stessa, reperibile sul sito internet della Corte Suprema, www.ogh.gv.at/de/ogh/geschaeftsverteilung.
(83) Il giudizio d’esecuzione forzata del lodo inizia presso la pretura (“Bezirksgericht”),
con successivo ricorso (“Rekurs”) al tribunale (“Landesgericht”) e, infine, alla Corte Suprema.
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5.5. L’oggetto della procedura verte solamente sull’accertamento
dell’esistenza di un motivo per l’annullamento del lodo. Poiché i motivi di
annullamento sono d’ordine pubblico, quindi non soggetti alla disposizione delle parti, queste non possono stipulare una transazione in materia.
Non sono ammissibili sentenze in contumacia della parte convenuta
oppure per riconoscimento della domanda d’annullamento. L’unico modo
per disporre sull’oggetto della controversia è il ritiro della domanda.
5.6. Salvo il caso del mancato rispetto dei termini per l’azione di
annullamento, su cui la Corte si pronuncia con ordinanza, la Corte
Suprema decide con una sentenza con cui respinge o accoglie (interamente o parzialmente) l’azione di annullamento; nel secondo caso, il lodo
è annullato, mantenendosi nei limiti della domanda. La decisione di
annullare il lodo è di natura strettamente cassatoria. La Corte Suprema
non può rinviare la causa al tribunale arbitrale. Se l’arbitrato non è
concluso in via definitiva, a seguito dell’annullamento del lodo (84) la
procedura arbitrale ricomincia dal punto in cui si trovava prima della
pronuncia del lodo (85).
6. Il punto debole della Legge dell’11 luglio 2013 è la tassa giudiziaria che l’attore deve pagare nel momento in cui deposita la domanda
d’annullamento. Per le cause civili di natura patrimoniale e/o commerciale, la tassa giudiziaria è di per sé molto elevata in Austria: si tratta di un
importo uguale a 1,2% del valore della controversia + EUR 2.525 per il
giudizio di primo grado; 1,8% del valore della controversia + EUR 3.620
per il giudizio d’appello; e di 2,4% della controversia + EUR 4.827 per il
giudizio davanti alla Corte Suprema. Nell’ipotesi dell’impugnazione di un
lodo davanti alla Corte Suprema l’importo da versare è, invece, del 5% del
valore della controversia, con un contributo minimo di EUR 5.000, ma
senza limite verso l’alto (86). La dottrina austriaca non ha mancato di
segnalare che la tassa giudiziaria imposta dalle autorità giurisdizionali in
Austria in sede civile è eccessivamente elevata e potrebbe anche costituire
una violazione del diritto di accesso alla giustizia garantito dall’art. 6 della
(84) L’annullamento del lodo pone fine anche all’arbitrato nei casi in cui non esista una
valida convenzione d’arbitrato (§ 611, comma 2, n. 1 CPC); se il lodo concerne una controversia
per cui la clausola arbitrale non è efficace, oppure se contiene decisioni che eccedano i limiti
della convenzione arbitrale o delle domande delle parti (§ 611, comma 2, n. 3 CPC); oppure se
l’oggetto della controversia non sia deferibile in arbitratro (§ 611, comma 2, n. 3 CPC).
(85) ASCHAUER, op. cit., b-Arbitra 2014, 23 s. Secondo HAUSMANINGER (in FASCHING e
KONECNY, Kommentar zu den Zivilprozessgesetzen, vol. IV/2, 2a edizione, Vienna, 2007), invece,
un nuovo tribunale arbitrale va costituito in forza della disposizione del § 608, comma 3 CPC,
che prevede che la funzione del tribunale termina con la “conclusione del procedimento”, che
sarebbe in ogni caso l’emanazione del lodo.
(86) V. la voce 3b della Legge sulla tassa giudiziaria (“Gerichtsgebührengesetz”) nella
versione della Legge dell’11 luglio 2013 sulla riforma del diritto dell’arbitrato.
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Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (87). Per questi motivi, si sta
portando avanti un’altra iniziativa ai fini di far accordare le autorità
competenti che potrebbero rimediare al problema. Sarebbe auspicabile
stabilire un tetto massimo per l’importo della tassa giudiziaria per tutte le
cause civili (e non solo per l’azione d’annullamento).
7. La legge dell’11 luglio 2013 comporta anche una modifica della
competenza in materia di costituzione del tribunale arbitrale (88): ai sensi
del § 615 CPC, in mancanza di un accordo delle parti sulla procedura di
nomina, la Corte Suprema è l’autorità giudiziaria competente per la
nomina di un arbitro in via sostitutiva (se una parte non abbia ottemperato
all’invito di nominare un arbitro oppure se una pluralità di parti, tenute a
nominare congiuntamente uno o più arbitri, non riescano a trovare un
accordo in proposito) (89). La competenza della Corte Suprema sussiste
inoltre per il riesame della decisione con la quale il tribunale arbitrale
oppure l’organo scelto dalle parti (istituzione di arbitrato o appointing
authority) ha negato la ricusazione di un arbitro (90). Infine, salvo un
diverso accordo delle parti in proposito, la Corte Suprema è competente
per la pronuncia sulla cessazione della funzione di arbitro (91). Tutte
queste procedure sono trattate dalla Corte Suprema secondo il rito
previsto per la giurisdizione volontaria di primo grado (92). La tassa
giudiziaria non è quella del 5% del valore della controversia, ma è un
contributo fisso di EUR 2.010 (93).
8. La nuova disciplina sulla competenza non si applica nei confronti
dei consumatori e in materia di lavoro. A questo proposito, il legislatore
ha stabilito una serie di garanzie e tutele già nel diritto previgente: ai sensi
dell’art. 617, comma 1 CPC, le convenzioni arbitrali tra un imprenditore e
un consumatore possono essere validamente concluse solo in relazione a
controversie già avviate. Inoltre, la convenzione arbitrale in cui un consumatore è parte deve essere contenuta in un documento sottoscritto dal
consumatore di propria mano; questa clausola non può che fare riferi(87) KODEK, Die Anforderungen des Art 6 EMRK an das Rechtsmittelverfahren - Aktuelle
Entwicklungen in Österreich und Polen, Liber amicorum Tadeusz Erecinskiego, vol. I, Varsavia,
2011, 1527.
(88) Secondo il § 618, comma 8, CPC, questa riforma della competenza non si applica a
procedure arbitrali con partecipazione di un consumatore oppure in materia di lavoro; v. a
proposito il seguente punto 7.
(89) § 587, commi 3-6 CPC.
(90) § 589, commi 2 e 3 CPC.
(91) § 590, comma 2 CPC.
(92) § 616, comma 1 CPC.
(93) Voce 12f della Legge sulla tassa giudiziaria (“Gerichtsgebührengesetz”) nella versione della Legge dell’11 luglio 2013 sulla riforma del diritto del arbitrato.
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mento al procedimento arbitrale (94), un accordo per un tipo di procedura
diverso non sarebbe valido. Il consumatore deve anche ricevere, prima
della conclusione dell’accordo sulla clausola arbitrale, le necessarie informazioni giuridiche relative alle differenze essenziali fra il procedimento
arbitrale e quello ordinario, che si svolge di fronte all’autorità giudiziaria
competente e preordinata per legge (95). Se la sede dell’arbitrato è fissata
in uno Stato diverso da quello in cui il consumatore ha la sua residenza,
dimora abituale o luogo di lavoro, la clausola arbitrale è valida solo se il
consumatore ha espressamente accettato la diversa sede (96). In materia di
contratti individuali di lavoro, queste limitazioni si applicano per analogia (97). Nell’ipotesi in cui un arbitrato si svolga fra un imprenditore e un
consumatore, oppure nell’ipotesi di un arbitrato in materia del lavoro, i
gradi di giurisdizione per il giudizio d’annullamento rimangono tre. Questa deroga è dovuta alla volontà espressa degli enti per la protezione dei
consumatori e del sindacato dei lavoratori, entrambi ovviamente a favore
del mantenimento del vecchio rito.
9. L’assistenza giudiziaria, per esempio l’intimazione di un teste che
rifiuta di presentarsi davanti al tribunale, rimane attribuita alla Pretura
(“Bezirksgericht”) nella cui circoscrizione l’attività istruttoria va eseguita (98). La Pretura rimane anche l’autorità competente in primo grado
per l’esecuzione forzata di un provvedimento cautelare pronunciato da un
tribunale arbitrale (99) oppure per l’esecuzione forzata del lodo arbitrale (100), con possibilità di appello al Tribunale (“Landesgericht”) seguito da ricorso alla Corte Suprema.
III. Ecclesia semper reformanda est. Questa massima è valida in
ugual misura per l’arbitrato. Le procedure offerte devono corrispondere
alle esigenze del commercio, da sempre in continua evoluzione. Occorre
quindi una continua modernizzazione dell’ambito legale e contrattuale,
conservando invece con attenzione i princìpi fondamentali dell’arbitrato,
che sono in primo luogo l’autonomia delle parti, l’uguaglianza delle parti
e il rispetto del contradditorio. Le più recenti riforme in Austria, eseguite
con grande diligenza dal VIAC e dal legislatore austriaco, possono servire
come esempi eccellenti per l’adempimento di questa continua missione.
(94) § 617, comma 2 CPC.
(95) § 617, comma 3 CPC.
(96) § 617, comma 5 CPC.
(97) § 618 CPC; in materia di contratti collettivi di lavoro, l’arbitrato non è permesso ai
sensi del § 9, comma 2 della Legge sulla giurisdizione in materia di lavoro e previdenza sociale.
(98) § 602 CPC.
(99) § 593, comma 3 CPC.
(100) § 614 CPC.
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The present article gives an overview of the main features of arbitral proceedings under the Rules of the Vienna International Arbitral Centre (VIAC) and sets
out the amendments made in the new VIAC Rules of Arbitration (“Vienna Rules”)
which came into effect on 1 July 2013. Furthermore, the author presents the latest
reform of the Austrian arbitration law, entered into force on 1 January 2014,
according to which the Supreme Court of Austria has jurisdiction over setting aside
claims and claims for declaration of the existence or non-existence of arbitral awards
as court of first and last instance.
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The application of the New York Convention
by Italian courts
ALDO FRIGNANI (*)
I. Introductory survey: 1. The implementation of the N.Y. Convention. The
relevant sources of law. General issues. — 2. Art. II. 3 of the N.Y. Convention and
the issue of pathological clauses. — 3. The preliminary objections to arbitration.
— II. Grounds for refusal of recognition and enforcement of foreign arbitral
awards (N.Y. Convention, Article V): 1. In general. — 2. Particular Grounds. —
2.2. Written arbitral agreement incorporated by reference. — 2.3. Article V(1)(b):
Violation of the right of defense; due process. — 2.4. Article V (1)(c): Award ultra
petita and infra petita. — 2.5. Article V(1)(d): Violation of procedural rules
(indicated by the parties). — 2.6. Article V(1)(e): Awards not binding, set aside or
suspended. — 2.7. Article V(2)(a): Disputes incapable of arbitration. — 2.8.
Article V(2)(b): Awards contrary to public policy; the case of punitive damages.
— III. Some procedural issues. — IV. Conclusions.
I.-1. From an historical point of view the way Italy has granted
recognition and/or execution to foreign arbitral awards can be divided into
two periods, the watershed of which is the New York Convention: until
May 1, 1969 (date in which the N.Y. Convention came into force) foreign
arbitral awards were treated as court decisions and their recognition was
submitted to a domestic exequatur (that is, review on the merits). Starting
from May 1, 1969 onward the foreign arbitral awards covered by the N.Y.
Convention could benefit from the most relaxed regime introduced by the
Convention and the only conditions to oppose recognition were those set
forth in the same Convention.
The recognition and enforcement in Italy of a foreign arbitral award
may occur also beyond any international convention. In fact the last
(*) Professore ordinario nella Università di Torino. Italian national Report to the
XIXth International Congress of Comparative Law, Vienna 20-26 July 2014.
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reform of the law on arbitration of February 2, 2006, n. 40 provides for
general conditions (embodied in the code of civil procedure) in the
following terms (1).
Article 839 Recognition and enforcement of foreign arbitral awards
1. The party wishing to enforce a foreign award in the Republic shall file a
petition with the president of the court of appeal of the district in which the other
party has its domicile; if that party has no domicile in Italy, the court of appeal of
Rome shall have jurisdiction.
2. The petitioner shall supply the original award or a certified copy thereof,
together with the original arbitration agreement or an equivalent document, or a
certified copy thereof.
3. If the documents specified in the second paragraph are not written in Italian,
the petitioner shall in addition produce a certified translation thereof.
4. The president of the court of appeal, after having ascertained the formal
regularity of the award, shall declare by decree the efficacy of the foreign award in
the Republic unless:
1) the subject matter is not capable of settlement by arbitration under Italian
law;
2) the award contains provisions contrary to public policy.
Article 840 Opposition
1. An opposition may be filed against the decree granting or denying enforcement of the foreign award by filing a writ of summons with the court of appeal
within thirty days of communication of the decree denying enforcement or notification of the decree granting enforcement.
2. After the filing of the opposition, the proceedings shall be held in accordance
with Article 645 and following in so far as they are applicable. The court of appeal
decides with a judgment subject to recourse before the supreme court.
3. The court of appeal shall refuse the recognition or the enforcement of the
foreign award if in the opposition proceedings the party against which the award is
invoked proves the existence of one of the following circumstances:
1) the parties to the arbitration agreement were, under the law applicable to
them, under some incapacity or the arbitration agreement is not valid under the law
to which the parties have subjected it or, failing any indication thereon, under the law
of the State where the award was made;
2) the party against which the award is invoked was not informed of the
appointment of the arbitrator or of the arbitration proceedings or was otherwise
unable to present its case in the proceedings;
3) the award decided upon a dispute not contemplated in the submission to
arbitration or in the arbitration clause, or exceeded the limits of the submission to
arbitration or of the arbitration clause; nevertheless, if the decisions in the award
which concern questions submitted to arbitration can be separated from those
concerning questions not so submitted, the former can be recognized and enforced;
4) the composition of the arbitration tribunal or the arbitration proceedings
was not in accordance with the agreement of the parties or, failing such an
agreement, with the law of the place where the arbitration took place;
(1) These rules were already introduced by law n. 25 of January 5, 1994 and remained
untouched in the last reform of February 2, 2006. For more information see the survey of
TAMPIERI, in Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale (edited by
BENEDETTELLI, CONSOLO, RADICATI DI BROZOLO), Padua, 2010, 1111 et seq.; BERNARDINI, Riconoscimento ed esecuzione dei lodi stranieri in Italia, in Riv. arb., 2010, 429 et seq.
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5) the award has not yet become binding on the parties or has been set aside or
suspended by a competent authority of the State in which, or under the law of which,
it was made.
4. If an application for the setting aside or suspension of the effects of the award
has been made to the competent authority indicated at number 5) of the third
paragraph, the court of appeal may adjourn the decision on the recognition or
enforcement of the award; on the request of the party seeking enforcement it may, in
the case of suspension, order the other party to give suitable security.
5. Recognition or enforcement of a foreign award shall be refused also where
the court of appeal shall ascertain that:
1) the subject matter is not capable of settlement by arbitration under Italian
law;
2) the award contains provisions contrary to public policy.
6. In all cases, the provisions of international treaties shall be applicable.
The above rules show that in the Italian legal system recognition
and/or enforcement of a foreign award is organized in two different steps:
the first is necessary, while the second is contingent.
The party who seeks recognition has to file a petition to the competent judge (the local court of appeal of the district in which the other party
has its domicile) and its President decides inaudita altera parte.
In case the recognition is granted and it is served to the other party,
the latter may file an opposition which triggers proper contradictory
proceedings. If within a short term (30 days) no opposition is filed the
holding of the President granting recognition and enforcement becomes
res judicata and enforceable (2).
The two above articles are the only rules dedicated to the recognition
and enforcement of foreign arbitral awards and, worth to note, embody —
sometimes verbatim — the relevant rules contained in the N.Y.Convention.
The Convention was ratified by the law of January 19, 1968, n. 62, which
incorporated the text of the Convention in the Italian legal system and
entered into force on May 1, 1969. From the implementation of the N.Y. Con
vention into national law on, Italy presented two regimes: the traditional
one, according to which foreign arbitral awards in order to be recognized
were subjected to the proceedings of scrutiny [“delibazione”] common to
every other foreign court decision (art. 800 Italian code of civil procedure)
on the one side, and the conventional one (N.Y.), on the other side.
Since the text of the N.Y. Convention is part of the Italian body of laws,
the parties to an international award and the judges may directly rely on it,
considering that the conditions of the N.Y. Convention (if the case falls
within its realm) have the priority over the domestic rules (so art. 840.6).
Italy did not limit itself to ratify the New York Convention, but also
(2) A broader description of these two steps in BERNARDINI, PERRINI, New York Convention of June 10, 1958: the Application of Article V by the Courts in Italy, in Journal of
International Arbitration, 2008, 707.
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forged a domestic discipline to regulate the procedure (which is now
contained in arts. 839 and 840 Italian code of civil procedure). These rules
implement art. III, N.Y. Convention: obligation to recognize and enforce
foreign awards “in accordance with the rules of procedure of the territory
where the award is relied upon”.
By ratifying the N.Y. Convention Italy did not make any reservation.
In the case GRI (3) the Italian Court of Cassation held that the N.Y.
Convention applies notwithstanding the lack of adhesion to the N.Y.
Convention by the State of the defendant (in the case at stake the former
Yugoslavia), since Italy did not request the reciprocity.
For what concerns the notion of a “foreign arbitral award” notwithstanding various subtleties of Italian scholars, it is safe to state that “foreign arbitral award” is the decision rendered outside the national territory
of the judge from whom the recognition and/or the enforcement of the
award is sought (4). Thus the criterion is not the nationality of the parties,
but the place where the award is made. “Made” or “rendered” does not
refer to a merely physical location, but rather to a juridical or virtual
notion (seat of arbitration) (5). Therefore it covers also awards made in
the territory of the requested State but which are “not considered as
domestic in that State”, as well as those made following an agreement for
a foreign arbitration although stipulated among two Italian nationals (6).
In Italy we do not consider awards, in the meaning of the Convention,
the arbitral decisions which resolve procedural issues, but take the opposite view with provisional or interim awards which define in a final way a
dispute even though not the entire litigation (partial award). An interim
measure which is aimed at freezing the “status quo” until the final award
is not eligible for recognition and enforcement under the Convention.
At the very outset, a party seeking recognition and enforcement in
Italy of a foreign arbitral award does not need to rely upon any international convention, since the rules embodied in the code of civil procedure
are self-sufficient.
However Italy is part of the following international instruments:
a) Geneva Convention of April 21, 1961 on international commercial
arbitration, ratified in Italy with the law n. 418 of May 10, 1970 (7).
(3 )
Cass. October 18, 1990, n. 10151, GRI v. Pik Verhovec, in Repertorio Foro it., 1990,
n. 31.
( ) See BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero tra Convenzione di New York e codice
di procedura civile, in Riv. arb., 2006, 25.
(5) For a thorough discussion of this issue see FRIGNANI, L’arbitrato commercial internazionale, Padua, 2004, 176-178.
(6) Tribunal of Milan, January 8, 1990, Donati v. Saima, in Foro padano, 1991, 169;
Yearbook of Commercial Arbitration, 1992, 539.
(7) The reported cases are not so numerous and in some of them the judges make a joint
application of both Geneva and N.Y. Conventions underlying that they contain the same
principles: Cass. October 16, 1985, n. 5071, Cifuindus v. OFAG, in Giur. it., 1986, I, 1, 1341 (tacit
4
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b) ICSID Convention (Washington March 18, 1965) on the settlement
of disputes between States and nationals of other States. The ICSID
Convention was ratified by law n. 1093 of 1970. The force of an ICSID
arbitral award in the phase of recognition is higher than in the N.Y.
Convention because of the conditions set forth in arts. 52, 53, 54 ICSID
Convention, therefore the means of opposition are strongly reduced. In
fact the scholars say that arts. 839, 840 do not apply to ICSID awards (8).
c) Moreover Italy has signed a certain number of bilateral conventions on various subjects (commerce, navigation, friendship, investments,
recognition and enforcement of judgments), which provide for the enforcement in the territory of one of the parties of arbitral awards rendered
in the territory of the other party. As of now more than 100 such bilateral
conventions are in force.
The lack of jurisdiction of Italian judges due to an agreement to
arbitrate should be raised in the first defensive plea, because otherwise
there is a tacit acceptance of the Italian jurisdiction (9).
Italian judges recognize that a valid agreement for a foreign arbitration has the effect of a derogation to the Italian jurisdiction over a dispute
connected with the one referred to arbitration (10).
However in order for the national court to refer the parties to
arbitration (thus to decline the competence on the case) the arbitration
agreement must not only exist, but also be effective and workable.
2. (11) The first prerequisite of an arbitration agreement is that it must
mirror the parties’ wish to have their disputes resolved by an arbitral tribunal
and to waive the jurisdiction of the ordinary courts. The second condition
is that the arbitration agreement must be capable of being performed.
There are different degrees of pathology: some clauses can be made
workable by construing the intention of the parties, others are unworkable
no matter how they are construed.
acceptance of the court jurisdiction if the existence of and the exception of arbitral agreement
is not raised in the first defense); Pretore of Padua May, 12, 1986, Sordina v. Blank Metallwarenfabrik, in Riv. Dir. Int. priv. proc., 1987, 121; Cass. August 8, 1990, n. 7995, Vento v. E.D.F.
Man Coffee, in Riv. Arb., 1991, 287 comment GIARDINA, L’inapplicabilità ai lodi arbitrali
stranieri dell’istituto della revisione del merito; Cass. sez. un. (United chambre) October 15, 1992,
n. 11261, Agrò v. Ro Koproduct oour Produktiva, in Foro it., 1992, I, 3283; Cass. Sez. I, March
10, 2000, n. 58, Krauss Maffei v. Bristol Myers Squibb, in Dir. Maritt., 2002, 191; Tribunale of
Turin, December 10, 2007, G. & C SpA v. GETVS.
(8) BIAVATI, in CARPI (editor), Arbitrato. Commentario, 2ª ed. Bologna, 2008, 904.
(9) So Cass. Sez. un. October 16, 1985, n. 5071, Cifuindus v. OFAG, in Rass. Arb., 1986,
101; Giur. It., 1986, I, 1, 1341.
(10) Cass. Sez. Un. October 16, 1985, n. 5071 Cifuindus v. OFAG, in Rass. Arb. 1986, 101;
Cass. Sez. Unite January 12, 1982, n. 124 Siaga v. Fall. Colombi, in Rass. Arb., 1982, 166.
(11) This issue formed the object of a more extensive comparative study that I published
some years ago: FRIGNANI, Drafting an Arbitration Agreement, in 24 Arbitration International
2008, 561.
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a) Uncertainty as to the choice between Arbitration and Courts.
There are clauses in which it is unclear as to whether the parties
intended to solve their disputes by means of arbitration to the exclusion of
the ordinary courts. We cannot remain in limbo: if the arbitration clause
does not exclude recourse to the jurisdiction of the ordinary courts, one
simply cannot rely on the arbitration agreement (12). In this sense, a clause
stating “the parties may submit their dispute to arbitration” has been
considered null and void in France (13), but valid in Italy (14).
b) Combined and Asymmetric Clauses.
To proceed with the survey of pathological clauses, mention should be
made of the sole option or asymmetric clauses which provide for arbitration as an option granted to the plaintiff or (what is worse!) to the
defendant (15). The sole option clauses are considered valid by Italian case
law (16). Let me observe in this context that such clauses are symptomatic
not of the freedom of the parties, but rather of the power of one over the
other, because they represent a device by which one party may halt any
legitimate legal initiative of the other.
There are also serious issues with clauses which provide that if the
plaintiff is the vendor, the arbitration shall be administrated by and
conducted in the seat of an arbitral institution of its own State, while if the
plaintiff is the purchaser, the arbitration shall be administrated and
conducted by an arbitral institution in the purchaser’s own State. Such a
clause implies the risk of triggering two arbitral proceedings with two
potentially divergent awards for issues arising from the same contract,
both of them recognizable under the New York Convention (17).
c) Incurable, unworkable and blank clauses.
Another category of pathological clauses encompasses cases where
the intention of the parties to choose arbitration (thus excluding the
ordinary courts) is clear and undisputable, but the clauses contain some
defects which make them unworkable, or only workable at the high price
of forcing the parties’ will.
(12) CRAIG-PARK-PAULSSON, International Chamber of Commercial Arbitration, 2ª ed.,
New York, 1990, 158.
(13) In France, Cass. Civ., October, 15, 1996, Calberson v. Schenker, in Rev. Arb., 1998,
409, (comment by Malinvaud).
(14) In Vigel the arbitration agreement was drafted using “may” (initiate arbitration).
The opponent argued that to be effective the clause needed a further meeting of minds of the
parties; the Supreme Court rebutted the argument holding that the arbitration clause does not
mean an “obligation” upon a party, but only their agreement to resolve the disputes (if not
settled out of court) by an arbitral proceedings: Cass. April 8, 2004, n. 6947, Vigel v. Chine
National Machine Tool, in Dir. Marittimo, 2006, 137.
(15) To borrow FRIEDLAND’ words in Arbitration Clauses for International Contracts,
Huntington, 2001 at ch. 10.11 ‘Sole option or asymmetrical clauses’.
(16) Cass. civ., October 10, 1960, Chiappinelli v. RESSA, in Giust. Civ., 1960, I, 1897;
Cass. civ., October 22, 1970, Astengo v. Comune di Genova, in Mass. Giur. it., 1970, 846.
(17) Court of Appeal of Milan, July 2, 1999, Tema-Frugoli v. Hubei Space Quarry
Industry, in Riv. Arb., 2000, 753, (comment by Muroni).
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d) Clauses equivocal as to the identification of the arbitral institution.
There was a case where the clause provided that ‘arbitration shall be
exercised according to the standards of the Commercial Arbitration Society of the State of New York or alternatively by the corresponding Italian
body’: the Arbitration Council of the National and International Arbitration Chamber of Milan dismissed the request because such a “Commercial
Arbitration Society” did not exist in New York and consequently could
not find any correspondent in Italy (18).
In another case reference to ‘The Italy Commercial Arbitration
Association’ has been interpreted as referring to Associazione Italiana
dell’Arbitrato (19).
In a decision issued in 1990, a clause specifying ‘Arbitration Court of
the Chamber of Commerce in Venice’ has been understood as referring to
an ICC arbitration with the seat of arbitration in Venice (20). However, this
interpretation may be challenged because it is difficult to find in the clause
any reference to an ICC arbitration. Moreover, such a decision would have
been erroneous from 1998 onwards when the Chamber of Commerce of
Venice created its own arbitral Chamber with its own rules (21).
e) Blank clauses
A further example of drafting pathology is the ‘blank clause’ which
contains no indication, whether directly or by reference, to arbitration
rules or to an arbitral institution, as to how the arbitrators are to be
appointed. Under many domestic legislations such a clause would be
ineffective (22).
f) Non-implementable clauses
Any arbitration agreement that cannot be implemented at all will be
considered pathological and incurable. There are numerous examples: the
choice of an institution or a person as appointing authority which cannot
do so under its by-laws, or is not obliged to do so and prefers not to be
involved in such matters (23); where an arbitrator appointed in the arbi-
(18) This case is referred to by AZZALI-RONCAROLO, Risoluzione delle controversie e
arbitrato in I contratti di acquisizione di società ed aziende, Milan, 2007, 663.
(19) Associazione italiana per l’Arbitrato (AIA) award no. 41/92 of 1993, Yearbook, 1997
178. As a matter of fact, in a recent contract between an Italian company and a Turkish one, the
parties wrote that disputes should be resolved referring to a “Committee for Settlement of
Commercial Disputes in Italy”, which does not exist at all, thus rendering the clause totally
inoperative.
(20) Tennessee Imp. V. Filippi, 745 F. Suppl. 1314 (M.D. Tenn. 1990), Yearbook, 1992,
620.
(21) Riv. Arb., 1999, 619.
(22) In Italy, see Code of Civil Procedure, art. 809.2, which imposes, upon sanction of
nullity, that the parties appoint the arbitrators or establish their number and the way to appoint
them.
(23) In a case decided by the Swiss Federal Tribunal, 16 April 1984, in Rev. arb., 1986,
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tration agreement dies before the arbitration is to start (24); an equivalent
effect has to be recognized when the arbitrator so appointed becomes
incapable (for whatever reason, mental disability or legal disqualification)
before the beginning of the arbitral proceedings.
An astonishing example is the following: in a contract between an Italian and a Syrian undertaking, the clause provided: ‘Any dispute arising...
shall be settled by a sole arbitrator ... the arbitrator shall be expert in Swiss
law and in the production of Arabic bread’. The competent arbitral institution had no difficulty in finding an expert in Swiss law but no one who was
at the same time an expert in the production of Arabic bread, and the request
for arbitration was dismissed because the clause was unenforceable (25).
Another example of pathology which is difficult to cure is illustrated by
a clause establishing an arbitral tribunal of three arbitrators when there are
more than two litigant parties with conflicting interests to each other. I refer
to the multiparty arbitration issue, in case the parties did not submit the
dispute to an arbitral institution, whose regulation disciplines such cases.
g) Impracticable conditions
Some clauses may be considered as pathological because they impose
impracticable conditions for the arbitral proceedings: the most common
example is the imposition of unworkable deadlines because too short and
the parties do not agree to extend them.
3. The question does not arise in the proceedings for recognition
and enforcement of foreign awards (because the award has already been
decided), but rather in proceedings where one party wishes to prevent the
start of an international arbitration. In any case Courts will look into the
arbitration agreement, considering the elements described above.
Roughly speaking, unlike in the past decades, the Courts do not consider
arbitration as diminutio capitis (of their power) and decline their competence in favor of arbitration unless the clause appears to be “null and void,
inoperative or incapable of being performed”.
For other reasons why the arbitration clause could be considered
“null and void” see below.
II.1. Art. 840 of the Italian code of civil procedure (patterned upon
art. V. of N.Y.) disciplines two different situations: the first sets forth the
grounds upon which the national judge may ex officio (id est even without
596, the parties designated as appointing authority the Director General of the World Health
Organization, who refused to act. The judges upheld the appointment made by the ICC, but the
decision is erroneaous, being too far from the clause as drafted by the parties.
(24) The clause, valid and enforceable at the moment it was drafted, subsequently
becomes impracticable when the death event occurs.
(25) The case was referred to me by Prof. Habib Malouche of Tunis, Tunisia.
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any specific request or plea of the party) refuse recognition. The second
contains a list of grounds through which the party, if established, may
successfully oppose recognition. If the party is silent on them or fails to
establish them, the judge will take the objection as waived and will grant
recognition.
The reported cases do not show any precedent in which the judge,
having ascertained that in the case at hand one of the two grounds for
refusing recognition existed, has nevertheless granted recognition. In fact
his deciding power concerns the existence of the impeding ground, but not
the consequence of it, if established. In this sense we may emphasize a
slight difference between the N.Y. Convention text and the Italian one:
the first disposes that “recognition ... may also be refused”, while art. 840
recites: “shall be refused”, which is binding upon the judge, depriving him
of any discretionary power.
All grounds listed in Art. V (1) N.Y. Convention can be waived by the
parties. The Italian Court of Cassation has several times held that a party
is stopped from raising before the recognition judge the same objection
which was argued and discussed during the arbitral procedure and rejected
by the arbitrators, because this would amount to enter on the merits of the
award in the exequatur procedure (26). Along the same line, objections
which could be raised in the arbitral proceedings, but were not (for
instance, the insufficient delay for defense or lack of neutrality of the
arbitration panel) are considered to be waived.
2. Article V (1) (a): Incapacity of the parties; invalidity of the
arbitration agreement. The issue of incapacity of the parties must (i) be
kept separated from the issue of invalidity of the agreement (ii).
2.1. (i) In order to decide as to the capacity of the parties, the first
criterion followed by Italian judges is based on choice of law rules. If it
deals with physical persons, lex personae is followed, according to art. 20
of the law May 31, 1995, n. 218 (conflicts of law) which reads “The capacity
of physical persons is governed by their national law” (27).
For what concerns the capacity to stipulate an arbitration clause in
case of a juridical person (company) the lex fori (of the State of recognition) has to be applied (so Cass. April 23, 1997, n. 10229, Dalmine v. Sheet
Metal Forming Machinery) (28). In this case the opponent argued that his
representative signature of an arbitration agreement was null because he
(26) Cass. July 13, 1988, n. 4592, Mereghetti v. Topfer, in Giur. It., 1989, I, 1, 690 comment
by FRANCHI; Cass. January 21, 2000, n. 671 De Maio v. Interskins, in EulF, 2002 51.
(27) BOVE, Il riconoscimento del lodo straniero tra Convenzione di New York e codice di
procedura civile, in Riv. arb., 2006, 39.
(28) Riv. arb., 1998, 41 with comment of PIETRANGELI, 45; Yearbook, 1999, 709.
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did not have the power to carry out acts of extraordinary administration.
Applying Italian law the finding of the Supreme Court was that, in the
light of business activity usually carried out by a commercial company, the
signature of an arbitration clause inserted in an international contract did
not go beyond the boundaries of ordinary administration (29).
Such lex fori may refer to another law: e.g. in Italy the capacity of the
corporate organ has to be evaluated according to the law where the
company was incorporated (30).
(ii) Regarding the invalidity of the agreement issue, no general or
omni comprehensive answer can be given and necessarily distinction
should be drawn among the various vices which may lead to invalidity.
a) The written form (31).
The arbitral agreement must be in writing (art. II.2 N.Y. Convention;
art. 807 Italian code of civil procedure).
b) Validity of an arbitration agreement stipulated by telefax: Cass.
June 14, 2007 n. 13916, Rudston Products v. Buongiorno (32).
An arbitral clause contained in an exchange of letters or telegrams is
valid: Cass. October 28, 1993, n. 10704 Robobar v. Finncold (33) (obiter
dictum). I deem the same should be true with other new means of
communication provided they are traceable (“su supporto durevole”).
c) Lack of acceptance.
The Court of Cassation in Marc Rich (34) held that a telex sent by
Marc Rich to Italimpianti, including an arbitration clause, did not give rise
to an arbitration agreement, since the latter gave no reply to it (thus, lack
of acceptance). In the same line Cass. (United Chambers) March 10, 2000,
n. 58, Krauss Maffei v. Bristol Meyrs Squibb (35): the arbitral clause was
contained in the documents sent by the foreign vendor, but never mentioned in the document by which the Italian purchaser accepted the offer.
d) Acceptance by performance?
Focusing on the existence of the arbitral clause the Italian Court of
Cassation denied that the performance of the contract could be considered
equivalent to the acceptance of the clause proposed by the other party (36).
(29) All subsequent cases follow that principle.
(30) On this specific issue BERLINGUER, Capacità delle parti e rispetto del contradditorio
come condizione al riconoscimento del lodo straniero in Italia, in Foro it., 1999, I, 293 et seq.;
FRIGNANI, op. cit., 255.
(31) See the survey provided by BOVE, Il riconoscimento, 40 et seq.
(32) CED Cassazione 2007.
(33) Foro it., 1995, I, 942, Yearbook, 1995, 739.
(34) Cassation, January 25, 1991, n. 116, Marc Rich A.G. v. Italimpianti, in Yearbook
Commercial Arbitration, 1992, 554.
(35) Foro it. 2000, 2226; Giust. Civ., 2000, I, 3203 (comment SIMONE).
(36) Cass. October 28, 1993, n. 10704, Robobar v. Finncold, in Foro it., 1995, I, 942
comment ROSCIONI (the arbitral agreement was contained in the orders sent by the purchaser,
orders which had never been accepted by the vendor either by letter or telegram).
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e) Validity of the arbitration agreement under the law chosen by the
parties.
According to art. 840.3.1 Italian code of civil procedure (which
repeats the wording of the N.Y. Convention) a party can oppose recognition if “the arbitration agreement is not valid under the law to which the
parties have subjected it”. By applying this rule Italian judges dismissed the
opposition based on the lack of written form: so Cass. January 20, 1977, n.
272, Nosegno & Morando v. Bohne Friedrich (37) which held that the
written form of arbitral agreement is not required in commercial relations
among businessmen under German law, where the seat of arbitration was
established and the award made.
In Cass. April 15, 1980, n. 2448, Lanificio Banci v. Bobbie Brooks (38)
the objection that the arbitral clause did not have written form was
rejected because it was valid under the Us Uniform Arbitration Act to
which it was subjected.
2.2. The issue of the arbitration clause incorporated by reference to
another document is highly debated among both scholars and judges. The
pendulum shifts from the theory of relation perfecta (id est, the contract
referred to the general conditions of contract, which contained the arbitration clause) and that of relation imperfecta: the first, held by the United
Chambers of the Cassation May 19, 2009, n. 11529, Dreyfus Commodities
Italia v. Cereal Mangimi (39) gives more emphasis to the real intention of
the parties, searching if there was true agreement to arbitrate and excluding such an agreement if the reference was not incorporated in the
contract; whilst the second, represented by the recent holding of the
Cassation in 2011, gives prevalent importance to the usages of international trade which are more and more based on general conditions of
contracts formulated (sector by sector) by agencies or associations of
traders (like GAFCA).
Seen from a diachronic perspective the attitude of the Italian legislator towards this issue can be divided into three time periods.
Until 1994 no specific rule concerning foreign arbitration existed (thus
from 1969 onward reference was made to the text of the N.Y. Convention
only). During said period the case law almost unanimously held that
incorporation by relatio imperfecta was insufficient to constitute a valid
(37) Yearbook, 1979, 279.
(38) Yearbook, 1981, 233. The Supreme Court upheld an elaborated decision of the
Court of Appeal of Florence, September, 1, 1977 in Rass. Arb., 1978, 161-168; in that case an
American purchaser sent various purchase orders with standard terms including an arbitration
agreement; the Italian vendor did not return them signed but in the various bills accompanying
the shipment of the goods a reference to the specific orders containing the arbitration clause was
made; the judges of the Appeal held an agreement to arbitrate was reached in writing.
(39) Riv. dir. int. priv. proc., 2010, 443.
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arbitration agreement (40) in view of securing the respect of the will of the
parties, taking into consideration the rigid limits laid down by art. 2 of the
Code of civil procedure within which the derogation to the jurisdiction of
Italian judges was allowed (41).
With the arbitration reform passed with the law n. 25 of January 5,
1994 (whose main purpose was to set forth a specific discipline for
international arbitration) Italy introduced art. 833.2 Code of civil procedure which stated as follows “The arbitration clause contained in general
conditions incorporated into a written agreement between the parties is
valid, provided that the parties had knowledge of the clause or should have
had such knowledge by using the ordinary diligence” (42).
In the space of time when art. 833.2 of the reform of 1994 was in force
two important decisions of the Court of Cassation have been rendered: the
first of November 16, 2000 n. 14860, Conceria Madera v. Fortstar
Leather (43) where the Supreme Court was satisfied with an arbitration
clause contained in a regulation of a trade association which the parties
referred to.
The second, represented by the recent holding of the Cassation of
June 16, 2011, Del Medico v. Iperprotein (44) gives prevalent importance to
the usages of international trade which are more and more based on
general conditions of contracts formulated (sector by sector) by agencies
or associations of traders (in the case GAFCA). Worth to note both
decisions held that the same result would be reached by applying the N.Y.
Convention.
Finally, with the last reform of 2006, art. 833 was abrogated. The
consequence is that dealing with the recognition or enforcement of foreign
(40) Among many see Cass. December 13, 1971, n. 3620, Miserocchi v. Agnesi, in Foro it.,
1972, I, 616; in Yearbook, 1976, 190; Cass. April 22, 1976, n. 1439 Raina and other v. Seagull, in
Foro it. 1976, 1495; in Yearbook, 1977, 249; Cass. September 18, 1978, n. 4167, Butera v. Pagnan,
in Yearbook, 1979, 296; Cass. (United Chambers) December 20, 1983, n. 7497 UIP and Alhimez
v. Epchap, Foro it., 1984, I, 1319 (comment DI VIRGILIO); Court of Appeal of Milan, May 3, 1977,
Renault Jacquinet v. SICEA, in Yearbook, 1979, 284; Court of Appeal of Brescia, December 27,
1980, Societé Italo-Belge v. IGOR, in Yearbook, 1983, 383.
(41) Art. 2. No derogation of jurisdiction by agreement.
“Jurisdiction of Italian judges cannot be derogated by agreement in favor of a foreign
jurisdiction nor or arbitrators who decide abroad, except if the dispute refers to obligations
between foreigners or between a foreigner and a citizen not resident nor domiciled in Italy and
the derogation is in writing”.
(42) The aim of the new rule was to overcome the dominant case law refusing to admit
the relatio imperfecta.
(43) Riv. Dir. Int. priv. proc., 2001, 693 (the arbitration clause referred to was contained
in the regulation approved and published by ICHSLTA - Consiglio internazionale delle
Associazioni dei commercianti di pelle (International Council of Leather Traders Associations);
in Contratti, 201, 329.
(44) Riv. Arb., 2012, 835. Although the decision was rendedered in 2011 the agreement
was signed long before and the motion for recognition introduced before the Court of Appeal
of Bari in 2002, thus fell under the umbrella of the law of 1994.
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awards, the prerequisite of “agreement in writing” has to be ascertained in
the light of art. II, 2 N.Y. Convention (45). This abrogation has been
criticized by many authors; first of all there is no clear cut explanation of
the reasons why it was abrogated.
The scholars emphasize that the more liberal opinion lies in the
stream of favoring arbitration which characterizes international trade and
speed of business nowadays, since businessmen enter contracts not by long
paper documents but preferably by reference to sectorial general conditions which by definition do not favor one party against the other, but
rather incorporate clauses which are neutral and equilibrated.
Some commentators believe that by abrogating art. 833.2, which
contained the express validity of indirect incorporation of the arbitration
clause, the rule makers intended to outlaw such indirect incorporation;
this interpretation is not convincing for several reasons. First of all the
reform abrogated not only the provision concerning the “form” but many
others which previously disciplined specifically international arbitration;
secondly there are cases in which the real intention of the parties is to
arbitrate, although the reference is not explicit to the arbitration clause.
For instance when the parties in their past commercial relationship
resolved their dispute through such an arbitration; when they contributed
in formulating (within the activity carried out by the pertinent trade
association) the general conditions which encompass the arbitral clause.
The validity of the agreement may also be challenged because its
subject matter was not capable of settlement by arbitration: see art. V(2)
a of the N.Y. Convention; art. 806 Italian code of civil procedure (46). I will
expand on the issue here below.
2.3. The successful pleading of this ground for opposition is quite
rare (47).
Cass. January 27, 1986, n. 522, Fruit Corp. v. Werton Inc. (48) held that
the insufficiency of the delay to prepare a response before the arbitral
(45) On this issue see GRAFFI, International Arbitration Agreements by Reference: A
European Perspective, Rec. Cah. Arb. 04-05, 19; MILANESE, Clausola compromissoria e validità
del rinvio per relationem, in Dir. Comm.. intern., 2001, 1099 et seqq.; GIANALBERTO, Clausola
compromissoria: poteri del rappresentante e validità del rinvio per relationem, Contratti, 2009,
855 et seqq. And more recently, BIAGIONI, La Corte di Cassazione torna ad occuparsi del
richiamo della clausola compromissoria per relationem imperfectam, in Riv. arb., 2012, 837 et
seq.
(46) On this issue see BOVE, Il riconoscimento, 42.
(47) FRIGNANI, op. cit., 258 offers these hypothetical examples: lack of communication of
the names of the arbitrators; lack of communication of all documents docketed before the
arbitral tribunal. In a case of domestic arbitration the fact that the arbitral tribunal based its
decision on a document which was not subjected to examination by the other party (contradditorio) triggered the nullity of the award: Tribunal of Turin, April 13, 1987, SAI v. Cabassi, in
Rass. arb., 1987, 23.
(48) Rass. Arb., 1986, 216.
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tribunal may constitute a valid ground for opposing the recognition and
execution, provided that the party proves that, in the case at hand, he was
prevented from having an actual knowledge of the arbitral proceedings or
to prepare his defenses. The assessment of this condition belongs to the
Court of Appeal requested for recognition.
The issue of possible violation of the right of defense was addressed
by the Supreme Court, October 17, 1980, n. 5378, Casillo v. Getreide
Import (49), where the opponent argued that the time limits set forth by
the arbitration panel were unfair because they were less than the timelimits granted by the code of civil procedure in proceedings before State
courts, having omitted to consider the suspension of procedural delays
during summer period; the distance of the seat of arbitration from its own
domicile; the different language of arbitration; the need to hire a German
counsel for the Italian party. The Court held that none of these arguments
represented a violation of the right of defense.
An opposite view was held by the Cass. April 3, 1987, n. 3221, Abati
Legnami v. Fritz Haupl (50). The arbitration took place in Vienna: 18 days
were established to appoint an arbitrator and 24 days to appear before the
arbitral tribunal, both the time limits falling within the month of August.
The Court considered that the summer period created objective difficulties for the Italian party to carry out defensive activities and to hire
counsel to appear before the arbitral tribunal, since from August 1
through September 15 the summer suspension of procedural delays causes
a significant detriment to the operation of Italian law firms, and a diminution of counsel’s ability to act in an international forum, to speak
German and to move rapidly to Vienna to present the case before an
international arbitral tribunal. The Court held that the opponent was
significantly limited in its right of defense.
Although proper notice and fair hearing are rooted in constitutional
rules, in some cases the judges were satisfied with terms shorter than those
established in domestic civil proceedings (which are long indeed), in
consideration of the general tight timing schedule claimed by the best
practices in international arbitration: Cass. Casillo, cit.
Some examples in other periods of the year outside the summer
courts holiday (August 1, September 15): in Nosegno v. Morando the
Court of Cassation held that 12 days for appointment of ex parte arbitrator
and 21 days for filing its own case did not hamper the right of defense; in
Fruit Corp. v. Werton 20 days have been held sufficient to present the case;
in Cass. May 30, 2006, n. 12863, Industrie tecnofrigo Dell’Orto v. Profil
(49)
(50)
Foro it., 1981, 1142.
Riv. dir. int. priv. proc., 1988, 714.
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Epitoipazi kereskedelmi SS Szolgatato (51) 30 days were a sufficient term;
so were 48 days according to the App. Catanzaro January 13, 1997,
Fertilcalabria v. Viatra A.G. (52). According to the Court of Appeal of
Lecce, March 21, 1998, Norelf v. Petroli Meridionali (53), three weeks,
prorogated by other three weeks for the motion of appearance could not
constitute an insufficient term for defense.
It may be interesting to quote Cass. October 18, 1997, n. 10229,
Dalmine v. M. & M.Sheet Metal Forming Machinery (54), where the party
against which the recognition was sought complained that its full right of
defense was restricted because one of the witnesses called by it was not
heard. The Court of Appeal of Milan first and the Court of Cassation
after, looking into the award, uncovered that this witness was given many
chances to be heard, but for his own reasons or reasons of the party who
called him did not appear, therefore the opposition was rejected (55).
Evidence of the actual impossibility to present the case must be
brought by the opponent: Cass. January 21, 2000, n. 671 Conceria De Maio
v. Interskins (56); Cass. April 8, 2004, n. 6947 Vigel v. China National
Machine Tool (57). Thus in all these cases Italian judges rejected the claim
of impossibility to raise its own defenses.
The inability to present his own case may be caught also under Art.
V. 2 b, because the right of full defense is encompassed in the notion of
public order (58).
2.4. Art. V(1)c covers a set of situations: the first concerns the cases
where the arbitrators went beyond their jurisdiction or acted without
jurisdiction at all (which may include any vice concerning the validity of
the arbitration agreement, thus falling under Art. V(1) a); the second
refers to the actual claims object of the submission, which establish the
external perimeter of arbitrators’ jurisdiction. The second set of cases are
also labeled as extra or ultra petita.
For what concerns the “difference not contemplated by the agreement”, the Supreme Court construed the notion of “contemplation” in a
restrictive sense, thus excluding that the arbitration clause contained in a
main contract could extend its effect to another (though linked) contract
(“contratto collegato”) from which the dispute arises; Cass. July 28, 1998,
(51)
(52)
(53)
(54)
(55)
condizioni
(56)
(57)
(58)
Yearbook, 2007, 406.
Riv. dir. int. priv. proc., 1998, 800, (at 809).
Dir. maritt., 1998, 1147.
Foro it., 1999, I, 292; Yearbook, 1999, 709.
Foro it., 304. See BERLINGUER, Capacità delle parti e rispetto del contradditorio come
al riconoscimento del lodo straniero in Italia, in Foro it., 1999, I, 292.
Yearbook, 2002, 492.
Yearbook, 2006, 802.
BOVE, Il riconoscimento, 44.
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n. 7398, Glencore Int’l v. Alluminio Nord (59). The possibility to extend the
arbitration clause to cover a dispute in a linked contract shall be assessed
with reference to the law governing the contract. In Italy, according to art.
808 quater code of civil procedure, such an extensions is possible only if
the different contracts represent a sole economic and legal business
operation.
In Le Swie Horny Steel, decided by the Cass. on Nov. 10, 1992, n.
12093 the opponent claimed the violation of Art. V (1)c because there was
no arbitration clause: the parties had signed a contract containing such
clause, but thereafter the contract was superseded by an addendum which
did not contain any arbitration clause. The Supreme Court rejected the
opposition finding that the dispute was correctly submitted to arbitration
because the addendum only amended, without replacing the first contract
completely.
Ultra petita: the Neumann case dealt with the question whether the
arbitrators decided on a difference not contemplated by the arbitration
clause. The Court answered “This is not the case if the arbitrators exceeded
the conclusions (pleas) of the parties, since this would be a case of
arbitrator’s procedural mistake, which cannot be subjected to a review in the
proceedings for recognition. The alleged “ultra petition” of the arbitrators
does not violate principles of domestic public policy considering that in the
case at hand the amendment of the conclusions by one party was not
immediately objected by the other”.
When talking about infra petita a distinction must be drawn between
final and partial awards. Partial award: according to the Court of Appeal
of Milan, January 27, 1995, Neumann v. Brianza Plastica (60), a partial
award is enforceable (in that case only some questions were resolved by
the award leaving the decision on all other claims to subsequent proceedings depending upon further steps of discovery); thus the award is not a
fraction of a decision which the parties wanted unitary, but is final in its
content.
A condition to have a partial award is that separation of decisions on
matters submitted to arbitration from those not so submitted (art V. 1 c.
second part) be possible: the part of the award containing the first can be
recognized (61).
According to Cass. June 7, 1995, n. 6426, Wtb Tosti Baswas Bankiengesellschaft v. Coop. Costruire (62), a not final foreign award can be recognized in Italy since the only limits to be observed are those laid down in
Art. V. N.Y. Convention among which the indivisibility of the award does
(59)
(60)
(61)
(62)
Riv. dir. int. priv. proc., 1999, 319.
Riv. dir. int priv. proc., 1995, 742 (comment VISMARA).
See BOVE, Il riconoscimento, 46.
Giur. it., 1996, I, 1, 1984; Yearbook, 1997, 727.
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not appear. On the other hand the final award is recognizable, without
need to seek simultaneously the recognition of the not final award,
because the latter is an autonomous decision by the parties’ will who
permitted the arbitrators to decide first on “whether the right exists” (an)
and thereafter on the “amount” (quantum).
If the award contains a plurality and divisible issues, recognition can be
granted to those falling within the terms of the submission, and refused to
those not submitted to the arbitrators (so Court of Appeal of Trento, January 14, 1981, General Organization of Commerce of Cereals of Syria (GOCIC) v. SIMER (63) where the arbitral tribunal decided also on technical
questions, while it was competent only on non-technical questions).
2.5. Composition of the arbitral panel. I refer to an old precedent:
Court of Appeal of Florence, April 13, 1978, Rederi Aktiebolaget v.
Termarea (64) where the exequatur was denied to an award made in UK by
a panel of two arbitrators, while the arbitral agreement provided for a
three arbitrators panel.
In Tema Frugoli v. Huber Space, Cass. February 7, 2001, n. 1732 (65)
the parties instituted two different arbitral proceedings, while the agreement specifically provided for one proceeding only. The arbitration agreement was a clear example of a pathological clause since it provided that if
the plaintiff was the Chinese party arbitration should have been conducted
by the CIETAG, while if the plaintiff was the Italian company the
arbitration should have been conducted by the Stockholm Arbitration
Center. Huber Space initiated the arbitration by CIETAG, Tema Frugoli
in Stockholm with the result of two conflicting awards. Huber Space
sought recognition of CIETAG award in Italy; Tema Frugoli opposed the
exequatur which was at the end denied by the Cassation, because the
arbitral proceeding was not in accordance with what the parties had
agreed upon.
The parties explicitly wanted to have an award with grounds; the
award did not contain them and the judges denied recognition: Cass.
February 8, 1982, n. 722 Fratelli Damiano v. August Toepfer (66) [in that
case art.8 b of the Geneva Convention of 1961 was applied]. Failing an
explicit request for grounds in the arbitration agreement, old case law held
that recognition can be refused only if the grounds are mandatory under
the procedural law applicable to arbitration: see — among many — Court
of Appeal of Florence, October 22, 1976, Tradax Export v. Carapelli.
The opposition based on error in judicando does not prevent recog(63)
(64)
(65)
(66)
Yearbook, 1983, 386.
Yearbook, 1979, 294.
Riv. dir. int. priv. proc., 2001, 443; Yearbook, 2007, 390.
Foro it., 1982, I, 2285.
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nition. The issue was raised in Cass. April 4, 2004, n. 6947 Vigel v. China
National Machine Tool(67).The Italian company complained that the
arbitral tribunal did not apply the UN international conventions applicable to the merits of the dispute, thus the judges should refuse the
enforcement of the award, under Art. V(1)d. The Cassation held that such
an article does not refer to the award or its outcome, therefore no bearing
should be given to an error in judicando. It seems to me that such holdings
should be mitigated because it totally neglects the doctrine of manifest
disregard of the law.
According to Cass. February 19, 2000, n. 1905 De Agostini v. Milloil (68) it is an obstacle to the recognition of a foreign award the fact that
the arbitrators, having received the mandate to decide in law (“secondo
diritto”), decided ex aequo et bono.
2.6. Art. V(1)e covers three different situations: a) award not binding; b) award set aside; c) award suspended.
a) Award not binding. From a procedural point of view the judges of
the recognition and/or enforcement do not have competence as to ascertain
whether or not the award has become “binding”; this issue belongs to the
competent authority of the country in which, or under the law of which, the
award was made. In fact the onus probandi lies not within the plaintiff but
within the defendant who may raise that exception and prove it (69): Cass.
November 10, 1992, n. 12093, Le Swie Horny Steel v. Guardian Shipping (70).
“Binding” does not imply that the award cannot be appealed any
more. In fact it is irrelevant that the award might be subjected to
extraordinary means of appeal: Cass. November 3, 1992, n. 11891, Lucchetti v. Compagnia Siciliana Appalti (71).
The consolidated case law rejects the opinion that, in order to have an
award “binding” in the sense of the N.Y. Convention, the award must
have received an exequatur or has become res judicata (72): ex multis, see
case Lucchetti.
b) Award set aside. Some authors suggest that if the award has been
set aside in the country where it was made the judge requested for
recognition should reject it (73); while the mere fact of litis pendens is
(67) Riv. dir. int. priv. proc., 2005, 107; Dir. maritt., 2006, 137 (comment PERRELLA).
(68) Corriere Giur., 2000, 11, 1498 (comment RUFFINI).
(69) The opposite view is held by BOVE, OP. CIT., 49 footnote 77, but I do not share the
conclusion.
(70) Giur. it., 1993, I, 1, 1934.
(71) Foro it., 1993, I, 112. Other precedents in conformity: Cass. June 7, 1995, n. 6426,
WTB Tosti Baswas, cit.; Court of Appeal of Catanzaro, January 13, 1997 Fertilcalabria v. Viatra.
(72) The requirement which existed under the Geneva Convention of 1927, has disappeared in the N.Y. Convention.
(73) BERNARDINI, L’arbitrato nel commercio e negli investimenti internazionali, 2ª ed.,
Milan, 2008, 239; ATTERITANO, op. cit., 285; BERNARDINI-PERRINI, op. cit., 709.
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irrelevant for the recognition judges (the N.Y. Convention requires only
that a “decision” is made, not that it has become res judicata) (74). Other
authors leave open the question swinging between the “may” or “must”,
although the Italian law says “shall refuse”, underlying that two conclusions need to be emphasized: the first is that the French and USA case law
(namely Hillmarton and Chromalloy) do not contribute to the progressive
development of the law of international arbitration with the risk to
endanger the proper function of the N.Y. Convention system. The second
conclusion is that the autonomous consideration of the arbitral award in
the country of recognition, independently of the evaluation of the award
itself in its country of origin also disregards the principle of due attention
and recognition that must be paid to foreign judicial decisions (75). Others
believe that there is no international obligation under the N.Y. Convention to refuse recognition of an award set aside in the State of origin (76).
There are no Italian precedents on this issue to my knowledge.
c) Award suspended. The suspension has an interlocutory effect only,
since it will be settled by a decision setting aside or confirming the award.
In both cases the Court of Appeal may suspend the recognition proceedings, and, if so requested by the party seeking enforcement, order the
other party to give suitable security (art. 840.4).
2.7. This cause for refusal of recognition (like the one focused on
public policy) is written twice in the Italian code of civil procedure: both
in art. 839 and in art. 840. The reason is that the judge decides the issue ex
officio in the first step of recognition proceedings (inaudita altera parte);
thus no need of ex parte exception (art. 839). But if the recognition is
granted, the Court having heard the arguments of the parties on the issue,
can review the first decision of the Chairman.
Art. 806 Code of Civil Procedure provides that every dispute is
arbitrable, except those having as their object “rights which may not be
disposed of” [diritti indisponibili].
As a matter of practice the area of arbitrable disputes has been widely
extended, now encompassing fields of law once traditionally excluded
from arbitration: for instance, antitrust, intellectual property rights, corporate governance disputes, some labor law controversies, public contracts, etc. In a word, the Italian lawmakers favor the arbitrability widening its perimeter.
(74) TAMPIERI, 1049.
(75) So, among others, GIARDINA, The International Recognition and Enforcement of
Arbitral Awards Nullified in the Country of Origin, in Liber Amicorum Boeckstiegel, Cologne,
2000, 205; Riv. Dir. Int. priv. proc., 2001, 265.
(76) A pro-arbitration critique of MICHAEL REISMAN’S Normative architecture of international commercial arbitration’, ICCA Congress Series No. 16, Proceedings of the ICCA 50
Conference, Geneva, May 2011. See the response to Reisman’s report by RADICATI DI BROZOLO,
The Control system of arbitral Awards, ibidem.
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As the doctrine has pointed out “Incapacity of settlement” must not
be confused with the dichotomy between binding and non-binding
rules (77).
Cases of non arbitrable disputes:
In the case Fincantieri v. Iraq, the Court of Appeal of Genoa
07.05.1994 held that, due to the subsequent international embargo, the
rights contemplated in contracts for military ships construction had become non disposable for the parties (78).
Other segments of law which are excluded from arbitration are:
family law, inheritance law, insolvency law.
There are cases in which the subject matter was capable of settlement
by arbitration at the moment the arbitration agreement was stipulated, but
become non arbitrable later on: for instance if the facts that are the object
of arbitration constitute a crime which is pursued by the public prosecutor
before a criminal court.
2.8. This is one of the most used arguments for opposition, but also
one of the most frequently rejected.
The internal public policy notion embraces the mandatory rules of the
system (Cass. February 27, 1985, n. 1714).
Domestic public policy encompasses the rules which are binding and
cannot be derogated by the parties’ will (esempli gratia arts. 1343 and
1418) (79); it applies also if one or both parties are foreigner provided they
have chosen Italian law as governing law of their relationship.
While international public policy refers to the set of principles which
are rooted in the Constitution, or anyhow represent the foundation of the
whole system, and are such as to characterize it in a given historical
moment, thus shaping the cornerstones of the ethical, social and economic
structure of national community conferring it a specific and unmistakable
feature (so Cass. December 28, 2006, n. 27593, R.v.M. (80)). Leaving aside
the pomposity of the Supreme Court language, the principles of international public policy must always be respected even though the contract is
subjected to a foreign law.
(77) BOVE, Il riconoscimento, 42.
(78) On this issue see COLANDRA, Gli effetti delle misure di embargo sull’arbitrabilità della
controversia nell’arbitrato commercial internazionale, in Giur. it., 2005, 122 ff.
(79) Art. 1343 Unlawful causa-The causa is unlawful when it is contrary to mandatory
rules, public policy, or morals. (The notion of “causa” is not given by the legislator, but it can
be intended as the “useful social or economic function” of the contract).
Art. 1418 (Causes of nullity of contract). A contract that is contrary to mandatory rules is
void, unless the law provides otherwise.
(80) Riv. dir. int., 2007, 886 The Cassation quotes as precedents holding the same view
Cass. December 13, 1999, n. 13928; Cass. December 6, 2002, n. 17349; Cass. November 26, 2004,
n. 22332; Cass. December 7, 2005, n. 26976; Cass. February 23, 2006, n.4040.
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The courts have applied the notion of international public policy in a
very restrictive way.
Some examples:
a) The external borders of matters not capable of settlement by
arbitration are international public policy.
b) A great part of the rules concerning bankruptcy law (e.g. the
principle of par condicio creditorum) are regarded as international public
policy (81).
c) Punitive damages: they are contrary to international public policy
according to Cass. January 19, 2007, n. 1183 Parrot v. FIMEZ (82). More
recently Cass. February 8, 2012, n. 1781, Ruffinatti v. ORL (83) has to some
extent fine-tuned the argument: punitive damages are not against Italian
international public policy as such, but insofar as their amount exceeds the
total amount of damages assessable under Italian law since the latter has
the aim of fully compensating all damages suffered, but excludes any
punitive or deterrence purpose. Worth to note, this view has been held
against recognition in Italy of foreign court judgments granting punitive
damages. I did not find any precedent concerning foreign awards, though
I guess the result would be the same.
Doctrinal position:
There is no single view on the issue among the Italian scholars:
although the mainstream opinion is that Italian legal system cannot allow
for punitive damages, there are some scholars who seem permeable to the
idea of possible cross-fertilization in relation to the issue.
The principle of full compensation is only shaped looking to the
injured party without any consideration to the conduct of the injuring
party (which is one of the motives of the punitive damages in the USA
legal tradition): the only purpose of monetary awards is to restore the
injured party to the situation it was before the damages (put into the
contractual realm, to put the party in the situation as if the contract had
been fully performed). However there is another argument which runs
against the introduction of punitive damages in Italy: the money which
exceeds the amount of damages incurred would represent for the injured
party an unjustified enrichment (84).
(81)
(82)
On this issue see BOVE, op. cit. 32; TAMPIERI, op. cit., 1054.
In Foro it., 2007, 1460 (comment PONZANELLI, Danni punitivi: no, grazie) cf. also:
SARAVALLE, I “punitive damages” nelle sentenze delle corti europee e dei tribunali arbitrali, Riv.
dir. int. priv. proc., 1993, 867; RADICATI DI BROZOLO, Arbitrage commercial International et lois
de police. Autonomie de la volonté et conflits de jurisdiction, The Hague Recueil des cours, 2005,
vol. 315, 269.
(83) Riv. dir. int. priv. proc., 2013, 134.
(84) For more details see PONZANELLI, I danni punitivi, in Nuova giurisprudenza civile
commentata, 2008, 28; CASTAGNO N., International Commercial Arbitration and Punitive Damages, in Arbitraje, 2011, 729.
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d) The conflict with the international public policy must be assessed
considering not the grounds of the award but its dictum only (“dispositivo”). In fact what matters are “the substantial effects” so Court of
Appeal of Milan, December 14, 1992, Allsop Automatic v. Tecnoski (85);
Cass. April 8, 2004, n. 6947, Vigel v. China National Machine Tool (86).
e) International public policy may also be of procedural nature: see
the case of ne bis in idem. The recognition is to be denied to an award
contrary to a court decision (among the same parties and with the same
object) already become res judicata: Cass. March 10, 1999, n. 2004 Filippello v. Ele Sheraton Golf Hotel.The same would be if the award requested
for recognition is contrary to another award having been granted recognition.
f) The lack of grounds in the award is not contrary to public policy:
Cass. February 8, 1982 n. 722 Fratelli Damiano.
g) An award made by a sole arbitrator appointed by one party only
in conformity with the applicable English rules was enforced because it
was not in contrast with international public policy: Court of Appeal of
Genoa, May 2, 1980 (87).
h) Cass. December 6, 2002, n. 17349, Finleader v. Grant Thornton (88)
held that an interest rate much higher than Italian ones does not violate
international public policy.
i) The firing ad nutum of an employee (legitimate under certain
foreign laws) is considered a case for international public policy: Cass.
May 4, 2007, n. 10215 (89) though in the case at hand recognition of the
foreign Court decision was granted because the employee was found in
default of his duties.
III. The competent Court of Appeal is that in whose territory the
award debtor has its seat or domicile (90). If the debtor has neither seat or
domicile in Italy, the Court of Appeal of Rome has jurisdiction (art. 839).
In a multiparty arbitration the Court competent for one of the parties
(85) Riv. dir. int. priv. proc., 1994, 873; Yearbook, 1997, 725.
(86) Riv. dir. int. priv. proc., 2005, 107.
(87) References is made to the typical English law institute of “umpire” which in the legal
culture of other jurisdictions may affect the notion of impartiality: on this issue, from an Italian
law persective: ZUFFI, Peculiarità inglesi in tema di composizione dell’organo arbitrale (specie se
integrato da un umpire) e riconoscimento dei lodi, in Int’I Lis, 2005, I, 33.
(88) Gius. 2003, 696.
(89) Riv. dir. int. priv. proc., 2008 214.
(90) In order to make it easier for foreign companies to find justice in Italy, the law
decree of December 23, 2013, n. 145 (converted with the law Febrary 21, 2014) in its art. 10
provides that only 11 courts of Appeal (Bari, Cagliari, Catania, Genova, Milano, Napoli, Roma,
Torino, Venezia, Trento, Bolzano) are competent to hear cases where a foreign company is
involved in their specialized chambers devoted to corporate matters.
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attracts the standing over all the other parties (91). However a recent
decision of the Court of Appeal of Milan, November 12, 2012, MW Corp.
Private v. BS Private Equity (92), held the opposite view, thus compelling
the claimant recognition to file a motion before the Court of Appeal
competent for each party. In multi party arbitration, if there are various
award debtors, each one of them is entitled to oppose the recognition
decree (93).
No other particular requirement is needed. It suffices that the plaintiff
requesting recognition has an “interest” in obtaining it in Italy (usually it
is the winner party to the arbitration proceedings). Each party to the
arbitral proceedings has standing. If the award contains obligations capable of economic evaluation (“natura patrimoniale”) also the heirs or
successors of the parties have standing.
Concerning the possibility to obtain from the judge a provisional
injunction to pay during the proceedings for recognition of a foreign
award there is a lively debate in the case law, as well as among the
scholars. The first opinion deems that the presidential decree granting
recognition inaudita altera parte (under art. 839) is automatically enforceable notwithstanding a subsequent opposition against it (94).
According to the dominant opinion the petitioner (notwithstanding
the opposition of the other party) may obtain a provisional injunction to
pay, upon the same conditions as an Italian creditor (Court of Appeal of
Milan, December 12, 2006, Gavazzi v. Barrak Mohammad Abdulaziz al
Barrak (95)) (96). In the same line Court of Appeal of Genova, June 21,
2006, Intermarine v. Comproprietà Marittima Verne (97), held that the
decree of recognition is not automatically enforceable, but the enforceability can be obtained during and pending the opposition proceedings,
since the foreign award has the same evidentiary weight as a written
(91) So BOVE, Il riconoscimento, 27.
(92) Riv. arb., 2013, 423 (comment by ZULBERTI).
(93) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, II, 339 ss.
(94) ZUCCONI GALLI FONSECA, L’esecutorietà del lodo arbitrale straniero in pendenza di
opposizione, in Riv. arb., 1997, 347; LUZZATTO, L’arbitrato internazionale e i lodi stranieri nella
nuova disciplina legislativa italiana, in Riv. dir.int. priv. proc., 1994, 278; the relevant case law is
quoted by ROVERSI, Aspetti processuali della disciplina sulla delibazione dei lodi esteri, in Riv.
arb., 1999, 157.
(95) Foro it., 2007, 2243.
(96) The scholarship is however split on this issue: see the debate in BRAGGION (next
footnote).
(97) Dir. comm. int., 2008, 683 (comment Braggion, Sulla possibilità di concedere la
provvisoria esecuzione al lodo arbitrale straniero in pendenza di giudizio di opposizione, who
is in favor of the first opinion).
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evidence of the credit in a proceedings for payment. This is the consolidated position of the Court of Appeal of Milan (see March 24, 1998) (98),
shared by the majority of the scholars (99).
A third opinion denies the possibility of obtaining an interlocutory
injunction to pay until the opposition proceedings has been dismissed (100).
On the other hand, the Cassation held that it should be dismissed as
not admissible an action for negative ascertainment, aimed at declaring
(before the latter brings any suit for recognition) that the debtor in an
award does not owe anything to the creditor.
For what concerns the prescription period, the statute of limitation is
ten years (art. 2946 Civil code) starting from the date the award became
binding (art. 2935) under the law regulating the arbitration. The defense
of prescription must be raised by the opponent, since the judge cannot
apply it ex officio.
There are formal requirements to be met in the petition for recognition (art. 839), namely:
i) the original award or a certified copy of it;
ii) the original arbitration agreement or an equivalent document or a
certified copy;
iii) a certified translation of them (101).
On this issue Italian case law shows an important evolution: from an
early period in which the lack of documents conforming to the statutory
requirements triggered the dismissal of the petition for recognition (Cass.
May 26, 1987, n. 4706 (102); Court of Appeal of Bologna, February 4,
1993 (103), the judges came later to a more liberal attitude, in that they may
ask for the integration of the documentation before dismissing the petition
(Court of Appeal of Milan, January 14, 2000 (104), though there are still
those who share the most restrictive view.
In any case the formal condition laid down in Art. IV (1)b. N.Y.
Convention represents a procedural prerequisite (“presupposto processuale”) and not a condition for the action, consequently if the Court
(98) Giur. it., 1999, I, 2, 533.
(99) Among many, see AULETTA, L’efficacia in Italia dei lodi esteri, in VERDE (edited by),
Turin, 2000, 410; BRIGUGLIO (and others), La nuova disciplina dell’arbitrato, Milan, 1994, 284.
(100) Court of Appeal of Florence, May 17, 2005, Nuovo Pignone v. Schlumberger, in Riv.
arb., 2006, 127; Court of Appeal of Bologna May 27, 1996, Bastogi v. Kone Italia, in Riv. arb.,
1997, 345.
(101) TAMPIERI, op. cit. 1022.
(102) Riv. dir. int. priv. proc., 1988, 529.
(103) Rass. arb., 1994, 305.
(104) Riv. dir. int. priv. proc., 2000, 172.
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dismissed the petition for such reason, the party is not prevented from
filing a new petition (Cass. May 4, 1998, n. 441 Booth v. Conceria De
Maio) (105).
One word to the case where the court has compelled arbitration.
“Antisuit injunctions” as a legal institution are unknown to the Italian legal
system; the judges simply deny their competence over a case if an
arbitration clause validly exists. In Primary Industries (UD) v. Franchini
Lamiere of April 18, 2003, n. 6349 (106) the Joint Chambers of the Supreme
Court held that under art. II.3 N.Y. Convention to decline to hear the case
if there is an arbitration clause is not a matter of jurisdiction opposing an
Italian and a foreign judge, but he must simply dismiss the motion.
We acknowledge the holding of European Court of Justice, February
10, 2009 C-185/07, Allianz v. West Tankers according to which “It is
incompatible with Council Regulation (EC) No 44/2001 of 22 December
2000 on jurisdiction and the recognition and enforcement of judgements in
civil and commercial matters for a court of a Member State to make an
order to restrain a person from commencing or continuing proceedings
before the courts of another Member State on the ground that such
proceedings would be contrary to an arbitration agreement”, although the
doctrine is critical towards such conclusion (107).
Concerning a specific ground for denying recognition, Italian judges
consider themselves free to re-examine that ground, notwithstanding the
fact that other judges or the arbitral tribunal have taken a decision on that
issue.
If the exceptions on which the denial of recognition is sought have to
be assessed under the lex fori of the judge competent for recognition, no
deference is paid to the holdings of foreign judges.
IV. In Italy the New York Convention is subject to scarce criticism
as the general opinion is that N.Y. Convention has worked pretty well so
far.
The application of the Convention by the courts is assessed positively.
Due deference is paid to the international commitment that Italy has
taken by ratifying the N.Y. Convention. According to the policy followed
by the Court of Cassation the criteria for denial of recognition and
enforcement should be interpreted in a restrictive manner.
Concerning the future reforms of the New York Convention, though
Italy did not express any official position, in some circles the scholars are
talking about the following issues:
(105) Riv. dir. int. priv. proc., 1999, 277.
(106) Gius., 2003, 1957; and Arch. Civ., 2004, 227.
(107) See comments by PERILLO, Arbitrato comunitario e anti-suit injunctions nella sentenza West Tankers della Corte di Giustizia, in Dir. comm. int., 2009, 351; WINKLER, West
Tankers: la Corte di Giustizia conferma l’inammissibilità delle anti-suit injunctions anche in
ambito escluso dall’applicazione del Regolamento Bruxelles 1, in Dir. comm. int., 2008, 735.
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i) to enlarge the notion of “agreement in writing”,
ii) Italian doctrine addressed the issue of introducing a mechanism for
the review of the awards by an appellate arbitral tribunal, by means of the
creation of a new international court for resolving disputes on the enforceability of arbitral awards (108), though I believe that the States will hardly
give up their jurisdiction on that matter.
Lo studio rappresenta la relazione italiana al XIX° Congresso Internazionale
di Diritto Comparato (Vienna 20-26 luglio 2014); esso è stato strutturato secondo un
questionario che il relatore internazionale aveva preparato. L’autore, fatta un’ampia
rassegna della giurisprudenza italiana in materia di riconoscimento ed esecuzione
dei lodi stranieri secondo la Convenzione di New York, conclude con una valutazione estremamente positiva della Convenzione stessa, per lo sviluppo dell’arbitrato
internazionale.
(108) Among others cf., RUBINO SAMMARTANO, International Arbitration Law, 2ª ed. 2001,
976-984; FRIGNANI, L’arbitrato commercial internazionale, 2004, 283-287.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I) ITALIANA
Sentenze annotate
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I civile, sentenza 26 ottobre 2011, n. 22333; CARNEVALE Pres.; MACIOCE Est.; RUSSO P.M.; P.C.E. Public Contractors Enterprise s.r.l.
(avv. Ruffini) c. Soc. Cooperativa Edilizia Arsenale a.r.l. (avv. Giacobbe).
Impugnazione per nullità del lodo arbitrale - Sentenza della corte d’appello che
annulla il lodo decidendo anche nel merito - Ricorso per cassazione Impugnazione del solo capo rescindente - Interesse ad impugnare - Sussistenza.
Effetto espansivo interno della cassazione del capo rescindente sul capo rescissorio
non impugnato - Sussistenza.
L’impugnazione per cassazione del solo capo rescindente della sentenza che
annulla il lodo arbitrale decidendo nel merito è ammissibile poiché il capo rescissorio è “dipendente” ex art. 336, comma I, c.p.c. da quello cassato.
Nel giudizio di impugnazione del lodo arbitrale è applicabile l’art. 336 c.p.c.
CENNI DI FATTO. — La Cooperativa Arsenale conviene PCE innanzi alla
Corte di Messina chiedendo l’annullamento del lodo di tutela arbitrale ed in sede
rescissoria rigettarsi tutte le domande di PCE, statuirsi nulla essere dovuto per
compenso revisionale, e di contro determinarsi i danni arrecati per ritardata
consegna delle unità abitative e dei certificati, con penale ed accessori. La PCE si
è costituita ed ha chiesto il rigetto della impugnazione.
La Corte di Appello di Messina, con sentenza non definitiva 15.10.2007,
dichiara la nullità del lodo e, in sede rescissoria, rigetta la domanda di PCE di
pagamento di Euro 544.958,78 per compenso revisionale, quella afferente gli
interessi sui SAL, quella relativa alla somma di Euro 18.411,50 e di contro ha
condannato PCE a pagare la penale di Euro 36.215,50, ed al risarcimento dei danni
arrecati.
Per la cassazione di tale sentenza PCE propone ricorso per cassazione.
Cooperativa Arsenale eccepisce la inammissibilità del ricorso sotto due distinti
profili e la inammissibilità di alcune censure nonché la infondatezza di tutte le
doglianze.
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MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — Sulle pregiudiziali di Arsenale.
1) A criterio di Arsenale, avendo le censure attinto solo i capi della pronunzia
rescindente e lasciate immuni le decisioni assunte in fase rescissoria, nel merito
delle pretese, la acquiescenza a tali statuizioni — in un contesto di necessaria
inapplicabilità dell’art. 336 c.p.c. — priverebbe di interesse PCE a coltivare la
impugnazione dei (soli) capi rescindenti della pronunzia. La eccezione, come
diffusamente osservato da PCE in memoria, non è condivisibile posto che, attribuendo indebita valenza, sul piano della formazione del giudicato, alla scansione
logica e funzionale tra momento rescindente e momento rescissorio, cerca in tal
scansione un improbabile sostegno alla tesi della non applicazione, al giudizio di
impugnazione del lodo, dell’art. 336 c.p.c. Ma poiché questa Corte non ha mai
dubitato della piena applicabilità di detta disposizione al giudizio in discorso (Cass.
n. 18149 del 2002 e n. 17631 del 2007), con affermazione di un principio che è dal
Collegio pienamente condiviso, ne discende che l’impugnazione immediata del
singolo capo rescindente era ed è condizione necessaria e sufficiente a giustificarne
l’esame essendo la conseguente e correlata pronunzia rescissoria di rigetto capo
“dipendente” da quello contestato.
(Omissis).
La dipendenza ex art. 336, comma I, c.p.c. tra capo rescindente e capo
rescissorio della sentenza di annullamento del lodo arbitrale che
decide anche nel merito.
1. L’ammissibilità dell’impugnazione circoscritta ai soli capi rescindenti della sentenza che annulla il lodo arbitrale. — Come noto, il giudizio
di impugnazione per nullità del lodo arbitrale, laddove non debba chiudersi con una decisione di contenuto meramente rescindente, si articola in
due fasi tra loro nettamente distinte sul piano funzionale, cronologico e
formale (1): a seguito dell’annullamento di tutta o soltanto parte della
(1) Come oggi peraltro chiaramente sancito dall’art. 830 cpv. c.p.c.: cfr. MARINUCCI,
L’impugnazione del lodo arbitrale dopo la riforma: motivi ed esito, Milano, 2009, con la dottrina
e la giurisprudenza ivi citate; sul tema, nella giurisprudenza di legittimità più recente trovano
conferma i seguenti principi: 1) nel procedimento di impugnazione per nullità del lodo arbitrale,
quale giudizio a critica vincolata, vige, a pena di inammissibilità, la regola di specificità della
formulazione dei motivi, in analogia con quanto prescritto per il ricorso per cassazione, essendo
quindi indispensabile l’indicazione esplicita del motivo di nullità fatto valere tra quelli elencati
dall’art. 829 c.p.c, l’indicazione del capo della pronuncia arbitrale che si intende impugnare,
nonché una precisa articolazione delle questioni giuridiche utili a pervenire alla declaratoria di
nullità del lodo (così, ex pluribus: Cass. 17 luglio 2012, n. 12199; Cass. 30 maggio 2008, n. 14553;
Cass. 23 dicembre 2004, n. 23900; Cass. 20 febbraio 2004, n. 3383; Cass. 8 agosto 2003, n. 11950);
tuttavia, in un caso (cfr. Cass. 3 gennaio 2013, n. 28) la Corte di cassazione non ha ritenuto di
dover censurare il giudice della corte d’appello, laddove ha superato il difetto di riconduzione
espressa delle censure dell’impugnante ad uno dei motivi individuati dall’art. 829 c.p.c.,
provvedendo essa stessa all’inquadramento di tali censure all’interno di uno dei motivi tipici e
procedendo successivamente ad esaminarne la fondatezza; 2) nel giudizio di impugnazione per
nullità del lodo vige altresì, sempre a pena di inammissibilità, la regola della tempestiva
formalizzazione dei motivi di impugnazione nell’atto introduttivo del giudizio, con la conse-
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decisione degli arbitri, infatti, è necessario procedere a riesaminare il
fondo della lite e conseguentemente emanare una nuova pronuncia di
merito. A quest’ultimo compito, peraltro, può provvedere direttamente la
medesima corte d’appello che ha rescisso il lodo o, in alternativa, un
arbitro o collegio arbitrale, se così hanno disposto le parti nella convenzione di arbitrato o con accordo successivo (2).
In ogni caso, la Corte di legittimità ha più volte sottolineato la
necessità di una netta separazione funzionale tra fase eliminatoria e fase
sostitutiva del lodo; separazione, questa, viceversa ancor’oggi talora disattesa dai giudici di merito, che vanificano il momento rescindente e
procedono tout court a un diretto riesame del merito della lite (3).
La scansione concettuale tra giudizio rescindente e giudizio rescissorio deve, inoltre, trovare il proprio riflesso formale nella decisione che
chiude il giudizio di impugnazione: nei casi in cui la corte d’appello sia
organo competente non solo per l’annullamento del lodo, ma anche per la
sua sostituzione, essa può pronunciare un’unica sentenza che — contestualmente, ma distintamente — in alcuni capi rescinde e in altri sostituisce (4); ma essa può, del pari, emanare due distinte sentenze: la prima, da
guenza che non è consentito al giudice prendere in esame motivi aggiunti — e quindi tardivi —
o comunque modificati rispetto a quelli contenuti nel medesimo atto introduttivo (così Cass. 15
settembre 2000, n. 12165); 3) la Corte di appello non può rilevare d’ufficio motivi che non siano
stati in concreto dedotti dalla parte, salvo la nullità del compromesso e della clausola compromissoria; laddove poi determinate questioni abbiano formato oggetto di esame e statuizioni nel
lodo, la mancata impugnazione di tali statuizioni costituisce, anche in base ai principi generali
in tema di impugnazioni, profilo di preclusione della possibilità di un riesame (cfr., ex pluribus,
Cass. 2 marzo 2000, n. 2307, in questa Rivista, 2001, 221, con nota di RUFFINI, Motivi di
impugnazione per nullità del lodo arbitrale e poteri della corte d’appello).
(2) Si discute se le parti, nella convenzione d’arbitrato o nell’accordo successivo, da
perfezionarsi non oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni, possano designare, quale
giudice competente per il giudizio rescissorio, i medesimi arbitri che abbiano reso il lodo viziato
ed annullato dalla corte d’appello: per una soluzione favorevole, cfr: VERDE, Lineamenti di
diritto dell’arbitrato, Torino, 2013, 197; contra: ZUCCONI GALLI FONSECA, in CARPI, Commento al
titolo VIII del libro IV del Codice di procedura civile. Artt. 806-840, Bologna, 2008, 800;
SIRACUSANO, in VACCARELLA VERDE, Dell’arbitrato, Torino, 1997, 183, i quali argomentano sulla
base dell’art. 815 c.p.c, laddove rende ricusabile l’arbitro che abbia già conosciuto della causa,
sulla scia, peraltro, di una regola generale dell’ordinamento processuale per cui il medesimo
giudice non può mai decidere più volte la stessa controversia, regola espressa, oltre che dall’art.
51 c.p.c., anche dall’art. 380 c.p.c., in cui viene previsto che il giudice del rinvio debba essere un
altro rispetto a quello che ha pronunciato la sentenza cassata.
(3) Cfr. Cass. 23 novembre 2000, n. 15126, in Giust. civ., 2001, 1601, con nota di
GIORGETTI, La consecutio rescindente-rescissorio nell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale,
con cui la Corte di legittimità ha cassato con rinvio una sentenza della Corte di appello che ha
confuso fase rescindente e fase rescissoria, ed anziché procedere pregiudizialmente a verificare
se sussistessero i vizi allegati con l’atto di impugnazione del lodo, ha riesaminato direttamente
il merito della causa, sostituendo alla motivazione del lodo la propria motivazione; in questo
senso, cfr. anche: Cass. 27 novembre 2012, n. 20976; Cass. 19 aprile 2010, n. 9271; Cass. 12
novembre 2008, n. 26981.
(4) Cfr. Cass. 9 novembre 1988, n. 6022, secondo cui, in caso di accoglimento dell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, la separazione logica fra giudizio rescindente e
giudizio rescissorio non postula necessariamente fasi processuali e decisioni distinte, essendo
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ritenersi non definitiva, volta a sancire l’annullamento del lodo, e la
seconda, separata nel tempo e definitiva, volta a sostituirlo (e va da sé che
tale consecutio sarà adottata soprattutto laddove sia ritenuta necessaria
una più articolata istruttoria per decidere ex novo il fondo della lite) (5).
Qualora poi, come si è visto, il giudizio rescissorio non spetti, per legge o
per volere delle parti, alla corte d’appello, quest’ultima pronuncerà sentenza definitiva a contenuto esclusivamente rescindente (6).
Un dato, comunque sia, rimane costante, a prescindere da ciascuna
delle variabili appena citate: il passaggio alla fase rescissoria, laddove
possibile, può avvenire sempre e soltanto a seguito di una previa pronuncia rescindente. La rescissione del lodo, in queste fattispecie, non è mai
attività fine a se stessa, ma al contrario condicio sine qua non affinché si
possa addivenire all’attività di riesame del merito (7).
Ne consegue che, osservando nuovamente il rapporto tra giudizio
rescindente e giudizio rescissorio dalla prospettiva dell’atto decisorio
finale (qualora esso sia unico), si può affermare che i capi rescissori sono
sempre legati da un nesso di dipendenza rispetto ai capi rescindenti: e
questo perché, come si è visto, non si può avere sostituzione, se prima non
si è avuta eliminazione. Anche in questo caso, invero, la dipendenza “si
risolve in un rapporto logico per cui una cosa trova in un’altra la sua
premessa, onde non può stare senza di quella; ne dipende perché quella la
sostiene” (8).
La decisione in epigrafe prende dunque le mosse da questo condivisibile assunto per giungere a statuire che è sufficiente, per la parte risultata
soccombente nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale
che intenda impugnare la sentenza a sé sfavorevole innanzi alla Corte di
consentita un’unica pronuncia, anche nel merito, ove non si richieda una nuova istruzione; Cass.
9 dicembre 1996, n. 10955; Cass. 8 ottobre 2008, n. 24785.
(5) La natura di sentenza non definitiva ex art. 279 c.p.c. della pronuncia che rescinde il
lodo e rimette in istruttoria per il merito (con conseguente applicabilità alla stessa della relativa
disciplina: riserva di impugnazione, etc.), è affermata da Cass. 8 febbraio 2013, n. 3063; in
dottrina, cfr.: ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 786, in partic. nota 27.
(6) Cfr. ZUCCONI GALLI FONSECA, op. cit., 787.
(7) Cfr. GIORGETTI, op. cit., 1603, la quale, movendo dall’elaborazione sistematica dei
presupposti processuali operata da MANDRIOLI, Presupposti processuali, in Nss. D.I., XIII,
Torino 1966, 793, ritiene che la previa dichiarazione di invalidità del lodo, in sede rescindente,
andrebbe qualificata come presupposto processuale di ulteriore procedibilità della domanda,
trattandosi, più nel dettaglio, di uno di quei presupposti processuali la cui mancanza condiziona
in senso ostativo l’idoneità del processo a chiudersi con una pronuncia di merito.
(8) Così CARNELUTTI, Dipendenza tra capi diversi della sentenza cassata, in Riv. dir. proc.,
1933, 257; cfr. anche PROVINCIALI, Il giudizio di rinvio, Padova, 1936, 159, secondo il quale “si ha
dipendenza quando un capo si trova, dal punto di vista logico-giuridico, in rapporto condizionato (in senso ampio) ad un altro, per modo che esso non può stare se non sta quello: è
dipendente, perché è condizionato alla sussistenza dell’altro; senza del quale non potrebbe
neppur esso sussistere”, cosicché una volta che sia “venuto meno, per cassazione, uno dei capi,
deve necessariamente cadere anche l’altro, per il dissolversi della base comune, ripugnando non
meno alla logica che al diritto che l’uno possa restar fermo e l’altro no”.
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cassazione, limitarsi a censurare i soli capi rescindenti di tale decisione,
affinché possa ritenersi sussistente il suo interesse ad impugnare, ed
ammissibile il ricorso (9).
Quale corollario del principio così enunciato, si può allora soggiungere che, se si ritiene sufficiente che il ricorrente in Cassazione “colpisca”
con specifica censura le fondamenta (la parte rescindente, ovverosia il
capo principale) per cagionare il crollo dell’intero l’edificio su cui esso è
sorretto (la parte rescissoria, ovverosia il capo dipendente), nulla impedisce di dedurre che tale regola, nella fattispecie in esame applicata al
rapporto tra i capi di un’unica sentenza, possa valere a fortiori anche nei
casi in cui vi sia stata la già vista scissione tra una prima sentenza
rescindente e una seconda rescissoria, entrambe emanate dalla corte
d’appello: cassata la prima, della seconda non potrà rimanere in vita
alcuna portata precettiva; e così, sempre sulla scia di questo ragionamento,
si può affermare che il principio varrà anche laddove il ruolo della corte
di appello si debba arrestare al giudizio rescindente e gli arbitri abbiano
reso un nuovo lodo di merito: anche in questa ipotesi, infatti, la caducazione per opera della Corte di cassazione della sentenza che si sia limitata
ad annullare il lodo, produrrà l’effetto dirompente di travolgere il nuovo
lodo nelle more eventualmente pronunciato dall’arbitro o collegio arbitrale, in quanto atto dipendente, e ciò in forza dell’effetto espansivo,
stavolta esterno, di cui all’art. 336 c.p.c., comma II (10).
2. Segue. La dipendenza tra capi rescindenti e capi rescissori ex art.
336 c.p.c., comma I, negli altri mezzi di impugnazione. — Si può ora
tentare di verificare se il principio in base al quale la rimozione dei capi
rescindenti provoca inesorabilmente la caducazione immediata e riflessa
dei capi rescissori, in quanto dipendenti ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 336 c.p.c., trovi ulteriore conferma nella giurisprudenza e nella
dottrina che si sono occupate delle altre impugnazioni rescindenti (11).
(9) Più in generale, sui principi invalsi in giurisprudenza rispetto al giudizio di impugnazione presso la Corte di cassazione della sentenza che annulla il lodo arbitrale, cfr.: OCCHIPINTI,
La Cassazione conferma i propri orientamenti in tema di impugnazione del lodo per nullità, in
questa Rivista, 2007, 594; CECCHELLA, in CECCHELLA (a cura di), L’arbitrato, Torino, 2005, 288;
AULETTA, La nullità del lodo o del procedimento arbitrale nel sindacato della Corte di cassazione,
in Giust. civ., 2005, 1598; LAUDISA, Omessa motivazione del lodo, impugnazione per nullità e
ricorso per Cassazione, in questa Rivista, 2000, 718; FAZZALARI, Impugnazione per nullità del
lodo rituale e art. 393 c.p.c., in questa Rivista, 1997, 322.
(10) In senso conforme, Cass. 28 ottobre 1994, n. 8922, secondo cui l’accoglimento dei
motivi del ricorso per cassazione proposto avverso la sola sentenza rescindente determina
“l’automatica caducazione della sentenza rescissoria a norma dell’art. 336 cod. proc. civ.”
(11) Su cui cfr.: REDENTI VELLANI, Diritto processuale civile, Milano, 2012, 515; TAVORMINA, Contributo alla teoria dei mezzi di impugnazione, Milano, 1990; ID., Impugnazioni
sostitutive e impugnazioni rescindenti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1977, 651 e ss.; CERINO
CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973, 109 e ss.; PROTO PISANI, Opposizione di terzo
ordinaria, Napoli, 1965, 690; ANDRIOLI, Appunti di diritto processuale civile, Napoli, 1964, 102 e
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A questo proposito, va detto che in passato la Corte di legittimità, nei
casi in cui è stata impugnata per cassazione una sentenza di revocazione di
una sentenza resa ex art. 402 c.p.c., ha avuto modo di statuire come la mera
“rimozione della pronuncia rescindente travolge ai sensi dell’art. 336
secondo comma [rectius: primo comma] c.p.c. anche la decisione rescissoria contenuta nella stessa sentenza, e conseguentemente persiste l’efficacia
della pronuncia che era stata oggetto dell’impugnazione revocatoria” (12).
Anche in queste ipotesi, dunque, alla luce del principio enucleato dalla
sentenza che qui si annota, sarà sufficiente denunciare l’ingiustizia delle
sole statuizioni rescindenti perché l’impugnazione sia ammissibile e, se
accolta, siano travolti, in via riflessa, ex art. 336 c.p.c., anche i capi
rescissori.
Ulteriore conferma del principio sancito oggi dalla Corte di cassazione si può poi rinvenire nell’analisi di quella dottrina che si è occupata
— per ora solo in via teorica, difettando ancor oggi di una pronuncia
giurisprudenziale in tal senso — del caso in cui venga promosso un
giudizio di revocazione ex art. 391-bis avverso una pronuncia di cassazione
con rinvio ex art. 383 c.p.c. In questa fattispecie, infatti, il giudizio di
revocazione e quello di rinvio potranno proseguire simultaneamente, e
potrà verificarsi il caso che il giudice del rinvio definisca la controversia nel
merito in un momento antecedente a quello in cui il giudice di legittimità
decida la causa di revocazione; potrà quindi accadere che, finanche dopo
il passaggio in giudicato della pronuncia di merito resa dal giudice del
rinvio, venga accolta l’impugnazione per revocazione ex art. 391-bis della
sentenza che il rinvio medesimo aveva disposto, sentenza che conseguentemente verrà eliminata e potrà essere sostituita con una pronuncia di
ss.; NIGRO, L’appello nel processo amministrativo, Milano, 1960, 131 e ss.; ATTARDI, La revocazione, Padova, 1959, 55; GIUDICEANDREA, Le impugnazioni civili, Milano, 1952, 26 e ss.; DE
STEFANO, La revocazione, Milano, 1957, 81; PROVINCIALI, Sistema delle impugnazioni civili,
Padova, 1943, 57; CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, 433 e
ss.; per quel che concerne l’appello con funzione meramente rescindente ex artt. 353 e 354 c.p.c.,
tuttavia, va sottolineato che la legge preclude in radice che possa essere riassunto il giudizio di
merito innanzi al giudice di primo grado, laddove la sentenza rescindente emanata dalla corte
d’appello sia stata tempestivamente impugnata con ricorso per cassazione: l’art. 353 c.p.c.,
comma III, prevede infatti che qualora contro la sentenza d’appello venga proposto ricorso per
cassazione, il termine per riassumere il giudizio in primo grado sia interrotto. La giurisprudenza,
poi, ha precisato che nelle ipotesi in cui venga riassunto il giudizio di merito prima della
proposizione del ricorso per cassazione, tale giudizio dovrà essere sospeso (cfr., ex multis, Cass.
6 marzo 2006, n. 4794). Nell’ipotesi — del tutto scolastica — in cui il giudizio riassunto innanzi
al giudice di primo grado non venga sospeso e in cui si concluda con una sentenza, quest’ultima
verrà caducata ex art. 336 c.p.c., comma II, per effetto della cassazione della sentenza d’appello
che aveva disposto la rimessione.
(12) Così Cass. 11 giugno 1998, n. 5850; nello stesso senso: Cass. 7 novembre 1997, n.
10933, secondo cui “la rimozione della pronuncia rescindente” per “effetto espansivo interno ex
art. 336, secondo comma c.p.c., travolge anche la pronuncia rescissoria” e “implica la persistente
efficacia della sentenza che era stata oggetto della suddetta impugnazione revocatoria”.
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segno opposto, ovverosia senza rinvio o sostitutiva di merito ex art. 384
c.p.c.: ed allora, in ciascuno di questi casi, la sostituzione della sentenza
rescindente che ha ordinato il rinvio con una sentenza di cassazione senza
rinvio, non potrà sortire altro effetto se non quello di far caducare anche
la decisione rescissoria nel frattempo resa dal giudice di merito. Tale
elisione automatica potrà avvenire, come è stato sottolineato, proprio in
virtù dell’art. 336 c.p.c., comma II (13).
Si tratta, dunque, anche in quest’ultimo caso, di una delle possibili
declinazioni del principio oggi enucleato dalla Corte; un principio che —
sempre ragionando per ipotesi — potrà valere altresì nel caso in cui sia
stato instaurato un giudizio di revocazione ex art. 391-ter c.p.c. nei confronti di una sentenza della Corte di cassazione che abbia deciso nel
merito ex art. 384 c.p.c.: laddove siano stati impugnati i soli capi rescindenti, e le censure del ricorrente vengano accolte, verranno di riflesso
eliminati anche i capi di merito.
3. L’applicabilità dell’art. 336 c.p.c. al giudizio di impugnazione per
nullità del lodo arbitrale. — Attraverso la sentenza in epigrafe, poi, la
Corte di cassazione trova modo di ribadire, una volta per tutte, la piena
applicabilità del principio del c.d. “effetto espansivo interno” ex art. 336
c.p.c., al giudizio di impugnazione del lodo arbitrale, liquidando seccamente come del tutto privo di fondamento il sostegno a qualsivoglia tesi
contraria, e dando nuova consacrazione a quell’orientamento, oramai
diffuso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, ampiamente favorevole
all’applicabilità delle disposizioni generali sulle impugnazioni, ex art. 323
e ss. c.p.c., al giudizio di impugnazione del lodo arbitrale, laddove compatibili (14).
Pur tuttavia, andrebbe forse segnalato che l’inciso con il quale la
(13) In questi casi, è naturale che l’unica statuizione ad essere precipuamente censurata
con ricorso per revocazione ex art. 391-bis sia stata, appunto, quella a contenuto esclusivamente
rescindente emanata dalla Corte di cassazione. In questo senso: CONSOLO, La revocazione delle
decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989, 263 e ss.; ID., Commento
all’art. 67 (Correzione degli errori materiali e revocazione delle sentenze della Corte di cassazione), in Nuove leggi civ., 1992, 271; ID., in CONSOLO LUISO SASSANI, Commentario alla riforma
del processo civile, Milano, 1996, 504; BALENA, La riforma del processo di cognizione, Napoli,
1994, 508; PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 284; ATTARDI, Le
nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 204; MONTESANO ARIETA, Il nuovo processo
civile, Napoli, 1991, 97; BESSO, in Le riforme del processo civile, a cura di CHIARLONI, Bologna,
1992, 548.
(14) Cfr., in giurisprudenza, ex multis, rispetto all’art. 334 c.p.c., più di recente: Cass. 1
marzo 2012, n. 3229, in Giust. civ. Mass., 2012, 252; in dottrina: LUISO, Le impugnazioni del lodo
dopo la riforma, in questa Rivista, 1995, 24, secondo cui “alla impugnativa per nullità si
applicano le norme sulle impugnazioni in generale: così quelle sul decorso dei termini,
sull’acquiescenza, sulle cause inscindibili, dipendenti, e scindibili (artt. 331 e 332 c.p.c.), sulle
impugnazioni incidentali (artt. 333, 334, 335), sull’effetto espansivo (art. 336 c.p.c.): norma,
questa, da coordinare con la nuova disciplina relativa alla dichiarazione di nullità parziale del
lodo”.
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Corte afferma di non aver “mai dubitato della piena applicabilità” dell’art.
336 c.p.c. “al giudizio di impugnazione del lodo”, e l’elenco dei precedenti
giurisprudenziali successivamente richiamati, non appaiono del tutto coerenti con la fattispecie in concreto presa in esame: invero, mentre in quei
casi l’oggetto di indagine del giudice di legittimità era il legame di
dipendenza che può instaurarsi tra le diverse parti di un lodo arbitrale (15),
nella fattispecie in esame, al contrario, l’oggetto di indagine riguarda il
legame di dipendenza possibile tra le più parti in cui può essere frazionata
la sentenza di annullamento del lodo stesso. In altri termini, la Corte
richiama la giurisprudenza che afferma l’applicabilità dell’art. 336 c.p.c. al
giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale, per affermare
l’applicabilità dell’art. 336 c.p.c. al giudizio di impugnazione della sentenza
che annulla il lodo arbitrale: un richiamo, per il vero, non del tutto
coerente, oltre che superfluo, dacché l’applicabilità dell’art. 336 c.p.c. è
assolutamente fuori discussione nei casi in cui il giudizio di Cassazione
insista, come nella fattispecie, su una sentenza ordinaria resa dalla corte
d’appello (16).
(15) Più nel dettaglio, in questi casi la Corte di legittimità si è limitata a fissare il rapporto
di dipendenza ex art. 336 c.p.c., comma I, tra il capo relativo alle spese processuali e il capo di
merito del lodo: cfr. Cass. 10 agosto 2007, n. 17631, in Giust. civ. Mass., 2007, 7, laddove viene
affermato che « anche nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale trova
applicazione il principio, desumibile dall’art. 336, comma 1, c.p.c., secondo cui la riforma, anche
parziale, della sentenza di primo grado ha effetto sulle parti dipendenti dalla parte riformata
(c.d. “effetto espansivo interno”) e determina, pertanto, la caducazione del capo che ha statuito
sulle spese di lite; ne consegue che il giudice di appello ha il potere-dovere di rinnovare
totalmente, anche d’ufficio, il regolamento di tali spese, alla stregua dell’esito finale della
causa »; negli stessi termini: Cass. 20 dicembre 2002, n. 18149, in Giust. civ. Mass., 2002, 2221;
più recentemente: Cass. 4 giugno 2012, n. 8919. In dottrina, l’applicabilità dell’art. 336 c.p.c. al
giudizio di impugnazione del lodo arbitrale trova oggi ampio consenso: cfr., ex multis, PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2012, II, 575; ID., voce Arbitrato, I) Arbitrato rituale
e irrituale, in Enc. giur., III, Roma, 1995, 49; CURATOLA, in AA.VV., Appunti di diritto
dell’arbitrato, a cura di IUDICA, 212, 2012, in partic. nota 4; POLI, Sull’oggetto del giudizio
d’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, in AA.VV., Sull’arbitrato, studi offerti a Giovanni
Verde, Napoli, 2010, 641; RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 1021;
CALIFANO, in AA.VV., Diritto dell’arbitrato rituale, a cura di VERDE, Torino, 2000, 320; CALIFANO
PERAGO, Le impugnazioni civili, 1999, 436; RUFFINI, La divisibilità del giudizio arbitrale, in questa
Rivista, 1999, 431; VISMARA, Divisibilità del lodo arbitrale e delibazione di pronuncia arbitrale
parziale, in Riv. dir. intern. priv. proc., 1996, 276; TARZIA, in TARZIA-LUZZATO-RICCI, Legge 5
gennaio 1994, n. 25, Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina dell’arbitrato
internazionale, Padova, 1995, 175; ID., L. 5 gennaio 1994, n. 25 - Nuove disposizioni in materia
di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale. Commento all’art. 22 [Art. 830 c.p.c.]
(Decisione sull’impugnazione per nullità), in Nuove leggi civ., 1995, 549; LUISO, Le impugnazioni,
cit., 29; FAZZALARI, in BRIGUGLIO FAZZALARI MARENGO, La nuova disciplina dell’arbitrato:
commentario, Milano, 1994, 216; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, IV,
1964, 925; CARNACINI, voce Arbitrato rituale, in Noviss. Dig. It., I, Tomo II, Torino, s.d., ma 1958,
920.
(16) Costituisce ormai principio granitico della Corte di cassazione quello in forza del
quale il giudice di legittimità non può apprezzare direttamente la pronuncia arbitrale, ma può
esaminare solo la decisione emessa nel giudizio d’impugnazione per nullità: cfr., ex pluribus:
Cass. 7 febbraio 2007, n. 2715, con nota di OCCHIPINTI, La Cassazione conferma i propri
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4. La sorte dei capi dipendenti non impugnati: il “giudicato apparente”. — Con la sentenza in epigrafe, inoltre, la Corte di cassazione
respinge la tesi, avanzata dal controricorrente, secondo la quale l’impugnante che si sia limitato a denunciare i soli capi rescindenti della sentenza
di annullamento del lodo arbitrale avrebbe inevitabilmente prestato acquiescenza parziale ex art. 329 c.p.c., comma II, nei confronti dei capi
rescissori della medesima sentenza: essendo questi ultimi rimasti immuni
da qualsiasi doglianza, essi, secondo la ricostruzione avversata dalla Corte,
sarebbero passati in giudicato, cosicché il merito della lite si sarebbe
oramai irrimediabilmente cristallizzato e a nessun risultato utile potrebbe
condurre l’impugnazione parziale proposta. Questa opinione, secondo il
giudice di legittimità, non merita di essere condivisa, poiché attribuisce
“indebita valenza, sul piano della formazione del giudicato, alla scansione
logica e funzionale tra momento rescindente e momento rescissorio”.
La Corte di cassazione intende così negare la possibilità che, in forza
del legame di dipendenza che lega le due parti della sentenza di annullamento del lodo, il giudicato sui capi rescindenti si possa perfezionare in un
momento cronologicamente separato e posteriore rispetto a quello in cui
esso cala sui capi rescissori della medesima sentenza: e in quest’ottica si
può allora dedurre che la proposizione di un’impugnazione circoscritta ai
capi rescindenti è ritenuta dalla Suprema corte idonea e sufficiente a
precludere il passaggio in giudicato dei capi rescissori, seppur rimasti
esenti da apposita critica, in deroga alla regola fissata dall’art. 329 c.p.c.,
comma II, secondo la quale, come noto, i capi di sentenza non specificatamente impugnati passano in giudicato per acquiescenza presunta. Un’opinione, questa, che sembra risentire di quel consolidato orientamento
giurisprudenziale in forza del quale, più in generale, “il giudicato non è
configurabile rispetto al capo di sentenza che, seppure non impugnato, è
strettamente collegato o dipendente da quello sul quale verte l’impugnazione” (17). La regola, peraltro, è ritenuta parimenti applicabile sia al
giudizio di appello, che a quello di cassazione (18).
orientamenti, cit., 593; più di recente: Cass. 27 maggio 2013, n. 13087; Cass. 3 ottobre 2011, n.
20168; Cass. 12 agosto 2010, n. 18644.
(17) In questi termini Cass. 2 marzo 2010, n. 4934; un’analisi della giurisprudenza di
legittimità e della variegata casistica in tema di deroga alla regola dell’acquiescenza parziale ex
art. 329 cpv. per i capi dipendenti da quello impugnato, nonché del fenomeno, consequenziale,
in base al quale sui capi dipendenti non si perfeziona il giudicato, sebbene rimasti immuni di
censura, è operata da POLI, In tema di estensione dell’impugnazione alle parti di sentenza
dipendenti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, 709 e ss., spec. nota 19; più recentemente, cfr., ex
pluribus: Cass. 17 marzo 2014, n. 6101, in partic. punto 18; Cass. 13 dicembre 2013, n. 2790, in
partic. punto 5; Cass. 4 ottobre 2013, n. 22769, in partic. punto 9; Cass. 13 settembre 2012, n.
15357, in partic. punto 8; Cass. 7 gennaio 2008, n. 33, secondo cui “l’acquiescenza può verificarsi
solo con riferimento ai capi della sentenza completamente autonomi”, cosicché, viceversa,
“l’acquiescenza non si verifica ove la parte non impugnata si ponga in nesso di consequenzialità
con la parte impugnata, trovando in essa il suo presupposto”. “In altre parole”, specifica la
Corte, “qualora i diversi capi siano fra loro inscindibilmente collegati”, “l’impugnazione di un
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Va detto che siffatta ricostruzione dogmatica veniva già sposata dalla
dottrina più risalente (19), ed è, invero, pur nel persistente silenzio del
nostro legislatore (20), ancora oggi diffusamente avvalorata dalla maggior
parte degli studiosi che in tempi più recenti hanno approfondito il tema
del cumulo condizionale di domande: studiosi secondo i quali, in estrema
sintesi, l’impugnazione del capo principale della sentenza, da una parte e
come visto, è idonea ad impedire il passaggio in giudicato dei capi che ne
sono dipendenti, e dall’altra, in determinati casi, consentirebbe al giudice
superiore di riesaminare compiutamente gli stessi, per effetto del c.d.
effetto devolutivo “allargato” o “esterno” (effetto, questo, le cui radici
sistematiche, e le cui condizioni di operatività, rimangono tuttavia oggetto
di dibattito) (21).
capo è sufficiente ad escludere l’acquiescenza agli altri capi ad esso collegati”; Cass. 10
settembre 2007, n. 19001, che enuclea espressamente il seguente principio di diritto: “la mancata
impugnazione di alcune statuizioni di una sentenza importa acquiescenza ad esse, con conseguente formazione del giudicato interno parziale sul punto, potendo la formazione del giudicato
escludersi soltanto nell’ipotesi in cui le suddette statuizioni non fossero autonome, nel senso che
non potrebbero conservare la propria efficacia precettiva se dovessero venire meno, a seguito
dell’impugnazione, le altre statuizioni della medesima sentenza”; Cass. 6 agosto 2002, n. 11790.
(18) Così infatti Cass., 30 novembre 1988, n. 6494; Cass., 17 settembre 1986, n. 5641; in
dottrina: CONSOLO, Il cumulo condizionale di domande, II, Padova, 1985, 767, cit., 784; POLI, op.
cit., 742.
(19) Cfr., sotto l’impero del codice di rito del 1865, ex multis: PROVINCIALI, Il giudizio di
rinvio, cit., 158; BETTI, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, 582; CARNELUTTI, Sistema
del diritto processuale civile, II, Padova, 1938, 587; CHIOVENDA, Principii di diritto processuale
civile, Le azioni. Il processo di cognizione, Napoli, 1965, 988.
(20) La limitazione alla formazione di un giudicato parziale sui capi dipendenti ha
trovato espressione nel code de procédure civile francese, e in particolare negli artt. 562 e 602,
relativi all’effect devolutif dell’appel e del recour en révision; l’attuale codice di rito italiano non
ne fa invece alcuna menzione, sebbene, come ricorda CONSOLO, Il cumulo, cit., 765, spec. note
153 e 154, varie Voci, in sede di lavori preparatori, avessero sottolineato l’opportunità di inserire
una norma che contemplasse un limite dell’operatività dell’acquiescenza presunta per i capi
dipendenti.
(21) Secondo alcuni Autori, il sostegno normativo dell’effetto devolutivo allargato ai capi
connessi rispetto a quelli impugnati sarebbe offerto dal disposto dell’art. 336 c.p.c: in definitiva,
tale norma si porrebbe come un temperamento alla regola dell’acquiescenza parziale di cui
all’art. 329 c.p.c., comma II, sancendo la regola secondo cui le parti dipendenti della sentenza,
anziché passare in giudicato, rientrano praticamente ex lege, quasi come “impugnazione
preterintenzionale”, nella materia rimessa in discussione (queste le parole di LASERRA, Limiti
dell’impugnazione incidentale tardiva nelle cause scindibili, in Riv. dir. proc., 1959, 489); in senso
conforme: PROVINCIALI, Sistema delle impugnazioni civili, Padova, 1948, 304; MINOLI, L’acquiescenza nel processo civile, Milano, 1942, 405; GIUDICEANDREA, Le impugnazioni civili, I, Milano,
1952, 67; D’ONOFRIO, voce Acquiescenza, in Noviss. Dig. it., I, 1, 1957, 236; MINOLI BERGOMI, voce
Acquiescenza (diritto processuale civile), in Enc. dir., I, Milano, 1958, 501; NIGRO, op. cit., 423,
secondo il quale tuttavia nell’art. 336 c.p.c. “non bisogna vedere una estensione del potere di
cognizione del giudice in relazione ad una sorta di impugnazione implicita” bensì “un effetto
espansivo interno della modificazione della sentenza” che “fa venir meno l’acquiescenza
parziale, o in previsione del quale l’acquiescenza resta sospesa”; ATTARDI, Note sull’effetto
devolutivo dell’appello, in Giur. it., vol. CXIII, 1961, Parte IV, 151; LIEBMAN, Manuale di diritto
processuale civile, II, Milano, 1984, 270; BONSIGNORI, Impugnazioni civili in generale, in Digesto
civ., IV ed., IX, Torino, 1993, 347; PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli,
2012, 463; MONTELEONE, Manuale di diritto processuale civile, I, Padova, 2012, 612; REDENTI
VELLANI, Diritto processuale civile, Milano, 2012, 392; VERDE, Diritto processuale civile, II,
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In questa sede ci si deve limitare soltanto ad osservare come, nel caso
analizzato dal giudice di legittimità, non paia del tutto necessario negare
tout court l’immediato passaggio in giudicato dei capi rescissori non
specificatamente impugnati, al fine di ritenere il ricorrente in Cassazione
munito di interesse ad impugnare, ed il suo ricorso ammissibile: quand’anche infatti su tali capi fosse calato il giudicato — come infatti deve più
correttamente ritenersi, in un’ottica di rigore, dacché essi non sono stati
oggetto di specifica doglianza — non per ciò solo l’interesse ad impugnare
del ricorrente risulterebbe in alcun modo menomato; e infatti, l’eventuale
accoglimento delle contestazioni proposte, seppur intenzionalmente ristrette ai capi eliminatori della sentenza della Corte di appello, è in grado
di attribuirgli il massimo risultato utile desiderato, ovverosia, di riflesso, il
travolgimento di tutte le statuizioni che da essi dipendono, e dunque
anche della susseguente decisione nel merito; quest’ultima decisione verrà
infatti eliminata in virtù dell’effetto espansivo interno disciplinato dall’art.
336 c.p.c.: effetto che, in forza della sua natura esclusivamente negativocaducatoria (22), opererà di contraccolpo, ex post, soltanto all’esito della
decisione resa sull’impugnazione del capo principale, rimuovendo automaticamente i capi di sentenza dipendenti da quelli contestati, capi su cui
è ben possibile che nel frattempo sia già sceso il giudicato.
Un giudicato, dunque, senz’altro perfezionatosi in ragione dell’omessa impugnazione dei capi dipendenti-rescissori, ma che cionondimeno
può, all’esito dell’accoglimento del gravame sul capo principale-rescindente, essere dissolto: e proprio questa natura “precaria” o “sospesa” di
tale giudicato — una natura, peraltro, tutt’altro che sconosciuta al nostro
Bologna, 2012, 190; BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2012, 337; va
ricordato che secondo alcuni Autori il principio andrebbe meglio ricondotto all’art. 331 c.p.c.
(cfr. CARPI, Note sui limiti di applicazione dell’impugnazione incidentale tardiva, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 1966, spec. 720 e 722; ATTARDI, Limiti di applicazione del gravame incidentale
tardivo, in Riv. dir. proc., 1965, 183; CONSOLO, Il cumulo, cit., 765, spec. nota 154; contra: RASCIO,
L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 187, spec. nota 72). Critici nell’ascrivere all’art. 336
c.p.c. la matrice del c.d. effetto devolutivo allargato anche: BONSIGNORI, L’effetto devolutivo
nell’ambito dei capi connessi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, 944, secondo cui la devoluzione
fra capi dipendenti “riguarda un momento logicamente e cronologicamente posteriore alla
delimitazione dell’oggetto del riesame da parte del giudice di secondo grado, concernendo
l’effetto conseguente alla sua pronuncia”; CONSOLO, Il cumulo, cit., 767, secondo il quale l’effetto
devolutivo allargato è principio sistematico (circoscrivibile nei casi dall’Autore messi in luce),
vigente in maniera “pressoché inespressa”, che tuttavia deve, in linea generale, sottostare al
requisito modale della riproposizione della domanda dipendente ex art. 346 c.p.c.; SALVANESCHI,
L’interesse ad impugnare, Milano, 1990, 84, secondo cui l’effetto devolutivo allargato, nei casi in
cui può darsi, è condizionato alla proposizione di un’impugnazione incidentale condizionata; sul
tema, si rinvia qui ai più recenti contributi di: RASCIO, op. cit., 186; RECCHIONI, Pregiudizialità
processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione ordinaria, Padova, 1999, 522; POLI, In tema
di estensione dell’impugnazione, cit., 705 e ss.
(22) Sulla portata esclusivamente caducatoria dell’effetto espansivo di cui all’art. 336
c.p.c., CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, cit., 431, spec. nota 77, e 462, spec. nota 122;
CONSOLO, Il cumulo, cit., 719, spec. nota 107, e 767; BONSIGNORI, op. cit., 974; RASCIO, op. cit., 188;
RECCHIONI, op. cit., 529.
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sistema di diritto processuale civile (23) — si manifesta nitidamente nel suo
essere, in definitiva, condizionato risolutivamente alla cassazione del capo
principale impugnato (24).
5. L’impugnazione circoscritta ai capi rescissori della sentenza che
annulla il lodo arbitrale. — Si può ora, in conclusione, ipotizzare l’eventualità che si verifichi il caso inverso rispetto a quello preso in esame dalla
Corte di cassazione con la sentenza in epigrafe: ovverosia che il ricorrente
restringa la propria censura ai soli capi rescissori della sentenza di annullamento del lodo arbitrale, lasciando quindi impregiudicati i capi rescindenti.
Ci si può quindi interrogare se tale impugnazione, così delimitata, sia
di per sé idonea, in forza del rapporto di dipendenza logica che si è visto
legare la parte rescindente alla parte rescissoria (legame oggi consacrato
expressis verbis dalla Corte di cassazione), a produrre un automatico
allargamento dell’oggetto di cognizione del giudice di legittimità nei
confronti dei capi rescindenti. Proprio alla luce di tale rapporto, infatti, si
potrebbe essere portati a ritenere che l’impugnazione dei soli capi rescissori, nel merito, involga e rimetta in discussione anche i capi rescindenti,
seppur non contestati, che di essi sono l’imprescindibile presupposto:
quasi che la dipendenza tra più capi di sentenza comporti inevitabilmente,
come sua possibile declinazione, la necessità di un riesame sempre congiunto. La dipendenza tra parti di sentenza, secondo questa prospettiva,
(23) Come rileva RECCHIONI, Pregiudizialità, cit., 531, secondo cui “più norme del codice
di rito paiono disciplinare ipotesi di giudicato ‘condizionato’, o comunque ipotesi in cui il
giudicato formale — sicuramente già prodottosi — viene rimesso in discussione. A prescindere
dagli ovvi casi relativi alle impugnazioni straordinarie”, si può pensare “al caso strettamente
connesso al tema dell’acquiescenza, dell’impugnazione incidentale tardiva ex art. 334 c.p.c.”.
(24) Nulla esclude infatti che, in forza del meccanismo meramente “ablativo” di cui
all’art. 336 c.p.c., possa essere rimossa una decisione di merito, non impugnata, già interessata
dal fenomeno della cosa giudicata: sul tema, in dottrina, cfr. CERINO CANOVA, L’effetto espansivo
della cassazione sulle pronunce di altri processi, in Riv. dir. proc., 1975, 471, il quale pone la
norma di cui all’art. 336 c.p.c. fra i temperamenti dettati dalla disciplina positiva alla regola
dell’intangibilità del giudicato; MACCARRONE, Profili sistematici dell’effetto espansivo esterno
della sentenza di riforma, Milano, 1983, 177; CONSOLO, op. ult. cit., 767; RASCIO, op. cit., 189;
BONSIGNORI, Impugnazioni, cit., 353; in giurisprudenza, cfr., ex multis, quel filone di pronunce in
base alle quali la riforma della sentenza non definitiva relativa all’an debeatur è in grado di far
caducare la sentenza relativa al quantum, ancorché passata in giudicato formale per mancata
tempestiva impugnazione: essa infatti, “se divenuta definitiva, non può continuare ad esistere
con tutti gli effetti del giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c.: si è in presenza di un mero giudicato
apparente” (in questi termini: Cass., 23 febbraio 2002, n. 10766; Cass. 29 aprile 1997, n. 3724;
Cass. 24 febbraio 1990, n. 1409; Cass. 1 marzo 1990, n. 1598). Si può qui soltanto constatare, in
estrema sintesi, come la Suprema corte faccia un uso per il vero non sempre lineare dell’espressione “giudicato apparente”, dacché essa viene adoperata sia nei casi di cui alla nota nr. 20,
in cui la Corte nega che i capi dipendenti passino in giudicato (in quanto, appunto, su di essi si
formerebbe un “giudicato apparente”), sia nei casi di cui alla presente nota, in cui la Corte
afferma, tutto al contrario, che i capi dipendenti passano in giudicato, ma che tale giudicato
viene successivamente rimosso per effetto della cassazione della decisione principale.
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comporterebbe una necessaria riemersione nelle fasi di gravame del
complessivo materiale di giudizio, come qualcosa di unico e inscindibile (25).
Pur tuttavia, una simile impostazione rappresenterebbe, nel caso
concreto, una indebita forzatura di quanto oggi statuito dalla Corte, e
andrebbe dunque respinta: è infatti ben possibile chiedere al giudice
superiore un riesame della decisione sul capo di merito (dipendente),
senza per ciò solo investirlo necessariamente della cognizione sul capo
rescindente (principale), il quale, laddove non gravato di apposita censura,
è destinato a passare inevitabilmente in giudicato, ex art. 329 c.p.c, comma
II. In altri termini, può senz’altro essere domandato ed accolto un riesame
del capo dipendente, senza che per ciò sia in alcun modo sfiorata la base
su cui esso poggia: il legame di dipendenza tra le due parti della sentenza
di annullamento, sotto questa prospettiva, intercorre unicamente in una
direzione e in un senso, e non reciprocamente, e non vale pertanto a
precludere il passaggio in giudicato del capo rescindente non contestato.
Del resto, tale conclusione appare direttamente discendente anche per via
logica, se solo si considera che, nella riconosciuta facoltà dell’impugnante
di modulare l’oggetto dell’impugnazione, lo stesso ben può — ove lo
ritenga — limitarsi a una censura del giudizio rescissorio (ovvero della
nuova valutazione del merito), ferma restando, invece, la sua adesione alla
pronuncia rescindente. Nessuna norma, né alcun principio del nostro
ordinamento processuale, inducono in altri termini a ritenere che, in
un’ipotesi siffatta, si possa assistere ad un effetto devolutivo allargato al
capo connesso (dal dipendente al principale), in spregio, ancora una volta,
alle regole generali delle impugnazioni e in particolare al principio dell’acquiescenza parziale (26).
Da ultimo, per ragioni non dissimili, va precisato quali saranno le
conseguenze di un eventuale accoglimento della domanda di cassazione
(25) Per uno spunto in tal senso, con riferimento all’ipotesi di cumulo oggettivo condizionale di domande, cfr. BONSIGNORI, op. cit., 960, secondo il quale “per il caso di impugnazione
del solo capo condizionato, l’estensione dell’impugnazione dal capo condizionato a quello
condizionante, non costituisce altro che una manifestazione dell’effetto devolutivo fra capi
connessi”. In giurisprudenza, cfr.: Cass. 20 agosto 2003, n. 12267, secondo cui, “l’impugnazione
della parte della sentenza che ha in altra il suo presupposto necessario, coinvolge necessariamente questo presupposto”.
(26) Cfr. CONSOLO, Il cumulo, cit., 784 e ss., nonché 790 e ss., secondo cui, sempre con
riferimento al cumulo condizionale di domande, “nel caso inverso di proposizione del gravame,
da parte del convenuto, solo in ordine alla decisione posta ‘a valle’ riguardante la domanda
consequenziale, ci sembra debba, invece, pienamente operare il principio di cui all’art. 329 cpv.,
provocandosi così l’immediato passaggio in giudicato della decisione sulla domanda primaria”;
nello stesso senso: SALVANESCHI, op. cit., 98; RASCIO, L’oggetto, cit., 181; RECCHIONI, Pregiudizialità, cit., 534; POLI, In tema di estensione, cit., 743 e ss., secondo cui, anche alla luce della
giurisprudenza dallo stesso Autore nel testo analizzata, “deve essere negata la devoluzione
allargata dal capo dipendente, impugnato, al pregiudiziale, non impugnato, giacché l’impugnazione del solo capo pregiudicato comporta il passaggio in giudicato, ex art. 329, comma 2º, c.p.c.
del capo pregiudicante”.
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della sentenza di annullamento del lodo, laddove le doglianze siano
circoscritte ai soli capi rescissori della medesima: a tal proposito, va
premesso che l’effetto espansivo interno o esterno, così come sancito
dall’art. 336 c.p.c., anche laddove venga rigorosamente inteso nella sua
natura eminentemente negativo-caducatoria, può operare in una sola
direzione, ovverosia dal principale al dipendente, e non viceversa. La
norma è infatti chiara nel sancire seccamente che solo l’eliminazione del
capo pregiudicante può travolgere il capo dipendente: e non disciplina
affatto un effetto contrario, in forza del quale l’eliminazione del capo
dipendente si propaga nei confronti del capo principale.
Di conseguenza, la cassazione (con o senza rinvio) del capo rescissorio non è idonea, se accolta, ad incidere in alcun modo sulla pronuncia di
annullamento del lodo. Il rapporto di dipendenza tra parte rescindente e
parte rescissoria, in altri termini, non è neppure da questo punto di vista
biunivoco, ma corre a senso unico: cosicché, da una parte, come si è visto,
qualora sia impugnata soltanto la parte rescissoria, la decisione rescindente passerà necessariamente in giudicato, ex art. 329 c.p.c., cpv., e,
dall’altra, l’accoglimento dell’impugnazione che insiste esclusivamente sul
capo di merito potrà condurre soltanto ad una riforma di quest’ultimo
(eventualmente per mezzo del giudice del rinvio), dovendo l’eliminazione
del lodo già operata dalla corte d’appello rimanere un dato ormai immutabile in forza della res iudicata che, per effetto della mancata impugnazione vertente su di esso, su di esso è irreparabilmente calata (27).
GIACOMO CARDACI
(27) A risultati simili si dovrà pervenire, per analogia, laddove vi sia stata la già vista
separazione tra sentenza a contenuto rescindente e successiva decisione definitiva a contenuto
rescissorio: in tal caso, ove venga impugnata solo la seconda pronuncia, la prima passerà in
giudicato. Cfr., sempre tuttavia nei limiti di cui alla nota precedente, CONSOLO, Il cumulo, cit.,
806.
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CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, sentenza 11 novembre 2011, n. 23651; SALVAGO Est.;
Soc. Vemar c. Soc. Modenese Esposizioni Fiere Corse Cavalli.
Compromesso e arbitrato - Compromesso e clausola compromissoria - Controversia avente ad oggetto il rilascio di locali ceduti in affitto - Proposizione di
ricorso per decreto ingiuntivo avente ad oggetto i canoni scaduti - Rinuncia
ad avvalersi della clausola compromissoria - Configurabilità - Esclusione Fondamento.
Compromesso e arbitrato - Compromesso e clausola compromissoria - Rinuncia
ad avvalersi della clausola compromissoria - Natura - Eccezione propria ed in
senso stretto - Conseguenze - Proposizione per la prima volta nel giudizio
ordinario d’impugnazione del lodo - Ammissibilità - Esclusione.
In tema di arbitrato irrituale, la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo
avente ad oggetto il pagamento dei canoni scaduti non si configura come rinuncia ad
avvalersi della clausola compromissoria relativa per la controversia avente ad
oggetto il rilascio dei locali ceduti in affitto, trattandosi di azioni diverse per petitum
e causa petendi.
L’eccezione di rinuncia ad avvalersi della clausola compromissoria per arbitrato irrituale ha natura di eccezione propria ed in senso stretto in quanto avente ad
oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo ad avvalersi di detta clausola, con
la conseguenza che non può essere fatta valere per la prima volta nel giudizio
ordinario di impugnazione del lodo.
CENNI DI FATTO. — Sorge controversia tra società concedente e società affittuaria di un ramo di azienda a causa dell’inadempimento di quest’ultima nel
pagamento del canone. La società concedente propone azione monitoria per
vedersi corrisposti i canoni rimasti impagati e, pendente opposizione a decreto
ingiuntivo, avvia un arbitrato irrituale domandando la risoluzione del contratto ed
il rilascio del bene immobile ove è svolta l’attività di impresa. L’arbitro, non
essendo state sollevate eccezioni nel procedimento avanti a sé, emana la propria
decisione. Il lodo viene impugnato e in grado di appello parte ricorrente eccepisce
l’improcedibilità dell’arbitrato a fronte del ricorso alla tutela giurisdizionale sommaria, da intendersi quale rinuncia alla convenzione di arbitrato, e della mancata
sollevazione di ogni eccezione in sede di opposizione a decreto ingiuntivo. La
Corte di appello respinge le censure. Il soccombente propone ricorso per cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con il ricorso, la VEMAR, deducendo violazione degli artt. 1703 e 1722 c.c. censura la sentenza impugnata per aver escluso
l’eccepita rinuncia della controparte ad avvalersi della clausola arbitrale, senza
considerare, da un lato, che la richiesta di somme derivanti dal contratto di affitto
al giudice ordinario comportava l’impossibilità di avvalersi del giudizio arbitrale
per ogni ulteriore pretesa proveniente dallo stesso contrattele, dall’altro, che in
caso contrario si sarebbe verificato un contrasto di giudicati avendo il giudice
dell’opposizione a decreto ingiuntivo statuito che la relativa controversia compor343
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tava la rinuncia al giudizio arbitrale; e la sentenza impugnata contestato siffatta
circostanza pervenendo ad un risultato opposto. Le censure sono infondate.
La Corte territoriale, infatti, è pervenuta infatti al rigetto dell’eccepita
invalidità del lodo per rinuncia da parte della soc. modenese, per le due distinte
ragioni, avanti menzionate non scalfite dalle doglianze della VEMAR, in quanto:
A) la giurisprudenza ha ritenuto configurabile la rinuncia suddetta solo quando la
parte abbia promosso nei confronti dei medesimi contraddittori un giudizio
davanti al giudice ordinario avente identità, totale o parziale, di oggetto, perciò
assimilabile, alla connessione di cause, di cui all’art. 40 c.p.c. (Cass. l3121/2004;
18643/2003; 874/1995; 1142/1993). Per cui nel caso correttamente ha escluso anche
l’identità solo parziale tra il procedimento monitorio proposto dalla soc. Modenese onde ottenere il pagamento dei canoni scaduti, avente quale causa petendi la
validità e l’operatività del contratto di affitto di azienda stipulato con la controparte — ed il successivo giudizio arbitrale avente quale causa petendi la cessazione
di detto contratto di affitto e quale petitum non più il pagamento di una somma di
denaro, bensì il rilascio dei locali ceduti in affitto. B) D’altra parte, questa Corte
ha ripetutamente affermato che tanto le eccezioni di invalidità della clausola
compromissoria, quanto a maggior ragione, quelle di rinuncia ad avvalersene, non
si traducono in una denuncia di inesistenza del titolo dell’investitura arbitrale, ma
costituiscono eccezioni proprie ed in senso stretto, perciò rimesse alla volontà
della parte, in quanto aventi ad oggetto la prospettazione di un fatto impeditivo
ad avvalersi di una norma contrattuale, con la conseguenza che devono essere
proposte dalle parti nei tempi e nei modi propri delle eccezioni di merito; e non
possono essere avanzate per la prima volta né nei giudizi di impugnazione, né a
maggior ragione in giudizi diversi per eludere il contenuto della pronuncia
arbitrale nel frattempo divenuto definitivo. Così come è avvenuto nel caso
concreto in cui la VEMAR ha aderito all’arbitrato e partecipato al relativo
procedimento, perciò semmai rinunciando essa società a formulare l’eccezione
per cui è causa: perciò ad essa definitivamente preclusa perfino nel prosieguo di
quello steso procedimento (Cass. 12684/2007; 19865/2003; 13866/1999; 4738/1998).
(Omissis).
L’arbitrato irrituale tra negozio e processo: la qualifica della relativa
eccezione tra rito e merito.
La decisione si appalesa scarna sia nell’enucleazione dei fatti sia nella
motivazione, anche se le questioni affrontate sono soltanto in apparenza
di facile risoluzione, implicando, invece, una indagine su tematiche dibattute che investono la natura stessa dell’arbitrato irrituale.
Ciò premesso, e precisando subito che il caso in esame soggiace alla
applicazione della legge processuale antecedente all’ultima riforma, qualche considerazione appare opportuna pur nella prospettiva della legge
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vigente ed anche alla luce del recente revirement della Corte di cassazione
in ordine alla natura dell’arbitrato rituale (1).
1. Sembra opportuno anzitutto verificare quando si manifesta una
rinuncia alla convenzione di arbitrato a causa del ricorso alla tutela
giurisdizionale.
È conforme ai principi generali del diritto civile sostenere che l’accordo con il quale le parti stipulano l’impegno a deferire ad un arbitro la
controversia tra di loro insorta è suscettibile di essere reso inefficace
mediante una successiva e contraria manifestazione di volontà, espressa
anche per facta concludentia.
È lecito, infatti, sotto un primo profilo per così dire sostanziale, che le
parti, di concerto, revochino l’accordo compromissorio con un patto
successivo che parrebbe non soggetto nemmeno ad oneri di forma ex art.
1328 c.c. (2).
Ma è altrettanto possibile, sotto il diverso profilo processuale, che la
stessa volontà si manifesti nel processo statuale a mezzo di un negozio che
si forma con la domanda giudiziale, da un lato, e con la mancata sollevazione dell’exceptio compromissi, dall’altro lato (3).
La giurisprudenza ha così buon gioco nel ritenere che il preventivo
ricorso al giudice, eccepito in arbitrato, costituisce una rinuncia alla via
privata in quanto inequivoca manifestazione di volontà di revocare il
proprio consenso alla convenzione di arbitrato.
È evidente, peraltro, che in tali ipotesi è parte attrice che, proposta la
domanda ed electa una via, soggiace alla determinazione della controparte, la quale resta libera di accettare il giudizio o eccepire il vizio (4).
2. Più problematico nel corso del tempo è stato, invece, individuare
l’ambito oggettivo della rinuncia stessa, ovvero se la causa principale
portata alla cognizione del giudice statuale attragga a sé tutte le cause ad
essa connesse ovvero renda inefficace la convenzione di arbitrato in tutto
o in parte.
(1) Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153.
(2) MARENGO, Adesione e rinuncia implicita alla clausola compromissoria, in questa
Rivista, 1996, 72.
(3) In modo del tutto speculare potrebbe, del resto, siglarsi una convenzione di arbitrato,
attraverso la costituzione dei due contendenti davanti all’arbitro dagli stessi nominato: FAZZALARI, Arbitrato nel diritto processuale civile, in Dig. civ., Torino, 2000, 90; AMADEI, Lo scambio
degli atti di nomina come stipulazione del compromesso, in questa Rivista, 2001, 37; e, si vis,
UNGARETTI DELL’IMMAGINE, Brevi note sulla forma della convenzione arbitrale, in questa Rivista,
2011, 73; Cass. 23 marzo 1963, n. 720, in Giust. civ., 1963, I, 1009.
(4) Controverso è stato semmai il rapporto tra eccezione di compromesso e domanda
riconvenzionale, ovvero se la proposizione di quest’ultima comporti rinuncia alla eccezione. La
più recente giurisprudenza esclude tale conclusione, dovendosi desumere dagli atti l’eventuale
gradualità delle difese. Cfr. Cass. 7 luglio 2004, n. 12475.
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2.1. La tematica della connessione, in particolare, è da sempre
oggetto di difficoltà interpretative.
Prima della riforma del 1994 era invalsa nella giurisprudenza (5)
l’affermazione che la pendenza davanti all’arbitro ed al giudice di cause
connesse anche per mera comunanza di questioni (6) comportasse la
attrazione di entrambe alla giurisdizione statuale.
Già allora, però, il dictum non era comunque applicato all’arbitrato
irrituale, il quale, in quanto volto alla risoluzione della controversia
mediante determinazione contrattuale, non poteva ex se essere assoggettato a regole strettamente processuali (7).
La decisione in commento allora non sembra convincente dove
definisce « configurabile la rinuncia solo quando la parte abbia promosso
un giudizio davanti al giudice ordinario avente identità totale o parziale di
oggetto perciò assimilabile alla connessione di cause di cui all’art. 40
c.p.c. »
2.2. La stessa giurisprudenza richiamata in motivazione è infatti
riferita a fattispecie di arbitrato rituale ed appare ripetitiva di una massima
che trae origine dalla interpretazione di sfavore per l’arbitrato in voga
sotto la previgente disciplina normativa (8).
La ratio giustificatrice di tali affermazioni, del resto, è ancorata alla
idea di ottenere un perfetto coordinamento delle decisioni evitando così il
rischio di un conflitto pratico di giudicati, l’uno statuale e l’altro di matrice
privata.
Il riferimento alla connessione di cause veniva però criticato dalla
dottrina già alla luce della disciplina previgente alla riforma del 1994 (9)
anche perché permetteva la proposizione di domande giudiziarie manifestamente infondate, al solo scopo di impedire lo svolgimento dell’arbitrato.
Il Supremo Collegio, per tale ragione, è dovuto intervenire in via
interpretativa per evitare gli abusi (10) e la normativa vigente che regola le
(5) Cass. 30 luglio 1937, n. 2885, in Riv. dir. proc., 1938, II, 249; Cass. 17 marzo 1943, n.
633, in Mass. Foro it., 1943, 163; Cass. 22 ottobre 1991, n. 11197, in Foro it., 1992, I, 623.
(6) Cass. 22 settembre 1997, n. 9345, in Rep. Foro it., 1997, voce Arbitrato n. 155.
(7) Cass. 12 aprile 2005, n. 7551, in Dir. e prat. soc., 2005, fasc. 23, 90 con nota di CUFFARO;
Cass. 04 novembre 2004, n. 21239; Cass. 13 novembre 1992, n. 12223; Cass. 1990, 18 gennaio n.
231.
(8) Cass. 30 luglio 1937, n. 2885, in Riv dir. proc., 1938, II, 249; Cass. 17 marzo 1943, n.
633, in Mass. Foro it., 198, I, 2888.
(9) LIEBMAN, Giudizio arbitrale e connessione di cause, in Riv. dir. proc., 1964, 469;
TARZIA, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano, 1972, 148; MENCHINI, Il
processo litisconsortile, I, Milano, 1993, 175; RICCI, Un raggio di luce nel buio (una svolta in tema
di incompetenza degli arbitri per connessione di cause?), in questa Rivista, 1993, 179.
(10) Cass. 13 maggio 1998, n. 4807, in Foro it., 1998, 2888 escludeva la connessione a
fronte di domande manifestamente infondate.
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ipotesi di connessione a seguito delle novelle al codice di rito ha superato
l’orientamento pretorio.
È evidente, infatti, da una parte, che i giudizi ex lege devono procedere separati ed autonomi salvo quando la legge esige una coordinazione
degli stessi ed utilizza l’apposito istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c.
Ma per l’arbitrato rituale tale eventualità si verifica, dopo l’ultima
riforma, soltanto nelle fattispecie previste dall’art. 819-bis c.p.c., di stretta
interpretazione.
Negli altri casi, invece, il coordinamento avviene ex post tra le
decisioni che i processi producono (11).
Ne consegue allora che proporre una domanda al giudice statuale che
sia connessa ad altra ricompresa nella convenzione di arbitrato non
integra, in sé e per sé, una rinuncia alla via arbitrale e non provoca alcuna
attrazione della causa al giudice ordinario ma onera la controparte di
sollevare la relativa eccezione.
Ciò vale senza dubbio per l’arbitrato rituale ed è espresso oggi nella
lettera dell’art. 819-ter c.p.c. che esplicita e conferma la tesi già affermata
sotto la disciplina previgente.
3. Resta, quindi, da vagliare l’ipotesi di contemporanea pendenza di
cause identiche davanti all’arbitro ed al giudice.
Lo stesso art. 819-ter c.p.c. precisa che gli arbitri mantengono la
propria competenza anche in tale circostanza seppure, come già indicato,
resta la facoltà di far valere in arbitrato la rinuncia allo stesso per aver
adito il giudice ordinario. E davanti al giudice occorre che la relativa
eccezione venga tempestivamente proposta, applicandosi altrimenti il
principio delle vie parallele.
Ne deriva un sistema dove si afferma la totale autonomia delle cause
e pertanto la necessità di verificare di volta in volta se tra le stesse sussista
una effettiva identità al fine di determinare l’incidenza della decisione
dell’una sull’altra, secondo le regole dettate dal codice di rito.
3.1. Per l’arbitrato irrituale le soluzioni alla problematica espressa
non mutano, sia applicando direttamente le regole dettate per l’arbitrato
rituale, sia valorizzando la natura contrattuale e perciò absoluta dalla
normativa processuale, come messo in luce dalla giurisprudenza anche con
riferimento alla disciplina previgente (12).
Nel caso de quo, al di là di tale ultima considerazione ed alla tardività
dell’eccezione, sollevata soltanto in sede di gravame, non appare nem(11)
MENCHINI, Il controllo e la tutela della convenzione arbitrale, in questa Rivista, 2013,
363.
( ) Cass. 13 novembre 1992, n. 12223, in questa Rivista, 1994, 71 con nota di DE STEFANO;
Coll. Arb. Firenze 2 giugno 1993, in questa Rivista, 1993, 681 con nota di FAZZALARI.
12
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meno che una relazione di identità sussista tra le azioni proposte, dovendosi pertanto escludere in apicibus che la mera proposizione dell’azione di
pagamento dei canoni integri una rinuncia all’azione di risoluzione del
contratto.
4. La questione è però suscettibile di essere affrontata funditus una
volta chiarita la natura e la struttura dell’arbitrato irrituale e la relativa
disciplina, alla luce delle riforme intervenute sul dettato normativo.
La decisione in commento, infatti, ha buon gioco nel qualificare
l’eccezione di compromesso irrituale come eccezione di merito in conformità alla giurisprudenza prevalente sotto la legge al tempo vigente (13).
Dopo la riforma, tuttavia, la massima deve essere sottoposta ad
attenta analisi.
4.1. La giurisprudenza prevalente (14) e parte della dottrina (15),
anche oggi, avallano tale ultima qualificazione e, quindi, una impostazione
negoziale dello strumento, in quanto ritengono che il dettato legislativo
abbia soltanto previsto alcune regole specifiche per l’arbitrato irrituale,
senza però determinarne una simmetrica assimilazione a quello rituale. E
negano, di conseguenza, che le misure per quest’ultimo dettate siano
applicabili in via sussidiaria e residuale anche all’arbitrato libero.
La tesi si presta però ad essere posta in dubbio sia da un punto di vista
sistematico sia avuto riguardo proprio alla ratio ed alla formulazione degli
art. 808-bis e ss. del codice di rito.
4.2. È noto, infatti, sotto il primo profilo, che la unitarietà del
fenomeno arbitrale era già teorizzata da illustre dottrina (16) in epoca
lontana, sulla scorta della considerazione che entrambi gli istituti hanno la
medesima funzione, la stessa natura e struttura, ed utilizzano un identico
procedimento in contraddittorio tra le parti davanti ad un terzo imparziale (17).
(13) Cass. 30 dicembre 2003, n. 19865; Cass. 8 febbraio 2005, n. 2524.
(14) Cass. civ. 5 novembre 2013, n. 24740 scrive “la collocazione dell’arbitrato irrituale
fuori del sistema giurisdizionale, già prefigurabile come necessaria in base a criteri sistematici,
trova un significativo riscontro nella lettera dell’art. 808 ter cod. proc. civ., che espressamente
esclude l’applicabilità delle norme del titolo VIII del libro IV, all’arbitrato libero”; Cass. 17
gennaio 2013, n. 1158.
(15) BOVE, Art. 808-ter, in AA.VV., Riforma del diritto arbitrale (D.Lgs. 2 febbraio 2006,
n. 40) a cura di S. Menchini, Padova, 2007, 1149 ove precisa che « la delega, superando gli
assunti della c.d. teoria unitaria (...), voleva tornare chiaramente a distinguere le due tipologie
di arbitrato »; MARINELLI, Arbitrato irrituale, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre
adr, a cura di Buonfrate e Giovannucci Orlandi, Torino, 2006, 40.
(16) FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968, 459
ss.
(17) FAZZALARI, Fondamenti dell’arbitrato, in questa Rivista, 1995, 7 scrive “la disciplina
dell’arbitrato irrituale può e deve trarsi dai principi del processo arbitrale, appartenenti all’area
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Le uniche differenze tra le species del genus arbitrato sono individuate, di conseguenza, negli effetti della decisione e nel regime delle
impugnazioni.
Per contro, la tesi contrattualista evidenziava l’eterogeneità dei mezzi
in discorso, in quanto l’arbitrato irrituale è nato nell’alveo dell’autonomia
delle parti ed è stato regolato dalle disposizioni del codice civile tanto che
non è stato ab initio contemplato nel codice di rito quale procedimento
speciale (18).
Al fondo delle opposte opinioni da sempre vi è, inoltre, una divergenza tra gli uni, che sostengono l’equivalenza degli effetti della decisione
giudiziale e di quella arbitrale, e gli altri, che invece ritengono che la tutela
pubblica mantenga in sé un quid pluris che il privato, pur su mandato delle
parti stesse, non ha la facoltà di concedere (19).
Il dibattito ha trovato quindi il suo snodo nella odierna interpretazione dell’art. 824-bis c.p.c. che, da un alto, è letto come l’evidenza della
equiparazione del lodo rituale alla sentenza, e, dall’altro lato, invece, come
sintomo della ontologica differenza tra gli stessi così da indurre il legislatore a precisarne l’eguale efficacia ex lege (20).
4.3. Così individuate le due diverse ricostruzioni sistematiche occorre analizzare il dettato normativo tenendo conto della voluntas legis.
Da un lato, bisogna mettere in evidenza che la legge delega in materia
di arbitrato (legge n. 80/05) imponeva al legislatore delegato la predisposizione di un testo ove “le norme in materia di arbitrato trovano sempre
applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato
salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina
legale, fermi in ogni caso il rispetto del principio del contraddittorio, la
sindacabilità in via di azione e di eccezione della decisione per vizi del
procedimento e la possibilità di fruire della tutela cautelare”.
Si osserva quindi, innanzitutto, il riconoscimento dell’arbitrato libero
nel codice di procedura civile al pari di quello rituale.
Per i fautori della tesi negoziale ciò si spiega perché il legislatore
delegante ha voluto differenziare l’arbitrato rituale da quello irrituale per
consentire all’autonomia delle parti di determinare le regole di quest’ultimo con i soli “paletti” individuati dalla legge.
L’idea viene quindi ancorata alla lettera dell’art. 808-ter primo comma
c.p.c. laddove si prevede che le parti possono per iscritto stabilire che, in
del diritto privato, ma manifestati nel codice di procedura civile”; ID., L’arbitrato, Torino, 1997,
131.
(18) ALPA, L’arbitrato irrituale. Una lettura civilistica dell’art. 808-ter del codice di
procedura civile, in Contratto e Impresa, 2013, 320.
(19) RUFFINI, Patto compromissorio, in questa Rivista, 2005, 722; contra BOCCAGNA,
L’impugnazione per nullità del lodo, I, Napoli, 2005, 85 ss.
(20) BARBIERI-BELLA, L’arbitrato, Padova, 2007, 402.
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deroga a quanto disposto dall’art. 824-bis c.p.c., la controversia sia definita
mediante “determinazione contrattuale”, “altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo”.
Quest’ultima espressione, in sé e per sé, si presta ad essere equivocata
perché non chiarisce se ed in che limiti la disciplina dell’arbitrato rituale
può essere sussidiaria a quella dell’arbitrato irrituale e, quindi, se e quali
disposizioni si applicano ad entrambi
L’interpretazione (21) che se ne vorrebbe trarre, di esclusione totale
della facoltà di applicazione delle regole proprie dell’arbitrato rituale, non
appare tuttavia necessitata.
4.4. È perfettamente argomentabile, del resto, l’esatto contrario,
ovvero che la locuzione legislativa significa che, in mancanza di una
disciplina ad hoc, si applicano “sempre”, in quanto compatibili, le disposizioni dettate per l’arbitrato rituale (22).
Il legislatore esprime, infatti, dal punto di vista funzionale, una
indicazione per lo sviluppo unitario del fenomeno arbitrale nella sua
forma rituale o irrituale lasciando, quindi, all’autonomia delle parti la
scelta del tipo, ma garantendo comunque una serie di regole comuni ed
una disciplina fungibile ad entrambi.
L’art. 808-ter c.p.c., allora, può leggersi come monito alle parti affinché manifestino, in modo espresso ed inequivocabile, la volontà sia di
addivenire ad un arbitrato irrituale sia di dotarsi di regole ad hoc, perché,
in mancanza, saranno applicate le regole del capo I in via esclusiva o
sussidiaria.
Ed inoltre, dal punto di vista dell’analisi della legge, si mette in luce
che se la disposizione volesse imporre di non applicare tutte le regole del
titolo all’arbitrato irrituale risulterebbe ultronea l’esclusione specifica
dell’art. 825 c.p.c. (23).
4.5. Ma oltre a ciò il punto che appare decisivo per il prevalere della
seconda tesi è costituito dalla ineluttabile previsione per entrambi gli
istituti arbitrali della tutela cautelare (24).
(21) Cass. 6 novembre 2013, n. 25029; Cass. civ. ord., 24 settembre 2013, n. 21779; Cass.
17 gennaio 2013, n. 1158; Cass. ord. 5 dicembre 2012 n. 21869; BOVE, L’arbitrato irrituale dopo
la riforma, in Le nuove leggi civili commentate, 2007, 3; BIAVATI, Commento all’art. 808-ter c.p.c.,
in Commentario a cura di Carpi, Bologna, 2007 il quale esclude l’applicabilità delle regole del
libro quarto del codice di rito pur ritenendo l’arbitrato irrituale un vero e proprio processo.
(22) SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa Rivista, 2007, 26.
(23) SANGIOVANNI, Natura contrattuale o processuale dell’arbitrato irrituale?, in I contratti,
2008, 875.
(24) Corte cost. 5 luglio 2002, n. 320 in Giur. Cost., 2002, 2478 con nota di ESPOSITO,
Arbitrato libero e tutela giurisdizionale; Corte cost. 28 gennaio 2010, n. 26, in questa Rivista,
2010, 76 con nota di TISCINI, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra istruzione
preventiva ed arbitrato: continua l’estensione del rito cautelare uniforme alla tutela preventiva
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Anche la più attenta dottrina cd. contrattualista deve infatti tentare di
conciliare l’arbitrato irrituale con le disposizioni sul processo cautelare
uniforme.
Ma senza una norma di coordinamento è costretta a sostenere che per
l’arbitrato libero, quale “contratto di transazione in bianco”, “sia immaginabile solo quella tutela cautelare che è eseguibile senza un meccanismo
collegato con un processo dichiarativo, quindi solo la tutela cautelare di
tipo anticipatorio” (25).
L’affermazione, seppur ingegnosa, appare tuttavia una forzatura logica ed interpretativa che si scontra apertamente con quanto sancito dalla
Corte costituzionale in tema di diritto di azione (26) e con gli stessi principi
che governano la tutela cautelare e che sanciscono la sussidiarietà del
processo cautelare rispetto a quello di cognizione.
Pur con la attenuazione della strumentalità, infatti, la domanda
cautelare esige l’individuazione della causa di merito ai fini della determinazione della competenza e della stessa fondatezza della richiesta, ergo
occorre sempre un collegamento con un processo e quindi con il diritto
che si vuole proteggere.
In ragione di ciò la ricostruzione unitaria del fenomeno arbitrale (27)
appare sistematicamente più lineare e porta a qualificare i due tipi di
arbitrato come mezzi di risoluzione della controversia regolati nella legge
processuale, confermando quanto già sostenuto da illustre Maestro che
“l’arbitrato o è processo o non è” (28).
5. Restano da verificare le conseguenze della ricostruzione in termini di disciplina applicabile e di definizione dell’eccezione di compromesso irrituale come di rito o di merito.
Cominciando da questa seconda problematica, è noto che prima della
riforma, conformemente alla decisione in commento l’eccezione di arbidella prova. Prima delle riforme escludevano la tutela cautelare a fronte di un arbitrato irrituale
Cass. 7 dicembre 2000, n. 15524; Cass. 25 novembre 1995, n. 12225, in Giur. it., 1996, I, 897; Cass.
17 giugno 1993, n. 6757, in questa Rivista, 1995, 59, con nota di VIGORITI, L’autonomia della
clausola compromissoria per arbitrato irrituale; Cass. 7 dicembre 2000 n. 15524, in Giur. it., 2001,
1107, con nota di CANALE, Arbitrato irrituale e tutela cautelare: i soliti problemi tra vecchie
soluzioni e nuove prospettive, secondo cui la relativa istanza è inammissibile; contra CECCHELLA,
L’arbitrato, Torino, 1991, 251; CONSOLO, Il nuovo procedimento cautelare, in Riv. Trim. dir. proc
civ., 1994, 323; SASSANI, Intorno alla compatibilità tra tutela cautelare e arbitrato irrituale, in
questa Rivista, 1995, 710.
(25) BOVE, op. cit..
(26) Corte cost. 28 giugno 1985, n. 190, in Foro it., 1985, I, 1881; Corte cost. 5 luglio 2002,
n. 320 in Giur. Cost., 2002, 2478 con nota di ESPOSITO, Arbitrato libero e tutela giurisdizionale;
Corte cost. 28 gennaio 2010, n. 26, cit.
(27) SASSANI, op. ult. cit.; TOTA, Appunti sul nuovo arbitrato irrituale, in questa Rivista,
2007, 555.
(28) FAZZALARI, op. ult. cit., 464; v. anche SATTA, Commentario al codice di procedura
civile, IV, 1971, 175.
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trato libero era qualificata come eccezione di merito (29) in quanto si
riteneva che l’accordo compromissorio determinasse una temporanea
rinuncia alla giurisdizione, in attesa di un atto sostanziale volto a determinare il rapporto e, quindi, provocava una infondatezza nel merito della
pretesa a fronte di un diritto ancora da ‘plasmare’ (30).
Peraltro, ne derivava un sistema dove, a seguito della nota pronuncia
delle sezioni unite sulla natura negoziale dell’arbitrato (rituale o irrituale
che sia) (31), la relativa eccezione poteva sempre indicarsi come relativa al
merito (32).
La soluzione lasciava interrogativi della dottrina per l’arbitrato rituale
ma era sostanzialmente unanime per quello libero (33), dove ricostruzioni
diverse si prestavano al vaglio critico (34).
5.1. Alla luce del dettato normativo vigente ed in confronto con il
regime dell’eccezione di arbitrato rituale, sembra però doversi pervenire a
diversa soluzione.
Il legislatore equipara, infatti, la valutazione della sussistenza della
potestas iudicandi dell’arbitro rituale ad una questione di competenza
derogabile sottoposta al rimedio del regolamento di competenza davanti
alla Corte di cassazione.
Ne consegue, nell’impostazione seguita, che l’omessa sollevazione
della eccezione rende inefficace la convenzione di arbitrato limitatamente
alla controversia dedotta e soltanto se la causa giunge ad una decisione di
merito.
Si ha, quindi, una assimilazione della questione a quella di competenza o, per meglio dire, il legislatore sceglie di trattare la eccezione di
compromesso al pari delle eccezioni di incompetenza mutuandone le
modalità di decisione (35).
(29)
(30)
(31)
Cass. 13 luglio 1988 n. 4587; Cass. s.u., 9 dicembre 1986, n. 7315.
LUISO, Diritto processuale civile, Milano, IV, 2009, 361.
Cass. s. u., 3 agosto 2000, n. 527, in Corr. Giur., 2001, 51 con note di CONSOLO, RUFFINI
e MARINELLI; in Riv. dir. proc., 2001, 254, con nota di RICCI, La natura dell’arbitrato rituale e del
relativo lodo: parlano le Sezioni Unite; in questa Rivista, 2000, 699, con nota di FAZZALARI, Una
svolta attesa in ordine alla natura dell’arbitrato; in Giust. Civ., 2001, I, 761, con nota di
MONTELEONE, Le sezioni unite della Cassazione affermano la natura negoziale e non giurisdizionale del cosiddetto arbitrato rituale.
(32) Cass. 14 luglio 2011, n. 15474; Cass. s.u., 27 ottobre 2008, n. 25770; Cass. 30 maggio
2007, n. 12684, in Guida al diritto, 2007, fasc. 34, 51; Cass. 27 marzo 2007, n. 7525; Cass. 21
novembre 2006, n. 24681; Tribunale Genova 25 luglio 2007; Tribunale Biella 28 febbraio 2005,
n. 102, in Giur. it., 2006, I, 101.
(33) Cass. 27 marzo 2000, n. 7525; contra CARPI - ZUCCONI GALLI FONSECA, in AA.VV.,
Arbitrato, a cura di Carpi, Bologna, 2001, 58.
(34) MARINELLI, La natura dell’arbitrato irrituale. Profili comparatistici e processuali,
Torino, 2002 per una compiuta esposizione delle posizioni dottrinarie.
(35) LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in La Riforma della disciplina dell’arbitrato a
cura di Fazzalari, Milano, 2006, 123.
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Secondo l’ultimo orientamento della Corte di legittimità, peraltro,
l’arbitrato rituale ha natura giurisdizionale a fronte dell’impugnabilità del
lodo anche non esecutivo, della totale equiparazione della domanda
arbitrale a quella giudiziale, nonché della applicazione allo stesso istituto
di regole prettamente processuali quale l’art. 50 c.p.c. (36).
L’effetto della statuizione è che giudice ed arbitro sono entrambi
partecipi della medesima giurisdizione ed in ipotesi di conflitto di attribuzioni si determina una questione di competenza in senso proprio, mentre
in ipotesi di arbitrato estero la questione diviene di giurisdizione.
5.2. In tale quadro, senza poter approfondire in questa sede il nuovo
orientamento, è inevitabile domandarsi il ruolo che assume l’arbitrato
irrituale, la sua natura e il regime della relativa eccezione al fine di
ottenere una coerenza del sistema.
Bisogna ribadire, infatti, che le due forme di risoluzione eteronoma
della controversia si distinguono soltanto per l’efficacia del lodo e per il
regime dell’impugnazione, ma hanno una comune natura di processo (37)
che ha condotto il legislatore delegato a costruire la nuova disciplina
dell’arbitrato considerato unitariamente nella sua declinazione rituale o
irrituale.
La differenza tra i due strumenti non si manifesta, quindi, nel momento genetico che risiede per entrambi nella volontà delle parti, né nella
modalità di svolgimento che è sempre un processo iniziato con la proposizione di una domanda (38) ma emerge negli effetti della decisione che
nell’arbitrato libero non sono esecutivi e nelle rispettive forme di impugnazione dei lodi.
Nel momento in cui si ponga l’eccezione di compromesso irrituale si
solleva allora un impedimento processuale allo svolgimento del giudizio di
merito davanti all’autorità statuale, perché i paciscenti hanno scelto un
diverso modo di risoluzione della lite che rende in quel momento inutile
il processo statuale.
Senza in questa sede poter ripercorrere tutte le opinioni sul tema che
(36) Corte cost. 19 luglio 2013, n. 223 ha dichiarato la incostituzionalità “dell’art. 819-ter,
secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui esclude l’applicabilità, ai
rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti all’art. 50 del codice di procedura
civile” precisando che “se l’arbitrato rituale resta un fenomeno che comporta una rinuncia alla
giurisdizione pubblica, esso mutua da quest’ultima alcuni meccanismi al fine di pervenire ad un
risultato di efficacia sostanzialmente analoga a quella del dictum del giudice statale”.
(37) FAZZALARI, Arbitrato (voce), teoria generale e diritto processuale civile, in Dig. Disc.
Priv., Torino, 405 scrive “se il risultato è un contratto, l’iter è un arbitrato, cioè un processo
innanzi a terzo e deciso da terzo...”; CECCHELLA, L’arbitrato, Torino, 2005, 229.
(38) FORNACIARI, Considerazioni degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti fra
giudice e arbitro: sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, comma due
c.p.c., in www.judicium.it.
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si sono succedute nel tempo, si accede dunque, per quanto rilevato, alle
opinioni di chi qualifica l’eccezione in commento come di rito (39).
5.3. Per qualificare come di merito l’eccezione de qua occorre invece
ritenere che la stipula del patto compromissorio comporti una rinuncia,
oltre che alla tutela giurisdizionale, ai diritti sostanziali delle parti, che si
obbligherebbero ad accettare ex ante le regole di condotta emanate dagli
arbitri quale espressione diretta della volontà degli stessi stipulanti (40).
La soluzione, accolta de plano nella più recente pronuncia del supremo collegio (41), non sembra però esente da criticità.
Al di là della cesura che si creerebbe tra l’arbitrato rituale e quello
libero, resterebbe soprattutto frustrato ogni tentativo di salvaguardare il
rapporto di sussidiarietà tra il processo cautelare e quello di cognizione in
presenza di un arbitrato libero.
Sembra perciò più corretto pensare che in ogni tipo di arbitrato le
parti si obbligano a rinunciare alla tutela giurisdizionale statuale fino alla
emanazione del lodo, salvo il ricorso alla tutela cautelare a guarentigia del
diritto di azione, e con facoltà di utilizzare ex post i mezzi di impugnazione
rispettivamente previsti dal codice di rito contro il lodo.
In ipotesi di arbitrato irrituale, quindi, il risultato del procedimento è
una decisione che ha forma di accordo vincolante per le parti ma non
suscettibile di divenire esecutiva ed impugnabile, attraverso un ordinario
processo di cognizione per i motivi espressi dalla legge.
L’impedimento che osta alla attività del giudice togato sulla controversia devoluta in arbitrato è costituito, perciò, proprio dalla sussistenza
della convenzione arbitrale che, per autonoma scelta delle parti, determina il venire meno dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. almeno
temporaneamente (42).
(39) BIAVATI, op. cit.; SASSANI, op. ult. cit.; CECCHELLA, op. ult. cit.
(40) BOVE, op. cit., che qualifica l’eccezione come sostanziale e sollevabile anche d’ufficio
dal giudice; PICOZZA, In tema di eccezione di compromesso, in questa Rivista, 2006, 346; Appello
Roma 7 febbraio 2013, in DeJure sostiene che “non implica una questione di giurisdizione la
deduzione dell’esistenza di un compromesso o di una clausola compromissoria per arbitrato irrituale. Ed infatti, da essa deriva l’improponibilità della domanda per rinuncia all’azione, giacché,
con il predetto arbitrato, agli arbitri viene demandato lo svolgimento di una attività negoziale in
sostituzione delle parti e non già l’esercizio di una funzione giurisdizionale; Tribunale Bari 16
aprile 2012, n. 1319, in www.giurisprudenzabarese.it qualifica come improponibile l’azione giudiziaria in presenza di convenzione di arbitrato “quale convenzionale rinuncia all’azione operata
dalle parti, con il conseguente difetto di giurisdizione. Tale improponibilità della domanda non
può essere rilevata d’ufficio ma solo su eccezione della parte interessata”.
(41) Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153 scrive “l’autonomia delle parti si manifesta qui [nella
scelta della competenza arbitrale], non già (come è ovviamente possibile, e come avviene
nell’arbitrato “contrattuale”) come atto di disposizione del diritto, ma come atto incidente
sull’esercizio del potere di azione che a quel diritto è connesso”.
(42) Tribunale Ascoli Piceno, Sez. distaccata San Benedetto del Tronto 7 aprile 2010, in
Giur. It., 2010, 2388; CONSOLO, La natura del lodo irrituale ed il luogo di formazione del negozio,
in questa Rivista, 1997, 376.
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Il presupposto processuale negativo quindi, in presenza dell’elemento
condizionante, costringe il giudice a pronunciare in rito respingendo la
richiesta di tutela per carenza di interesse al mezzo (43).
Corollario della tesi è che l’eccezione debba comunque essere sollevata dalla parte legittimata, non potendo il giudice rilevarla d’ufficio,
poiché soltanto in quel modo è possibile manifestare la volontà di confermare l’accordo stipulato e di non risolverlo, in conformità rispetto a
quanto evidenziato in tema di rinuncia alla convenzione di arbitrato.
6. La scaturigine del ragionamento è quella di individuare la disciplina applicabile, in via sussidiaria, all’arbitrato irrituale attingendo dalle
disposizioni del codice dettate per quello rituale, ad eccezione di quelle
incompatibili.
Ragionando a contrario sono così esclusi gli artt. 824-bis ed 825 c.p.c.
che connotano il modello rituale, gli articoli da 827 a 831 c.p.c. che
regolano le impugnazioni del lodo, l’art. 819, secondo comma e l’art.
819-bis c.p.c. che implicano una idoneità al giudicato sostanziale di cui il
lodo irrituale è privo, nonché gli art. 839 e 840 c.p.c..
Sembra inoltre dubbia l’applicabilità dell’art. 819-ter c.p.c. nella parte
in cui consente il rimedio del regolamento di competenza contro la
decisione sulla esistenza, validità ed efficacia della convenzione di arbitrato.
La questione è discussa in dottrina (44) e vede la giurisprudenza
propendere per la soluzione negativa (45).
Le altre disposizioni appaiono invece fungibili alle due species di
risoluzione della controversia (46), e ne emerge così una disciplina completa ed armonica volta a regolare gli arbitrati.
7. Un ultimo aspetto affrontato dalla sentenza in commento attiene
al rapporto tra arbitrato e tutela monitoria.
(43) SASSANI, Note sull’interesse ad agire, Rimini, 1983, 67; sembrano peraltro superabili
le critiche di MARINELLI, op. cit., 188, che ritiene che prima dell’apertura dell’arbitrato ‘la
prestazione della tutela giurisdizionale non può dirsi prematura’. Sembra che si possa ribattere
che il difetto di interesse vi è ogni volta in cui la parte abbia la facoltà di procurarsi la tutela ex
se in conformità al principio di economia processuale che connota il presupposto processuale.
(44) BERTOLDI, sub art. 808-ter, in Codice di procedura civile commentato, a cura di
Consolo e Luiso, Milano, 2007, III, 5734; PUNZI, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in
Riv. Trim. dir. proc. civ., 2007, 412; RUFFINI, Art. 819-ter c.p.c. (Rapporti tra arbitri e autorità
giudiziaria), in La nuova disciplina dell’arbitrato, Commentario agli artt. 806-840 c.p.c. a cura di
Menchini, Padova, 2010, 364 ss. In senso dubitativo PICARONI, Limiti soggettivi all’applicazione
dell’arbitrato societario eccezione di compromesso e compatibilità con l’arbitrato irrituale, in Le
Società, 2008, 765.
(45) Cfr. nota 21, ed ex multis, Cass. 11 marzo 2008 n. 6423.
(46) Sulla applicabilità dell’art. 816-quater ult. comma, cfr. COMASTRI, Favor arbitrati e art.
808-quater, in questa Rivista, 2012, 81; in senso dubitativo SASSANI, L’arbitrato a modalità
irrituale, cit.
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La decisione riafferma la legittimità del ricorso a decreto ingiuntivo
pur in presenza di convenzione di arbitrato e fatta salva la facoltà di
sollevare la relativa eccezione nella fase di opposizione con conseguente
revoca ex tunc del decreto stesso.
La soluzione corrisponde a quella prevalente in giurisprudenza (47),
che reputa vietato il rilievo officioso dell’eccezione di compromesso anche
in questa fase, e si affianca all’idea che reputa incompatibile de iure
condito l’arbitrato con il procedimento per decreto ingiuntivo (48).
La conseguenza è un sistema che, da un lato, preclude agli arbitri di
utilizzare e di fornire ai paciscenti una forma di tutela sommaria a
contraddittorio differito (49) e, dall’altro lato, impone lo svolgimento di un
processo di opposizione al mero fine di sollevare l’eccezione di compromesso ed impedire l’esecutività della decisione già resa.
Limitandosi a quest’ultimo punto che interessa l’arbitrato libero, non
sembrano condivisibili i rilievi critici che vorrebbero estendere all’eccezione di compromesso il principio di rilevabilità officiosa del difetto di
competenza nella fase inaudita altera parte (50).
Sembra infatti che in tal modo, e riportandosi a quanto sostenuto nei
paragrafi precedenti, si precluderebbe la facoltà dell’accordo processuale
rispetto allo svolgimento del giudizio davanti al giudice (51), imponendo lo
svolgimento dell’arbitrato ovvero del processo ordinario di cognizione (52).
FEDERICO UNGARETTI DELL’IMMAGINE
(47) Cass. 4 marzo 2011, n. 5265; Cass. 9 luglio 1989, n. 3246; Tribunale Paola, 16 gennaio
2010, n. 12, in questa Rivista, 2010, 325, con nota di CORBI, L’intramontabile fascino della c.d.
« teoria unitaria » e l’ambiguità dell’arbitrato irrituale o libero; in senso critico, VILLATA,
Arbitrato e procedimenti sommari, in Riv. dir. proc., 2013, 892.
(48) Tribunale Livorno 11 febbraio 2011, in questa Rivista, 2012, 375 con nota di VANNI,
I controversi rapporti tra arbitrato e opposizione a decreto ingiuntivo.
(49) Per una diversa prospettiva BERGAMINI, Clausola compromissoria e tutela monitoria,
in questa Rivista, 2012, 61; VILLATA, op. ult. cit.. De jure condendo, la Commissione Vaccarella,
costituita per proporre modifiche al codice di procedura civile, nel suo schema di riforma
propone di consentire il ricorso alla tutela monitoria “quando detta possibilità sia espressamente
prevista dalle parti nella convenzione di arbitrato” consentendo quindi al giudice di pronunciare
in sede di opposizione a decreto ingiuntivo sulla concessione o revoca della provvisoria
esecutività, per poi invitare le parti a riassumere la causa davanti agli arbitri per lo svolgimento
eventuale del giudizio arbitrale.
(50) Corte cost. 3 novembre 2005, n. 410, in Riv. dir. proc., 2006, 1473 con nota di RICCI,
I poteri del giudice adito con ricorso per decreto ingiuntivo secondo la Corte costituzionale.
(51) CALAMANDREI, Il procedimento monitorio nella legislazione italiana, Milano, 1926, 93
ss.; contra VILLATA, op. ult. cit.; CAPPONI, Procedimento monitorio e competenza territoriale
semplice, in Corr. Giur., 1996, 101 che escludono che l’art. 38 sia applicabile al di fuori di un
processo di cognizione ordinario.
(52) Si pensi al caso, non infrequente, in cui l’istante necessiti di ottenere un titolo del
proprio diritto e si trovi al cospetto di una controparte in stato di crisi: ritenere che il giudice ex
se eccepisca la sussistenza della convenzione implica, a latere creditoris, un aggravio di costi e di
tempi che non appare giustificato.
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TRIBUNALE DI POTENZA, sentenza 19 settembre 2012, n. 965; LO SARDO Est.;
Le.Fi. c. Università degli Studi della Basilicata.
Arbitrato - Prestazione d’opera intellettuale - Libertà delle parti di fissare le regole
del procedimento arbitrale - Sussistenza - Termine convenzionale di decadenza per l’instaurazione del procedimento arbitrale - Legittimità - Applicazione estensiva all’instaurazione del giudizio ordinario - Sussistenza.
È legittima la previsione, in via convenzionale e all’interno della convenzione
arbitrale, di un termine per l’instaurazione del procedimento arbitrale a pena di
decadenza, purché ciò non renda eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio di un diritto. La valenza del termine decadenziale così fissato è estesa
all’instaurazione del giudizio ordinario, onde evitare che la conservata facoltà di
instaurare il giudizio ordinario senza alcuna limitazione di carattere temporale
comporti un’agevole elusione della clausola compromissoria attraverso una sorta di
rimessione in termini per la tutela del proprio diritto (1).
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — Le.Fi. ha chiesto (in via principale)
la condanna dell’Università degli Studi della Basilicata al pagamento degli onorari
e delle spese ancora dovuti, in qualità di architetto, in dipendenza della « progettazione integrale e coordinata del quarto lotto del polo universitario in località
Macchia Romana a Potenza ». Di contro, l’Università degli Studi della Basilicata
ha eccepito, tra l’altro, l’improponibilità della domanda attorea sul presupposto
della intervenuta decadenza dalla facoltà di azionare la pretesa creditoria sia
davanti al giudice ordinario che davanti al collegio arbitrale (secondo la previsione
dell’art. 10 della convenzione stipulata in forma pubblica amministrativa il dì 11
novembre 1991, rep. n. 2647) ed ha chiesto (in via riconvenzionale) la condanna di
Le.Fi. al risarcimento dei danni per inadempimenti contrattuali. La causa è stata
rimessa in decisione — con riguardo alla questione pregiudiziale — sulle conclusioni rassegnate all’udienza del 18 marzo 2012. Per lo svolgimento del processo si
rinvia agli scritti delle parti ed ai verbali di causa (art. 132, comma II, c.p.c., nel
testo novellato dall’art. 45, comma XVII, della L. 18 giugno 2009 n. 69, applicabile
anche ai procedimenti pendenti in primo grado ai sensi dell’art. 58, comma II, della
L. 18 giugno 2009 n. 69).
Ciò posto, veniamo all’esame della questione pregiudiziale. Ora, l’art. 10
della convenzione stipulata in forma pubblica amministrativa il dì 11 novembre
1991, rep. n. 2647, dispone che « tutte le controversie che potrebbero sorgere
relativamente alla liquidazione dei compensi previsti dalla presente convenzione,
e che non si fossero potute definire in via amministrativa, saranno, nel termine di
30 giorni da quello in cui fu notificato il provvedimento amministrativo, deferite ad
un collegio arbitrale... ».
Secondo l’Università degli Studi della Basilicata, la previsione del termine di
30 (trenta) giorni (decorrenti dalla comunicazione del provvedimento amministrativo di diniego del pagamento) per l’instaurazione del giudizio arbitrale sanzionerebbe l’inerzia del professionista con la decadenza, anche nel caso in cui egli adisse
(come nel caso di specie) il giudice ordinario in luogo del giudice arbitrale dopo la
suddetta scadenza, rinunziando così ad avvalersi della clausola compromissoria. A
suo dire, il termine pattuito « ... è parametro di valutazione della tempestività,
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ricevibilità ed ammissibilità sia del ricorso alla tutela arbitrale sia del ricorso al
giudice ordinario, stante la equivalenza ed alternatività dei due rimedi ».
Tale argomentazione è pienamente condivisa dal giudicante.
Come è noto, la regolamentazione delle forme e delle modalità di introduzione del giudizio arbitrale è rimessa alla discrezionalità dell’autonomia privata
(art. 816, comma II, c.p.c., nel testo vigente ratione temporis prima dell’entrata in
vigore dell’art. 22 del D. Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, secondo cui: « Le parti
possono stabilire ... nella clausola compromissoria o con atto separato, purché
anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri devono osservare
nel procedimento »). Per cui, si deve ritenere possibile la previsione (a monte)
nella clausola compromissoria di un termine per adire gli arbitri, la cui scadenza
comporta (anche in mancanza di un’espressa sanzione in tal senso) l’inevitabile
decadenza per le parti dall’esercizio stesso dell’azione.
Peraltro, tale possibilità è espressamente disciplinata dall’art. 2965 c.c., il
quale consente di stabilire termini convenzionali di decadenza, con il solo limite di
non rendere eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio di un diritto. Né
la pattuizione in disamina sembra difforme dal parametro delineato, essendo stato
previsto dai contraenti un termine di durata sufficiente (analogo a quello stabilito
per legge, in varie ipotesi, per adire il giudice ordinario: artt. 1107, comma I, 1137,
comma III, 1138, comma III, c.c.; 325, comma I, c.p.c.) per l’elaborazione di una
strategia difensiva in vista dell’instaurazione del giudizio arbitrale, ancorandone la
decorrenza alla preventiva comunicazione del provvedimento della pubblica amministrazione che non abbia definito una controversia insorta sulla liquidazione
dei compensi professionali.
D’altra parte, non è rilevante, come si è detto, la mancanza di una espressa
comminazione della decadenza. Invero, è pacifico che per affermare la natura
decadenziale di un termine, previsto dalla legge o da un negozio, non è necessario
che sia espressamente prevista la decadenza, essendo sufficiente che, in modo
chiaro ed univoco, con riferimento allo scopo perseguito e alla funzione che il
termine è destinato ad assolvere, risulti, anche implicitamente, che dalla mancata
osservanza derivi la perdita del diritto (ex plurimis: Cass. 15 settembre 1995, n.
9764; Cass. 26 giugno 2000, n. 8680). Posto, quindi, che si tratta di un termine
convenzionale di decadenza, il dies a quo per la sua decorrenza deve essere
individuato, come si è detto, nella comunicazione del provvedimento che ha
disatteso la liquidazione dei compensi professionali di cui è stata chiesta in questa
sede la condanna al pagamento.
Ora, nel caso di specie, il rifiuto del pagamento è stato comunicato a Le.Fi.,
dapprima, con nota trasmessa dal Direttore Amministrativo dell’Università degli
Studi della Basilicata il 19 luglio 1995, prot. n. 10588, poi, con nota trasmessa dal
Rettore dell’Università degli Studi della Basilicata il 17 luglio 1997, prot. n. 11199,
con nota trasmessa dal Direttore Amministrativo dell’Università degli Studi della
Basilicata il 13 aprile 2004, prot. n. 5937. Tuttavia, non risulta che Le.Fi. abbia
adito il collegio arbitrale nel termine di 30 (trenta) giorni da alcuna delle suddette
comunicazioni.
Né tale termine era suscettibile di interruzione mediante atti stragiudiziali
finalizzati alla conservazione della pretesa creditoria. Difatti, secondo l’art. 2966
c.c., « la decadenza non è impedita se non dal compimento dell’atto previsto dalla
legge o dal contratto » (nel caso in disanima, l’atto di impulso del giudizio
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arbitrale), « tuttavia, se si tratta di un termine stabilito dal contratto o da una
norma di legge relativa a diritti disponibili, la decadenza può essere anche
impedita dal riconoscimento del diritto proveniente dalla persona contro la quale
si deve far valere il diritto soggetto a decadenza » (nel caso in disanima, l’accettazione della proposta di liquidazione dei compensi professionali). Per cui, in
carenza del compimento di tali specifici atti, la parte deve considerarsi inesorabilmente decaduta dall’esercizio del diritto.
Considerato che il giudizio arbitrale non è stato instaurato nel termine
prestabilito dalla clausola compromissoria, resta da stabilire se la decadenza possa
essere estesa anche all’eventuale instaurazione del giudizio ordinario.
Ora, qualora si restringesse la valenza del termine decadenziale alla sola
instaurazione del giudizio arbitrale, ne conseguirebbe un’agevole elusione della
clausola compromissoria. Invero, conservando la facoltà di instaurare il giudizio
ordinario senza alcuna limitazione di carattere temporale (salva l’operatività della
prescrizione), la parte incorsa nella decadenza verrebbe a beneficiare di una sorta
di (automatica) rimessione in termini per la tutela del proprio diritto.
Il che, evidentemente, frustrerebbe e vanificherebbe la ratio stessa della
clausola compromissoria, la quale ha la finalità di attribuire la cognizione di
determinate controversie al giudice arbitrale, con esclusione della cognizione del
giudice ordinario, in conformità ad una scelta concorde dei contraenti (salva,
comunque, la possibilità di una rinunzia anche tacita).
In conclusione, dunque, si deve addivenire ad una pronunzia assolutoria in
rito dall’osservanza del giudizio, la quale si limiti a dichiarare l’improponibilità
della domanda principale. Tale esito decisionale comporta, altresì, l’assorbimento
della domanda riconvenzionale, il cui esame viene a risultare superfluo ed ultroneo.
Si reputa, comunque, la sussistenza di giusti motivi (anche in ragione della
complessità della questione esaminata e della natura processuale della pronunzia
adottata) per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese giudiziali.
Legittimità della apposizione, in via convenzionale, di un termine decadenziale per l’introduzione del procedimento arbitrale.
Attraverso la sentenza in commento, la giurisprudenza di merito si
interroga circa la legittimità dell’apposizione, in via convenzionale, di un
termine di decadenza per adire gli arbitri, stante il riconosciuto potere
delle parti di stabilire le regole procedimentali ex art. 816-bis c.p.c. La
Corte lucana, data risposta positiva alla questione anzidetta, ne analizza
altresì la ratio al fine di estendere la regola procedimentale così ricavata ad
un’analoga problematica che possa venirsi a creare innanzi all’autorità
giudiziaria.
Trattasi, invero, di una questione connotata da un certo grado di
complessità, oltre che di natura processuale; l’insieme di queste due
ragioni, anche a voler tralasciare (come in effetti è accaduto) il fatto che
non è dato riscontrare alcun precedente in termini, ha fatto sì che il
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Tribunale ravvisasse gli estremi per l’integrale compensazione tra le parti
delle spese giudiziali.
La tematica oggetto della pronuncia che si annota è strettamente
collegata a quella, più ampia, inerente gli effetti (processuali e) sostanziali
della domanda arbitrale. Non è certo questa la sede indicata per la sua
trattazione. Basti, qui, precisare che già in epoca antecedente alla riforma
di cui alla L. 25 gennaio 1994, n. 25, ci si interrogava circa l’idoneità o
meno dell’atto introduttivo del procedimento arbitrale alla produzione dei
medesimi effetti che scaturiscono dalla domanda giudiziale; al problema
veniva data, dai più (1), risposta positiva, sebbene non in via generale ma
limitatamente a taluni effetti ben identificati (primo fra tutti, l’interruzione istantanea della prescrizione). L’entrata in vigore della novella del
1994 ha in parte dissipato i dubbi sul punto, sì che, oggi, è opinione
comunemente accettata che la domanda di arbitrato produca i medesimi
effetti dell’atto introduttivo del giudizio ordinario, fra cui l’impedimento
della decadenza ex artt. 2964 ss. c.c.
Nel focalizzare l’attenzione sulla questione oggetto del provvedimento che si annota, occorre indagare sulla “fonte” del termine di
decadenza, che, come è noto, può essere previsto dal legislatore o, in via
convenzionale, dalle parti, in base al disposto di cui all’art. 2965 c.c. La
sentenza del Tribunale di Potenza attiene, appunto, a questa seconda
ipotesi.
Ripercorrendone brevemente la fattispecie, l’Università degli Studi
della Basilicata (convenuta) stipulava una convenzione con i professionisti
che avrebbero prestato, in suo favore, la loro opera intellettuale; fra le
varie pattuizioni si includeva una clausola compromissoria ai sensi della
quale le controversie future non definibili in via amministrativa e relative
alla liquidazione dei compensi sarebbero state deferite ad un collegio
arbitrale « nel termine di trenta giorni da quello in cui fu notificato il
provvedimento amministrativo ». Emerge, così, a chiare lettere, la sussistenza di una previsione pattizia ai sensi della quale le parti non solo
palesavano la loro intenzione di rinunciare alla tutela giurisdizionale per
adire la via arbitrale, ma altresì fissavano un termine entro cui dover
azionare la loro pretesa, a pena di decadenza dall’esercizio del suddetto
diritto.
Il primo quesito sottoposto all’attenzione del Tribunale attiene alla
legittimità di una previsione di tal genere; si noti, però, che la possibilità
di inserire termini di decadenza contrattuali è messa in dubbio non ab
imis, bensì con stretto riferimento all’arbitrato: l’attore si chiede, cioè, se
sia o meno compatibile con la struttura di detto procedimento lo stabilire
(1) Già in epoca anteriore alla riforma mostrava il proprio favor per l’idoneità della
domanda arbitrale ad impedire il verificarsi di una decadenza CECCHELLA, L’arbitrato, Torino,
1991, 192.
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un termine entro il quale esercitare un diritto attraverso quella particolare
modalità che è costituita dalla redazione e comunicazione alla controparte
dell’atto introduttivo del giudizio arbitrale.
Il Tribunale di Potenza, aderendo alla difesa dell’ente convenuto,
respinge sul punto le doglianze attoree e conferma la legittimità dell’apposizione convenzionale di termini della specie di quella sinora descritta e
ciò in virtù della libertà concessa alle parti nel fissare le norme da
osservare nel corso del procedimento ex art. 816, comma 2, c.p.c. (disposizione citata nella formulazione anteriore alla riforma del 2006, il cui
contenuto è oggi recepito nell’art. 816-bis, comma I, c.p.c.) (2).
In realtà, l’art. 816-bis c.p.c. non può leggersi isolatamente da un’altra
disposizione che, sebbene contenuta nel codice sostanziale e dunque
(solo) apparentemente meno rilevante ai fini della disamina di questioni
processuali, merita una breve riflessione. Ci si riferisce, lo accennavamo,
all’art. 2965 c.c., che, nel disciplinare la “fonte” della decadenza, espressamente consente di stabilire termini in via convenzionale a tal fine, con il
solo limite di non rendere eccessivamente difficile ad una delle parti
l’esercizio di un diritto.
Le due norme appena richiamate sembrano porsi in un rapporto di
specialità reciproca.
Da un lato, l’art. 2965 c.c. si pone quale lex generalis rispetto all’art.
816 bis c.p.c.: infatti, la norma sostanziale sancisce la facoltà, per le parti,
di stabilire termini a pena di decadenza per l’esercizio di un diritto,
qualunque diritto, senza riferirsi ad alcuna specifica situazione giuridica
soggettiva; per converso, l’art. 816-bis c.p.c. è lex specialis e ha un ambito
di applicazione ben più ristretto, in quanto norma dettata in vista dello
svolgimento del processo arbitrale e, dunque, attinente ai soli diritti di
natura “procedimentale” che possono essere esercitati dalle parti in tale
contesto, ivi compresa la sua introduzione entro un certo termine a pena
di decadenza.
Nonostante il rapporto di specialità appena descritto, che dunque
parrebbe lasciar intendere che debba trovare applicazione al caso di specie
la sola previsione processuale, la Corte di merito argomenta la sua
decisione facendo riferimento ad entrambe le norme appena indicate, e
ciò non tanto per eccesso di scrupolo, quanto in vista di un preciso limite
fissato all’interno della disposizione sostanziale, che così si atteggia, a sua
volta, a norma speciale rispetto all’art. 816-bis c.p.c. Infatti, l’art. 2965 c.c.
impone, a pena di nullità, alle parti che abbiano optato per l’introduzione
(2) Sulla libertà di forme nel procedimento arbitrale e circa la facoltà, per le parti, di
dettare regole procedimentali specifiche, anche in deroga alle previsioni codicistiche, si vedano,
in giurisprudenza, Cass. civ., Sez. un., 5 maggio 2011, n. 9839, in Diritto & Giustizia, 14 maggio
2011, con nota di VALERINI; C. app. Firenze, sez. I civ., 29 giugno 2007, in questa Rivista, 2008,
4, 549, con nota di BUGLIANI.
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di un termine di decadenza in via convenzionale di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto attraverso la suddetta pattuizione.
Analoga “sanzione”, però, non si ritrova nell’art. 816-bis, comma I, c.p.c.,
che richiede solo il rispetto del principio del contraddittorio, senza altro
prevedere; tuttavia, sarebbe riduttivo fermarsi alla lettera della norma per
trascurare l’art. 829, comma I, n. 9, c.p.c., il quale sancisce come ipotesi di
nullità del lodo la mancata osservanza, nel procedimento arbitrale, del
principio del contraddittorio. Dunque, una sanzione che colpisce immediatamente non la previsione pattizia (ossia il patto compromissorio),
bensì la decisione degli arbitri, ma che egualmente travolge l’intero iter di
atti procedimentali che hanno condotto ad essa. Pertanto, su questo
preciso aspetto, alla convenzione arbitrale potrà essere applicato in via
immediata l’art. 2965 c.c.
Si comprendono, ora, le ragioni per le quali nella sentenza in commento si analizza la clausola attinente al termine di decadenza alla luce del
“parametro” delineato dall’art. 2965 c.c., per poi asserirne la conformità
rispetto ad esso in quanto i contraenti avrebbero previsto « un termine di
durata sufficiente per l’elaborazione di una strategia difensiva in vista
dell’instaurazione del giudizio arbitrale, ancorandone la decorrenza alla
preventiva comunicazione del provvedimento della pubblica amministrazione che non abbia definito una controversia insorta sulla liquidazione
dei compensi professionali » (3).
Inoltre, il Tribunale lucano, tra gli obiter dicta, si preoccupa della
qualificazione del termine suddetto, sebbene in assenza di esplicita richiesta sul punto: si noti, infatti, ripercorrendo il testo della pronuncia, che né
la previsione pattizia oggetto di giudizio né i quesiti delle parti sembrano
fare alcun cenno alla natura della particolare clausola inserita all’interno
del patto compromissorio, riguardante la necessaria introduzione del
procedimento arbitrale entro un certo termine. Tuttavia, la Corte ritiene
meritevole di approfondimento questo peculiare aspetto in ragione del
fatto che la clausola in commento non si riferisce mai espressamente
all’istituto della decadenza, peraltro come sanzione per il mancato esercizio del diritto di natura processuale entro il termine suddetto. Le
eventuali obiezioni sono presto superate attraverso il richiamo ad una
giurisprudenza consolidata, a detta della quale « per affermare la natura
decadenziale di un termine, previsto dalla legge o da un negozio, non è
necessario che sia espressamente prevista la decadenza, essendo suffi(3) La sentenza in commento assimila il termine decadenziale de quo ad una serie di
termini previsti dal legislatore per adire l’autorità giurisdizionale ordinaria: si tratta degli artt.
1107, comma 1, c.c. (impugnazione del regolamento della comunione), 1137, comma 3, c.c.
(impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini) e 325, comma 1, c.p.c. (termini
per le impugnazioni). Si noti che tutti i termini anzidetti si riferiscono all’introduzione del
giudizio ordinario quale sede processuale per l’impugnazione di questo o quell’atto, fattispecie
che è del tutto estranea a quella oggetto del provvedimento che si annota.
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ciente che, in modo chiaro ed univoco, con riferimento allo scopo perseguito e alla funzione che il termine è destinato ad assolvere, risulti, anche
implicitamente, che dalla mancata osservanza derivi la perdita del diritto
(ex plurimis: Cass. 15 settembre 1995, n. 9764; Cass. 26 giugno 2000, n.
8680) » (4). Nella fattispecie, la parte attrice sarebbe rimasta inerte nell’adire la tutela arbitrale nel termine decadenziale pattuito, il cui dies a quo
decorreva dalla comunicazione del provvedimento amministrativo che ha
disatteso la liquidazione dei compensi professionali dei quali l’attore
invocava la condanna al pagamento: pertanto, in conformità con la previsione convenzionale di cui al patto compromissorio, il Tribunale lucano
l’ha dichiarata inesorabilmente decaduta dall’esercizio del diritto.
Ad abundantiam, la Corte esclude che siano intervenuti atti idonei
all’“interruzione” del termine in esame e, precisamente, atti di riconoscimento del diritto provenienti dalla persona contro la quale si deve far
valere il diritto soggetto a decadenza ex art. 2966 c.c. Trattasi di questione
più fattuale che non giuridica, che la sentenza in commento cita senza
entrare troppo nel merito della vicenda, per affermare semplicemente la
carenza, nel caso di specie, di tali specifici atti “stragiudiziali finalizzati alla
conservazione della pretesa creditoria”. Giova comunque ivi soffermarsi
sul lessico utilizzato dal Tribunale di Potenza, il quale sembra incorrere in
un’inesattezza terminologica che si pone in contrasto con il disposto di cui
all’art. 2964 c.c., che esclude l’applicabilità, alla decadenza, delle norme
relative all’interruzione e alla sospensione della prescrizione. È pur vero
che la decadenza è un istituto spesso assimilato alla prescrizione sotto
molteplici profili, primo fra tutti quello inerente le conseguenze che il
decorso del tempo, unitamente all’inerzia del titolare, può avere su una
determinata situazione giuridica soggettiva, provocandone l’estinzione.
Tuttavia, i due istituti sono ben diversi per ciò che concerne le rispettive
rationes: come il fondamento della decadenza si rinviene nell’esigenza di
evitare l’eccessiva pendenza dei rapporti giuridici nel tempo, così quello
della prescrizione si individua precipuamente nell’estinzione del diritto
soggettivo per effetto dell’inerzia del suo titolare (5).
Chiarite queste differenze preliminari, si capisce come l’esercizio del
diritto (ossia la cessazione dell’inerzia) costituisca, nel primo caso, un im(4) Alle sentenze citate nel provvedimento che si annota si aggiungano, in senso
pienamente conforme, Cass. civ., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8680, in Giust. civ. Mass., 2000, 1405;
Id., Sez. I, 15 settembre 1995, n. 9764, in Giust. civ. Mass., 1995, 1648; Id., Sez. I, 6 novembre
1976, n. 4043, in GIOVAGNOLI (a cura di), Codice civile annotato con la giurisprudenza, sub art.
2964, Milano, 2011, 3818, quest’ultima con specifico riferimento ai diritti potestativi: più
precisamente, la disciplina della decadenza sanzionerebbe l’inadempimento di un onere, piuttosto che di un obbligo, per l’esercizio di un diritto di regola potestativo, in base al principio di
autoresponsabilità.
(5) Cass. civ., Sez. II, 18 gennaio 2007, n. 1090, in Giust. civ. Mass., 2007, 1, e in Vita not.,
2007, 1, 185; in senso conforme cfr. Id. 19 aprile 1982, n. 2407.
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pedimento vero e proprio al maturarsi della decadenza, che non necessita
di ulteriori attività del suo titolare al fine di evitare l’estinzione del diritto.
Viceversa, la medesima fattispecie produce conseguenze diverse nell’ipotesi
della prescrizione, poiché l’atto di esercizio del diritto ovvero il suo riconoscimento ad opera di controparte interrompono il termine prescrizionale,
dando luogo ad « una vera e propria frattura » (6) cronologica: perde rilievo
in modo definitivo il tempo trascorso anteriormente all’evento interruttivo,
mentre quest’ultimo va a coincidere con il dies a quo di un nuovo termine
prescrizionale (7). Conseguenze giuridiche ben diverse, dunque, che non
legittimano alcuna assimilazione ab imis dell’istituto della prescrizione a
quello della decadenza e, anzi, impongono all’interprete una scelta ponderata nella terminologia utilizzata, onde evitare di dar luogo ad una sovrapposizione tra fattispecie differenti e non certo fungibili tra loro.
Da ultimo, merita di essere sottolineata l’argomentazione posta a
conclusione della pronuncia in esame, nella parte in cui, in modo del tutto
innovativo, espressamente si riconosce l’estensione del termine decadenziale previsto per il procedimento arbitrale al giudizio ordinario poiché, se
così non fosse, si verificherebbe una vera e propria elusione della clausola
compromissoria. Infatti, conservando la facoltà di instaurare il giudizio
ordinario anche oltre il temine previsto in via convenzionale, « la parte
incorsa nella decadenza verrebbe a beneficiare di una sorta di (automatica) rimessione in termini per la tutela del proprio diritto », così che ella
potrebbe introdurre in qualsiasi momento (salvo intervenuta prescrizione
della situazione giuridica soggettiva fatta valere, da valutare comunque in
corso di causa) il procedimento giudiziario, vedendosi invece privata senza
alcuna ragione oggettiva e/o giuridica dell’analoga possibilità di adire,
come originariamente pattuito, la via arbitrale. Ma, ancor di più, una
simile scelta renderebbe vana la volontà concorde delle parti e da queste
palesata nella convenzione arbitrale, la quale ha la finalità di attribuire la
cognizione di determinate controversie al giudice arbitrale, con esclusione
della cognizione del giudice ordinario (salva, comunque, la possibilità di
una rinunzia anche tacita).
Trattasi di un’affermazione tutt’altro che scontata, meritevole di
condivisione anche nell’ottica di favorire il ricorso alla tutela arbitrale. Ci
si riferisce, in particolare, ad una sentenza della giurisprudenza di legittimità (8) che, uniformandosi ai propri precedenti (9), ha negato che un’a(6) MOLFESE, Prescrizione e decadenza, Milano, 2009, 272. Per una completa e generale
ricostruzione del tema in discorso, si rinvia altresì a CAPELLO, La prescrizione civile, penale e
tributaria, Milano, 2011, 225 ss. e a CARBONE - BATÀ - TRAVAGLINO - DE GENNARO, La
prescrizione e la decadenza, Milano, 2011, 357 ss.
(7) Diversamente, nell’ipotesi della sospensione vi è un’inerzia da parte del titolare del
diritto che è giustificata e che, proprio in quanto tale, alla stregua di una parentesi non toglie
valore al periodo trascorso in precedenza.
(8) Cass. civ., Sez. I, 12 novembre 1998, n. 11436, in Foro it., 1998, I, 3692.
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naloga estensione di disciplina potesse aversi nell’ipotesi inversa, ossia dal
giudizio ordinario a quello arbitrale. Nello specifico, la Corte di cassazione
ha affermato che la clausola compromissoria societaria comporta la sostituzione del procedimento arbitrale a quello di opposizione avverso la
delibera di esclusione del socio dalla società in accomandita semplice, che
si svolge presso l’autorità giudiziaria (art. 2287 c.c.), con il conseguente
venir meno del termine legale di decadenza di trenta giorni dalla comunicazione della delibera. Tale termine, secondo la Corte, sarebbe incompatibile con la struttura del procedimento innanzi agli arbitri poiché la
nomina di questi ultimi, se non già contenuta nel patto compromissorio,
potrebbe richiedere tempi assai maggiori di trenta giorni (specie se per la
loro nomina deve usufruirsi dell’intervento del Presidente del Tribunale).
In altre parole, la previsione di un termine a pena di decadenza per
l’instaurazione del procedimento arbitrale può essere estesa al processo
che si svolge innanzi all’autorità giudiziaria; detta assimilazione non
sarebbe biunivoca, ossia non avrebbe luogo di esistere dal procedimento
ordinario a quello arbitrale, stante la differente struttura del secondo
rispetto al primo.
Su tale ultima questione, tuttavia, non si può che essere concordi
rispetto alla soluzione prospettata dalla sentenza del Tribunale di Potenza,
che, sebbene costellata di “luci ed ombre”, sembra realmente porre
attenzione non solo alle modalità di svolgimento del procedimento arbitrale (consentendo la previsione di termini decadenziali in via pattizia),
ma altresì alle sue concrete prospettive di sviluppo nel panorama delle
ADR. L’estensione del termine decadenza già previsto per l’arbitrato alla
tutela ordinaria evita realmente che la volontà delle parti sia posta nel
nulla e, soprattutto, disincentiva la scelta di utilizzare le vie giurisdizionali
quali mero ed unico mezzo per rendere effettivo un eventuale “ripensamento” dei contraenti rispetto alla volontà precedentemente esposta.
Né, a parer nostro, può farsi leva sulla struttura dei giudizi arbitrale e
ordinario, che, per quanto senz’altro diversi tra loro, sono comunque
entrambi volti a garantire alle parti due forme di tutela tutt’altro che
dissimili e, anzi, sempre più avvicinate dalle recenti riforme che hanno
travolto il Titolo VIII, Libro IV, c.p.c. (10).
Inoltre, se la ratio della decadenza è quella che abbiamo visto, ossia di
evitare l’eccessiva pendenza nel tempo dei rapporti giuridici attraverso
l’esercizio del diritto entro termini perentori, va da sé che ciò che rileva in
via principale è che il diritto sia esercitato, quasi come se passasse in
secondo piano la modalità di detto esercizio. Ad ogni modo, anche a voler
considerare detta modalità di primaria importanza, non può trascurarsi la
(9) Cass. civ., Sez. I, 30 marzo 1984, n. 2084, in Foro it., 1985, I, 2984.
(10) Non da ultimo, il D. Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.
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costante opera di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in favore
dell’assimilazione, quanto agli effetti sia sostanziali sia processuali, delle
domande di arbitrato e giudiziale, stante la loro idoneità ad avviare un
procedimento che si conclude con una pronuncia di analoga efficacia a
livello di tutela di cognizione e, previo exequatur del lodo, esecutiva.
Pertanto, non sussiste ragione per cui il termine decadenziale fissato
per l’instaurazione del procedimento arbitrale non possa estendersi a
quello giudiziale, e viceversa. Il che costituisce, oltre che l’unica soluzione
meritevole di essere condivisa, un vero e proprio elemento di novità nel
panorama della giurisprudenza, non solo di merito.
ALESSIA VANNI
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TRIBUNALE DI MILANO, Sez. imprese, sentenza 30 novembre 2012; RIVA CRUGNOLA Pres.; GALIOTO Est.; Metis Spa (avv.ti Farriti Favalli e Provera) Donadoni
(avv. Lanza).
Rapporti tra giurisdizione e arbitrato - Art. 819-ter c.p.c. - Efficacia del lodo nel
processo giurisdizionale - Efficacia vincolante del lodo - Necessaria definitività - Esclusione.
Rapporti tra giurisdizione e arbitrato - Eccezione di convenzione di arbitrato Competenza - Sospensione del processo civile per pendenza del processo
arbitrale - Facoltatività.
Il principio della reciproca indifferenza tra i due procedimenti (arbitrale ed
ordinario) è destinato a valere fino a quando in uno dei due giudizi non intervenga
una decisione (lodo o sentenza) che come tale, senza attendere la definitività, è
idonea a dare una composizione provvisoria alle contrapposte posizioni delle parti.
CENNI DI FATTO. — La M. s.p.a. ha ottenuto sequestro conservativo ante
causam a tutela dei crediti vantati nei confronti del sig. P.R.D. per risarcimento
danni da violazione dei doveri inerenti all’incarico di amministratore.
Nel termine assegnato dal Giudice ex art. 669-octies c.p.c. la stessa società ha
avviato procedimento arbitrale, in forza della clausola compromissoria statutaria,
formulando le domande risarcitorie; ha instaurato però anche, per mero scrupolo
difensivo, giudizio di merito davanti al Tribunale, formulando le medesime domande risarcitorie.
Rimessa la causa al Collegio per la decisione sulla questione pregiudiziale
della competenza arbitrale, è intervenuto il lodo con il quale gli arbitri hanno
affermato la propria competenza ed hanno deciso nel merito, accogliendo la
domanda risarcitoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis). — Il Tribunale reputa che debba
essere accolta la deduzione svolta in via principale dell’attrice — ed avente
carattere pregiudiziale — di incompetenza del giudice ordinario perché la controversia è stata devoluta al giudizio arbitrale.
È necessario premettere che l’attrice ha ottenuto sequestro conservativo ante
causam sui beni del convenuto, a cautela dei crediti vantati dall’attrice a titolo di
risarcimento del danno asseritamente dovutole dal sig. Donadoni per violazione
dei doveri inerenti all’incarico di amministratore espletato in favore di METIS spa.
Entro il termine assegnato dal Giudice della fase cautelare, l’attrice ha
convenuto in giudizio avanti al Tribunale di Milano il sig. Donadoni proponendo
nei suoi confronti domande risarcitorie ai sensi dell’art. 2393 cc, dando atto di
avere al contempo attivato la procedura per l’instaurazione del giudizio arbitrale,
e di avere attivato il giudizio di merito avanti al giudice ordinario “per mero
scrupolo difensivo e senza alcuna rinuncia al deferimento in arbitri della presente
controversia in base alla clausola compromissoria statutaria” (pag. 18 della citazione).
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Parte convenuta, nel costituirsi in giudizio, ha chiesto l’affermazione della
competenza del giudice ordinario e la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295
cpc in attesa del passaggio in giudicato della sentenza che definirà il giudizio
pendente avanti al Giudice del lavoro.
La causa è stata rimessa al Collegio per la decisione sulla questione pregiudiziale della competenza arbitrale.
Nelle more è intervenuto il lodo arbitrale che ha affermato la propria
competenza ed ha accolto la domanda risarcitoria proposta dall’attrice.
Si discute dunque tra le parti se il presente procedimento debba o meno
essere sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c., ovvero anche ai sensi dell’art. 337,
secondo comma, c.p.c. secondo il quale “quando l’autorità di una sentenza è
invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è
impugnata”, non essendovi controversia tra le parti riguardo al carattere pregiudiziale della questione dell’applicabilità o meno della clausola statutaria che
devolve ad arbitri l’azione sociale di responsabilità verso l’amministratore, clausola in forza della quale “tutte le controversie che dovessero insorgere tra i soci, tra
questi e la Società, aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale,
ovvero quelle che venissero proposte da Amministratori, Liquidatori e Sindaci, o nei
loro confronti ad eccezione di quelle rimesse per legge all’esclusiva competenza
dell’Autorità giudiziaria, saranno sottoposte al giudizio di un Collegio arbitrale
composto da tre membri. Detti arbitri saranno nominati ad istanza della parte che
vi abbia interesse dal Presidente del Tribunale del luogo in cui la Società ha la sede
legale. Gli arbitri decideranno secondo diritto ed il lodo sarà impugnabile a norma
di legge” (art. 21 Statuto).
Ciò posto, si deve risolvere la questione della applicabilità degli artt. 295 o
337, secondo comma, c.p.c., a seguito dell’intervenuta pronuncia del lodo — che ha
incontestatamente formato oggetto di impugnazione — sulla questione pregiudicante della devoluzione ad arbitri della presente controversia. Il contrasto tra le
parti risiede, più propriamente, sul tema posto dal convenuto che afferma l’avvenuta rinuncia alla devoluzione agli arbitri della controversia, che deriverebbe dal
fatto che l’attrice ha promosso (anche) il giudizio ordinario.
Ci si domanda di conseguenza se, invece, il principio delle “vie parallele” che
governa i rapporti tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario imponga al Tribunale
in ogni caso di decidere comunque sulla propria competenza, restando così
indifferente alla decisione degli arbitri.
All’esito delle udienze tenutesi ai sensi dell’art. 275 c.p.c., il Tribunale ritiene,
in attesa della definitività del loro arbitrale, che la soluzione debba prendere le
mosse dai principi pienamente condivisibili fissati da una recente pronuncia della
Corte di cassazione a Sezioni unite n. 10027 del 2012, che ha posto un punto fermo
sul perimetro di applicazione delle due norme appena ricordate, sia pure riguardo
a due giudizi entrambi pendenti avanti al giudice ordinario.
I principi enunciati dalla sentenza ora citata — affermati in relazione ai
rapporti tra causa pregiudicante e causa pregiudicata — sono ripetibili, ad avviso
del Collegio, anche per la questione ora oggetto di giudizio, in cui deve risolversi
il rapporto tra la questione se sia intervenuta rinuncia a deferire agli arbitri la
controversia, ed il merito dell’azione di responsabilità.
Al pari dei giudici di legittimità, il Tribunale reputa che la soluzione delle
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interferenze che si pongono tra i due giudizi poggi sulla regola dettata dall’art. 282
cpc nella sua più recente formulazione.
La ricordata sentenza si è così espressa:
Pare alla Corte che nell’interpretazione sistematica della disciplina del processo
sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della L. 26
novembre 1990 n. 353, si trova ora ad essere dettata dall’art. 282 del codice di rito.
Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado
il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra
loro nel giudizio di primo grado che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari e la situazione in cui le stesse
parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la
controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro.
L’ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al
contrario risulterebbe favorito, se all’impugnazione si attribuisse l’effetto d’un
ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione
della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111, comma 2, Cost.).
Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle
parti in modo diverso da quello dello stato originario di lite e giustifica sia
l’esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà
materiale, sia l’autorità della sentenza di primo grado nell’ambito della relazione tra
lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata.
Salvo che l’ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa,
imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato
sull’elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da
intendere che sia ancora al giudice che l’ordinamento rimetta, graduandolo in vario
modo, il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la
controversia è riaperta attraverso l’impugnazione, se l’efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 c.p.c.) o se la sua
autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337, secondo comma, c.p.c.) in
questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di
sospenderlo (già con la sentenza 31 maggio 1996 n. 182 la Corte costituzionale aveva
del resto avuto modo di richiamare l’attenzione degli interpreti sul disfavore verso
il fenomeno sospensivo in quanto tale, espresso dal legislatore, con la riforma del
1990, soffermandosi sugli orientamenti restrittivi che s’erano manifestati nella giurisprudenza di legittimità a riguardo della precedente interpretazione dell’art. 295
c.p.c.).
È dunque possibile a tale riguardo una considerazione conclusiva.
Da un punto di vista logico l’istituto processuale della sospensione necessaria
è costruito su questi presupposti: la rilevazione del rapporto di dipendenza che si
effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata; la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti
e giudicati secondo diritto nello stesso modo; lo stato di incertezza in cui il giudizio
su quei fatti versa, perché controversi tra le parti.
L’idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della
causa che ne dipende giustifica allora che questa causa resti sospesa a prescindere
dal segno che potrà avere la decisione sull’altra.
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Lo impone prima di tutto l’esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato
dalla duplicazione dell’attività di cognizione nei due processi pendenti.
Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta,
quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perché ormai
il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata
fondandolo sull’accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto
raggiungere nell’altro processo tra le stesse parti, attraverso l’esercizio della giurisdizione.
Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa
dipendente resti sospeso.
La duplice connessa circostanza che la decisione del primo giudice giustifichi
a questo punto il passaggio alla sua esecuzione coattiva se pur provvisoria e il
correlativo progressivo restringersi degli elementi di novità suscettibili di essere
introdotti nel giudizio di impugnazione consente di ritenere che l’ordinamento si
appaghi ora in linea generale del risparmio di attività istruttoria e preferisca
all’attesa del giudicato la possibilità che processo sulla causa dipendente riprenda
assumendo a suo fondamento la decisione, ancorché suscettibile di impugnazione,
che si è avuta sulla causa pregiudicante, perché, come si è detto, essendo il risultato
di un accertamento in contraddittorio e provenendo dal giudice, giustifica la
presunzione di conformità a diritto.
L’istituto della sospensione necessaria ha così esaurito i suoi effetti.
Il rapporto di dipendenza tra le cause però resta e se la controversia si
riaccende nei gradi di impugnazione, spetterà ora alla valutazione del giudice della
causa dipendente decidere se mantenere in stato di sospensione il processo di cui una
delle parti abbia sollecitato la ripresa.
E la valutazione andrà fatta sulla base della plausibile controvertibilità che il
confronto tra la decisione intervenuta e la critica che ne è stata svolta abbia fatto
emergere.
8.1. Questa impostazione non trova ostacolo nella lettera della disposizione ora
contenuta nell’art. 295 che, mentre attribuisce al giudice della causa pregiudicata il
potere di sospenderne il giudizio, perché la sua decisione dipende da quella di altra
causa, pendente davanti ad altro giudice od anche davanti a sé, tuttavia non indica
quale sia il termine ultimo della sospensione che è così da ordinare.
Né trova ostacolo nella disposizione dell’art. 297 c.p.c., che dal canto suo
sopporta un’interpretazione — del resto formulata in dottrina — per cui il passaggio
in giudicato della sentenza resa sulla causa pregiudicante segna non già il termine di
durata della sospensione, ma solo quello di inizio della decorrenza del termine
ultimo oltre il quale il giudizio sulla causa pregiudicata si estingue (art. 307, terzo
comma, c.p.c.) se nessuna delle parti abbia assunto l’iniziativa richiesta per farlo
proseguire.
La sopravvenienza della decisione di primo grado sulla lite pregiudiziale, pur
suscettibile di impugnazione od impugnata, può giustificare che le parti ne attendano
la decisione definitiva, ma non impedisce che chi ne rivendichi l’autorità solleciti la
prosecuzione del processo, anche se il giudice potrà di nuovo farsi a sospenderlo,
ma ora sulla base di una specifica valutazione”.
Ebbene, la constatazione dell’autorità della sentenza di primo grado nell’attuale assetto dell’ordinamento processuale, come si anticipava, finisce per dare
soluzione anche al caso che ci occupa, e per definire l’ambito di applicazione della
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regola delle “vie parallele” che governa i rapporti tra giudizio arbitrale e giudizio
ordinario ai sensi dell’art. 819-ter c.p.c., secondo il quale, com’è noto, “la competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice,
né dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente
davanti al giudice... Nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano regole
corrispondenti agli artt. 44, 48, 50 e 295”.
Passando all’applicazione dei principi ora enunciati al caso che ci occupa, non
va sottaciuto che l’art. 824-bis c.p.c. attribuisce al lodo, dalla data della sua ultima
sottoscrizione, “gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”,
sicché ad esso può ben essere attribuita — come alla sentenza di primo grado —
la presunzione di conformità a diritto nel senso indicato dalla pronuncia delle
Sezioni unite.
Si deve dunque valutare se ricorrano i presupposti per la sospensione del
giudizio, non tanto ai sensi dell’art. 295 c.p.c., per le ragioni appena spiegate, ma
piuttosto ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., previa valutazione prognostica dell’esito dell’impugnazione.
Non si potrebbe in proposito sostenere che il principio delle “vie parallele”
impedirebbe al giudice ordinario di deliberare sulle prospettive di conferma del
lodo impugnato, posto che il predetto principio, come è stato chiarito da un
autorevole indirizzo dottrinale che il Tribunale condivide, trova il suo limite
naturale nella contemporanea esigenza, salvaguardata da svariate disposizioni
dell’ordinamento processuale, di prevenzione del contrasto di giudicati. Da ciò
discende che il principio della reciproca indifferenza tra i due procedimenti
(arbitrale ed ordinario) è destinato a valere fino a quando in uno dei due giudizi
non intervenga una decisione (lodo o sentenza) che come tale è idonea dare una
composizione provvisoria alle contrapposte posizioni delle parti.
Il Tribunale reputa che non ricorrano i presupposti per disporre la sospensione del giudizio, osservando che il convenuto è rimasto silente in punto di
prognosi sull’esito dell’impugnazione del lodo, stante — va ribadito — la regola
secondo la quale l’efficacia del lodo è in tutto equiparabile a quella di una sentenza
del giudice ordinario (art. 824-bis c.p.c.). Il convenuto non ha prospettato al
Collegio nessun elemento a cui appuntare una qualsivoglia previsione di accoglimento dell’impugnazione proposta, anche in ragione della condivisibilità della
decisione assunta dagli arbitri in ordine alla propria competenza.
Si noti che il convenuto non sembra propriamente lamentare che l’azione
sociale di responsabilità esuli dall’ambito della clausola statutaria sopra riportata
(art. 21), ma sostiene, piuttosto, che la mera proposizione del giudizio ordinario da
parte dell’attrice, che aveva ottenuto il provvedimento di sequestro conservativo,
implichi, per ciò solo, la rinuncia ad avvalersi della clausola compromissoria
statutaria.
Una simile tesi non può esser condivisa.
Deve infatti rilevarsi che già con l’atto di citazione la parte attrice ha precisato
che l’azione avanti al giudice ordinario è stata instaurata per mero scrupolo
difensivo, espressamente senza rinuncia alla cognizione arbitrale, e — dunque al
mero fine di scongiurare una possibile eccezione — da parte del convenuto — di
inefficacia del sequestro per mancata tempestiva instaurazione del giudizio di
merito, in caso di una pronuncia d’incompetenza da parte degli arbitri.
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L’azione di cui si discute è stata pertanto proposta proprio dalla parte che
espressamente ha inteso avvalersi della clausola statutaria. Non può esservi
pertanto rinuncia tacita proprio perché tale rinuncia è stata espressamente esclusa,
e perché la citazione avanti al giudice ordinario è stata proposta dalla parte che
intende avvalersi del giudizio arbitrale.
Per le illustrate ragioni va respinta l’istanza di sospensione del giudizio, e il
Tribunale deve dichiarare la propria incompetenza, essendo la controversia devoluta alla cognizione del collegio arbitrale di cui all’art. 21 dello statuto della società
attrice.
Ricorrono infine i presupposti per la compensazione integrale delle spese di
lite.
La causa è stata introdotta dichiaratamente per scrupolo difensivo, e nell’affermato timore di eventuale declaratoria di inefficacia del sequestro conservativo
per omessa instaurazione del giudizio di merito.
La prevalente dottrina che si è espressa sul punto ha invero osservato — con
indirizzo interpretativo pienamente accoglibile — che nel caso di provvedimento
cautelare ottenuto in relazione ad un’azione di merito devoluta ad arbitri, è
sufficiente, al fine di scongiurare la conseguenza ex art. 669-novies c.p.c. che nel
termine prescritto sia attivata la procedura per la nomina degli arbitri ai sensi del
comma quinto dell’art. 669-octies c.p.c., dato che non sarebbe ragionevolmente
riconducibile ad inerzia della parte interessata alla perdurante efficacia del provvedimento cautelare l’eventuale e temuta pronuncia di incompetenza da parte del
Collegio arbitrale.
Benché dunque la duplice iniziativa giudiziaria debba essere ritenuta ultronea
ed espressiva di un eccesso di cautela, va altresì constatato, d’altra parte, che il
convenuto ha contribuito, da parte sua, al prolungamento del giudizio, che si
sarebbe potuto arrestare già con la comparsa di risposta, ove il sig. DONADONI
avesse aderito alla legittima richiesta della parte attrice di avvalersi della clausola
che devolve la competenza dell’azione ex art. 2393 cc al collegio arbitrale.
Vie parallele ed efficacia del lodo sul processo giurisdizionale.
1. Ottenuto un sequestro conservativo, il ricorrente introduce giudizio arbitrale, in forza della clausola compromissoria dello statuto sociale;
propone altresì domanda giudiziale davanti al giudice statale, « per mero
scrupolo difensivo » e « senza rinuncia alla cognizione arbitrale ».
Il processo arbitrale giunge al lodo, con la decisione di merito; il lodo
è impugnato per nullità in Corte d’appello.
Nel processo giurisdizionale, preso atto della pronuncia del lodo, si
chiede la sospensione in attesa della definizione dell’impugnazione della
pronuncia arbitrale, e la causa è rimessa in decisione sulla questione
pregiudiziale della competenza arbitrale.
Il quesito cui il Tribunale dà risposta è il seguente: si può o si deve
sospendere il processo in attesa della decisione della Corte d’appello
sull’impugnazione per nullità di un lodo che ha affermato, anche solo
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implicitamente, la competenza arbitrale e deciso nel merito sulla controversia instaurata anche davanti al giudice statale?
La conclusione cui perviene il Giudicante si fonda innanzitutto sull’applicazione dei principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza a Sezioni Unite n. 10027 del 2012, che ha inteso risolvere i contrasti
di interpretazione sugli artt. 295 e 337 c.p.c. (1).
In particolare, per il Tribunale di Milano l’art. 824-bis c.p.c. implica
che anche alla decisione arbitrale deve essere « attribuita — come alla
sentenza di primo grado — la presunzione di conformità a diritto », per cui
è efficace e vincolante anche se non passata in giudicato (2).
Pertanto, « il principio della reciproca indifferenza tra i due procedimenti (arbitrale ed ordinario) è destinato a valere fino a quando in uno dei
due giudizi non intervenga una decisione (lodo o sentenza) che come tale
è idonea a dare una composizione provvisoria alle contrapposte posizioni
delle parti », senza che sia necessaria la definitività del provvedimento.
Come emerge dalla lettura della sentenza e come si può intuire da
quanto precede, gli istituti direttamente o indirettamente riguardati sono
molteplici.
Innanzitutto, si coinvolgono il principio delle “vie parallele”, i rapporti tra arbitrato e giudizio statale entrambi pendenti ed il coordinamento tra le relative pronunce; si fa riferimento all’efficacia della convenzione d’arbitrato, alla relativa eccezione nel processo giurisdizionale ed
all’eventuale rinuncia alla via arbitrale, ma anche all’efficacia del lodo ed
al momento della sua produzione; si arriva ad affrontare il tema della
sospensione ex art. 295 o 337 c.p.c., con possibile applicazione dell’effetto
espansivo esterno al rapporto tra sentenza che dichiara la nullità del lodo
e processo giurisdizionale.
A titolo di premessa, è bene chiarire subito che la sentenza trae
origine da un problema di fondo, generato dalla parte attrice: ottenuto il
sequestro conservativo, per timore che l’introduzione del processo arbitrale non fosse idonea ad evitare la perdita di efficacia della misura
cautelare ex artt. 669-octies, 1º comma e 669-novies, 1º comma c.p.c., « per
mero scrupolo difensivo » instaura l’azione di merito anche davanti al
giudice statale.
(1) Cass., Sez. Un., 19 giugno 2012, n. 10027, in Corr. giur., 2012, 1178, nonché 1322, con
nota di ZUFFI, Le Sezioni Unite ammettono la sola sospensione discrezionale del processo sulla
causa dipendente allorché la causa pregiudiziale sia stata decisa con sentenza di primo grado
impugnata; in Riv. dir. proc., 2013, 689, con nota di MENCHINI, Le Sezioni Unite sui rapporti tra
gli articoli 295, 297 e 337, 2º comma, c.p.c.: una decisione che non convince.
(2) Le Sezioni Unite, sull’art. 282 c.p.c., precisano che « il diritto pronunciato dal giudice
di primo grado, invero, qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato
originario di lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo
grado ». Sull’evoluzione interpretativa dell’art. 282 c.p.c. si veda CAPPONI, Orientamenti recenti
sull’art. 282 c.p.c., in www.judicium.it.
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2. Occorre procedere con ordine a fissare alcuni punti di riferimento.
Prima di tutto, com’è noto, l’art. 819-ter c.p.c., introdotto con la
riforma della disciplina dell’arbitrato avvenuta con D.Lgs. 40/2006,
esclude la litispendenza tra il processo giurisdizionale ed il processo
arbitrale sulla stessa causa: possono essere percorse entrambe le vie come
parallele, senza che la pendenza dell’una condizioni la proponibilità o la
prosecuzione dell’altra (3), poiché « la competenza degli arbitri non è
esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice ». Ciò significa
anche, in altra ottica, che gli arbitri hanno il potere di verificare la propria
potestas judicandi « anche se l’instaurazione del processo arbitrale sia stata
preceduta dalla proposizione della medesima lite davanti al giudice ordinario », così come quest’ultimo può verificare la propria competenza
« anche se il giudizio arbitrale sia stato previamente proposto » (4).
A corollario di questo principio nel Codice di rito sta la previsione
letterale per cui « nei rapporti tra arbitrato e processo non si applicano
regole corrispondenti agli articoli 44, 45, 48, 50 e 295 », da cui, tra l’altro,
risulta testualmente esclusa la translatio judicii, o altra forma di conservazione degli effetti della domanda giudiziale, tra arbitrato e giurisdizione
statale (sul punto è però intervenuta la Corte Costituzionale (5): v. sotto).
Ciò che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 819-ter, « in pendenza del
procedimento arbitrale » non si può proporre con domanda giudiziale
davanti al giudice statale è soltanto la questione sulla « invalidità o
inefficacia della convenzione d’arbitrato » in via principale. È questione
che, in deroga ai principi, è invece possibile rendere oggetto esclusivo di
processo, nonostante si tratti di mera questione carente della dimensione
oggettiva normalmente necessaria, se non è ancora iniziato l’arbitrato: se
(3) LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 773, in part. 788 ss.;
BOVE, Ancora sui rapporti tra arbitro e giudice statale, ivi, 2007, 357; MARINUCCI, Note sull’impugnazione del lodo arbitrale per contrarietà ad altra pronuncia, in Riv. dir. proc., 2007, 1177,
1180 ss.; RUFFINI, Art. 819-ter, in MENCHINI (a cura di), La nuova disciplina dell’arbitrato.
Commentario agli artt. 806-840 c.p.c. Aggiornato alla legge 18 giugno 2009, n. 69, Padova, 2010,
375.
(4) Così RUFFINI, op. cit., 376.
(5) Con sentenza 19 luglio 2013, n. 223, in Corr. Giur., 2013, 1107, con nota di CONSOLO,
Il rapporto arbitri-giudici ricondotto, e giustamente, a questione di competenza con piena
translatio fra giurisdizione pubblica e privata e viceversa. Precedentemente, in argomento,
FORNACIARI, Conservazione degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti fra giudice e
arbitro: sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 819 ter co. 2 c.p.c. (nota a Trib.
Catania, 21 giugno 2012, ord.), in questa Rivista, 2012, 894 ss.; ID., Ancora sulla conservazione
degli effetti dell’atto introduttivo anche nei rapporti fra giudice e arbitro: Cassazione vs. Corte
Costituzionale? (nota a Arb. Unico Gori, Genova, 13 novembre 2012, ed a Cass., 6 dicembre
2012, n. 22002, ord.), in www.judicium.it; BIANCHI L., Translatio iudicii tra giudice statuale ed
arbitri? (nota a Cass., 6 dicembre 2012, n. 22002, ord.), in www.judicium.it; BOCCAGNA, Translatio iudicii nei rapporti tra giudice e arbitro: sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 819
ter c.p.c., in Riv. dir. proc., 2013, 470; LUISO, Effetti sostanziali della domanda e conclusione del
processo con una pronuncia di rito, in ivi, 2013, 1, 10-11.
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ne ricava la conferma che in pendenza del procedimento arbitrale ogni
altra domanda giudiziale è liberamente proponibile davanti al giudice, in
coerenza con il 1º comma.
Da quanto precede deriva anche la regola per cui la domanda
proposta davanti al giudice statale non comporta rinuncia alla via arbitrale, da intraprendere o già intrapresa (6).
Il principio, detto delle “vie parallele”, pone un problema di coordinamento, inopportunamente non disciplinato dalla legge ma che può
ritenersi avvenire con le rispettive pronunce (7). Ed è proprio qui che
incide la sentenza in commento, affermando che l’indifferenza tra i
procedimenti cessa quando interviene una decisione, del tutto a prescindere dalla sua definitività.
3. Come si è appena accennato, il parallelismo delle vie, delineato
dal legislatore con l’art. 819-ter, 1º comma, è destinato a finire nel
momento in cui dall’una o dall’altra parte si giunge ad una decisione.
A tale proposito, una prima importante acquisizione che può ricavarsi
dalla sentenza in commento è che il Tribunale di Milano non dubita
affatto, anzi dà per scontato ed implicito che il lodo incide sul processo
giurisdizionale così come la sentenza del giudice statale incide sul giudizio
arbitrale.
In altri termini, come il lodo con il quale si afferma, anche solo
implicitamente, la potestas judicandi degli arbitri e si decide nel merito è
vincolante per il giudice, così la sentenza del giudice che dichiara o nega
la propria competenza, interpretando la convenzione d’arbitrato, ovvero
risolve la controversia nel merito, vincola il giudizio arbitrale, ciascuna
delle due pronunce inducendo la cessazione della possibilità della pendenza contestuale e parallela dei due procedimenti.
In particolare, secondo i giudici ambrosiani senza dubbio la pronuncia
con la quale gli arbitri, ex art. 817, 1º comma c.p.c., dichiarano la propria
(6) Non è più omologabile, perciò, l’affermazione di Cass., 5 dicembre 2003, n. 18643, in
Rep. Foro it., 2003, v. « Arbitrato », n. 111, per cui « nella proposizione della domanda diretta
al giudice ordinario, contenuta nella citazione introduttiva ovvero nella comparsa di risposta (e,
pertanto, proposta in via riconvenzionale), per la soluzione della stessa controversia compromessa in arbitri, è da ravvisarsi la volontà della parte di rinunciare alla proposizione dell’eccezione di compromesso, stante l’evidente incompatibilità tra una eventuale rinuncia all’azione
giudiziaria e la successiva proposizione di quest’ultima. In argomento si vedano anche: Trib.
Belluno, 26 ottobre 2005, in Giur. it., 2006, 1639, che ha negato che la domanda riconvenzionale
formulata dal convenuto contestualmente alla formulazione, in via principale, dell’eccezione di
compromesso, possa intendersi quale implicita rinuncia ad avvalersi della clausola compromissoria, essendo subordinata al mancato accoglimento dell’eccezione stessa; Cass., 30 maggio
2007, n. 12736, in Rep. Foro it., 2007, v. « Arbitrato », n. 132, che ha invece ritenuto che la
domanda riconvenzionale, proposta dopo aver formulato eccezione di arbitrato, denoti la
volontà del convenuto di rinuncia all’eccezione di compromesso.
(7) Si veda anche, in proposito, MARINUCCI, Note sull’impugnazione del lodo arbitrale per
contrarietà ad altra pronuncia, in Riv. dir. proc., 2007, 1177.
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competenza in forza della convenzione d’arbitrato è efficace ed incide sul
giudizio statale.
Si supera così ogni eventuale divergenza interpretativa rinvenibile in
dottrina in argomento.
Ebbene, la soluzione è senz’altro corretta quando si tratta di lodo di
merito che incide sul processo giurisdizionale pendente avente il medesimo oggetto.
Si tratta di un’influenza che opera sul piano del diritto sostanziale, nel
merito, e che si ricava da alcuni importanti indici normativi.
Innanzitutto il lodo è vincolante per le parti ed anzi produce gli effetti
della sentenza statale, ai sensi dell’art. 824-bis c.p.c.: il giudice deve
prendere atto ed adeguarsi a quanto è efficace e vincolante per le parti sul
piano sostanziale.
Poi, l’art. 829, 1º comma, n. 8), c.p.c. prevede come vizio di nullità del
lodo la sua contrarietà ad altro lodo o a sentenza precedente che abbia
deciso sul medesimo oggetto: è chiaro che questa norma presuppone la
reciproca influenza, efficacia e vincolatività tra le pronunce di merito
emesse, rispettivamente, in sede arbitrale o in sede giurisdizionale.
Controverso è invece il tema della vincolatività della pronuncia
arbitrale o giurisdizionale sulla “competenza”, id est sulla presenza (validità, efficacia, comprensività) o meno della convenzione d’arbitrato e sulla
conseguente esistenza della potestas judicandi degli arbitri.
Può essere, infatti, che nel processo giurisdizionale o in quello arbitrale sia eccepita la convenzione d’arbitrato ovvero la sua inesistenza,
invalidità, inefficacia che fonda o impedisce la percorrenza della via
arbitrale.
Se la questione si pone nell’arbitrato, com’è noto, gli arbitri sono
giudici della propria competenza ex art. 817, 1º comma c.p.c. (8). Pertanto,
può essere che il lodo declini la competenza arbitrale, cosicché l’arbitrato
si chiude in rito e viene instaurato e/o prosegue il processo giurisdizionale.
Se invece il lodo afferma la competenza degli arbitri e, conseguentemente,
decide nel merito, il giudice statale subisce il condizionamento che deriva
dalla statuizione di merito, come si è rilevato sopra. Ancora, se è emesso
un lodo non definitivo che afferma la competenza arbitrale, il giudizio
statale va avanti fino alla sentenza di merito, così come va avanti il
processo arbitrale: ed allora si torna al coordinamento sulla base delle
decisioni di merito.
Ora, sulla scorta della lettera delle disposizioni codicistiche il lodo di
rito, che afferma o nega la competenza arbitrale, non pare in grado di
vincolare il giudice statale.
(8) OCCHIPINTI, La cognizione degli arbitri sui presupposti dell’arbitrato, Torino, 2011, 112
ss.; LUISO, op. cit., 779; BOVE, op. cit., 364 ss.
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Infatti, dall’art. 819-ter, 2º comma è esclusa l’applicazione degli artt.
44, 45, 48 e 50 c.p.c. in tema di rapporti tra giudici in ordine alla
dichiarazione di competenza o incompetenza, per cui sono estranei la
translatio judicii o comunque la conservazione degli effetti della domanda,
nonché soprattutto il vincolo del giudice alla pronuncia degli arbitri sulla
propria competenza. Si dovrebbe valorizzare soprattutto l’esclusione dell’art. 44 c.p.c. che espressamente sancisce l’incontestabilità della decisione
di incompetenza e della indicazione del giudice competente: chiaramente
questa regola non si applica « nei rapporti tra arbitrato e processo ».
Si dovrebbe così negare un’efficacia del lodo di rito sul processo
giurisdizionale.
In tale direzione condurrebbe anche la considerazione che senz’altro
vincolante è la sentenza emessa sulla questione di interpretazione, validità, efficacia della convenzione d’arbitrato, che sia stata resa autonomo
ed esclusivo oggetto del processo come consentito dall’art. 819-ter, ultimo
comma, cit. (9): non avrebbe alcun senso aver previsto, in deroga ai
principi, la possibilità di un giudizio ad oggetto limitato, su una mera
questione, se poi la decisione non fosse vincolante per i successivi giudici,
statale o privato, investiti della controversia di merito.
Ma proprio per questo sarebbe da escludersi una vincolatività della
pronuncia di rito emessa in un processo che abbia ad oggetto la situazione
sostanziale controversa e che, magari con decisione non definitiva, abbia
risolto il profilo della esistenza o meno della convenzione d’arbitrato (10).
Peraltro, in materia è intervenuta la Corte Costituzionale, con sentenza 29 luglio 2013, n. 223 (11), che ha dichiarato incostituzionale l’art.
819-ter c.p.c. nella parte in cui esclude l’applicabilità ai rapporti tra
arbitrato e giurisdizione di regole corrispondenti a quelle di cui all’art. 50.
La conservazione degli effetti sostanziali della domanda presuppone
che il giudice (privato o giurisdizionale) ad quem sia in qualche modo
(9) Con grande chiarezza BOVE, op. cit., 361-362, soprattutto 374; v. anche LUISO,
Rapporti, cit., 776-777.
(10) Si deve dare atto, per completezza, della previsione, contenuta nello stesso art.
819-ter c.p.c., della possibilità di impugnare la pronuncia del giudice statale sulla esistenza,
validità ed efficacia della convenzione d’arbitrato con il regolamento di competenza ai sensi
degli artt. 42 e 43 c.p.c. (essendo così escluso che lo stesso mezzo sia utilizzabile avverso il lodo
che pronuncia sulla medesima questione).
(11) In Corr. Giur., 2013, 1107, con nota di CONSOLO, Il rapporto arbitri-giudici ricondotto,
e giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata
e viceversa. Occorre dare atto anche di Cass., 6 dicembre 2012, n. 22002, ord., in www.judicium.it, che ha affermato la conservazione degli effetti della domanda giudiziale nel passaggio dal
processo statale agli arbitri a seguito di dichiarazione di incompetenza da parte del giudice: la
Suprema Corte pare presupporre che la decisione con la quale il giudice statale si dichiara
incompetente, indicando competenti gli arbitri, vincola questi ultimi, presso i quali il processo
sia instaurato; la stessa conclusione cui perviene la Cassazione non vale nel rapporto inverso, tra
arbitro (che declina la propria potestas judicandi) e giudice statale (indicato competente nel
lodo). La Corte Costituzionale confuta espressamente questa opinione della Suprema Corte di
legittimità. Si leggano altresì in proposito i commenti critici di Fornaciari e Bianchi citati sopra.
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vincolato a quanto deciso dal giudice (privato o giurisdizionale) a quo in
punto di rito, id est di competenza, sulla esistenza e ampiezza della
convenzione arbitrale. E si deve ritenere che non possa puramente e
semplicemente dissentire, dichiarandosi a sua volta incompetente e generando così una situazione di conflitto negativo in cui nessuno si ritiene
munito di potestas judicandi sulla controversia: in attesa che il legislatore
intervenga a disciplinare le modalità di trasferimento del processo dalla
sede arbitrale a quella giurisdizionale o viceversa, si può far riferimento
alla disciplina della translatio judicii tra giudice ordinario civile e giudice
speciale ai sensi dell’art. 59 della legge 69/2009, dove si prevede, sia pure
senza la necessaria chiarezza, che nel processo riassunto le parti sono
vincolate all’indicazione dell’organo competente (12).
Naturalmente ciò avviene nel caso in cui il processo sia in qualche
modo riassunto presso il giudice indicato come competente, altrimenti, in
mancanza di impulso processuale di parte, non può evitarsi l’estinzione. In
un’eventualità del genere la sentenza di rito non crea alcun vincolo, come
del resto, nell’ambito del processo giurisdizionale in generale, è da escludere un’efficacia della sentenza di rito, che non sia della Corte di Cassazione su competenza o giurisdizione, in successivi giudizi sul medesimo
oggetto; ed anche la disciplina della translatio tra giudice ordinario e
giudice speciale prevede che sia soltanto la « pronuncia sulla giurisdizione
resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione » ad essere « vincolante
per ogni giudice e per le parti anche in altro processo » (art. 59, 1º comma,
secondo periodo, l. 69/2009).
Ma a prescindere da queste considerazioni, la sentenza della Corte
Costituzionale induce a trarre delle conseguenze in ordine alla disciplina
dei rapporti tra arbitrato e giurisdizione a proposito del coordinamento
delle vie parallele.
Come si è rilevato, esso avviene a livello di pronunce di merito,
emesse nelle rispettive sedi, ma, sulla scorta di quanto deciso dal giudice
delle leggi, può determinarsi anche in forza di una decisione (lodo o
ordinanza) sulla competenza (sulla validità ed efficacia della convenzione
d’arbitrato), da cui consegue il trasferimento del processo (art. 50: « continua ») da una sede all’altra (13).
(12) Si noti che, nella disciplina dell’art. 59 cit., se il giudice ad quem dissente può
sollevare d’ufficio la questione davanti alla Corte di Cassazione (3º comma). Ora, questa
previsione può anche essere ritenuta applicabile al caso che qui si affronta, ma sarebbe
comunque unilaterale: non potrebbe essere l’arbitro a sollevare la questione davanti alla Corte
di Cassazione, in quanto giudice privato, in coerenza anche con la (discutibile) mancata
possibilità di impugnare il lodo con regolamento di competenza, così come invece è impugnabile
la sentenza del giudice statale che afferma o nega la propria potestas iudicandi in ordine ad una
convenzione d’arbitrato (art. 819-ter, 1º comma, c.p.c.).
(13) Mentre il diritto positivo ed i principi, prima della sentenza del giudice delle leggi,
avrebbero condotto ad escludere che il coordinamento potesse realizzarsi mediante la decisione
di incompetenza pronunciata in una sede e fatta valere nell’altra. Così BOVE, op. cit., 358, per il
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La sentenza in commento del Tribunale di Milano, precedente al
pronunciamento della Corte Costituzionale, si spinge comunque più
avanti: il sistema prevede che la competenza dell’uno o dell’altro giudice
(statale o privato) non è esclusa dalla pendenza della causa e della
questione relativa al potere decisorio nell’una e nell’altra sede; ma quando
arriva, da una parte, una decisione purchessia, sia essa di rito o di merito,
questa fa cessare il parallelismo e condiziona l’altro giudizio (14).
4. Ecco allora il punto: occorre attendere la definitività, conseguente
al decorso del termine per l’impugnazione ex art. 828 c.p.c., oppure il lodo
opera subito, al momento della sua pronuncia, condizionando il processo
giurisdizionale?
Come si è accennato, il provvedimento che si commenta prende in
proposito una posizione chiara ed esplicita: recepisce, dalle Sezioni Unite,
il (ritenuto) principio per cui in forza dell’art. 282 c.p.c. la sentenza è
efficace, oltre che esecutiva, fin dal suo deposito ed a prescindere dal
passaggio in giudicato, poiché rispetto all’inizio del processo determina
comunque un nuovo assetto di interessi.
Applica quindi questa regola al lodo: anch’esso soggiace all’applicazione dell’art. 282 per cui nel momento in cui è emesso è subito efficace
senza doversi attendere il decorso del termine per l’impugnazione (o
l’esito di quest’ultima, se proposta).
Ne consegue, in via decisiva, che in funzione della “cessazione di
operatività” delle vie parallele e del coordinamento tra i giudizi, non
occorre attendere la definitività, acquisita con il decorso del termine per
l’impugnazione, del lodo arbitrale, che incide sul processo giurisdizionale
anche se ancora impugnabile o concretamente impugnato (15).
quale il coordinamento si realizza attraverso l’efficacia « della pronuncia di merito assunta in
una via e spesa nell’altra » (v. anche 363, 376).
(14) La tesi estensiva cui pare implicitamente aderire il Tribunale milanese è stata
autorevolmente sostenuta, all’indomani della riforma del 2006, da LUISO, Rapporti, cit., 783-784.
(15) In dottrina si rinviene un accenno al tema in oggetto in LUISO, op. ult. cit., 791, il
quale, in funzione dell’operatività del sistema delle vie parallele, qualifica come « ovviamente
definitiva » la decisione che è emessa in una sede e deve poter essere spese nell’altra; poco
prima, lo stesso autorevole Autore osserva che il quadro dei rapporti tra arbitro e giudice
« andrebbe completato con il coordinamento degli effetti delle rispettive pronunce di merito,
passate in giudicato » (775; corsivo mio). Anche BOVE, op. cit., 372, affronta la questione del
coordinamento « presupponendo che dette pronunce diventino definitive ». Si aggiunga OCCHIPINTI, Il procedimento arbitrale, in CECCHELLA (a cura di), Diritto processuale civile. Il processo
civile dopo venti anni di riforme (1990-2010), Milano, 2010, per riferimenti alla dottrina
anteriore alla Riforma del 2006. Più in generale si discute sul momento di produzione
dell’efficacia di accertamento del lodo: lo stesso LUISO, Diritto processuale civile. La risoluzione
non giurisdizionale delle controversie, Milano, 2013, 211, nel commentare l’art. 830, 4º comma,
c.p.c., afferma che « l’unico effetto del lodo che può essere sospeso è quello esecutivo: gli effetti
dichiarativi del lodo non si producono finché esso non diviene definitivo ». D’ALESSANDRO E.,
Art. 824-bis - Efficacia del lodo, in BRIGUGLIO-CAPPONI (a cura di), Commentario alle riforme del
processo civile, III, 2, Padova, 2009, 968 ss.; per una diversa opinione BOCCAGNA, Art. 824-bis, in
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Questa opinione non convince.
È infatti senz’altro discutibile l’interpretazione, fatta propria dai
giudici milanesi, fornita dalla Cassazione sull’art. 282 c.p.c. Tralasciando in
questa sede ogni approfondimento, è chiaro che l’art. 282 è dedicato
soltanto alla possibilità di utilizzare come titolo esecutivo la sentenza,
quando ancora non vi è certezza sulle regole di condotta per mancanza di
giudicato: un accertamento provvisorio è di per sé una contraddizione in
termini, mentre è ben possibile, per ragioni di politica legislativa, conferire
esecutività ad un atto a prescindere dalla sua idoneità a recare un
accertamento delle situazioni sostanziali coinvolte (16).
Soprattutto, si può osservare che la disciplina dell’arbitrato contiene
regole sue proprie sul momento di produzione dell’efficacia vincolante del
lodo e sulla sua esecutività, incompatibili con l’applicazione dell’art. 282
c.p.c.: il lodo, ai sensi dell’art. 824-bis c.p.c., produce gli effetti della
sentenza fin dalla data della sua ultima sottoscrizione; diventa esecutivo
soltanto se una delle parti prende l’iniziativa di depositarlo in Tribunale
per l’omologazione, o exequatur, ai sensi dell’art. 825, mentre chiaramente
l’art. 282, rubricato « esecuzione provvisoria », sancisce che la sentenza è
appunto « provvisoriamente esecutiva tra le parti ».
Così, più in generale, il lodo è dotato di vincolatività inter partes fin da
subito, mentre l’esecutività giungerà soltanto con il deposito del lodo per
l’omologazione, ai sensi dell’art 825 c.p.c.: è chiaro dunque che la prima
efficacia è quella di accertamento, di fissazione vincolante delle regole di
condotta per le parti, poiché l’efficacia esecutiva è eventuale, non originaria e conseguibile solo con l’exequatur del Tribunale.
Risulta dunque espressamente sancita una regola opposta rispetto a
quella della sentenza: immediata efficacia vincolante (dalla data della
ultima sottoscrizione) ed eventuale successiva esecutività (dal momento
del decreto di omologazione).
Il sistema, con la previsione dell’immediata vincolatività del lodo a
prescindere dal termine per l’impugnazione, è del resto coerente con le
caratteristiche dell’impugnazione del lodo per nullità, nel confronto con
l’impugnabilità della sentenza.
Infatti, la sentenza può essere impugnata per vizi di invalidità (errores
BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BRONZOLO (a cura di), Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale e internazionale, Padova, 2010, 306-307, che conferma la propria tesi già
espressa in BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005, I, 364 ss. L’interpretazione che in proposito si propone subito sotto nel testo, simile a quella di quest’ultimo Autore,
spiegherebbe anche il mutamento di dizione avvenuto nel testo dell’art. 830, 4º comma, per cui
in sede di impugnazione per nullità si può sospendere la « efficacia » del lodo e non (soltanto)
la sua « esecutività ».
(16) Sul punto, in via decisiva, si leggano le chiarissime pagine di LUISO, Diritto processuale civile. Il processo esecutivo, Milano, 2013, 27 ss.; si veda anche PROTO PISANI, Lezioni di
diritto processuale civille, IV Ed., Napoli, 2002, 709.
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in procedendo) ma anche per ingiustizia, in termini di violazione della
ricostruzione della situazione sostanziale o dell’applicazione delle norme
di diritto (errores in judicando de facto oppure de jure); il lodo invece di
regola non può essere contestato quanto alla sua ingiustizia (a meno che
le parti non abbiano espressamente previsto l’impugnabilità per violazione
di norme di diritto: art. 829, 3º comma c.p.c.), bensì soltanto per la sua
invalidità, deducendo uno dei vizi elencati nell’art. 829, 1º comma c.p.c.
In altri termini: il lodo nasce vincolante, ma può essere reso nullo se
impugnato per vizi di invalidità e procedura; invece la sentenza è titolo
esecutivo fin dal suo deposito, sia pure in mancanza dell’efficacia vincolante che acquisirà soltanto con il passaggio in giudicato.
Pertanto, per affermare l’efficacia del lodo fin dalla sua pronuncia
(con l’ultima sottoscrizione) non ci sarebbe stato alcun bisogno di “scomodare” l’art. 282 c.p.c. nella discutibile opinione fornita dalle Sezioni
Unite.
Ne consegue che la pronuncia del Tribunale di Milano è condivisibile
nell’esito cui perviene: l’indifferenza tra le vie parallele cessa quando
giunge il lodo arbitrale di merito, sia pur non definitivo; dalla data
dell’ultima sottoscrizione del lodo le parti sono vincolate a quanto gli
arbitri hanno statuito ed il giudice statale non può che prendere atto di
questo vincolo e farlo proprio.
Di tale soluzione deve però essere “corretta” la motivazione, bastando appunto la previsione dell’art. 824-bis c.p.c. per cui il lodo produce
gli effetti della sentenza fin dalla sua ultima sottoscrizione, senza doversi
ricorrere all’art. 282 citato.
5. Posto che il lodo (che afferma il potere arbitrale e decide nel
merito) è destinato ad essere vincolante per il giudice nel processo
giurisdizionale in cui sia stata eccepita la convenzione d’arbitrato, occorre
chiedersi che cosa possa o debba fare il giudice statale.
Come si è anticipato, quest’ultimo deve prendere atto di quanto
l’arbitro ha deciso nel risolvere la controversia in merito. È vincolo tra le
parti che opera sul piano sostanziale: il giudice statale deve tenerne conto
come tiene conto di un contratto inter partes, conformando il contenuto di
merito della propria sentenza a ciò che hanno affermato gli arbitri.
A questo punto, sul presupposto dell’efficacia del lodo sul processo
giurisdizionale, entra in gioco l’eventuale applicabilità dell’art. 337 c.p.c.,
nel caso in cui il lodo sia impugnato per nullità ex art. 829 c.p.c.
Poiché il lodo ha effetto sul processo giurisdizionale, fin dalla sua
pronuncia, ed incide su di esso condizionando il contenuto della decisione
da assumere, risulta percorribile la via dell’attribuzione al giudice della
facoltà di attendere la definitività del lodo medesimo, e quindi sospendere
in attesa della decisione della Corte d’appello sull’impugnazione per
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nullità del lodo eventualmente proposta. Può ritenersi dunque applicabile
l’art. 337, 2º comma, che consente la sospensione facoltativa e discrezionale del processo giurisdizionale quando è impugnata una decisione della
quale è invocata la autorità (17).
Se però si ritiene che questa strada non sia praticabile (18), oppure se
concretamente non è disposta dal giudice la sospensione in attesa della
pronuncia sull’impugnazione del lodo, si potrebbe trovare una soluzione
guardando alla disciplina generale delle impugnazioni.
Se il giudice statale si adegua al dictum degli arbitri, ed in particolare
prende atto dell’affermazione della propria competenza da parte degli
arbitri stessi che hanno deciso nel merito, e poi il lodo è dichiarato nullo
dalla Corte d’appello, si può applicare l’art. 336, 2º comma c.p.c.: la
sentenza della Corte d’appello che dichiara la nullità del lodo espande i
suoi effetti al provvedimento giurisdizionale che si era basato sul lodo reso
nullo.
Questa interpretazione è consentita dalla considerazione che, in effetti, il giudice ha fondato la propria decisione sul lodo, per cui se questo,
come provvedimento su questione pregiudiziale, è rimosso, è destinata a
venire meno anche la decisione “dipendente” emessa a chiusura del
processo giurisdizionale.
Se così fosse, però, la conseguenza sarebbe drammatica: la Corte
d’Appello dichiara nullo il lodo perché non esisteva la “competenza”
arbitrale; si introduce il processo davanti al giudice statale, ma, non
trattandosi di riassunzione, si perdono tutti gli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda, con il rischio di decadenze e prescrizioni.
Ecco che proprio su questo è destinata ad incidere la sentenza della
Corte Costituzionale nel consentire la translatio: il processo davanti al
giudice statale, già chiuso in forza del lodo arbitrale affermativo della
potestas iudicandi privata, può essere ora effettivamente riassunto con
salvezza della originaria litispendenza e degli effetti sostanziali della
domanda proposta davanti agli arbitri, in continuità.
DAVIDE AMADEI
(17) In dottrina: RICCI G.F., Art. 819-ter, in CARPI (a cura di), Arbitrato. Commentario, II
ed., Bologna, 2008, 512-513. Pare contrario BOVE, op. cit., 360-361. RUFFINI, op. cit., 376, afferma
la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. della causa di merito proposta dinnanzi al giudice
dello Stato in attesa dell’esito dell’impugnazione per nullità del lodo sulla questione della
decidibilità della causa da parte degli arbitri. Questa opinione non convince, poiché si fonda
sulla discriminazione, in funzione dell’applicabilità o meno dell’art. 295 c.p.c., tra effetti del lodo
e natura giurisdizionale del processo di impugnazione per nullità.
(18) Seguendo l’opinione autorevole di chi limita l’applicazione dell’art. 337, 2º comma al
caso dell’impugnazione straordinaria della sentenza sul rapporto condizionante: v. MENCHINI, Le
Sezioni Unite, cit., 694, ed ivi ulteriori citazioni.
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I) ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Zimatore Pres., Carbone, Gabrielli), nella controversia
tra Tizio e la Banca; lodo reso in Roma il 22 novembre 2011.
Arbitrato irrituale - Contemporanea pendenza della stessa causa davanti a collegio
arbitrale e ad autorità giudiziaria in sede di impugnazione del lodo precedentemente pronunciato - Litispendenza - Carenza di potestas iudicandi.
Nel caso in cui la medesima questione controversa tra le stesse parti già decisa
con lodo irrituale sia deferita ad un nuovo collegio arbitrale mentre è ancora
pendente il giudizio di impugnazione del detto lodo dinanzi all’autorità giudiziaria
— e dunque vi sia contemporanea pendenza di una identica causa dinanzi all’autorità giudiziaria adita in sede di impugnazione del primo lodo irrituale e dinanzi ad
un secondo collegio arbitrale, successivamente adito — il collegio arbitrale successivamente adito è tenuto a dichiarare la carenza della propria potestas iudicandi.
CENNI DI FATTO. — Il lodo in epigrafe deriva da una controversia insorta tra
Tizio e una Banca. In virtù di un accordo preliminare, la Banca si impegna nei
confronti di Tizio: a conferire taluni incarichi di agenzia e a rendere lo stesso
partecipe del cd. programma ‘Soci Fondatori’, che prevede la costituzione di una
SIM compartecipata da banca della rete e da un gruppo ristretto di manager. In
seguito, la Banca omette di redigere il rendiconto della SIM e preclude ai soci
fondatori di esercitare il diritto d’opzione put. Tizio, quindi, promuove una
procedura arbitrale nei confronti della Banca, assumendone la responsabilità per
aver impedito l’acquisto della partecipazione della costituenda SIM e l’esercizio
della facoltà put, prevista dagli accordi inter partes. Il Collegio Arbitrale adito
accerta la natura negoziale e vincolante degli accordi intercorsi fra le parti, ma
respinge la domanda di Tizio, ritenendo che la Banca non ha violato l’obbligo di
costituzione della SIM (per cui non era previsto un termine finale). Tizio impugna
il lodo dinanzi all’autorità giudiziaria competente e al contempo promuove altro
procedimento arbitrale, proponendo le medesime domande.
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MOTIVI
DELLA DECISIONE.
— 1.
La clausola compromissoria.
1.1. Il dott. Tizio ha promosso questo giudizio arbitrale in forza delle
clausole compromissorie contenute nel punto 8 dell’Accordo Primario del 13
giugno 2002 e nel punto 6 dell’Accordo Secondario del 13 giugno 2002.
Tali due distinti ‘Accordi’, stipulati in pari data, contengono una identica
clausola compromissoria(...). L’esame testuale della clausola compromissoria consente, inequivocamente, di qualificare questo arbitrato come un arbitrato irrituale
nel quale la determinazione del Collegio deve essere assunta secondo diritto. (...)
2.
Sull’eccezione di inammissibilità dei quesiti formulati dal dott. Tizio.
2.1. In via preliminare, la Banca ha eccepito l’inammissibilità dei quesiti
formulati dal dott. Tizio nella seconda memoria del 20 gennaio 2012, rilevando che
essi sarebbero tardivi. Si tratterebbe, ad avviso della Banca, di quesiti nuovi, del
tutto difformi da quelli proposti con la prima memoria difensiva dell’attore; e
risulterebbero perciò inammissibili in quanto la formulazione dei quesiti —
secondo la Banca — avrebbe dovuto essere compiuta necessariamente ed esclusivamente nella prima memoria.
Ad avviso del Collegio, questa eccezione di inammissibilità non può essere
condivisa.
Come è noto, nel giudizio arbitrale non trovano applicazione le preclusioni di
cui all’art. 183 c.p.c., con la conseguenza che le parti nel corso del procedimento
possono integrare, modificare ed ampliare le domande iniziali purché sia salvaguardato il principio del contraddittorio. (...)
Nel caso di specie, il contraddittorio è stato puntualmente garantito ed
assicurato: ai quesiti formulati dal dott. Tizio nella sua seconda memoria del
20.1.2012 la Banca ha avuto la possibilità di replicare (ed ha puntualmente
replicato) con la terza memoria (datata 30.1.2012). Successivamente a questo
scambio di memorie si è svolta l’udienza di trattazione, nella quale le parti hanno
avuto modo di rispondere alle avverse posizioni difensive; e dopo tale udienza le
parti hanno ancora avuto la possibilità di depositare altri due scritti difensivi. Ne
consegue che il contraddittorio è stato ampiamente garantito anche rispetto ai
quesiti proposti dal dott. Tizio con la memoria del 20.1.2012. (...)
Nel caso di specie, poi, la clausola compromissoria pattuita tra le parti e in
forza della quale si svolge questo giudizio stabilisce che “gli arbitri formeranno la
loro determinazione secondo diritto in via irrituale senza formalità di procedura, ma
nel rispetto del principio del contraddittorio”. Le parti, quindi, hanno espressamente esonerato gli Arbitri dall’osservanza delle norme del codice di rito o da
particolari formalità procedurali, dimostrando così la volontà che il procedimento
arbitrale volto alla definizione di eventuali controversie si svolgesse senza alcuna
rigida preclusione formale, salva la garanzia del contraddittorio.
Ne consegue che l’eccezione di inammissibilità qui esaminata deve essere
rigettata.
3.
Le eccezioni preliminari formulate dalla Banca (rispetto alla sua ipotizzata
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responsabilità contrattuale). Sull’asserito difetto di potestas iudicandi di questo
Collegio arbitrale.
3.1. Sempre in via preliminare la Banca ha eccepito: i) la carenza di potestas
iudicandi del Collegio arbitrale, in quanto questa controversia non rientrerebbe
tra quelle ricomprese nelle clausole compromissorie contenute negli artt. 8 dell’Accordo Primario e 6 dell’Accordo Secondario del 13 giugno 2002; ii) l’inammissibilità delle domande del dott. Tizio per violazione del principio del ne bis in
idem.
A sostegno dell’eccezione di cui al precedente punto ii) la Banca ha ricordato
il contenuto e gli esiti del giudizio promosso dal dott. Tizio contro la stessa Banca
dinanzi al Giudice del Lavoro di Reggio Calabria, segnalando che esso si era
concluso con il rigetto delle domande dell’attore e che il successivo appello
proposto da quest’ultimo era stato rigettato dalla Corte di Appello di Reggio
Calabria, con condanna dell’appellante alle spese del giudizio; nonché il contenuto
e gli esiti del procedimento arbitrale promosso sempre dal dott. Tizio contro la
Banca, deciso in senso sfavorevole all’attore con il richiamato lodo del 4 novembre
2009, rilevando che tale lodo era stato impugnato, ancora dal dott. Tizio, e che il
giudizio di impugnazione risulta tuttora pendente dinanzi alla Corte d’Appello di
Milano.
3.2. Per decidere queste eccezioni preliminari della Banca occorre muovere
dal confronto tra le domande formulate in questo procedimento arbitrale e quelle
proposte nei due precedenti giudizi (quello dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria e quello dinanzi al precedente Collegio arbitrale che ha pronunciato il lodo
del 4 novembre 2009). Agevole notare che in entrambi questi due precedenti
giudizi il dott. Tizio ha dedotto un inadempimento della Banca ed ha domandato
il risarcimento del danno conseguente. (...)
Più pertinente, pertanto, risulta il confronto tra le domande proposte dal dott.
Tizio in questa sede e quelle formulate dinanzi al precedente Collegio arbitrale che
ha pronunciato il lodo del 4 novembre 2009.
Nel precedente giudizio arbitrale il dott. Tizio ha lamentato l’inadempimento,
da parte della Banca, agli obblighi assunti con l’Accordo Primario e l’Accordo
Secondario del 13 giugno 2002.
Dinanzi al precedente Collegio il dott. Tizio ha allegato (in sintesi):
— l’inadempimento della Banca all’obbligo di costituire una SIM e di cedere
ad alcuni soci, tra cui Tizio, il 22,5% del capitale sociale quale corrispettivo per
l’opera di sviluppo del portafoglio clienti della Banca da essi svolta;
— il conseguente inadempimento della Banca all’obbligo di consentire allo
stesso Tizio l’esercizio dell’opzione put.
Su queste premesse, l’attore ha quindi domandato il risarcimento del danno,
quantificato in euro 701.951,78.
Nella prospettiva del ricorrente, la domanda risarcitoria si fonda sull’asserito
inadempimento, da parte della Banca, degli obblighi derivanti dagli Accordi
(cc.dd. Primario e Secondario) del 13 giugno 2002.
Il tema dell’inadempimento e quello del risarcimento del danno conseguente
hanno formato oggetto del precedente procedimento arbitrale. Ed il Collegio — in
quella sede — dopo avere accertato la natura immediatamente vincolante degli
accordi stipulati inter partes, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno
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proposta dal dott. Tizio, escludendo espressamente la sussistenza di un inadempimento della Banca.
Illuminante la lettura del dispositivo del lodo del 4 novembre 2009, laddove
il Collegio — “accertata la validità del contratto concluso tra il Sig. Tizio e Banca
Caia in data 13 giugno 2002, ritenuta non inadempiuta, da parte di Banca Caia,
l’obbligazione di costituire una SIM; escluso, comunque, che la condotta omissiva
di Banca Caia abbia provocato alcun danno in capo all’attore” — ha rigettato “la
domanda di risarcimento del danno formulata dal Signor Tizio” e dichiarato
“assorbita ogni altra domanda” (v. dispositivo del lodo del 4 novembre 2009,
depositato dal ricorrente sub doc. 10).
I temi dell’inadempimento e del risarcimento del danno rientravano appieno
nel thema decidendum e sono stati convenientemente esaminati nella motivazione
del lodo del 4 novembre 2009, (...)
Anche in questa sede il dott. Tizio ha allegato l’inadempimento della Banca
agli Accordi (cc.dd. Primario e Secondario) del 13 giugno 2002 e, anche in questa
sede, ha domandato il risarcimento del danno, quantificato anche qui in euro
701.951,78.
In questa (attuale) prospettazione l’inadempimento dei detti Accordi risiederebbe in ciò: che la Banca “con la novazione del 13 maggio 2003 ha cagionato
l’estinzione dell’obbligazione versata negli accordi intercorsi con il dott. Tizio,
l’adempimento dei quali .... è divenuto oggettivamente impossibile ..”.
Sia pure da un diverso angolo visuale, le condotte della Banca censurate in
questa sede dal dott. Tizio sono le stesse condotte già censurate nel precedente
giudizio arbitrale (mancata costituzione della SIM, che qui viene configurata come
obbligazione resa oggettivamente impossibile dalla stessa Banca; mancato coinvolgimento del dott. Tizio nei nuovi accordi del 13 maggio 2003). E su questi
asseriti inadempimenti si fonda la domanda risarcitoria.
Ciò posto il Collegio ritiene che, nella prospettiva ora esaminata, sussista una
parziale identità delle domande proposte in queste sede con quelle già esaminate
e decise con il lodo del 4 novembre 2009.
L’identità (parziale) delle domande si coglie con chiarezza esaminando non
solo i fatti enunciati dal dott. Tizio ed il contenuto del quesito da questi proposto
(in via principale nella seconda memoria del 18 gennaio 2012), quanto guardando
alla situazione complessiva dedotta in giudizio dall’istante.
Come è noto, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, l’interpretazione
della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali
utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta
in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’Autorità
giudiziaria (v. Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2007, n. 3041).
In questa prospettiva sostanziale e concreta l’identità (parziale) delle domande proposte dal dott. Tizio, in questa sede e dinanzi al precedente Collegio
arbitrale, con riguardo alla asserita responsabilità contrattuale della Banca risalta
con ancora maggiore chiarezza. Identico l’asserito inadempimento; identica e
fondata sui medesimi presupposti la conseguente domanda risarcitoria.
Depone nel senso della identità delle domande anche la coincidente quantificazione del danno, la quale lascia presumere che, anche in questa sede, il
ricorrente lamenti gli stessi inadempimenti, sembrando inverosimile che una
condotta asseritamente diversa possa provocare esattamente lo stesso danno.
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3.3. Accertata la parziale identità — sotto il profilo del petitum e della causa
petendi — delle domande proposte dal dott. Tizio in questa sede e dinanzi al
precedente Collegio arbitrale (e riservato l’esame delle ulteriori domande proposte dal dott. Tizio) occorre ora stabilire quali ne siano le conseguenze sul piano
processuale; e, in particolare, occorre chiedersi se la decisione già assunta con il
lodo del 4 novembre 2009, impugnato dal dott. Tizio dinanzi alla Corte d’Appello
di Milano, precluda la possibilità di una nuova decisione. (...)
3.4. Ad un primo sguardo, il caso in esame sembrerebbe configurare una
ipotesi di litispendenza: la stessa causa (almeno parzialmente) è stata proposta e
ora pende dinanzi a giudici diversi.
L’ipotesi della litispendenza incontra però una difficoltà ricostruttiva.
Stando all’orientamento assunto di recente dalla Corte di Cassazione, non è
ravvisabile litispendenza ove due cause, seppur identiche, pendano in gradi diversi
di giudizio (cfr. Cass. 20 giugno 2007, n. 14332, in Riv. Dir. Proc., 2008, p. 569).
Secondo questa giurisprudenza, ai fini della sussistenza della litispendenza non è
sufficiente che le due cause abbiano la stessa causa petendi e lo stesso petitum, ma
è necessario altresì che esse pendano nello stesso grado di giudizio (mentre, come
rilevato, nel caso in esame le cause pendono in gradi diversi).
In verità, questa posizione della Cassazione non è condivisa da tutta la
giurisprudenza di merito ed è criticata da autorevole dottrina.
In molte pronunce, i giudici di merito si sono discostati dai principi espressi
dal giudice di legittimità. Secondo il Tribunale di Bari (sez. I, 4 maggio 2009, n.
1423), ad esempio, “ai fini della sussistenza della litispendenza, è da ritenersi
irrilevante che le due identiche cause pendano in gradi diversi, finché non si sia
formato il giudicato sulla sentenza che, definendo uno dei due procedimenti,
trasformi l’eccezione di litispendenza in exceptio rei iudicatae”. Nello stesso senso
si è espressa la Corte di Appello di Napoli (Sez. II, 16 giugno 2005), la quale ha
precisato che “secondo la Corte deve provvedersi nella specie alla declaratoria di
litispendenza con sentenza ed alla cancellazione della causa dal ruolo con separata
ordinanza, non potendo condividersi, in sintonia peraltro con le posizioni assunte al
riguardo dalla prevalente dottrina, l’orientamento più recente della Cassazione,
secondo il quale non sussiste litispendenza fra due cause fra le stesse parti, quando
esse pendano (come nel caso in esame) in gradi diversi, ...”.
Il Collegio condivide l’orientamento dei Giudici di merito e della dottrina,
reputando che il fondamento della litispendenza risieda nel principio di ordine
pubblico processuale, assolutamente inderogabile, della inammissibilità di una
duplicità di azioni giudiziarie in relazione allo stesso diritto soggettivo, con
conseguente pericolo di contraddittorietà di giudicati. L’art. 39, comma 1º, c.p.c.
vuole evitare il rischio di contrasto tra diverse decisioni sulla medesima controversia; e dinanzi a questo rischio non vi è alcuna ragione di distinguere secondo che
i processi pendano nello stesso grado di giudizio o in gradi diversi. (...)
D’altra parte — osserva ancora il Collegio — l’art. 39 c.p.c. stabilisce
espressamente che la declaratoria della litispendenza può essere emessa: “se una
stessa causa è proposta davanti a giudici diversi”, non richiedendo altresì la identità
del grado di giudizio; e stabilisce peraltro che la dichiarazione di litispendenza
possa avvenire “in qualunque stato e grado del processo” (sul punto cfr. Cass. Civ.,
sez. lav., 8 febbraio 1983, n. 1056).
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La mera pendenza del processo impone quindi al secondo giudice di dichiarare la litispendenza, “perché l’ordinamento non vuole e non tollera che per “la
stessa causa” possa sussistere una duplicità di giudizi”, indipendentemente dalla
fase in cui essi si trovino (in questo senso v. Colesanti, in Riv. Dir. Proc., 2004, p.
365 ss.).
3.5. Queste considerazioni di carattere generale sull’istituto della litispendenza devono però misurarsi con il fatto che, nel caso in esame, le identiche
domande formulate dal dott. Tizio sono state successivamente proposte dinanzi ad
un Collegio arbitrale e non dinanzi ad un giudice ordinario.
La disciplina dell’arbitrato rituale di cui agli artt. 806 ss. c.p.c. non esclude, né
richiama l’art. 39 c.p.c. sulla litispendenza. Si dubita, dunque, in dottrina come in
giurisprudenza, della possibilità che un collegio arbitrale dichiari la litispendenza
ove una causa identica sia già stata avviata dinanzi ad altro organo arbitrale (che,
nel caso in esame, ha già provveduto alla pronuncia del lodo, poi impugnato
dinanzi alla Corte di Appello di Milano).
Ciò premesso, fermi i principi sopra richiamati in ordine alla inammissibilità
della pendenza di due cause identiche dinanzi a giudici diversi, nel caso in esame
sembra preferibile ragionare non già in termini di litispendenza, bensì di consumazione del potere di ius dicere degli arbitri (cfr. Punzi, Disegno sistematico
dell’arbitrato, Padova, 2000, p. 274 ss.; Bernini, L’arbitrato. Diritto interno e
convenzioni internazionali, Bologna, 1993, p. 375).
Con la notifica alla controparte dell’atto di accesso all’arbitrato, contenente la
manifestazione della volontà di adire gli arbitri e deferire loro la risoluzione della
controversia, e l’eventuale nomina dell’arbitro di parte, si è consumato il potere
della parte di adire gli arbitri.
Le parti, avendolo già esercitato, hanno esaurito il loro potere di deferire la
risoluzione della controversia ad un organo arbitrale e conseguentemente — su
quella identica domanda — l’organo arbitrale ha esaurito il proprio potere di
decidere la controversia. (...)
Ne consegue che il Collegio arbitrale deve dichiarare il difetto della propria
potestas iudicandi in relazione a tutte le domande proposte dal dott. Tizio con
riferimento al lamentato inadempimento contrattuale ed alla conseguente domanda di risarcimento del danno.
3.6. Alle stesse conclusioni il Collegio arbitrale perviene anche in relazione
ad una diversa argomentazione prospettata dal dott. Tizio nelle sue memorie
difensive.
Il dott. Tizio, in questa sede, ha dedotto l’inadempimento della Banca anche
in una diversa prospettiva, facendo leva sulla scrittura del 31 ottobre 2001.
Secondo l’istante, infatti, gli Accordi del 2002 sarebbero “esecutivi dell’obbligazione assunta al momento della concessione dell’incarico accessorio di coordinamento del 31 ottobre 2001”. E tale scrittura avrebbe arricchito la sfera giuridica del
dott. Tizio di una situazione giuridica soggettiva attiva, suscitando “una situazione
pretensiva strutturalmente distinta dalle facoltà e dagli obblighi che ne costituiscono
il contenuto ...”. La tesi, pur finemente argomentata, non sfugge alla eccezione di
difetto di potestas iudicandi di questo Collegio arbitrale. (Omissis).
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Riflessioni sulla litispendenza nell’arbitrato irrituale.
1. Con il lodo in epigrafe il collegio arbitrale esamina gli effetti della
contemporanea pendenza di cause identiche dinanzi a un tribunale arbitrale e all’autorità giudiziaria competente in sede di impugnazione del
lodo irrituale precedentemente pronunciato.
L’indagine sugli effetti della contemporanea pendenza di domande
identiche nell’arbitrato presuppone la definizione di talune nozioni quali
la pendenza di un giudizio arbitrale e la domanda arbitrale.
2. La definizione di domanda di arbitrato, come ogni questione
giuridica che riguardi l’arbitrato irrituale, è influenzata dalla scelta di
fondo sulla natura di questo modo alternativo di risoluzione delle controversie.
La riforma introdotta con il D.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ha formalmente consacrato l’arbitrato irrituale nel titolo VIII del libro IV del codice
di rito (1). L’art. 808-ter c.p.c. disciplina l’arbitrato libero chiarendo (2) che
il lodo irrituale ha l’efficacia di un contratto e dando vita così a due tipi di
arbitrato: “quello giurisdizionalizzato e quello procedimentalizzato” (3).
La citata disposizione non ha, però, risolto i dubbi sull’applicabilità delle
norme sugli effetti della domanda arbitrale, dettate per l’arbitrato rituale,
(1) La riforma del 2006 ha sollevato non poche perplessità. L’art. 808-ter c.p.c., rubricato
“Arbitrato irrituale”, sembra, infatti, aver introdotto un paradosso: prevedere una disciplina
dell’arbitrato “libero” ne mina il carattere essenziale della libertà. Perplessità accresciute dalla
previsione nell’art. 808-ter c.p.c. di cinque motivi di impugnazione del lodo irrituale derivanti da
violazioni di regole processuali, al cui rispetto l’istituto non dovrebbe essere vincolato (in
quanto si tratta di una mera determinazione contrattuale).
(2) L’arbitrato irrituale è sorto nella prassi applicativa come metodo di composizione
delle controversie settoriali o di categoria, riconosciuto, poi, dalla giurisprudenza e, infine,
recepito dal legislatore del 2006. Nonostante il consolidarsi di una prassi negoziale sorta da
esigenze di speditezza, competenza e segretezza espresse da commercianti e industriali, il
legislatore ha cercato di assorbirlo nella figura dell’arbitrato rituale o di applicarvi alcune di
quelle regole. In tal senso in dottrina ALPA, L’arbitrato irrituale. Una lettura civilistica dell’art.
808 ter del codice di procedura civile, in Contr. e Impr., 2011, 2, 320 ss.; in giurisprudenza Cass.
Torino, 27 dicembre 1904, in Riv. dir. comm., 1905, II, 45 ss. La collocazione concettuale
dell’arbitrato libero è stata oggetto di incertezze e oscillazioni della giurisprudenza e della
dottrina. Si può brevemente riepilogare che le opzioni sulla natura dell’arbitrato libero spaziano
dalla possibilità di individuarvi un istituto equipollente della transazione o di altre figure di
matrice contrattuale (come il negozio di accertamento o il cd. biancosegno), o di individuare
nell’istituto una forma embrionale di giudizio, nel quale far confluire alcune regole e alcuni
contenuti del processo (quale il principio del contraddittorio). Cfr. MARINELLI, La natura
dell’arbitrato irrituale. Profili comparatistici e processuali, Torino, 2002; DANOVI, Arbitrato rituale
e irrituale: la qualificazione è finalmente più chiara (nella perdurante indeterminatezza dei
confini), in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, a cura di Auletta, Califano, Della
Pietra e Rascio, Napoli, 2010, 323 ss.
(3) La nota espressione è di VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 35.
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a quello libero. Tradizionalmente, si distinguono due impostazioni sulla
natura giuridica dell’arbitrato irrituale (4).
La cosiddetta teoria unitaria (5) considera l’arbitrato irrituale e l’arbitrato rituale come due species di un unico genus: gli istituti avrebbero,
infatti, la medesima funzione di risolvere una controversia attraverso un
procedimento determinato e disciplinato dal codice di rito. L’unica rilevante differenza tra gli istituti si riscontrerebbe nell’efficacia della pronuncia degli arbitri: efficacia di contratto per l’uno (ai sensi dell’art. 808-ter
c.p.c.), efficacia di sentenza per l’altro (ex art. 824-bis c.p.c.).
La genesi comune degli istituti consentirebbe l’applicazione all’arbitrato irrituale di almeno alcune delle norme dettate per l’arbitrato rituale
— quali quelle relative alla nomina e alla sostituzione degli arbitri,
ontologicamente non incompatibili (6) con la natura contrattuale del lodo
— in ragione della comune ratio (7).
Altra impostazione considera, al contrario, l’istituto arbitrale scisso in
due forme: un arbitrato rituale equiparabile al processo statale, che si
conclude con un lodo-sentenza; un arbitrato irrituale capace di produrre
effetti esclusivamente negoziali. La diversità di efficacia e di trattamento
processuale farebbero ritenere che le attività che precedono l’emanazione
dei lodi rituali e irrituali non siano giuridicamente sovrapponibili né
riconducibili ad una disciplina unitaria. Pertanto, la scelta per l’arbitrato
(4) Le diverse opinioni sulla natura dell’arbitrato irrituale sono riprese anche dalla
giurisprudenza. In particolare si riporta il Decreto del Presidente del Tribunale di Venezia reso
il 19 febbraio 2008 che precisa: “ferma la natura contrattuale del lodo, incontestabile perché così
qualificata dal legislatore, vi è chi afferma la natura totalmente contrattuale anche del procedimento arbitrale, che sarebbe quindi retto dalla sola disciplina sostanziale dettata per i contratti, a
fronte di altri autori per i quali, invece, il procedimento che porta al lodo irrituale resterebbe pur
sempre un giudizio, disciplinato quindi dalle regole volute dai contratti e comunque dagli articoli
808-ter ss. c.p.c. ove non diversamente voluto” (CURATOLA, in AA.VV., Appunti di diritto
dell’arbitrato, a cura di Iudica, Torino, 2011, 50-53). Nello stesso decreto il Tribunale conclude
nel senso per cui non vi sarebbe: “alcun motivo per ritenere che tutta la normativa contenuta nel
titolo ottavo del c.p.c. sia inapplicabile a tale tipo di arbitrato, essendo al contrario necessario
procedere all’esame dei singoli articoli, onde individuarne il contenuto sostanziale e quindi
l’eventuale applicabilità all’arbitrato irrituale”.
(5) In tal senso PUNZI, voce Arbitrato (rituale e irrituale), in Enc. Giur., 1995, 37 ss.
(6) Il giudizio di compatibilità presuppone la valutazione di non contraddittorietà della
norma con le caratteristiche di una determinata materia o di un determinato atto. Il giudizio di
compatibilità si distingue, quindi, dall’analogia. L’analogia si fonda sul presupposto che se il
legislatore avesse previsto il caso concretamente realizzatosi e non disciplinato da alcuna norma,
lo avrebbe regolato allo stesso modo, con la conseguenza che al caso non regolato si applica il
caso simile. Il ricorso all’analogia presuppone una lacuna, il giudizio di compatibilità al
contrario non presuppone la mancanza di una regola, ma le regole predisposte dal legislatore si
applicano anche ad altri istituti se non vi risultino incompatibili. Sul tema v. RAFFAELE TUCCILLO,
Profili interpretativi degli atti unilaterali, Roma, 2011, 25 ss.
(7) Attraverso un’interpretazione estensiva o con il ricorso all’analogia secondo MARINELLI, Il termine per la pronuncia del lodo irrituale, in Corr. Giur., 2006, 867 ss.
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irrituale comporterebbe l’impossibilità di applicare le norme dettate dagli
artt. 806 ss. c.p.c., in quanto ex ante incompatibili (8).
Muovendo dal dato normativo e in considerazione delle finalità del
contributo si può affermare che, dalla scelta in favore dell’arbitrato
irrituale deriva certamente la deroga agli artt. 824-bis, 835 e 827 ss. c.p.c.
(riguardanti il regime e l’efficacia del lodo rituale) (9). L’applicazione, poi,
all’arbitrato irrituale delle norme dettate in tema di arbitrato rituale
presuppone l’esistenza di una lacuna (10), “un’esigenza di governo della
procedura irrituale” (11) tale da non poter essere colmata senza il ricorso
alle regole dell’arbitrato rituale.
La differenza tra i due istituti arbitrali impedisce il ricorso a una
completa e integrale trasposizione delle norme dell’arbitrato rituale a
quello libero (12), ma consente l’applicazione di alcune disposizioni dell’arbitrato rituale, per il caso di vicende uguali, tramite lo strumento
giuridico dell’analogia (13). In ogni caso, l’applicazione delle norme in
tema di arbitrato rituale non può incidere sulle caratteristiche fondamentali dell’istituto e sulla procedura deformalizzata che lo caratterizza (14).
Ne consegue che la natura dell’atto introduttivo dell’arbitrato irrituale è influenzata dall’interrogativo se l’arbitrato libero sia equiparabile
(8) Cfr. BOVE, sub art. 808-ter, in Le Nuove Leggi civili commentate, 2007, 1197 ss.;
RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006, 90.
(9) L’incompatibilità degli artt. 824-bis, 825, e 827 ss. c.p.c. all’arbitrato irrituale si spiega
in quanto: la prima disposizione citata è incompatibile con la scelta che le parti fanno in favore
dell’arbitrato che si conclude con una “determinazione contrattuale”; la seconda in quanto
espressamente l’art. 808-ter c.p.c. ne esclude l’applicabilità; la terza in quanto è chiara la
incompatibilità tra il regime di impugnazione del lodo irrituale disciplinato dall’art. 808-ter c.p.c.
e l’impugnazione per nullità sancita dagli artt. 827 e ss. c.p.c. per il lodo rituale. Cfr. PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, II, Padova, 2012, 622.
(10) Il presupposto del ricorso all’analogia è l’esistenza di una lacuna, cioè di un caso non
previsto da una precisa disposizione. “Il ragionamento applicativo dell’analogia si fonda sul
presupposto che se il legislatore avesse previsto il caso concretamente realizzatosi e non disciplinato da alcuna norma, lo avrebbe regolato allo stesso modo, la conseguenza è che al caso non
regolato si applica il caso simile”: RAFFAELE TUCCILLO, Profili interpretativi degli atti unilaterali,
cit., 35.
(11) DELLA PIETRA, Il procedimento, in Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, cit., 286.
(12) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2000, 63; VECCHIONE, Arbitrato
nel sistema del processo civile, Milano, 1971, 86.
(13) Il ricorso all’analogia è possibile solo ove sussista una “somiglianza rilevante” tra il
caso concreto non regolato e i casi astratti espressamente disciplinati. Somiglianza che si
riscontra quando i due casi presentano la medesima ratio. Cfr. AA.VV., Dieci lezioni introduttive
ad un corso di diritto privato, Torino, 2006, 52 ss. L’analogia presenta, dunque, un “carattere
teleologico”, in quanto richiede all’interprete di accertare la logica che ispira la disposizione del
caso regolato. IRTI, Per una lettura dell’art. 1324 cod. civ., in Riv. dir. civ., 1994, I, 561.
(14) Secondo autorevole dottrina (SASSANI, L’arbitrato a modalità irrituale, in questa
Rivista, 2007, 25 ss.) occorrerebbe distinguere tra norme sicuramente inapplicabili, norme
sicuramente applicabili e norma di dubbia applicazione all’arbitrato irrituale. Alle prime
dovrebbero essere ricondotti gli artt. 824-bis, 825, 827-831, 819, comma 2, c.p.c.; nella seconda
categoria vi rientrerebbero tra le altre gli artt. 806-808-quinquies c.p.c. sulla compromettibilità
delle controversie e sulla convenzione d’arbitrato; nella terza tipologia invece potrebbero
comprendersi l’art. 816-quater, comma 3, c.p.c. sulla pluralità delle parti nell’arbitrato.
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a quello rituale o se conservi la natura negoziale e non procedimentale che
in passato gli era riconosciuta (15).
Infatti, ove si optasse per l’assimilazione, quoad naturam ma non
quoad effectum, tra i due istituti si dovrebbero, e potrebbero, applicare
alla domanda per arbitrato libero le regole proprie dell’arbitrato rituale.
Al contrario, ove invece si considerasse l’arbitrato libero alla stregua di
uno strumento tipicamente ed esclusivamente negoziale, non si potrebbe
ricorrere alle disposizioni sull’introduzione e sulla pendenza del giudizio
arbitrale rituale.
Si deve, tuttavia, considerare che “la fase introduttiva” è “l’aspetto più
tormentato dello studio del procedimento arbitrale” (16). La legge 5 gennaio
1994 n. 25 (17) ha introdotto alcune importanti innovazioni che contribuiscono alla soluzione del problema degli effetti della domanda di arbitrato.
Le principali modifiche riguardano gli articoli: 2943, comma 4, c.c. in
tema di interruzione della prescrizione; 2945, comma 4, c.c. in tema di
sospensione della prescrizione e sulla trascrizione gli articoli 2652, comma
ult, c.c., 2653, ult. comma, c.c., 2690, ult. comma, e 2691 c.c. Le citate
disposizioni disciplinano alcuni effetti tipici della domanda giudiziale e il
relativo ambito di applicazione è stato esteso, dalla riforma del 1994,
anche all’“atto notificato con il quale la parte, in presenza di compromesso
o di clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto
le spetta, alla nomina degli arbitri”.
Le citate norme hanno, quindi, collegato alla cd. domanda di arbitrato (18) alcuni e specifici effetti della domanda giudiziale, tuttavia le
(15) L’orientamento prevalente in giurisprudenza esclude la natura giurisdizionale dell’arbitrato libero, pur se dal punto di vista fenomenico non possa non qualificarsi come un
fenomeno processuale. Cfr. LUISO, Rapporti fra arbitro e giudice, in questa Rivista, 2005, 773.
Devono comunque considerarsi intrinseci alla giustizia arbitrale, rituale e libero, i canoni
costituzionali del diritto d’azione e del contraddittorio. In questo senso: COMOGLIO, Mezzi
alternativi di tutela e garanzie costituzionali, in Riv. Dir. proc., 2000, 318 ss.; TARZIA, Efficacia del
lodo e impugnazioni nell’arbitrato rituale e irrituale, in Riv. Dir. proc., 1987, 14 ss.
(16) In tal senso PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. II, Padova, 2012, 43.
(17) La legge 5 gennaio 1994, n. 25, Nuove disposizioni in materia di arbitrato e disciplina
dell’arbitrato internazionale, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 12 del 17 gennaio 1994.
(18) Non potendo in questa sede indugiare sul tema, si dirà che, generalmente, si ritiene
che la produzione degli effetti processuali e sostanziali tipici dell’atto introduttivo del giudizio
ordinario debba essere collegata nell’arbitrato alla formulazione di un atto più complesso di
quello regolato dall’art. 810 c.p.c., che, per dare avvio al procedimento arbitrale, richiede la
semplice notifica di un atto scritto contenente la designazione dell’arbitro di parte e l’invito alla
controparte a designare il proprio. La domanda di arbitrato che produce l’effetto della
conservazione della concessa cautela, la prenotazione degli effetti della decisione tramite la
trascrizione e l’interruzione-sospensione della prescrizione deve contenere tre requisiti: la
dichiarazione della parte istante della propria intenzione di promuovere il procedimento
arbitrale; la proposizione della domanda e la nomina degli arbitri, per quanto quest’ultima
attività spetti alla parte. Sulla pendenza dell’arbitrato e la translatio iudicii si rinvia a VERDE,
Ancora sulla pendenza del procedimento arbitrale, in questa Rivista, 2009, 2, 219 ss. In tal senso
MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, Torino, 2008; SALVANESCHI, Le domande di arbitrato
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differenze tra giudizio ordinario e arbitrale non consentono di procedere
alla equiparazione tra effetti della domanda giudiziale e arbitrale.
Il processo civile muove da un atto processuale, proveniente da una
parte, idoneo a determinare la litispendenza ad ogni effetto sostanziale e
processuale. L’arbitrato, al contrario, trae origine da un patto compromissorio, non da un atto processuale, e non si incardina dinanzi ad un giudice
precostituito per legge, in quanto l’organo giudicante si costituisce solo in
un momento successivo alla proposizione della domanda di arbitrato e,
cioè, con l’accettazione dell’incarico, ad opera di tutti gli arbitri. La
citazione è l’atto da cui deriva il giudizio, poiché, esistendo il giudice, il
giudizio è di per sé possibile; la domanda arbitrale, invece, non è equiparabile alla domanda giudiziale, in quanto “se manca il giudice non si ha
possibilità di atti iniziativi del giudizio” (19).
Ne deriva che solo con l’accettazione degli arbitri si perfeziona il
duplice rapporto convenzionale, prima tra le parti compromittenti e poi
tra queste ultime e gli arbitri e, quindi, il processo si può dire pendente (20).
Si può, quindi, concludere che l’inizio del giudizio arbitrale si verifica
al momento dell’accettazione degli arbitri e della costituzione del collegio
arbitrale. Ciò nonostante si deve riconoscere che alcuni effetti, come
l’interruzione della prescrizione, sono ricollegati ad altri atti e si verificano, quindi, in momenti diversi. Come precisato da un orientamento
dottrinale (21), “l’analisi della fase introduttiva del procedimento arbitrale
porta a distinguere tre momenti essenziali: la stipulazione del patto compromissorio (compromesso, contratto che contiene la clausola compromissoria, convenzione di arbitrato ex art. 808-bis c.p.c.), la proposizione della
domanda di arbitrato e, infine, l’accettazione degli arbitri con la costituzione del collegio arbitrale”.
anomale e i loro effetti, in Fonti diritto italiano - Codice Civile, a cura di Rescigno, 2011, 415 ss.;
ID., La domanda di arbitrato, in Riv. dir. proc., 1995, 645 ss.
(19) CODOVILLA, Del compromesso e del giudizio arbitrale, Torino, 1915, 385. I dubbi
sollevati dalla dottrina sulla capacità della domanda di arbitrato di produrre tutti gli effetti della
litispendenza si fondano sulla difficoltà di concepire nell’arbitrato un rapporto processuale
prima ancora dell’individuazione dell’organo giudicante. Cfr. IZZO, Mutamenti dello stato di fatto
o di diritto vigente al momento della domanda e litispendenza arbitrale, in Riv. Trim. dir. proc.
civ., 2007, 1, 119 ss. Come chiarito dall’A. i dubbi che si riscontrano nell’arbitrato si fondano non
tanto sull’assenza del giudice naturale precostituito per legge, bensì e prima ancora sull’assenza
nell’organo giudicante di quel dovere di provvedere derivante dalla natura e dalla funzione
pubblica del processo ordinario. Tale dovere si trasforma nell’arbitro piuttosto in un diritto
delle parti a vedere decisa la lite in adempimento della volontà manifestata nella convenzione.
Un rapporto processuale tra le parti nell’arbitrato ovviamente si instaura ma ha connotati
differenti rispetto alla nozione tradizionale.
(20) In questo senso MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile,
4 ed., vol. III, Milano, 141; PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. II, cit., 48 ss.
(21) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, ult. loc. cit.; ID., Arbitrato. I) Arbitrato
rituale e irrituale, in Enc. Giur., II, Roma, 1995, 26.
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Così riassunte le questioni relative alla pendenza del giudizio arbitrale
rituale si deve verificare se le conclusioni condivise per tale forma di
arbitrato restino valide per l’arbitrato libero.
La tesi che nega l’assimilazione tra arbitrato libero e rituale tende a
escludere che la notifica dell’atto introduttivo dell’arbitrato irrituale determini l’interruzione del termine prescrizionale e la permanenza dell’effetto interruttivo (22).
L’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione è più facilmente
riconducibile alla domanda di arbitrato irrituale per chi considera l’arbitrato come uno strumento unitario destinato a distinguersi solo al momento dell’omologazione (23).
Un orientamento dottrinale esclude, poi, la trascrivibilità della domanda per arbitrato irrituale argomentando dall’art. 825 c.p.c., il quale
stabilisce che il lodo reso esecutivo è soggetto a trascrizione, in tutti i casi
nei quali sarebbe soggetta a trascrizione la sentenza avente il medesimo
contenuto.
Posto che la trascrizione della domanda giudiziale (o di arbitrato)
deve avere uno sbocco consistente o nella trascrizione della pronuncia di
accoglimento o nella perdita di efficacia in virtù della decisione di rigetto,
e che il lodo irrituale non può omologarsi né trascriversi, la domanda di
arbitrato irrituale non potrà formare oggetto di pubblicità (24).
La comune matrice genetica degli arbitrati induce a ritenere che le
disposizioni citate (25), dettate in tema di domanda arbitrale, possano
ritenersi applicabili sia all’arbitrato rituale, che a quello libero.
A tale conclusione può pervenirsi anzitutto in base ad un argomento
di carattere testuale. Le norme citate non sono contenute nel codice di
rito, ma nel codice civile e non si riferiscono all’arbitrato rituale, bensì, in
modo generico, alla giustizia arbitrale, ambito nel quale afferiscono sia
quello rituale che quello libero.
In secondo luogo, gli istituti presentano la comune funzione dell’ete(22) I rimedi negoziali accordati per l’arbitrato libero mal si conciliano con l’idea di
impugnazione prevista dalla disposizione. Cfr. VERDE, Diritto dell’arbitrato, Torino, 2005, 200.
(23) La tesi portata alle estreme conseguenze induce anche a ritenere esperibili verso il
lodo irrituale i rimedi di cui all’art. 827 c.p.c. svincolati ormai dall’exequatur. In tal senso:
CECCHELLA, Arbitrato libero e processo (contributo ad una nozione unitaria dell’arbitrato
italiano), in Riv. Dir. proc., 1987, 900; RUFFINI, Sulla distinzione tra arbitrato « rituale » ed
« irrituale », in questa Rivista, 2002, 755 ss.
(24) Voce contraria è sostenuta da BORGHESI, La domanda di arbitrato, in Arbitrato a cura
di Carpi, Bologna, 2001, 218 ss., secondo il quale il lodo irrituale come qualunque negozio, se
redatto in forma di atto pubblico o di scrittura privata autentica, potrebbe essere trascritto. Tra
la domanda di arbitrato e il lodo irrituale potrebbe scorgersi la stessa differenza esistente tra
contratto preliminare e contratto definitivo.
(25) Il riferimento è agli artt.: 2943, comma 4; 2945, comma 4; 2652, comma ult.; 2653, ult.
comma; 2690, ult. comma; 2691, c.c., salvi i sopra esposti dubbi sulla trascrivibilità della
domanda di arbitrato irrituale.
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rocomposizione (26) delle liti mediante decisione. I relativi atti introduttivi
svolgono, in entrambi i casi, il ruolo di sollecitare una pronuncia favorevole a tutela di una situazione giuridica soggettiva e perseguono tali
obiettivi mediante un procedimento che presenta caratteri simili, con
l’eccezione, come già evidenziato, della decisione finale. Gli elementi
comuni alle due procedure inducono a concludere nel senso dell’applicabilità delle disposizioni sulla domanda giudiziale citate a ogni specie di
arbitrato (27).
La differenza rilevante tra i due istituti arbitrali consiste, infatti, nella
disciplina del lodo: solo l’arbitrato rituale è idoneo a produrre efficacia
equiparabile e sostitutiva a quella del giudicato. Il fondamento dell’istituto
arbitrale resta tuttavia il medesimo ed è rappresentato dalla composizione
di una lite, con un procedimento alternativo alla giurisdizione ordinaria,
per mezzo di una decisione eteronoma affidata a uno o a più terzi
nominati, direttamente o indirettamente, dalle parti (28).
Ne consegue che per ogni forma di arbitrato: l’atto notificato (29) con
(26) Il carattere eteronomo del lodo irrituale si evince dalla lettera dell’art. 808 ter c.p.c.,
in virtù del quale le parti possono stabilire che “la controversia sia definita dagli arbitri mediante
determinazione contrattuale”. La decisione degli arbitri irrituali non scaturisce, infatti, direttamente dalla volontà delle parti: non può essere assimilata a una transazione, poiché la
risoluzione della lite non deriva dalle reciproche concessioni provenienti dalle parti; non può
trattarsi di arbitraggio, poiché con la pronuncia non si determina una prestazione contrattuale
al fine di integrare il contenuto di un negozio; né di un contratto il cui contenuto è definito per
relationem, in quanto gli arbitri, secondo il criterio di giudizio pattuito, decidono in modo
autonomo. Ulteriore argomento a sostegno della tesi si rinviene nella riconosciuta applicabilità
anche all’arbitrato irrituale del principio del contraddittorio, in precedenza escluso dalla
giurisprudenza (v. Cass. 24 gennaio 2005, n. 1398, in questa Rivista, 2006, 697 ss., con nota di
BERNINI, Principio del contraddittorio e arbitrato irrituale, ove la Cassazione riteneva che il
difetto di contraddittorio nell’arbitrato libero potesse rilevare solo in via indiretta alla stregua
di vizio del consenso in base alla disciplina sull’annullabilità del contratto).
(27) L’unitaria natura dell’istituto arbitrale ha ricevuto anche riconoscimento giurisprudenziale: “sia l’arbitrato rituale sia quello irrituale hanno natura privata, e pertanto la differenza
tra l’uno e l’altro tipo di arbitrato non può imperniarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano
demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice” Cass. 12 ottobre 2009, n.
21585, in Mass. Foro it., 2009, 1262, v. Arbitrato. A tenore della sentenza il discrimen tra i due
istituti arbitrale “va ravvisata(o) nel fatto che, nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si
pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825,
c.p.c., con l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse
intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano
insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale
[...] con cui le parti si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della
loro volontà”.
(28) Cfr. MONTELEONE, Il cd. arbitrato irrituale previsto dall’art. 808 ter c.p.c., in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, cit., 545 ss., ad avviso del quale la reale natura
dell’arbitrato irrituale si deve ricondurre ad una species del genus arbitrato rituale, caratterizzato dal fatto che il futuro lodo produce gli effetti di un contratto ai sensi dell’art. 1372 c.c. e non,
invece, gli effetti di una sentenza ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c.
(29) La pendenza del giudizio arbitrale, rituale e irrituale, decorrerà dalla costituzione
del collegio arbitrale. Si deve, tuttavia, osservare che il novellato art. 808-ter c.p.c. pone in
evidenza qualche dubbio sull’applicabilità delle disposizioni dell’arbitrato rituale a quello libero
dato che la lettera della legge sembra orientata nel senso opposto quando conclude “altrimenti
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il quale la parte dichiara la propria intenzione di promuovere il giudizio
arbitrale propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina
dell’arbitro è potenzialmente idoneo alla produzione degli effetti di cui
agli artt. 2943, comma 4, 2945, comma 4, 2652, comma ult, 2653, ult.
comma, 2690, ult. comma, e 2691 c.c..
3. Ai fini del presente contributo si considererà l’ipotesi in cui due
domande identiche (30) vengano proposte simultaneamente dinanzi all’autorità giudiziaria, in sede di impugnazione di un lodo precedentemente
emesso, e dinanzi a un organo arbitrale di nuova costituzione.
Sembra che, in tale ipotesi, le soluzioni prospettabili siano: applicazione
in via di analogia dell’art. 39 c.p.c. al procedimento arbitrale; applicazione
in via analogica dell’art. 819-ter c.p.c. e prosecuzione di entrambi i procedimenti; consumazione del potere delle parti di nominare gli arbitri.
4. La dottrina e la giurisprudenza sollevano fondati dubbi sulla
possibilità per un collegio arbitrale rituale di dichiarare la litispendenza
ove una causa identica sia già stata avviata dinanzi ad altro organo
arbitrale. Tali dubbi saranno ancor più fondati nelle ipotesi di arbitrati
liberi, considerata la distanza tra l’istituto e il giudizio statale.
Come noto, l’enunciato linguistico litispendenza (31) assume, tradizionalmente, due differenti significati “vuoi in genere per indicare la pendenza
di un processo, vuoi più specificamente per sottolineare quello che (a ben
vedere) ne rappresenta un effetto: per indicare comunque il problema che
sorge quando la stessa causa è proposta davanti a giudici diversi” (32). L’art.
39 c.p.c. si riferisce alla seconda accezione di litispendenza, che della prima
costituisce uno specifico (e non l’unico) effetto.
si applicano le disposizioni del presente titolo”. Cfr. VERDE, Arbitrato irrituale, in La riforma
della disciplina dell’arbitrato, a cura di Fazzalari, Milano, 2006, 13 ss. La giurisprudenza sembra
per lo più interpretare la disposizione nel senso di escludere l’applicazione in blocco delle
norme sull’arbitrato rituale a quello libero e di ritenere opportuno l’esame delle singole
disposizioni per valutarne la compatibilità all’arbitrato irrituale. Cfr. Trib. Venezia, 10 aprile
2008, in Contratti, 2008, 869, con nota di SANGIOVANNI.
(30) Sull’esame del thema decidendum e delle domande proposte al collegio arbitrale e al
giudice in sede di impugnazione del lodo precedentemente pronunciato si rinvia a E. F. RICCI,
In tema di litispendenza tra arbitrato e procedimento di impugnazione contro precedente lodo, in
Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, a cura di Auletta - Califano - Della Pietra - Rascio,
Napoli, 2010, 689 ss.
(31) La litispendenza, da lis pendens, indica “una lite nella pienezza dei suoi effetti”
secondo CHIOVENDA, Sulla “perpetuatio iurisdictionis”, in Saggi di diritto processuale civile, I,
Milano, 1993, 284 ss.; ID., Rapporto giuridico processuale e litispendenza, in Saggi di diritto
processuale civile, II, Roma 1931, 375 ss.
(32) In tal senso COLESANTI, voce Litispendenza, in Noviss. dig. it., IX, Torino, 1963, 976.
Cfr. CHIOVENDA, Rapporto giuridico processuale e litispendenza, in Saggi di diritto processuale
civile, Roma, 1931, II, 375 ss.; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano 1957, I, pag.
122; ANDRIOLI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1959, 387.
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La citata disposizione statuisce che, se un’identica causa è pendente di
fronte a giudici diversi, il giudice successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza e ordinare la cancellazione della causa dal ruolo. Il
dualismo dato dalla coesistenza di due processi identici viene risolto
attraverso il cosiddetto criterio della prevenzione, il cui funzionamento
presuppone l’individuazione del momento in cui i due processi sono
iniziati, al fine di stabilire quale sia sorto per primo.
La previsione normativa garantisce il rispetto del principio per cui la
durata del processo non deve danneggiare l’attore che ha ragione. In un
fenomeno di durata come il processo è necessario garantire alle parti
un’efficace tutela, disciplinando le ipotesi di pendenza di cause identiche
in modo da evitare il possibile contrasto tra dictat giudiziali.
L’identità menzionata dall’art. 39 c.p.c. si riferisce alla domanda
giudiziale (33) e agli elementi che identificano la stessa: personae, petitum
e causa petendi.
L’individuazione della domanda deve tenere conto del concetto di
“parte” in senso sostanziale (34) e non in senso meramente formale.
La causa petendi (35) viene tradizionalmente (36) indicata come “il
fatto giuridico che l’attore pone a fondamento della sua domanda” (37),
(33) Cfr. FRANCHI, La litispendenza, Padova, 1963, 1 ss.
(34) L’applicazione dell’art. 39, comma primo, c.p.c. non si ritiene esclusa da una
differenza solo formale fra le parti, ove queste restino le stesse sotto il profilo sostanziale. Sul
tema v. CARPI, L’efficacia “ultra partes” della sentenza civile, Milano, 1974, 2 ss. MANDRIOLI,
Corso di diritto processuale civile, Torino, 2009, I, 134; CERINO CANOVA, La domanda giudiziale
ed il suo contenuto, in Commentario del cod. di proc. civ., diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980,
146 ss.
(35) Tra gli aspetti problematici del concetto di causa petendi sembra utile brevemente
distinguere tra diritti autodeterminati ed eterodeterminati. La prima categoria si riferisce a
quei diritti che si identificano esclusivamente in funzione del loro contenuto come ad esempio
i diritti reali e che non risentono delle modifiche del fatto costitutivo. Al contrario per i diritti
eterodeterminati l’identificazione attraverso il fatto costitutivo è indispensabile, per cui l’inizio
di un secondo giudizio nel quale si chiede analoga prestazione, ma sulla base di un fatto
costitutivo diverso, dà sempre luogo ad una domanda nuova e, quindi, non è destinato a cadere
sotto il divieto dell’art. 39 c.p.c. Cfr. CERINO CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo
contenuto, Torino, 1980, 177 ss.; PROTO PISANI, Note in tema di nullità dell’atto di citazione e di
effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale, in Riv. Dir. civ., 1988, I, 665 ss.
(36) Si individua la causa petendi con l’identificazione del diritto del quale si chiede la
tutela e si riconduce al n. 3 dell’art. 163 c.p.c., che costituisce l’“oggetto” del processo e che,
pertanto, non identifica il solo petitum, ma anche il titolo della richiesta. L’opinione si ricollega
a CHIOVENDA, Princìpi di diritto processuale civile, Napoli, 1912, 630 ss. Cfr. MANDRIOLI,
Riflessioni in tema di « petitum » e di « causa petendi », in Riv. Dir. proc., 1984, 465 ss.
(37) “La causa dell’azione (causa petendi) è il fatto giuridico che l’attore pone a fondamento della sua domanda, ossia nel linguaggio della legge il titolo dell’azione. Essa è perciò il
fatto da cui sorge il diritto che l’attore pretende far valere, o il rapporto giuridico da cui quel diritto
l’attore pretende far valere, o il rapporto giuridico da cui quel diritto vien fatto derivare, con tutte
quelle circostanze e indicazioni che sono necessarie per individuare esattamente l’azione che si
propone, e che variano a seconda delle diverse categorie di diritti e di azioni”. LIEBMAN, Manuale
di diritto processuale civile. Principi, Milano, 2007, 180-181.
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ossia l’insieme degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto posti a base
della domanda (38).
Con il termine petitum (39) si suole intendere l’oggetto della domanda.
È nota la distinzione fra petitum immediato, inteso come il provvedimento
richiesto, e petitum mediato, rappresentato dal bene della vita che il
processo permette di soddisfare (40), sulla quale non si ritiene possibile
indugiare.
L’ulteriore requisito richiesto dall’art. 39 c.p.c per il verificarsi della
litispendenza consiste nella contemporanea pendenza delle cause (41).
L’identità delle domande, giudiziali o arbitrali, sussiste quando gli
elementi citati coincidono. La giurisprudenza ha, tuttavia, chiarito che
l’accertamento dell’identità delle domande richiede lo svolgimento del
procedimento ermeneutico. L’attività dell’interprete deve essere diretta a
individuare il contenuto sostanziale della domanda, desumibile dalla
situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante
con il ricorso all’autorità giudiziaria (42).
L’operare del meccanismo previsto dall’art. 39 c.p.c. presuppone,
infine, che la pendenza contemporanea della medesima causa tra le stesse
parti ricorra dinanzi a giudici diversi, cioè a giudici non appartenenti allo
stesso ufficio giudiziario (43).
(38) ANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 325 ss.; MICHELI, Corso di diritto
processuale civile, I, Milano, 1959, 33 ss.; FAZZALARI, Note in tema di diritto e processo, Milano,
1957, 121 ss.
(39) “L’oggetto dell’azione (petitum) è ciò che si domanda al giudice; esso va individuato
sia con riguardo al tipo di provvedimento che si chiede (l’oggetto immediato, per es. condanna,
oppure sequestro), sia con riguardo al bene giuridico a cui il provvedimento dovrebbe riferirsi
(l’oggetto mediato, per es. il fondo Corneliano, oppure la somma di 100)”. In questo senso
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile. Principi, Milano, 2007, 182-183.
(40) Cfr. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., 323; VERDE, Profili del processo civile,
cit., 134.
(41) Sulla pendenza del giudizio arbitrale e dubbi conseguenti si rinvia al precedente
paragrafo 2.
(42) In tal senso ex multis Cass., 13 febbraio 2007, n. 3041, in Rep. Foro It., 2007, v.
Espropriazione per p.i., n. 212.
(43) G.F. RICCI, Litispendenza, voce del Digesto civ., Torino 1994, XI, 81. La litispendenza è esclusa nelle ipotesi di competenza funzionale del giudice. Ne consegue che ove cause
identiche pendano dinanzi allo stesso giudice, non ricorre un’ipotesi di litispendenza bensì di
riunione dei procedimenti ex officio, ai sensi dell’art. 273 c.p.c. (Cass., sez. III, 16 maggio 2006,
n. 11357, in Mass. Foro it., 2006, n. 1242, v. Procedimento civile); ove pendano dinanzi a un
giudice ordinario e un giudice speciale, si configurerà una questione di giurisdizione (così Cass.,
sez. V, 30 luglio 2007, n. 16834, in Mass. Foro. It., 2007, n. 1940, v. Competenza civile). Quanto
poi ai rapporti tra giudice italiano e giudice straniero, essi sono regolati dall’art. 7, L. 31 maggio
1995, n. 218 e, con riferimento allo spazio giuridico europeo, dall’art. 27, Reg. CE 22 dicembre
2000, n. 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione
delle decisioni in materia civile e commerciale. Si veda LUPOI, Litispendenza internazionale e
riconoscimento delle sentenze straniere in Italia: due normative allo specchio, in Riv. Trim. Dir.
Proc., 1998, 1215 ss.; DI BLASE, Litispendenza internazionale, in Enc. Giur., XIX, Roma, 1990,
1991 ss.
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Secondo un orientamento dottrinale (44), l’art. 39 c.p.c. potrebbe
trovare applicazione anche al procedimento arbitrale (rituale). Si afferma
che il fondamento della litispendenza deve ravvisarsi nella necessità di
scongiurare il rischio di contrasto di giudicati, nonché nell’evidente necessità di garantire l’economia dei processi, ratio in astratto compatibile
anche con il procedimento arbitrale. Nella disciplina della litispendenza si
ravvisa un’anticipazione (45) di quella del giudicato, l’una e l’altra essendo
attuazione della regola del ne bis in idem, volta a scongiurare il rischio di
un contrasto di giudicati.
Dinanzi a tale esigenza l’ordinamento ritiene di sacrificare anche altra
aspirazione: quella, cioè, di vedere il processo condurre a decisioni sul
merito, imponendo al secondo giudice la declaratoria di litispendenza,
solo perché il processo anteriormente instaurato è ancora pendente.
L’arbitrato benché non possa essere considerato una giurisdizione è
pur sempre un processo (46), un fenomeno di durata nel quale si discutono
situazioni giuridiche sostanziali e processuali.
Da ciò deriverebbe che, in presenza di tutte le condizioni previste
dall’art. 39 c.p.c., l’organo arbitrale successivamente adito avrebbe il
dovere di dichiarare la litispendenza, rimettendo la cognizione della
controversia al giudice privato preventivamente nominato.
L’esposta tesi non appare convincente, considerato il diverso tenore
letterale delle norme dettate in tema di litispendenza e di effetti della
domanda di arbitrato (47).
Infatti, la dottrina e la giurisprudenza (48) prevalentemente, già, esclu(44) Soluzione condivisa da RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato, Padova, 2006,
pag. 679. La tesi troverebbe fondamento anche in virtù del novellato art. 819 ter c.p.c. che nel
rendere l’arbitrato insensibile alla litispendenza giudiziaria, non esclude l’applicabilità dell’istituto nei rapporti tra arbitri.
(45) Cfr. COLESANTI, Mutamenti giurisprudenziali in materia processuale: la litispendenza,
in Riv. Dir. Proc., 2004, 365 ss.
(46) Con il termine processo si suole intendere “l’attività con cui si svolge in concreto la
funzione giurisdizionale. Detta funzione non si compie infatti in un solo tempo o con un solo atto,
ma con una serie coordinata di atti che si svolgono nel tempo e che tendono alla formazione di
un atto finale. Da ciò l’idea di un procedere verso una meta e il nome dato all’insieme di atti posti
in essere nell’esercizio della funzione”, così LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile.
Principi, Milano, 2007, 33.
(47) Sembra utile segnalare che l’applicabilità dell’art. 39 c.p.c. alla contemporanea
pendenza di cause identiche dinanzi a collegi arbitrali è stata esclusa anche dal Tribunale di
Vicenza, nella sentenza del 12 febbraio 1999, (in Giur. It., 2000, 527, con nota di MAMOLI), che
ha, invece, condiviso il principio per cui: “In presenza di due collegi arbitrali costituiti in base ad
unica clausola compromissoria per dirimere la medesima controversia, nascente dal medesimo
contratto, deve ritenersi riservata alla competenza dell’Autorità Giudiziaria, anche in pendenza
del procedimento arbitrale, la decisione in ordine al conflitto sulla potestas iudicandi e sulla
regolare costituzione di essi, al fine di scongiurare l’eventualità che ciascuno possa pronunciarsi
relativamente alla potestas iudicandi dell’altro”.
(48) Un orientamento giurisprudenziale ha espresso posizione favorevole all’applicazione integrale delle norme in tema di connessione, continenza e litispendenza ai procedimenti
arbitrali. La violazione da parte degli arbitri di tali norme, con riguardo ad altro procedimento
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devano l’applicabilità dell’istituto della litispendenza al rapporto tra procedimento di cognizione ordinario e procedimento arbitrale (49) e tra due
procedimenti arbitrali.
La riforma introdotta con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (50) ha risolto
i dubbi interpretativi sui rapporti tra giudice e arbitrato, disciplinandoli
espressamente nell’art. 819-ter (51) c.p.c.
Al contrario, la litispendenza arbitrale risulta priva di una disciplina
ad hoc, ne deriva la necessità di valutare la compatibilità dell’art. 39 c.p.c.
con l’arbitrato libero.
L’applicabilità della disciplina della litispendenza al procedimento
arbitrale dipende dall’individuazione dei principi e delle garanzie del
processo statale esportabili nel processo privato ed è influenzata per un
verso dalla natura del giudizio arbitrale, per altro verso dalla ratio della
litispendenza.
Seguendo un orientamento formalista l’applicabilità dell’art. 39 c.p.c.
all’arbitrato dovrebbe escludersi per due ordini di ragioni.
Gli artt. 806 ss. e, in particolare, l’art. 808-ter c.p.c. non contengono
alcun rinvio specifico alla disposizione sulla litispendenza, né tantomeno
un rinvio generico alle norme del codice di rito per le materie non
disciplinate dal titolo VIII del libro IV.
L’art. 39 c.p.c., inoltre, è collocato nella sezione V, titolo I del libro I
del codice di rito, rubricato “Del difetto di giurisdizione, dell’incompetenza
e della litispendenza”.
arbitrale vertente sul medesimo rapporto, non avrebbe configurato esorbitanza dai limiti del
compromesso o della clausola compromissoria, ai sensi dell’art. 829, primo comma, n. 4, c.p.c.,
ma avrebbe determinato inosservanza di regole di diritto, deducibile con impugnazione per
nullità solo nei limiti previsti dal secondo comma del citato art. 829 c.p.c., nel testo anteriore alla
riforma del 2006 (secondo la disciplina vigente il lodo così pronunciato dovrebbe ritenersi
impugnabile ai sensi del terzo comma dell’art. 829 c.p.c.). Con l’ulteriore conseguenza che, nel
caso in cui le parti avessero optato per la non impugnabilità del lodo per violazione di norme
di diritto, non sarebbe stato possibile in alcun modo far valere l’eventuale nullità. Così Cass. 25
novembre 1977, n. 5145, in Rep. Foro it., 1977, voce Arbitrato e compromesso, n. 38.
(49) In tal senso Cass., 30 luglio 2004, n. 14557, in Mass. Foro it., 2004, n. 1143, v.
Arbitrato, a tenore della quale, in relazione ad una fattispecie di arbitrato irrituale, l’operatività
della prevenzione, di cui all’art. 39 c.p.c., è configurabile solo in ipotesi di procedimenti pendenti
davanti a giudici parimenti muniti di competenza e, non anche, pertanto, in ipotesi di contemporanea pendenza della medesima causa davanti all’autorità giudiziaria e ad un collegio
arbitrale. Nello stesso senso anche Cass., 21 luglio 2004, n. 13516, in questa Rivista, 2005, 523 ss.,
con nota di SANTAGADA, Rapporti tra giurisdizione ordinaria e arbitrato: una peculiare questione
di diritto intertemporale. In dottrina: MURONI, La litispendenza arbitrale prima e dopo la novella
del 1994: rapporto processuale e rapporto negoziale parti-arbitri, in Corr. Giur., 2005, pag. 651
ss.; SALVANESCHI, La domanda di arbitrato, in Riv. Dir. Proc., 1995, 3, 667 ss.; DELLA PIETRA, Il
procedimento, in Verde (a cura di), Diritto dell’arbitrato rituale, Torino, 2000, 169 ss.; LA CHINA,
L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano, 1999, 102 ss.; FAZZALARI, L’arbitrato, Torino, 1997,
43 ss.
(50) In G.U. 15 febbraio 2006, n. 38 suppl. ord. n. 40/L.
(51) L’art. 819-ter c.p.c. stabilisce che la pendenza di una stessa causa dinanzi ad un
giudice statale non esclude la competenza arbitrale. I due procedimenti quindi a tenore della
citata norma proseguono su binari paralleli.
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Sotto il profilo sistematico, come tutte le norme contenute nella
sezione V e in genere nel titolo I, l’art. 39 c.p.c. ha la funzione di
individuare l’autorità giudiziaria competente a decidere una data controversia attraverso il meccanismo della prevenzione. Secondo il costante
insegnamento giurisprudenziale (52) la situazione processuale della litispendenza postula la contemporanea pendenza di più processi relativi alla
stessa causa presso uffici giudiziari diversi, ma appartenenti al medesimo
ordine giudiziario, con la conseguenza che, nell’ipotesi di rapporto di
ripartizione esterno alla medesima giurisdizione, il concorso tra processi
non può risolversi con il ricorso all’art. 39 c.p.c., ma va risolto a mezzo di
una pronuncia sulla giurisdizione e, in caso di decisioni contrastanti, con i
rimedi che sono appositamente previsti per questa specifica ipotesi (art.
362 c.p.c.).
Tuttavia, gli arbitri non fanno parte dell’ordine giudiziario, nel cui
ambito operano le norme sulla competenza e sulla litispendenza, non sono
giudici speciali (nel qual caso potrebbe trovare applicazione il disposto
dell’art. 37 c.p.c.), non, alla stregua dei giudici delegati, possono considerarsi articolazioni del Tribunale. Ne consegue che non possono trovare
applicazione al procedimento arbitrale le norme in tema di competenza
territoriale o funzionale, né in tema di litispendenza.
La legge 5 gennaio 1994, n. 25, di riforma dell’arbitrato, sembra,
inoltre, aver confermato l’impossibilità di ricorrere all’art. 39 c.p.c. per le
ipotesi di litispendenza arbitrale, in quanto ha disciplinato il contenuto e
gli effetti della domanda arbitrale, limitandosi a ricollegare all’atto introduttivo del procedimento arbitrale solo alcuni degli effetti tipici della
domanda giudiziale, non menzionando invece la litispendenza. Il legislatore ha ritenuto opportuno far dipendere dalla proposizione della domanda arbitrale solo alcuni e specifici effetti della domanda giudiziale,
escludendo il verificarsi della litispendenza.
L’impossibilità di ricorrere all’art. 39 c.p.c. per disciplinare la litispendenza arbitrale deriva anche dalla differenza tra il giudizio statale, per cui
è dettata la citata disposizione, e il giudizio arbitrale, differenze che non
consentirebbero il ricorso all’applicazione analogica.
L’arbitrato ha una natura sostanzialmente privatistica, il potere degli
arbitri discende da una manifestazione di volontà delle parti: diversa è la
matrice della potestas iudicandi di giudici e arbitri, diversi i modi di
selezione e diverso il criterio di determinazione del loro compenso (53). Le
(52) In tal senso si è di recente espressa la Corte di Cassazione con due ordinanze
gemelle: Cass. 25 luglio 2013, n. 18100 e Cass. 24 luglio 2013, n. 18024, pubblicate su
www.italgiure.giustizia.it.
(53) Basti pensare che i giudici statali percepiscono una retribuzione mensile fissa che
prescinde dal numero di controversie risolte, al contrario i giudici privati ricevono un compenso
commisurato al valore e al numero di lodi emessi e liti decise.
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differenze ontologiche esistenti tra i due organi giudicanti sono ancora più
evidenti negli arbitrati liberi, ove il giudice decide la lite con una mera
determinazione contrattuale, e non possono non influenzare anche il
regime della competenza e della litispendenza.
Considerata, quindi, la diversità strutturale e ontologica tra il giudizio
arbitrale libero e quello statale sembra doversi escludere che la pendenza
dell’arbitrato determini tutti gli effetti processuali della domanda giudiziale e, in particolare, che produca quegli effetti non espressamente
contemplati dalla legge, tra i quali l’effetto previsto dall’art. 39 c.p.c. (54)
5. L’applicabilità dell’art. 39 c.p.c. dovrebbe escludersi, altresì, per le
ipotesi di contemporanea pendenza di cause identiche dinanzi a un organo
arbitrale e all’autorità giudiziaria competente in sede di impugnazione di
lodo già precedentemente emesso.
L’ambito di applicazione della litispendenza (55) è stato oggetto di
una lenta, ma inesorabile, erosione ad opera della giurisprudenza, interrotta dal recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (56).
Dapprima, si è negata la litispendenza in caso di nuovo giudizio per la
stessa causa, allorché quello preveniente fosse giunto alla sentenza definitiva, ma fosse ancora pendente il temine per la proposizione dell’impugnazione. In tal caso, infatti, sarebbe mancata la simultaneità dell’esercizio
della funzione giurisdizionale da parte di giudici diversi sullo stesso
oggetto e fra le stesse parti (57), perché in pendenza del termine per
impugnare non vi è un giudice “attualmente” investito della lite. La mera
possibilità che il giudizio preveniente effettivamente potesse proseguire
nella fase di impugnazione (58), non è stata ritenuta ragione sufficiente a
(54) Inoltre per un verso non si potrebbe pretendere che gli arbitri preventivamente aditi
conoscano e giudichino anche la causa successivamente proposta senza una accettazione scritta,
che giustifichi l’assunzione dei relativi obblighi e delle connesse responsabilità (PUNZI, Disegno
sistematico dell’arbitrato, vol. II, cit., 277), per altro verso, il procedimento arbitrale incardinato
su base contrattuale non potrebbe consentire ad un arbitro di interferire sulla competenza di un
altro (BERNINI, L’arbitrato, Bologna, 1993, 375).
(55) In passato, la giurisprudenza non riteneva rilevante ai fini della dichiarazione di
litispendenza la diversità di grado dei giudizi identici ed era anzi specificato che il secondo
giudice non era tenuto a svolgere alcuna indagine né sull’ammissibilità né tanto meno sul
fondamento del gravame, a conferma della doverosità della pronuncia di litispendenza. Cfr.
COLESANTI, Mutamenti giurisprudenziali in materia processuale: la litispendenza, in Riv. Dir.
Proc., 2004, 365 ove l’A. conclude affermando che “ancora una volta vien dunque da notare
come gli orientamenti più recenti, pur dettati da intenti apprezzabili di affinamento, forse di più
adeguata considerazione della “sostanza” dei temi affrontati, e via dicendo, soddisfino meno di
(come oggi è di moda dire) più “risalenti” indirizzi, a lor volta più rispettosi di quella che
dovrebbe essere l’unica realtà da considerare, la volontà di legge”.
(56) Cass., SS.UU., 12 dicembre 2013, n. 27846, in www.italgiure.giustizia.it.
(57) In tal senso COLESANTI, Mutamenti giurisprudenziali in materia processuale: la
litispendenza, cit., 365 ss.
(58) Cass., 21 aprile 1999, n. 3965, in Foro it. Rep., 1999, v. Compet. civ., n. 213.
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consentire al giudice successivamente adito di dichiarare la litispendenza
e procedere alla cancellazione della causa dal ruolo.
La giurisprudenza di legittimità ha, poi, escluso l’applicabilità dell’istituto della litispendenza (59) nelle ipotesi di pendenza di cause identiche
in gradi diversi di giudizio.
Ai fini della sussistenza della litispendenza non era, dunque, considerato sufficiente che due cause identiche pendessero tra le medesime parti,
ma necessario, altresì, che si trovassero nello stesso grado di giudizio.
Nelle ipotesi di diversità di grado del giudizio, il giudice (non necessariamente quello successivamente adito) avrebbe potuto, al più, ricorrere
alla sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. Il ricorso alla sospensione
presupponeva, però, la necessità di dilatarne l’ambito di applicazione, al
fine di equiparare la pendenza di cause identiche in gradi diversi di
giudizio a un’ipotesi di pregiudizialità-dipendenza.
I principi elaborati dalla Cassazione sono stati criticati dalla giurisprudenza di merito (60) e dalla dottrina, in quanto il fondamento della
litispendenza risiede nel principio di ordine pubblico processuale della
inammissibilità di duplicità di azioni giudiziarie in relazione allo stesso
diritto soggettivo, con conseguente pericolo di contraddittorietà di giudicati, e dell’obbligo per il giudice successivamente adito di eliminare uno
dei due procedimenti identici in base al criterio della prevenzione, mediante declaratoria ex officio della litispendenza e cancellazione dal ruolo
della causa successivamente instaurata.
L’art. 39, comma 1, c.p.c. svolge la funzione di evitare il rischio di
contrasto tra diverse decisioni sulla medesima controversia, pertanto non
sembra riscontrarsi alcuna ragione per distinguere tra processi che pendano nello stesso grado di giudizio e processi che pendano uno in prima
sede e uno in fase di gravame. Dinanzi alla proposizione della stessa
domanda in altro processo, il rischio di contrasto tra decisioni è il medesimo.
(59) Cass., 20 giugno 2007, n. 14332, in Riv. Dir. Proc., 2008, 569; Cass., 16 novembre
1994, n. 9645, in Foro it. Rep., 1994, v. Competenza civ., n. 113; Cass., 18 giugno 2002, n. 8833,
in Foro it., 2003, I, 213.
(60) In tal senso Tribunale Bari, Sez. I, 4 maggio 2009, n. 1423, inedita. Ove si chiarisce
che “ai fini della sussistenza della litispendenza” sarebbe, infatti, “da ritenersi irrilevante che le
due identiche cause pendano in gradi diversi, finché non si sia formato il giudicato sulla sentenza
che, definendo uno dei due procedimenti, trasformi l’eccezione di litispendenza in exceptio rei
iudicatae”. Orientamento condiviso anche dalla Corte di Appello di Napoli, Sez. II, 16 giugno
2005, inedita, che ha così criticato la giurisprudenza di legittimità “secondo la Corte deve
provvedersi nella specie alla declaratoria di litispendenza con sentenza ed alla cancellazione della
causa dal ruolo con separata ordinanza, non potendo condividersi, in sintonia peraltro con le
posizioni assunte al riguardo dalla prevalente dottrina, l’orientamento più recente della Cassazione, secondo il quale non sussiste litispendenza fra due cause fra le stesse parti, quando esse
pendano (come nel caso in esame) in gradi diversi, potendo in tal caso ricorrere, eventualmente,
un’ipotesi di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c.”.
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Le critiche sollevate dalla giurisprudenza e dalla dottrina sono state
finalmente recepite dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza del 12
dicembre 2014, n. 27846 (61) ha enunciato il seguente principio di diritto:
“a norma dell’art. 39 c.p.c., comma 1, qualora la medesima causa venga
introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a
dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente
iniziata, anche se questa, già decisa in primo grado, penda davanti al
giudice dell’impugnazione”.
Il revirement della Cassazione (62) si basa in primis sull’interpretazione letterale dell’art. 39 c.p.c. che stabilisce espressamente che la declaratoria della litispendenza può essere emessa “se una stessa causa è
proposta davanti a giudici diversi” e “in qualunque stato e grado del
processo” (63). Tale disposizione non consente di dubitare che la litispen(61) Nella sentenza, la Corte di Cassazione chiarisce che l’obbligo del giudice successivamente adito si manifesta sin dall’inizio della causa e permane sino a quando sussista una
situazione di pendenza del giudizio previamente iniziato. Quindi anche nell’ipotesi in cui nel
giudizio preventivamente instaurato sia stata pronunciata una sentenza ma non siano ancora
decorsi i termini per l’impugnazione. In tale caso, nella giurisprudenza di legittimità si era
affermato che finché l’impugnazione non è proposta non c’è un giudice investito della lite, con
conseguente inconfigurabilità della contemporanea pendenza di due giudizi sull’identica causa
(Cass. 21 aprile 1999, n. 3965, in Rep. Foro It., 1999, v. Competenza civ., n. 123; Cass. 18 ottobre
1995, n. 10857, in Rep. Foro it., 1995, v. Competenza civ., n. 125; Cass. 11 giugno 1987, n. 5115,
in Rep. Foro it., 1987, v. Competenza civ., n.128; Cass. 1 febbraio 1985, n. 656, in Giust. Civ.,
1985, I, 1665; Cass. 6 novembre 1984, n. 5609, in Rep. Foro It., 1984, v. Competenza civ., n. 109).
La Cassazione, nella sentenza del 12 dicembre 2013, n. 27846, cit., considera, al contrario, che
anche nel caso in cui l’impugnazione possa ancora essere proposta avverso la sentenza assunta
nel giudizio iniziato prima sussista una situazione di litispendenza, la quale viene meno solo con
la formazione del giudicato in tale giudizio, ovvero con la declaratoria di estinzione. Analoghe
considerazioni sono svolte nelle ipotesi in cui il giudizio preventivamente iniziato versi in una
situazione di quiescenza, ma sia pur sempre pendente, non essendo decorsi i termini per la sua
riattivazione.
(62) Un altro argomento a sostegno dell’interpretazione dell’art. 39 c.p.c. elaborata dalle
sezioni unite della Corte di Cassazione nella citata sentenza del 12 dicembre 2013, n. 27846 si
potrebbe ricavare dall’art. 1, Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, ha modificato l’art. 81
Cost. introducendo il cosiddetto pareggio di bilancio e stabilendo che “lo Stato assicura
l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi
favorevoli del ciclo economico” (sul tema si rinvia a PEREZ, Il pareggio di bilancio in costituzione.
Dal bilancio in pareggio all’equilibrio tra entrate e spese, in Giornale dir. amm., 2012, 10, pag. 929
ss.). Il principio di pareggio di bilancio, costituzionalmente previsto, potrà influenzare l’assetto
giudiziario e il processo civile. Il nuovo processo civile dovrà essere teso ad assicurare non solo
i principi del giusto processo, ex art. 111 Cost., ma dovrà altresì garantire un contenimento delle
spese e dei costi, in ossequio al novellato art. 81 Cost. In una simile visione, l’orientamento
giurisprudenziale citato secondo il quale la dichiarazione di litispendenza, ex art. 39 c.p.c., non
è consentita nei casi di pendenza di cause uguali in gradi diversi di giudizio, potrebbe
contrastare con l’art. 81 Cost. La duplicazione di processi relativi a una medesima domanda
potrebbe comportare un aggravio dei costi del sistema giustizia, impiegando tempo e risorse e
non assicurando ai cittadini risposte certe alla domanda di giustizia. Il dovere di pareggio del
bilancio costituzionalmente imposto avrebbe potuto, quindi, determinare una pronuncia d’illegittimità costituzionale dell’interpretazione dell’art. 39 c.p.c. condivisa dalla giurisprudenza e
risolversi in una lettura costituzionalmente orientata della Corte Costituzionale (su ci si rinvia
a BIN - PITRUZZELLA, Diritto Costituzionale, Torino, 2003).
(63) Cfr. Cass., 8 febbraio 1983, n. 1056, in La Prev. Soc., 1983, 2, 654.
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denza possa operare anche quando la stessa causa sia stata proposta in due
giudizi, uno dei quali si trovi in grado di appello.
La norma, anzi, obbliga il giudice, che rilevi la litispendenza, a
dichiararla e a disporre la cancellazione della causa dal ruolo, non attribuendo alcun rilievo al grado di giudizio affinché si proceda alla dichiarazione della litispendenza, da parte del giudice successivamente adito.
La mera pendenza del processo impone, quindi, al secondo giudice di
dichiarare la litispendenza, “perché l’ordinamento non vuole e non tollera
che per “la stessa causa” possa sussistere una duplicità di giudizi” (64),
indipendentemente dalla fase in cui essi si trovino. La legge esige (e
considera sufficiente) che il processo preveniente sia ancora in corso
allorché per la stessa causa ne venga iniziato un secondo. In presenza di
tali presupposti, il giudice è tenuto a dichiarare la litispendenza.
L’impedimento (65) della litispendenza esiste sino a quando dura la
pendenza del processo e la pendenza del processo esiste sino a quando
esso non sia stato concluso con sentenza passata in giudicato.
La condivisibile interpretazione dell’art. 39 c.p.c. elaborata nella
citata sentenza del 2013 non sembra offrire tuttavia un argomento a
sostegno della applicabilità dell’istituto della litispendenza all’arbitrato
irrituale.
6. Secondo un orientamento dottrinale (66), il problema della litispendenza arbitrale potrebbe essere risolto tramite l’applicazione analogica, non già dell’art. 39 c.p.c. dettato per il processo ordinario, bensì
dell’art. 819-ter c.p.c. che, oltre a disciplinare i rapporti tra arbitri e giudici
statali, fornirebbe una soluzione per i rapporti tra arbitri.
La citata disposizione prevede che “la competenza degli arbitri non è
esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice, né dalla
connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente
davanti al giudice” e sottopone a regolamento di competenza la sentenza
con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione
a una convenzione di arbitrato. Parte della dottrina (67) considera la
(64) COLESANTI, Mutamenti giurisprudenziali in materia processuale: la litispendenza, cit.,
365 ss.
(65) Come noto, per effetto della dichiarazione di litispendenza il processo innanzi al
giudice successivamente adito si esaurisce definitivamente, salva la possibilità per la parte
interessata di esperire il regolamento di competenza di cui all’art. 42 c.p.c. (Cass., 20 dicembre
1985, n. 6558, in Foro it., 1987, 2, I, 565). Il giudice può nel medesimo provvedimento
pronunciarsi sulla litispendenza e sul merito della controversia e, in tal caso, il provvedimento
sarà impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione. La dichiarazione di litispendenza
determina l’estinzione del giudizio successivamente instaurato e si può, in tal senso, considerare
un impedimento alla prosecuzione del giudizio stesso.
(66) G.F. RICCI, Arbitrato. Commentario, diretto da Carpi, Bologna, 2007, 506.
(67) PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, II, cit., 627.
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disposizione applicabile indistintamente all’arbitrato rituale e a quello
libero.
L’applicazione della norma all’arbitrato irrituale viene motivata, considerando il riferimento alla “competenza”, contenuto nell’art. 819 ter
c.p.c., non in senso tecnico, bensì “quale ostacolo alla decidibilità nel
merito della controversia” da parte del giudice statale che sia stato adito
nonostante l’esistenza di una convenzione arbitrale valida ed efficace (68).
Questa interpretazione dell’art. 819-ter c.p.c. ne consentirebbe l’applicazione indistintamente all’arbitro rituale e irrituale.
L’applicazione della disposizione all’ipotesi della contemporanea
pendenza di cause identiche dinanzi a distinti collegi arbitrali determinerebbe l’assoluta irrilevanza della litispendenza: i due procedimenti arbitrali dovrebbero proseguire su binari paralleli e concludersi con la pronuncia di due lodi che, se contrastanti, potrebbero formare oggetto di
impugnazione per nullità, ai sensi dell’art. 829, comma 1, n. 8, c.p.c. (69).
In astratto, l’art. 819-ter c.p.c. potrebbe ritenersi applicabile non solo
alle ipotesi di contemporanea pendenza di domande dinanzi a collegi
arbitrali, ma anche all’ipotesi di pendenza della medesima domanda
dinanzi ad un tribunale arbitrale e all’autorità statale in sede di impugnazione del lodo. Il procedimento di impugnazione di un lodo arbitrale è,
infatti, un procedimento giudiziario rimesso alla competenza della autorità giudiziaria statale. In tal caso, il collegio arbitrale adito successivamente non potrebbe sottrarsi alla decisione del merito, dichiarando la
litispendenza.
Tale soluzione mal si concilia con il principio del ne bis in idem (70) e
si può tradurre in uno strumento di dilazione dei tempi della giustizia
arbitrale.
La tesi sembra, inoltre, estendere l’ambito di applicazione della citata
disposizione in modo contrario alla sua ratio (71). L’art. 819-ter c.p.c. è
stato introdotto dal legislatore del 2006 al solo scopo di tutelare la
(68) Si è altresì osservato che non possono essere rimessi alla disponibilità delle parti il
trattamento processuale dell’eccezione di patto compromissorio da sollevarsi innanzi ai giudici
dello Stato né il regime impugnatorio della sentenza statale che decida su tale eccezione. Da ciò
conseguirebbe la necessità che l’art. 819-ter c.p.c. trovi, sempre, applicazione nell’arbitrato
irrituale e la materia sia sottratta così alla libera derogabilità delle parti. Cfr. SASSANI, L’arbitrato
a modalità irrituale, cit. 37.
(69) Nell’arbitrato irrituale il lodo pronunciato probabilmente potrebbe essere impugnato ad esempio ai sensi dell’art. 808-ter, comma 2, n. 1, c.p.c. equiparando la pronuncia degli
arbitri che esorbitino i propri limiti alla carenza di potestas iudicandi.
(70) Seguendo questa impostazione si dovrebbe riconoscere che il principio del ne bis in
idem non è un principio inderogabile ma ammette deroghe per il pronto e spedito andamento
del procedimento ed è tutelato solo attraverso strumenti successivi, quale l’impugnazione dei
lodi contrastanti.
(71) Come precisato da E. F. RICCI, In tema di litispendenza tra arbitrato e procedimento
di impugnazione contro precedente lodo, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, a cura
di Auletta - Califano - Della Pietra - Rascio, cit., 690.
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convenzione di arbitrato ed è, quindi, diretto a disciplinare esclusivamente
i rapporti tra arbitro e autorità giudiziaria investita ex novo di un’identica
causa già decisa dall’arbitro. La disposizione non disciplina, invece, i
rapporti tra arbitri o tra arbitro e giudice statale investito del giudizio di
impugnazione del lodo arbitrale.
La citata disposizione (72) svolge la funzione di tutelare il principio
dell’autonomia del processo arbitrale rispetto all’autorità giurisdizionale (73), salvaguardare la convenzione d’arbitrato ed escludere il potere
delle parti di interrompere i lavori degli arbitri attraverso la mera proposizione di una domanda giudiziale, vanificando così la natura stessa del
processo arbitrale. La norma è volta, quindi, a impedire manovre delle
parti finalizzate a paralizzare a posteriori l’operatività e l’efficacia della
convenzione arbitrale (74). Gli arbitri hanno, così, il potere di conoscere
della controversia agli stessi devoluta anche ove penda dinanzi al giudice
togato altra causa identica o comunque connessa.
L’esigenza di proteggere la convenzione arbitrale dal potere del
giudice non si riscontra nei rapporti tra arbitri. Pertanto un’applicazione
analogica dell’art. 819-ter c.p.c. ai procedimenti arbitrali non sembra
possibile (75), in considerazione della mancanza del nesso di somiglianza
rilevante tra il caso regolato dalla disposizione e il caso non regolato.
Peraltro, nel caso di arbitrato irrituale, la litispendenza sembra potersi
(72) La disposizione ha natura protettiva della convenzione d’arbitrato riconosciuta
dall’unanime dottrina. Cfr. E.F. RICCI, In tema di litispendenza tra arbitrato e procedimento di
impugnazione contro precedente lodo, in Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, a cura di
Auletta, Califano, Della Pietra e Rascio, cit., 691.
(73) Il principio è riconosciuto dalla gran parte dei paesi europei. In particolare, il
principio di autonomia ha caratterizzato l’intera disciplina inglese prevista dall’Arbitration Act
del 1996 in merito ai rimedi esperibili avverso un lodo arbitrale e altresì l’impugnazione per
seria irregolarità, ai sensi della Section 68. L’esigenza di restringere i poteri di intervento del
giudice ordinario sul lodo al fine di garantirne la stabilità è stata tradotta in un sistema che
consente l’impugnazione del lodo solo nei casi di serie irregolarità ed elenca in modo tassativo
le irregolarità procedurali che possono definirsi gravi. Tale rimedio è comunque subordinato al
previo esaurimento delle procedure di correzione del lodo e alla consumazione dei mezzi
arbitrali di review o di appello eventualmente previsti nella convenzione arbitrale.
(74) In tal senso VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006, 18 ss.
(75) Secondo un orientamento della dottrina, in presenza di una convenzione per
arbitrato irrituale, l’esercizio della giurisdizione resta, quindi, sospeso in funzione di una vicenda
di tutela procedimentalizzata, che, sotto il profilo funzionale, non è dissimile da quella che si
svolge nell’arbitrato rituale. In tal senso, non si potrebbe negare al patto compromissorio libero
il regime di presupposto processuale negativo riconosciuto al patto compromissorio rituale.
L’istituto è da considerarsi alla stregua dell’arbitrato rituale come mezzo alternativo di risoluzione di controversie rispetto alla giurisdizione statale, il cui esercizio viene impedito. Il
novellato art. 808 ter c.p.c., in combinato disposto con l’art. 819 ter c.p.c, (secondo cui il patto
compromissorio dà luogo ad una sorta di eccezione d’incompetenza), non può dare adito a
dubbi, anche se lo stesso art. 808 ter c.p.c. non disciplina espressamente l’efficacia negativa dello
stesso patto rispetto alla cognizione del giudice ordinario. Si è osservato (SASSANI, L’arbitrato a
modalità irrituale, in questa Rivista, 2007, 34) che l’efficacia negativa è in re ipsa, essendo
“condizione di pensabilità” dello stesso fenomeno per cui due parti si vincolano a non adire la
giurisdizione per la decisione di una controversia giuridica che li riguarda rimettendo tale
decisione ad arbitri.
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risolvere senza il necessario ricorso alle norme dettate dal codice di rito
per altri istituti.
7. Come anticipato, la soluzione della quaestio iuris è influenzata
dalla natura giuridica dell’arbitrato.
Il deferimento del potere di ius dicere a un arbitro non implica
l’attribuzione di funzioni giurisdizionali. L’arbitro forma un giudizio,
decide una lite, ma non agisce come organo dello Stato, non fruisce di
poteri d’autorità inerenti alla funzione giurisdizionale, ma decide pronunciando un lodo che produce gli effetti di una sentenza (ex art. 824-bis
c.p.c.) o ha natura contrattuale (ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c.).
Matrice privatistica viene riconosciuta all’arbitrato irrituale (76). Benché le riforme degli ultimi anni abbiano attenuato le distanze tra arbitrato
rituale e irrituale, il fondamento dell’arbitrato irrituale dovrebbe essere
individuato nella facoltà, compresa nell’autonomia negoziale dei privati,
di risolvere le controversie mediante una determinazione contrattuale (77).
Ne consegue che alle ipotesi di litispendenza della stessa causa
dinanzi ad arbitri diversi non sembrano applicabili i principi della prevenzione e della dichiarazione ex officio della litispendenza.
La soluzione alla litispendenza arbitrale sembra potersi ricavare dalla
disciplina del mandato conferito dalle parti agli arbitri.
In astratto si possono individuare due ipotesi di contemporanea
pendenza delle cause identiche dinanzi a collegi arbitrali. Ove la costituzione del secondo collegio arbitrale sia effettuata da tutte le parti della
convenzione arbitrale della prima procedura, si potrebbe ipotizzare una
revoca tacita del mandato (78) conferito ai primi arbitri. Questi ultimi,
(76) La matrice privatistica è, tuttavia, presente anche nell’arbitrato rituale, quale
manifestazione di autonomia privata. Lungi dall’essere una forma particolare di giurisdizione
ordinaria, in cui gli arbitri sono un organo “attraverso il quale lo Stato esercita la sua volontà
giurisdizionale e nel quale la volontà delle parti concorre alla costituzione del giudice”. Cfr.
SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1958, 13.
(77) Secondo la giurisprudenza la determinazione contrattuale consistente nel lodo
irrituale si potrebbe ricondurre ad una transazione. Così Cass., 13 aprile 2001, n. 5527, in Giust.
civ., 2002, I, 2909. Parte della dottrina ha precisato che: “Come privato è il negozio giuridico da
cui gli arbitri derivano i loro poteri, così privata è la loro funzione, di diritto privato i rapporti che
corrono tra essi e le parti”, così ROCCO, La sentenza civile, Torino, 1906, 40. Anche se un diverso
orientamento dottrinale ha evidenziato che sarebbe contraddittorio far derivare dall’efficacia
dell’atto conclusivo del procedimento la qualificazione giuridica dell’attività esercitata dall’arbitro. Cfr. VERDE, Diritto dell’arbitrato, 3 ed., Torino, 2005, 118; Cass. 3 agosto 2000, n. 527, in
questa Rivista, 2000, 699, con nota di FAZZALARI.
(78) Perfezionatosi il contratto di arbitrato con l’accettazione dell’incarico da parte degli
arbitri le parti non potrebbero più revocare la proposta unilateralmente a causa del vincolo
bilaterale. Il mandato agli arbitri ha natura collettiva, avendo ad oggetto un affare di interesse
comune ed è conferito nell’interesse anche del mandatario, ivi troverà applicazione l’art. 1726
e art. 1723, comma 2, c.c. Con la conseguenza che una revoca del mandato ad iniziativa delle
parti della convenzione può essere solo congiunta e non unilaterale, ciò nemmeno quando
riguardi l’arbitro nominato da una sola delle parti. In tal senso CECCHELLA, L’arbitrato, Torino,
2005, 114 ss.
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messi a conoscenza del secondo incarico conferito ad altri arbitri dovrebbero, quindi, astenersi dal compiere ulteriori attività, salvo il loro diritto al
compenso per le attività già espletate.
Ove, al contrario, l’incarico al secondo collegio provenga da una sola
delle parti e la costituzione del collegio arbitrale venga realizzata mediante l’intervento suppletivo del Presidente del tribunale (o le parti
abbiano previsto che la nomina venga effettuato da un terzo), non si potrà
riscontrare una revoca tacita del mandato. Il secondo collegio arbitrale,
edotto dell’esistenza di un altro tribunale arbitrale preventivamente costituito, dovrebbe dare atto che il collegio non è stato validamente
costituito (79) perché la parte non poteva ricorrere all’art. 810 c.p.c.
La tesi non risolve l’ipotesi in cui una delle parti, insoddisfatta della
pronuncia arbitrale, abbia dato avvio a un nuovo procedimento arbitrale
e impugnato il lodo pronunciato dal collegio originariamente nominato.
In questa ipotesi, probabilmente, si dovrebbe dire che il contratto di
mandato conferito al primo collegio è stato interamente eseguito. Il lodo
pronunciato dal collegio arbitrale, previamente adito, vincola le parti, le
quali non potrebbero validamente conferire altro mandato avente ad
oggetto uno stesso incarico già interamente espletato. In caso di concorde
volontà delle parti del lodo-contratto, queste potrebbero per mutuo
consenso non dare esecuzione al lodo o disporre diversamente, ma vi
sarebbe la necessità dell’accordo di tutti, ai sensi dell’art. 1372 c.c. In
assenza di tale accordo, le parti resteranno vincolate al lodo-contratto e il
collegio successivamente adito dovrebbe sempre dichiarare di non aver il
potere di decidere la controversia (80).
Sembra, tuttavia, che la carenza del potere di risolvere la controversia
del collegio arbitrale possa trovare la sua giustificazione giuridica nella
disciplina del potere delle parti di nominare gli arbitri, e non invece nella
disciplina del mandato.
La soluzione al tema della litispendenza arbitrale si riscontra nella
consumazione del potere delle parti di adire gli arbitri (81).
(79) In tal senso DELLA PIETRA, Il procedimento, in Diritto dell’arbitrato a cura di Verde,
Torino, 2005, 236 ss.
(80) Per quanto concerne la forma, in difetto di un’espressa previsione di legge, si dovrà
desumere dal principio dell’eo modo quo colligatum est la regola della necessaria coincidenza
della forma del patto compromissorio con quella del relativo negozio risolutivo. Peraltro si deve
rilevare che, difficilmente, nella prassi, un arbitro, accettato l’incarico e vincolatosi a decidere
una lite entro un termine stabilito, in presenza di una mera revoca informale rinuncerebbe a
decidere il merito della controversia, rischiando così di esporsi una qualche forma di responsabilità nei riguardi delle parti. La mera stipulazione dell’accordo risolutivo non produrrà effetti
nei confronti degli arbitri se non dalla relativa comunicazione formale. Cfr. PUNZI, Disegno
sistematico dell’arbitrato, vol. I, Padova, 2012, 666 ss.
(81) Cfr. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, 274 ss. La soluzione è
condivisa anche da BERNINI, L’arbitrato. Diritto interno e convenzioni internazionali, Bologna,
1993, 375, secondo il quale un procedimento incardinato su basi contrattuali come l’arbitrato
non consentirebbe ad un arbitro di interferire sulla competenza di un altro.
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La notifica dell’atto di accesso all’arbitrato, che contiene la manifestazione di volontà di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia
e l’eventuale nomina dell’arbitro di parte, determina la consumazione del
potere di nominare gli arbitri stessi per la risoluzione della controversia (82).
Le parti possono esercitare il potere di adire gli arbitri per la risoluzione della controversia una sola volta. Nominato il collegio e conferito
l’incarico di ius dicere, le parti hanno, pertanto, esaurito il loro potere di
deferire la soluzione della controversia a un organo arbitrale e, conseguentemente, l’organo arbitrale ha esaurito il proprio potere di decidere la
controversia.
I poteri derivanti dalla stipulazione del patto compromissorio sono
stati già esercitati con la costituzione del primo collegio arbitrale e la
pronuncia del relativo lodo (83).
Le tesi citate (disciplina del mandato e consumazione del potere delle
parti) sembrano pervenire alle medesime conclusioni (84). La prima, rite(82) Secondo la giurisprudenza il difetto di potestas iudicandi del collegio decidente,
comportando un vizio insanabile del lodo, può essere rilevato d’ufficio nel giudizio di impugnazione, anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato, indipendentemente dalla
sua precedente deduzione nella fase arbitrale, qualora derivi dalla nullità del compromesso o
della clausola compromissoria. V. Cass. 2 maggio 2006, n. 10132, in Mass. Foro it., 2006, I, n. 849,
v. Arbitrato. In tema di impugnazione di lodo arbitrale (rituale), la carenza della potestas
iudicandi degli arbitri è questione che attiene alla validità del compromesso o della clausola
compromissoria, nonché ai relativi limiti sostanziali e temporali, o alla composizione del
collegio arbitrale. Pertanto, ai sensi dell’articolo 829 c.p.c., che regola tassativamente le ipotesi
di impugnazione per nullità del lodo, non è consentito far valere con il relativo giudizio il vizio
di motivazione del lodo arbitrale, ad esclusione dell’ipotesi in cui essa manchi del tutto. Così
Cass. 14 marzo 2006, n. 5466, in Mass. Foro it., 2006, n. 528, v. Arbitrato.
(83) Secondo PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, cit., 278, l’eccezione dovrebbe
essere promossa dalla parte che non ha provveduto alla nomina del secondo collegio arbitrale,
la quale dovrebbe eccepire che il potere di adire il giudizio arbitrale e di provocare la
costituzione del collegio è stato già esercitato. Il secondo collegio nominato, peraltro, potrebbe
non essere conoscenza della pendenza di altro causa identica dinanzi ad un diverso tribunale
arbitrale.
(84) Secondo un orientamento dottrinale (PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol.
II, op. cit., 663 ss.), l’ipotesi di rinuncia tacita delle parti al patto compromissorio e quella di
esaurimento della funzione del patto compromissorio dovrebbero ricondursi all’istituto della
cessazione degli effetti del patto compromissorio. In entrambe le ipotesi ricostruttive la
duplicità delle domande arbitrali in relazione alla stessa situazione giuridica soggettiva influisce,
prima ancora che sul potere di giudicare degli arbitri, sulla efficacia stessa del patto compromissorio. Il codice di procedura civile del 1865 espressamente disciplinava le ipotesi in cui “il
compromesso cessa”. Il compromesso, infatti come ogni contratto è fonte di obbligazioni “e
perciò quando si estinguono le obbligazioni che nascono dai contratti si dice pure che si estingue
il contratto”. Ne consegue che gli effetti del compromesso vengono meno quando si è esaurita
la funzione del patto compromissorio. Considerato che la funzione del compromesso consiste
nel far decidere le controversie insorte tra le parti ad arbitri, lo scopo può dirsi conseguito con
il compimento del giudizio arbitrale. Dunque, al momento della sottoscrizione e comunicazione
del lodo alle parti cessano gli effetti del patto compromissorio. Discorso parzialmente diverso
deve farsi per la clausola compromissoria. Ovviamente gli effetti della clausola compromissoria
sopravvivono alla definizione della singola controversia derivante dal contratto, cui la clausola
è inserita. La sopravvivenza degli effetti alla definizione del giudizio arbitrale riguarda solo le
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nendo le parti vincolate al lodo — contratto pronunciato dal collegio
preventivamente adito e il mandato completamente eseguito, considera
esaurito il potere delle parti di conferire un mandato per il compimento di
uno stesso atto giuridico. La seconda, argomentando dagli effetti della
convenzione arbitrale, giunge alla considerazione che dalla stessa convenzione derivi il potere delle parti di nominare un solo organo arbitrale cui
affidare la soluzione di una determinata lite.
In entrambe le ipotesi ricostruttive, la duplicità delle domande arbitrali in relazione alla stessa situazione giuridica soggettiva influisce sul
potere di giudicare del tribunale arbitrale (successivamente adito). La
natura dell’arbitrato irrituale e la sua funzione di composizione delle lite,
sembrano meglio aderire alla tesi della consumazione del potere delle
parti e non invece alla disciplina del mandato.
I compiti, i doveri e i poteri che sono attribuiti all’arbitro, anche
irrituale, mal si adattano alla complessiva disciplina del mandato dove
l’agire “per conto” del mandante ha luogo sempre nel suo interesse (85), la
dove è essenziale che l’arbitro si ponga e sia imparziale (86).
La soluzione che sembra doversi condividere è proprio quella assunta
dal Collegio arbitrale nel lodo in epigrafe (87). La parte attrice, avendolo
già esercitato, ha esaurito il proprio potere di deferire la risoluzione della
controversia a un organo arbitrale e, conseguentemente, su quella identica
domanda, l’organo arbitrale ha esaurito il proprio potere di decidere la
controversia. Il Collegio arbitrale, condivisibilmente, ha dichiarato il
difetto della propria potestas iudicandi in relazione a tutte le domande
proposte dall’attore con riferimento all’allegato inadempimento contrattuale e alla conseguente domanda di risarcimento del danno.
I poteri derivanti dalla stipulazione della convenzione arbitrale sono
stati già esercitati con la costituzione del primo collegio arbitrale. Il
secondo collegio risulta, quindi, privo del potere di giudicare la controversia devoluta, in quanto le parti non avevano più il potere di nominarlo
e di deferire ad altri arbitri la decisione della medesima controversia. Il
controversie diverse da quella decisa con il lodo. Una volta che, infatti, sia stato pronunciato il
lodo le parti sono libere dal patto arbitrale né vi potrebbero più fare riferimento. Il compromesso o la clausola compromissoria avrebbe in ogni caso esaurito i suoi effetti. Cfr. PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. I, cit., 663 ss.
(85) Il vincolo fiduciario che sussiste tra mandante e mandatario permane anche nelle
ipotesi di mandato in rem propriam, ove accanto all’agire nell’interesse del mandante si
aggiunge un interesse personale del mandatario.
(86) VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 70.
(87) Il Collegio arbitrale nel lodo in epigrafe chiarisce, infatti, che: “Le parti, avendolo già
esercitato, hanno esaurito il loro potere di deferire la risoluzione della controversia ad un organo
arbitrale e conseguentemente — su quella identica domanda — l’organo arbitrale ha esaurito il
proprio potere di decidere la controversia. (...) Ne consegue che il Collegio arbitrale deve
dichiarare il difetto della propria potestas iudicandi in relazione a tutte le domande proposte dal
dott. Tizio con riferimento al lamentato inadempimento contrattuale ed alla conseguente domanda di risarcimento del danno”.
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Tribunale arbitrale ha dichiarato la carenza del potere di deferire la lite
agli arbitri e la consequenziale carenza dell’organo arbitrale del potere di
decidere la controversia stessa (88).
8. Fino ad un recente passato, nell’arbitrato irrituale le ipotesi di
simultanea pendenza di cause identiche dinanzi a diversi collegi venivano
risolte in modo diverso da quanto previsto dall’art. 39 c.p.c. in ipotesi di
litispendenza giudiziale.
Mentre, infatti, dinanzi a un giudice la contemporanea pendenza di
cause identiche in gradi diversi di giudizio richiedeva due distinte pronunce di merito con frustrazione del principio del ne bis in idem, nell’arbitrato irrituale il rischio di contrasto di giudicati può risolversi con il
ricorso alla disciplina privatistica.
Nel giudizio ordinario, ove è più sentita l’esigenza di economia
processuale, di brevità del giudizio e di certezza del diritto (89), non si
consentiva al giudice di spogliarsi della causa, presa conoscenza della
pendenza di causa identica dinanzi a un giudice di grado diverso, ma si
imponeva di decidere nel merito la lite. In questo modo, l’unico strumento
processuale per le parti, a presidio della certezza del diritto era rappresentato dalla revocazione, ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 5 c.p.c.:
strumento residuale, considerato tradizionalmente come extrema ratio cui
ricorrere ove il sistema giustizia non sia stato in grado di assicurare alle
parti un’unica e certa soluzione della loro lite, che si trasforma invece nel
solo strumento per risolvere il conflitto tra giudicati.
Il processo arbitrale, la cui diffusione si deve alle istanze sociali di una
giustizia rapida, anche per le ipotesi di litispendenza, riusciva meglio ad
assicurare alle parti una soluzione stabile della lite consentendo agli arbitri
di spogliarsi della controversia con una decisione di rito ed evitando così
un potenziale contrasto fra giudicati.
Con la citata sentenza del 12 dicembre 2013, n. 27846, le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno riportato la litispendenza all’originario
ambito di applicazione, consentendo il ricorso all’istituto anche nelle
(88) Probabilmente, ove il collegio arbitrale non avesse dichiarato il difetto di potestas
iudicandi, le parti avrebbero potuto impugnare il lodo ai sensi del novellato art. 808-ter c.p.c. In
tale ipotesi, si potrebbe ravvisare una violazione dei limiti del patto compromissorio (ai sensi del
n. 1 dell’art. 808 ter c.p.c.) o delle modalità di nomina degli arbitri (n. 2 dell’art. 808-ter c.p.c. che
si ritiene comprenda sia l’inosservanza delle disposizioni legali che di quelle pattizie per la
nomina degli arbitri). Cfr. BERTOLDI, sub art. 808-ter, in AA.VV., Codice di procedura civile
commentato, diretto da Consolo, III, Milano, 2007, 1666. Sembrerebbe inoltre potersi impugnare il lodo irrituale per eccesso dei limiti del mandato ai sensi dell’art. 1711 c.c. attraverso gli
ordinari rimedi negoziali.
(89) Sembra interessante e utile il riferimento all’abuso del processo di molti Autori, tra
i quali: TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 117 ss.;
COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319 ss.;
ANSANELLI, voce Abuso del processo, in Dig. disc. priv., sez. civ., agg., I, Torino, 2007, par. 1-2.
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ipotesi di pendenza di cause identiche in gradi diversi del giudizio e
avvicinando, così, le soluzioni alla duplicazione di domande uguali previste per l’arbitrato irrituale e per il giudizio ordinario.
Cosicché nel giudizio ordinario con l’istituto della litispendenza si
assicura il rispetto “della regola per cui de eadem re ne bis sit actio; tale
regola delimita il diritto di azione nella sua dimensione pubblica, in quanto,
cioè, esso sia volto ad ottenere dallo Stato la prestazione della giurisdizione,
e nella sua dimensione privata, in quanto diretto verso altro soggetto che sì
voglia sottoporre alle statuizioni del giudice” (90). La regola della litispendenza è, infatti, un effetto della consumazione del diritto di azione, che
impedisce ai privati di agire in giudizio più volte per ottenere la medesima
tutela giurisdizionale di una medesima situazione giuridica soggettiva.
Nell’arbitrato irrituale si perviene ad analoghe conclusioni aderendo
alla tesi sostenuta dal collegio arbitrale nel lodo in esame. Dalla convenzione arbitrale deriva il potere delle parti di deferire ad arbitri la risoluzione di una lite, potere che può essere esercitato una sola volta. La
nomina degli arbitri e la decisione arbitrale della controversia determinano la consumazione del potere delle parti di deferire la controversia ad
arbitri e il relativo difetto di potestas iudicandi del collegio successivamente nominato.
In questa prospettiva sembra allora che il lodo in esame fornisca la
più adeguata soluzione alla contemporanea pendenza di cause identiche.
In qualunque grado di giudizio pendano cause identiche, il collegio
arbitrale successivamente adito, accertata la pendenza di un giudizio
preveniente, dovrebbe considerarsi tenuto a dichiarare la carenza del
proprio potere di giudicare la lite. Per tale via si assicura anche nel
procedimento di arbitrato irrituale il rispetto del principio del ne bis idem,
evitando il rischio di contrasto tra giudicati.
RITA TUCCILLO
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Così Cass. SS.UU., 12 dicembre 2013, n. 27846, cit.
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II) INTERNAZIONALE E STRANIERA
Lodi annotati
INTERNATIONAL CENTER FOR SETTLEMENT OF INVESTMENT DISPUTES (Simma Pres., Böckstiegel, Torres Bernárdez), decisione sulla competenza e
ammissibilità, 8 febbraio 2013, Ambiente Ufficio S.p.A. et al. c. Argentina, Caso
ICSID n. ARB/08/9.
Competenza del Tribunale arbitrale - Competenza basata sull’accordo di promozione e protezione degli investimenti (BIT) tra Italia e Argentina - Giudizio
prima facie nel riconoscimento della propria competenza da parte del Tribunale arbitrale.
Distinzione tra domande basate su contratto e domande basate sul BIT - Rilevanza dell’esercizio di autorità sovrana da parte dello Stato ospite.
Clausola contrattuale di scelta della legge applicabile - Clausola contrattuale di
elezione del foro - Non esclusione della sussistenza di una domanda basata su
trattato di investimento in presenza di dette clausole.
In conformità alla prassi internazionale generalmente accettata, il compito del
Tribunale arbitrale nella fase in cui esso accerta la propria competenza a conoscere
di una causa sulla base di un BIT consiste semplicemente nello stabilire se i fatti
allegati dall’attore, qualora poi comprovati, siano suscettibili di integrare la violazione degli obblighi contenuti nel BIT invocato. Nell’espletamento di tale funzione,
il Tribunale formula un giudizio prima facie, sia con riguardo alla determinazione
del significato e della portata delle obbligazioni del BIT invocate, sia con riguardo
alla valutazione se i fatti allegati integrino l’inadempimento di tali obbligazioni. Se
tale giudizio risulta essere affermativo, il Tribunale si riconoscerà competente a
conoscere della causa, ma l’effettiva sussistenza dell’inadempimento dovrà essere
accertata nella fase del merito.
Una domanda relativa ad investimenti internazionali deve considerarsi puramente basata su un contratto, qualora lo Stato ospite, cha abbia stipulato uno
specifico contratto, non adempia alle obbligazioni sorte esclusivamente in forza di
detto contratto. Non è questo il caso qualora l’equilibrio del contratto e le obbligazioni ivi dedotte siano alterati in via unilaterale dallo Stato ospite mediante un atto
iure imperii, corrispondente all’esercizio delle sue prerogative sovrane. Infatti,
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anche se l’esercizio di tali prerogative può avere un impatto sul contratto e sul suo
equilibrio, la sua origine e natura sono totalmente estranee ad esso.
La presenza nel contratto stipulato dallo Stato ospite di clausole di scelta della
legge applicabile e di elezione del foro in favore di una legge e di un foro stranieri
non rende di per sé detto contratto indifferente all’esercizio della potestà legislativa
dello Stato ospite. Infatti, lo Stato ospite può sempre e comunque influenzare il
contratto nell’ambito del suo ordinamento territoriale, per esempio vietando per
legge alle autorità governative di negoziare e conciliare la controversia, o imponendo l’obbligo alle autorità giudiziarie nazionali di sostituire ipso iure i vecchi
bond con i nuovi bond, qualora i vecchi bond vengano in rilievo presso di loro.
CENNI DI FATTO (1). — Dal 1991 al 2001, l’Argentina collocava circa 186,7
miliardi di dollari in titoli del debito pubblico (bonds) su mercati finanziari
internazionali e interno (2). Tra questi, 179 bonds venivano emessi su piazze
finanziarie internazionali e 173 denominati in valuta straniera (3). L’economia
Argentina entrava in severa recessione alla fine degli anni Novanta. Dopo innumerevoli e infruttuosi tentativi di ristrutturare la propria economia, il 23 dicembre
2001, l’Argentina dichiarava pubblicamente il proprio default e annunciava una
moratoria del pagamento del debito estero per oltre 100 miliardi di dollari (4).
Questi avvenimenti venivano seguiti dal varo della Legge di Emergenza Pubblica
e di Riforma del 2002, che prevedeva un’iniziale strategia di ristrutturazione del
debito denominata “Proposta Dubai” con connesse negoziazioni tra gruppi di
creditori e la Repubblica argentina. Nel gennaio 2005 l’Argentina lanciava un’offerta pubblica di scambio (“Exchange Offer 2005”) (5) e, nel febbraio 2005,
approvava la Legge 26.017 (“Emergency Law”) (6), a norma della quale “The
national Executive Branch shall not, with respect to the bonds to which Article 1 of
the present law refers, reopen the exchange process” e “The national Government is
precluded from entering into in [sic] any type of judicial, extra-judicial or private
(1) Il Tribunale Ambiente ha sottolineato la sostanziale coincidenza delle questioni di
fatto oggetto delle cause Abaclat e Ambiente. Per tale motivo il Tribunale ha stabilito che il
riassunto dei fatti contenuto nel caso Abaclat poteva anche essere applicato efficacemente al
presente caso e che esso non avrebbe esitato ad avvalersi delle conclusioni del caso Abaclat, ove
pertinenti e appropriate, nella misura in cui le parti della presente causa avessero proposto
argomenti simili e compatibili con quelli avanzati nel caso Abaclat. Cfr. Ambiente Ufficio S.p.A.
et al. c. Argentina, Decisione sulla competenza e ammissibilità, 8 febbraio 2013, Caso ICSID n.
ARB/08/9, par. 12-13, 60 (“Decisione Ambiente”. Su Abaclat si veda in questa Rivista, Anna De
Luca, L’arbitrato ICSID e l’azione collettiva: alcune osservazioni a margine del caso Abaclat,
2012, fasc. 1, p. 54.
(2) Per l’Argentina, la base giuridica per l’emissione di titoli del debito pubblico è stata
predisposta dalla Legge n. 24.156 (Legge sui sistemi di amministrazione finanziaria e controllo)
adottata nell’ottobre 1992. Cfr. Abaclat et al. c. Argentina, Decisione sulla competenza e
ammissibilità, 4 agosto 2011, Caso ICSID n. ARB/07/5, par. 44 (“Decisione Abaclat”).
(3) Decisione Abaclat, par. 43-51. Asseritamente, i ricorrenti del caso Abaclat avevano
acquistato 83 di tali 173 bonds denominati in valuta straniera e questi 83 bonds erano regolati
dalla leggi di diversi ordinamenti stranieri.
(4) Ibid., par. 52-58.
(5) Ibid., par. 59-77.
(6) Ibid., par. 78.
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settlement with respect to the bonds.” (7). I creditori, che rifiutavano l’Exchange
Offer del 2005, cominciavano una serie di procedimenti giudiziari presso le corti
degli Stati Uniti (precipuamente dello stato del New York), della Germania e
dell’Italia, e attivavano procedimenti arbitrali internazionali in base al BIT Argentina-Italia. Il caso Ambiente Ufficio è una delle procedure ICSID originate dal
default argentino nel pagamento del suo debito sovrano nel 2001 (8).
Nel 26 giugno 2008 il rappresentante degli attori della causa Ambiente, North
Atlantic Société d’Administration (NASAM) depositava una domanda di arbitrato presso l’ICSID. NASAM è una società incorporata nel Principato di Monaco, successivamente acquistata da un trust svizzero. Nel 2006 NASAM decideva
di coordinare, organizzare e finanziare un’azione legale contro l’Argentina da
parte dei detentori italiani di bonds argentini. Diversamente dall’Associazione per
la Tutela degli Investitori in Titoli Argentini, rappresentante degli attori nel caso
Abaclat, NASAM non era stata coinvolta nel collocamento di bonds argentini con
alcun investitore. Gli attori chiedono al Tribunale, inter alia, di dichiarare che
l’Argentina è inadempiente rispetto alle sue obbligazioni di garantire il fair and
equitable treatment (“FET”), di cui all’art. 2(2) del BIT Argentina-Italia, la full
protection and security dell’art. 2(2)(a) del BIT Argentina-USA, standard invocato
attraverso la clausola MFN dell’art. 3 BIT Argentina-Italia; e il divieto di espropriazione senza indennizzo (art. 5 del BIT Argentina-Italia). Per tali motivi gli
attori chiedono al Tribunale di ordinare all’Argentina di pagare ad ogni singolo
attore il valore nominale integrale dei bonds detenuti, gli interessi e tutti i danni
che fossero conseguenza diretta delle violazioni del diritto internazionale commesse dallo Stato convenuto. Nell’aprile 2010, l’Argentina annunciava il lancio di
una nuova Offerta di Scambio (“Exchange Offer 2010”). Dopo l’Exchange Offer
2010, il procedimento Ambiente veniva sospeso, e nel 2012 veniva stralciato con
riguardo ai 29 attori che hanno aderito all’Exchange Offer 2010 (9).
MOTIVI DELLA DECISIONE (10). — V. EXISTENCE OF PRIMA FACIE TREATY CLAIMS
534. While the Parties agree that there exists a “legal dispute” within the
meaning of Art. 25(1) of the ICSID Convention, it is contested whether the claims
submitted to the Tribunal fall within the scope of protection of the Argentina-Italy
BIT. In this regard, the Respondent argues that the claims at stake are of a merely
contractual character and that they do not arise out of rights and obligations
contained in the BIT, whereas Claimants state the opposite.
...
535. Whatever position one might want to adopt in this regard, the Respondent is right to contend that it is necessary for an international tribunal to satisfy
itself, at the jurisdictional stage, that the case presented by a claimant is capable of
coming with the provisions of the treaty that has been invoked in the dispute at
(7) Artt. 2 e 3 dell’Emergency Law (traduzione in lingua inglese in Decisione Abaclat,
nota 2,, par. 79).
(8) Trattasi complessivamente di tre casi presso l’ICSID: Abaclat, Ambiente e Giovanni
Alemanni et al. c. Argentina, ICSID Case No. ARB/07/8.
(9) Decisione Ambiente, nota 1, par. 36, 54, 55.
(10) Citazioni e riferimenti alle produzioni e trascrizioni di parte sono omesse.
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hand, i.e. in the present case the Argentina-Italy BIT. This refers to the so-called
prima facie test, an exercise to which the Tribunal will turn now.
...
537. As convincingly stated by the Abaclat Tribunal, “according to generally
accepted practice, the task of the Tribunal at the stage of determining whether it
has jurisdiction to hear a claim under an investment treaty merely consists in
determining whether the facts alleged by the claimant(s), if established, are
capable of constituting a breach of the provisions of the BIT which have been
invoked”. And the Abaclat Tribunal continues: “In performing this task, the
Tribunal applies a prima facie standard, both to the determination of the meaning
and scope of the relevant BIT provisions invoked as well as to the assessment of
whether the facts alleged may constitute breaches of these provisions on its face.
In the words of the tribunal in Saipem v. Bangladesh: ‘If the result is affirmative,
jurisdiction will be established, but the existence of breaches will remain to be
litigated on the merits.’”
538. In a similar vein, it has been stated that
[t]he prima-facie test is firmly established as the threshold test for establishing
jurisdiction ratione materiae in investment treaty cases. The formulation of
the approach and of the prima-facie test, which appears to find most favour,
is the following: “The tribunal should be satisfied that, if the facts alleged by
the claimant ultimately prove true, they would be capable of falling within (or
coming within) (or constituting a violation of) the provisions of the investment treaty.” This formulation has received particular endorsement by the
tribunals in Salini v Jordan, Impregilo v Pakistan, and Saipem v Bangladesh.
The semantic differences in wording between ‘falling within’ or ‘coming
within’ or ‘constituting a violation of’ have been said to be of little importance.
...
541. Having the afore-mentioned test in mind, for the purposes of assuring
itself of its jurisdiction, the Tribunal must thus satisfy itself that, if the facts alleged
by the Claimants ultimately prove true, those would be capable of constituting a
breach of the Argentina-Italy BIT. The present Tribunal shares the view of the
Abaclat Tribunal that “[i]n performing this task, the Tribunal is to apply a prima
facie standard, both to the determination of the meaning and scope of the relevant
BIT provisions invoked as well as to the assessment of whether the facts alleged
may constitute breaches of these provisions on their face”.
542. The Claimants contend that — by virtue of the acts of the Respondent
in relation to its default in December 2001 and its subsequent dealing with its
creditors, notably regarding the 2005 Exchange Offer and by adoption of Law No.
26.017 and other legislative and regulatory acts adopted in this context — they
have become subject to different types of violations of the Argentina-Italy BIT,
notably in regard to (a) the Respondent’s duty to accord the Claimants fair and
equitable treatment according to Art. 2(2) of the BIT, (b) its obligation under Art.
5 of the BIT not to expropriate the Claimants’ investments without payment of
adequate, effective and immediate compensation, as well as (c) its duty to accord
the Claimants full protection and security by virtue of the most-favoured nation
treatment clause in Art. 3(1) of the BIT in connection with Art. 2(2)(a) of the
Argentina-US BIT.
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543. As concerns the Respondent’s counter-argument that whatever acts it
may have set, they did not amount to more than a non-payment of a contractual
debt and an absolutely voluntary restructuring offer and would therefore give
merely rise to a contractual, but not a treaty claim, the Tribunal considers that it
was not so much the failure to pay, but the use of the Respondent’s sovereign
prerogatives when restructuring its debt, notably including the adoption of Law
No. 26.017, which qualify the Respondent’s acts as potential breaches of the
Argentina-Italy BIT and thus as treaty claims.
544. This distinction is relevant since it is generally admitted, as also
acknowledged in the Abaclat case, that in regard to a BIT claim
an arbitral tribunal has no jurisdiction where the claim at stake is a pure
contract claim [...] Within the context of claims arising from a contractual
relationship, the tribunal’s jurisdiction in relation to BIT claims is in principle
only given where, in addition to the alleged breach of contract, the Host State
further breaches obligations it undertook under a relevant treaty. [...]
A claim is to be considered a pure contract claim where the Host State, party
to a specific contract, breaches obligations arising by the sole virtue of such
contract. This is not the case where the equilibrium of the contract and the
provisions contained therein are unilaterally altered by a sovereign act of the
Host State. This is the case where the circumstances and/or the behavior of
the Host State appear to derive from the exercise of its sovereign power.
Whilst the exercise of such power may have an impact on the contract and its
equilibrium, its origin and nature are totally foreign to the contract.
The Emergency Law278 had the effect of unilaterally modifying Argentina’s
payment obligations [...].
In the present case, the situation is somewhat peculiar, since the debtor is a
sovereign State. Argentina, which considered itself insolvent, decided to
promulgate a law, namely Law No. 26.017, entitling it not to perform part of
the obligations which Argentina had undertaken prior to the enactment of
such a law, and fixing in a sovereign manner the modalities and terms of such
liberation. Such a behavior derives from Argentina’s exercise of sovereign
power. Thus, what Argentina did, it did based on its sovereign power; it is
neither based on nor does it derive from any contractual argument or
mechanism.
In other words, the present dispute does not derive from the mere fact that
Argentina failed to perform its payment obligations under the bonds but from
the fact that it intervened as a sovereign by virtue of its State power to modify
its payment obligations towards its creditors in general, encompassing but not
limited to the Claimants.
[...] [Hence,] the dispute, and in particular Claimants’ claims and Argentina’s
defense thereto, relate to the actions Argentina took in order to remedy its
financial insolvency. Such actions were based on a sovereign decision of
Argentina outside of a contractual framework. Thus, Argentina’s actions
were the expression of State power and not of rights or obligations Argentina
had as a debtor under a specific contract.
545. In the light of this reasoning of its sister Tribunal with which the
present Tribunal fully agrees, the attempts of Respondent to present its actions as
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operating purely on the contractual level and not amounting to the use of
sovereign power are ultimately not convincing.
546. In particular, this holds true for the argument that even when a State
acts through laws and decrees, this would not necessarily imply the exercise of
governmental or sovereign authority, but could also constitute an act commercial
in nature. In the light of what has been stated above, whatever types of legislative
acts and different legal consequences engendered by them one might envisage,
Law No. 26.017 and related legislative and regulatory acts did in fact unilaterally
modify Respondent’s payment obligation.
547. Related to that, it may well be true, as contended by the Respondent,
that the bonds/security entitlements at stake in the present proceedings are
governed by foreign law and enforceable in foreign jurisdictions. However, insofar
as the Respondent seeks to conclude from the existence of such choice of law and
forum selection clauses that those instruments were, by definition, beyond the
scope of Argentina’s legislative jurisdiction, the present Tribunal cannot follow
this reasoning. While the Respondent could obviously not alter the terms of legal
rights and obligations as arising from different laws and jurisdictions, it could
nonetheless influence those bonds/security entitlements within the reach of the
Respondent’s (notably territorial) jurisdiction, for instance by legally forbidding
the executive authorities to enter into any settlement of the claims in question or
by ordering the domestic judicial authorities, should an “old” bond come before
them, to replace ipso jure the old bonds by the newly issued bond instruments.
548. It is therefore not a far-fetched conclusion — in particular taking into
account that at this stage of the proceedings the Tribunal has to apply a prima facie
standard — that such course of action can plausibly be understood as having
unilaterally altered the contractual equilibrium and having transcended the realm
of purely non-sovereign action. In the light of this prima facie assessment, the
Tribunal is therefore not in presence of a purely contractual claim, but of a treaty
claim. The Respondent’s acts in relation to its default in December 2001 and its
subsequent actions, notably including the adoption of Law No. 26.017, may well
have amounted, as alleged by the Claimants, to a violation of at least one of the
provisions of the Argentina-Italy BIT on which the Claimants have relied in the
present proceedings.
549. Against this background, the present Tribunal fully endorses the pertinent findings of the Abaclat Tribunal:
The Tribunal considers that, prima facie, [the afore-mentioned] facts, if
established, are susceptible of constituting a possible violation of at least
some of the provisions of the BIT invoked by Claimants, particularly: [...] The
arbitrary promulgation and implementation of regulations and laws can,
under certain circumstances, amount to an unfair and inequitable treatment.
It may even further constitute an act of expropriation where the new
regulations and/or laws deprive an investor of the value of its investment or
from the returns thereof.
550. The Tribunal thus concludes at this stage of the proceedings that the
allegations of the Claimants and the facts on which these allegations are based are,
if proven, susceptible of constituting a violation of BIT provisions invoked by the
Claimants. Whether the Claimants’ presentation of the facts is accurate will, if and
inasmuch as necessary, be examined during the merits stage of the proceedings.
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551. The Tribunal further concludes that, in the light of its prima facie
assessment, the acts of the Respondent, as alleged by the Claimants, include the
exercise of sovereign authority on the part of the Respondent and, thus falling
within the scope of protection of the Argentina-Italy BIT, constitute treaty claims.
As a consequence, for the purposes of this prima facie assessment, the claims at
stake arise out of rights and obligations contained in the Argentina-Italy BIT so
that the present dispute falls within the jurisdiction ratione materiae of the Centre
and the competence of the present Tribunal.
(Omissis)
International Sovereign Debt and Investment Treaty Arbitration: The
Ambiente Case.
Ambiente Ufficio S.p.A. and others v. Argentina (‘Ambiente v. Argentina’) is the second investment arbitration case which has arisen from
Argentina’s default on paying its sovereign debt in 2001 (1). In 2006 an
ICSID arbitration case, Abaclat and others v. Argentina, was filed by a
representative of a number of Italian bondholders who did not accept an
exchange offer from the government in 2005. They claimed that Argentina’s acts relating to its debt default constituted a violation of the
obligations under the Argentina-Italy Bilateral Investment Treaty (‘BIT’)
and sought compensation for alleged damages caused. Ambiente v. Argentina, which arose from the same event and was based on the same BIT
as Abaclat, was then filed in 2008. In both cases Argentina challenged the
jurisdiction and admissibility of the tribunals over the disputes. In August
2011 the Abaclat tribunal issued its decision on jurisdiction and admissibility (2) in which it concluded that the case fell within the jurisdiction of
the ICSID and that the claimants’ claims were admissible. Thus, for the
first time in its history, the gate to investment treaty arbitration was
opened for holdout creditors of sovereign bonds. The Ambiente tribunal
issued its decision on jurisdiction and admissibility (3) in February 2013, in
which it followed the conclusion of the Abaclat tribunal, thereby putting a
‘doorstop’ in front of the gate opened by the Abaclat decision. However,
both decisions were accompanied by strong dissenting opinions from
Arbitrators Abi-Saab (Abaclat) (4) and Bernárdez (Ambiente) (5), which
(1) There are three such cases: Abaclat and others v. Argentina, ICSID Case No.
ARB/07/5, Ambiente Ufficio S.p.A. and others v. Argentina, ICSID Case No. ARB/08/9 and
Giovanni Alemanni and others v. Argentina, ICSID Case No. ARB/07/8.
(2) Abaclat and others v. Argentina (Decision on Jurisdiction and Admissibility of 4
August 2011) (‘the Abaclat decision’).
(3) Ambiente Ufficio S.p.A. and others v. Argentina (Decision on Jurisdiction and
Admissibility of 8 February 2013) (‘the Ambiente decision’).
(4) Dissenting Opinion of Professor Abi-Saab in the Abaclat case of 28 October 2011
(‘Abi-Saab dissenting opinion’).
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indicates the controversial nature of these decisions. The Ambiente tribunal identified various issues relating to jurisdiction and admissibility, of
which this article focuses on one: the issue of the existence/absence of a
prima facie treaty claim.
The issues on jurisdiction and admissibility identified by the tribunal
in the Ambiente decision are as follows: (a) the issue of the consent of the
Respondent; (b) the issue of the consent of the Claimants; (c) the issue of
the nationality and standing of the Claimants; (d) the question of whether
there exists a legal dispute arising out of an investment in the present case;
(e) the issue of the existence of a prima facie treaty claim; and (f) whether
the Claimants have complied with Article 8 of the BIT and the prerequisites of amicable consultations and recourse to Argentine courts contained
therein. Arbitrator Bernárdez, in his dissenting opinion, expressed his
disagreement with the majority’s conclusions on all these issues, except for
issue (e). He left this issue virtually untouched, stating that: ‘[the issue is]
to be decided at the merits phase because the Respondent’s objection at
the present phase that there is not prima facie such a violation does not
possess, in the circumstances of the present case, an exclusively preliminary character’ (6). In the author’s view, however, the issue of whether or
not ‘the case presented by a claimant is capable of coming within the
provisions of the treaty that has been invoked’ is jurisdictional, and the
tribunal’s conclusion on this issue is indeed misplaced. In addition, the
examination of this issue provides valuable insights into the scope of
investment protection in the context of sovereign debt restructurings
(‘SDRs’) in general. For these reasons, this article focuses on the issue of
the existence/absence of a prima facie violation of the BIT obligations at
issue, and provides a critical analysis of the tribunal’s approach on this
issue.
This article is structured as follows. It first provides a brief summary
of the tribunal’s analyses and Bernárdez’s dissenting opinions on the
majority’s conclusions on the issues (a), (c), and (d) identified above,
because: issues (a) and (c) lay out the background of the case; and issue
(d) is particularly relevant to the issue of the existence of a prima facie
treaty claim (1.1-1.3). It then turns to the examination of issue (e). It is
argued that in this case Argentina’s acts at issue are incapable of falling
within any of the BIT provisions invoked by the Claimants, and therefore
the appropriate approach was to reject, under a prima facie test, jurisdiction ratione materiae over the dispute. This is because, whereas the BIT
obligations invoked by the Claimants — notably in the absence of the
so-called ‘umbrella clause’ claim (see factual background above) — may
(5) Dissenting Opinion of Santiago Torres Bernárdez in Ambiente v. Argentina of 2 May
2013 (‘Bernárdez dissenting opinion’).
(6) Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 18.
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be breached only by sovereign acts of the host state, in the circumstances
of this case, Argentina’s acts relating to its debt default should not be
regarded as Argentina’s sovereign acts in relation to the Claimants’ rights
under the relevant bonds. It then demonstrates that as Argentina’s nonsovereign acts are incapable of giving rise to the treaty claims invoked by
the Claimants, in light of a prima facie test, the dispute lacked jurisdiction
ratione materiae.
1.1. On the issue of the consent of the Respondent (issue (a)), the
Respondent identified the case as a ‘collective action’ in that it ‘involves an
attempt by a great number of unrelated Claimants to jointly arbitrate their
claims against a State’ (7), and contended that the ICSID Convention did
not authorise collective actions, and nor had Argentina consented to such
proceedings in the BIT. In particular, the respondent pointed out that the
claim involves ‘security entitlements regarding 55 different bond series
[state as of March 2010] with different applicable laws...even including
some Claimants having purchased after Argentina’s default’ (8); and that
ICSID is a strictly consent-based institution and neither the ICSID Convention nor the BIT allows mass claims initiated by multiple unrelated
parties without the respondent State’s consent (9).
The tribunal, having identified that the number of Claimants as 90 (as
a result of the discontinuance of proceedings by several Claimants following the 2010 Exchange Offer) (10), concluded that the present claim was
neither a ‘class action’ nor ‘mass claim(s)’/‘mass proceeding(s)’, because
this case does not have a representative character in that the Claimants act
in their own names (11). The tribunal then concluded that both the review
of the pertinent case-law and interpretation of Article 25 ICSID Convention and the BIT indicate that neither the ICSID Convention nor the BIT
requires any consent on the part of the respondent government to a
multi-party arbitration beyond the general requirements of consent to
arbitration (12). The Respondent’s allegation that the present dispute
brings together contractually unrelated persons was irrelevant because
Claimants based their claims not on the contractual claims but on the
treaty claims (13).
(7) The Ambiente decision, supra note 13, par. 68.
(8) Ibid., par. 77. The tribunal stated that this case was distinguished from the Abaclat
case because the number of the Claimants of the former was ‘merely one thousandth of the
latter’ (par. 120).
(9) Ibid., par. 70-80.
(10) Ibid., par. 113, 334-347.
(11) Ibid., par. 115-116.
(12) Ibid., par. 135-146.
(13) In this finding, the tribunal heavily relied on the Abaclat decision (supra note 12, par.
541).
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Bernárdez criticised the tribunal’s conclusion arguing inter alia that, in
public international law, the specific consent of both parties to international arbitration is necessary, and whereas the ICSID Convention and
Rules were silent on the existence of jurisdiction on multi-party arbitrations, jurisdiction for a multi-party proceeding cannot be established by
invoking mere ‘silence’ or ‘non-exclusion’ provisions (14) but required an
‘additional specific consent’ (15), especially where the respondent state
objected to a multi-party proceeding (i.e. where there was no acquiescence
on the part of the host state) (16).
1.2. Turning to the issue of the nationality and standing of claimants
(issue (c)), Argentina argued that the Claimants failed to prove that they
met the nationality requirement under Article 25 of the ICSID Convention and the BIT and the domicile requirements of the BIT and the
Additional Protocol (that the Claimants must not have been domiciled in
Argentina for more than two years prior to the acquisition of their security
entitlements). It also argued that Claimants lacked standing because they
could pursue legal proceedings against the seller banks and ‘the compensation which Claimants may get from the banks following a possible
invalidation of the sale contracts conflicts with the claims’ (17).
The tribunal first clarified its position on the burden of proof of the
nationality requirement as follows: ‘the burden of proof that the Claimants are Italian nationals falls on the Claimants themselves, while the
burden to disprove the negative elements — i.e. of not being Argentine
(or, for that matter, dual) nationals and of not having been domiciled in
Argentina for more than two years — would fall on the Respondent’s
side’ (18). Applying this to the case, the tribunal found that the documents
supplied by the Claimants were sufficient to substantiate the Italian
nationality requirement (19); and that the respondent failed to disprove
the negative elements (20). As to the issue of the Claimants’ legal standing,
the tribunal stated that while ‘decisions of domestic courts regarding
claims brought by the Claimants against banks and financial intermediar(14) Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 82.
(15) Ibid., par. 97.
(16) Bernárdez argued that the cases of multi-party proceedings relied on by the majority
tribunal could be distinguished from this case on this account (ibid. par. 96).
(17) The Ambiente decision, supra note 13, par. 284.
(18) Ibid., par. 312. See B.S. VASANI and T. L. FOODEN, ‘Burden of Proof Regarding
Jurisdiction’ in K. Yannaca-Small (ed.) Arbitration under International Investment Agreements: A Guide to the Key Issues (2010) 271, at 272: ‘[t]here appears to be a minority view
among tribunals stating that the party claiming a negative proposition (i.e. that something does
not exist) bears the burden of proving that negative fact, such as claiming the absence of
jurisdiction’.
(19) Ibid., par. 319.
(20) Ibid., par. 321.
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ies in connection with their purchases of the bonds/security entitlements in
question may have repercussions as to how much compensation they
might receive in the present case’ (21), this issue was to be dealt with at the
merits stage and therefore did not constitute a bar to the proceeding at the
preliminary objections phase.
Bernárdez disagreed with the tribunal’s conclusion. He first criticised
the tribunal’s generalisation of the nationality and domicile requirements
arguing that whether or not each individual Claimant met the ratione
personae jurisdictional requirements of the ICSID Convention and the
BIT (including not only nationality and domicile requirements but also
‘consent’ and ‘being a holder of a protected investment in the territory of
Argentina at the relevant dates’) must be ‘ascertained in concreto, not by
more or less founded conjectures’ (22). According to him, this was even
more so considering that the present proceeding was, unlike the Abaclat
case (which had 60,000 claimants), ‘of a workable magnitude’ (23). He also
disagreed with the tribunal’s allocation of the burden of proof by stating
that, since it was the Claimants who sought to establish the fact of being
protected investors, ‘by the operation of international law, the burden of
proof of all positive and negative relevant elements confirming the ratione
personae jurisdictional requirements’ (24).
1.3. As to the issue of the existence of a legal dispute directly arising
out of an investment (issue (d)), Argentina first emphasised that the term
‘investment’ in Article 25 of the ICSID Convention set out an autonomous
requirement for jurisdiction in addition to the definition of an investment
in the BIT (25). Based on this ‘double-barreled test’ and applying the
so-called Salini test (26), Argentina first argued that the Claimants’ bonds/
security entitlements did not qualify as investment under Article 25 on the
following grounds: (i) the Claimants only had, ‘at best, indirect interests in
(21) Ibid., par. 330.
(22) Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 118-122. See also Anna De Luca,
‘Collective Actions in ICSID Arbitration: The Argentine Bonds Case’, Italian Yearbook of
International Law, Volume XXI (2011) 211, at 229-230 (in criticizing the ‘abstract jurisdiction
ratione personarum’ adopted by the Abaclat decision): ‘[the tribunal’s] abstract determination
of jurisdiction is to be considered as the mere statement that any ICSID tribunal constituted
under the Argentina-Italy BIT has jurisdiction over investors (natural or juridical persons) who
meet the requirements set forth in the Convention and the BIT. In my view, the Tribunal did
not really determine its jurisdiction over the claimants, even though this determination is
required under both the ICSID Convention and the BIT’.
(23) Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 121.
(24) Ibid., par. 141.
(25) The Ambiente decision, supra note 13, par. 356-357.
(26) Ibid., par. 364. Salini Costruttori S.p.A. and Italstrate S.p.A. v. Morocco, ICSID Case
No. ARB/00/4, Decision on Jurisdiction, 23 July 2001, par. 45. They are: (i) a substantial
contribution on the part of the investor, (ii) the minimum duration, (iii) an operational risk, (iv)
regularity of profits and returns, and (v) a significant contribution to the development of the
host country.
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the globally registered bonds’, i.e. security entitlements, the holders of
which have no direct relationship with the bond issuer (the Respondent)
or with the bond underwriter (27); (ii) the alleged duration of the participation of each Claimant in a security entitlement that was readily tradable
and ‘often bought and sold on the secondary market within seconds’ did
not meet the length of time as a necessary condition to be considered an
investment under the ICSID Convention (28); (iii) as security entitlements
were easily and recurrently transferred, there was no regularity of profit
and return for the Claimants (29); (iv) whereas the risk entailed in security
entitlements in Argentina’s foreign debt was ‘no more than the ordinary
commercial risk assumed by other persons involved in this kind of purely
commercial transaction’, ‘an ordinary commercial contract cannot be
considered an “investment”’ (30); (v) the Claimants did not show the price
paid by each Claimant when purchasing the security entitlements (31) —
the Claimants’ purchases did not involve transfer of funds into the
territory of Argentina nor benefited Argentina’s economy and/or the price
paid by each Claimant, if any, would be ‘of too small a magnitude to
qualify as a “contribution” to the economic development of the Respondent’ (32).
Argentina also alleged that the Claimants’ security entitlements did
not qualify as an investment protected under the BIT, arguing inter alia
that: (i) as the Claimants acquired security entitlements outside Argentina
i.e. on the secondary market and these security entitlements were governed by non-Argentine domestic laws/subject to the jurisdiction of nonArgentine courts, the Claimants did not make an investment in Argentine
territory and therefore their security entitlements fell outside the scope of
Article 1 of the BIT (33); (ii) the Claimants’ purchases of security entitlements violated ‘Italian laws which govern the acquisition of the security
entitlements at stake’ and were therefore ‘not compatible with the “in
accordance with” clause of Art.1 of the BIT’ (34).
(27) The Ambiente decision, supra note 13, par. 359. According to the respondent, this is
because: ‘when the Italian banks sold Claimants individual portions of their large security
holdings, Claimants thus acquired a new security entitlement separate from the global bond, an
entitlement which was created specifically at the time of such operation to which Argentina
neither was nor could have been a party’ (ibid. par. 360).
(28) Ibid., par. 365.
(29) Ibid., par. 366.
(30) Ibid., par. 367.
(31) Ibid., par. 368.
(32) Ibid., par. 369-371.
(33) Ibid., par. 374-376.
(34) Ibid., par. 378-379. The respondent explained the relevance of Italian law (as
opposed to Argentine law) that according to Argentine conflict of laws, the validity and nature
of contracts executed outside Argentina shall be governed by the laws of the place where the
contract was executed, i.e. Italy, so that Italian law is to be applied to the security entitlements
at hand (par. 513). The respondent asserted that it was contrary to the restrictions in the bond
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The tribunal first rejected the distinction between ‘bonds’ and ‘security
entitlements’ put forward by the Respondent on the following grounds. It
first endorsed the Abaclat tribunal’s statement that ‘they [bonds and security
entitlements] are part of one and the same economic operation and they only
make sense together’ (35). The tribunal stated that:
The doctrine of the “general unity of an investment operation” is wellestablished in international investment law’, and concluded that ‘the process
of issuing bonds and their circulation on the secondary, i.e. financial, markets
in the form of security entitlements are to be considered an economic unity
and must be dealt with as such a unity for the purpose of deciding whether
disputes relating to financial instruments of this kind “aris[e] directly out of an
investment” and are therefore covered by Art. 25 of the ICSID Convention
and Art. 1 of the Argentina-Italy BIT (36).
Against this background, the tribunal proceeded to examine whether
or not the Claimants’ bonds and/or security entitlements qualify as an
investment covered by Article 25 of the ICSID Convention and Article 1
of the BIT. As to the relationship between these provisions, the tribunal
ostensibly adopted the ‘double-barreled test’ by stating that Article 25 of
the ICSID Convention was a mandatory requirement for the jurisdiction
of the Centre ‘in addition to and beyond the relevant provisions of the
Argentina-Italy BIT’ (37). Yet the tribunal immediately neutralised the
test by adopting an expansive meaning of the term ‘investment’ in Article
25 ‘i.e. with jurisdictional limits arising from this provision only at the
outer margins of economic activity’ (38), which effectively left little room
for ‘a mandatory requirement under Article 25 in addition to the BIT’ to
operate (39). The following considerations led to this approach: first, the
tribunal examined the drafting process of Article 25 (following Article 32
as a supplementary means of interpretation) and found that Article 25(1)
of the ICSID Convention gave the term ‘investment’ a broad scope of
application subject to the possibility of subsequent restriction by consent
by the parties and by employing the mechanism of Article 25(4) (40).
Based on this approach, the tribunal applied Article 31 of the VCLT to the
issue of whether or not the bonds/security entitlements at issue may
documents prohibiting the sale of security entitlements to unqualified, unsophisticated buyers,
but also of those contained in Italian statutes prohibiting sales to retail customers.
(35) Ibid., par. 423 (citing The Abaclat decision, supra note 12, par. 358).
(36) Ibid., par. 428-429.
(37) Ibid., par. 438-440.
(38) Ibid., par. 470.
(39) The tribunal appears to have identified ‘a single commercial transaction’ as an
example of the subject matter excluded by such a mandatory requirement.
(40) Article 25(4) of the ICSID Convention: ‘Any Contracting State may, at the time of
ratification, acceptance or approval of this Convention or at any time thereafter, notify the
Centre of the class or classes of disputes which it would or would not consider submitting to the
jurisdiction of the Centre...’.
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qualify as an ‘investment’ under Article 25, and concluded that none of the
ordinary meaning of the term, the context of Article 25 and the object and
purpose of the ICSID Convention (41) militated against a broad understanding of the term ‘investment’ to include bonds/security entitlements,
unless ‘the consent given by a State indicates that certain types of
investment should be excluded from the protection of the ICSID arbitration mechanism’ (42). While rejecting the Salini criteria as mandatory
requirements for the jurisdiction of the Centre, curiously the tribunal
examined whether or not the sovereign bonds/security entitlements met
the Salini criteria as ‘guidelines’ to ‘identify, and exclude, extreme phenomena that must remain outside of even a broad reading of the
term’ (43). The tribunal then concluded that the sovereign bonds/security
entitlements at stake ‘as a single economic operation’ met all of the Salini
criteria (44), and thus they fell within the scope of an ‘investment’ covered
by Article 25.
As to whether the sovereign bonds/security entitlements at stake were
covered by the BIT, the tribunal first concluded that the wording of
Article 1(1) (in particular (c) and (f) (45)) was broad enough to cover such
bonds/security entitlements. It then held that the bonds/security entitlements met the requirement set out in the chapeau of Article 1(1) that it
must be invested ‘in the territory’ of the host State, on the following
grounds. The decisive criteria for identifying in which State’s territory an
investment was made was not whether the investment was physically
located in Argentina but the determination of which State benefited from
this investment (46). In this case, the whole bond issuing process was
devised ‘to raise money for the budgetary needs of Argentina and thus to
further the development of that State’ (47). The tribunal cited the Abaclat
(41) To be precise, the tribunal described the divergent views on the object and purpose
of the ICSID Convention expressed in the Abaclat decision and Abi-Saab’s dissenting opinion,
and stated that since the ‘difficulties relating to the substantive side of a case’ were to be dealt
with at the merits phase, the tribunal would, ‘by way of a tentative conclusion, resist to endorse
an overly narrow reading of the term “investment” in Art. 25(1) of the Convention’ (The
Ambiente decision, supra note 13, par. 458-460).
(42) The Ambiente decision, supra note 13, par. 461.
(43) Ibid., par. 481.
(44) The finding of the tribunal in this application remains highly controversial. For
example, as to the requirement for a substantial contribution on the part of the investor, the
tribunal stated that ‘[w]hat counts is that the bonds issued as a whole amounted, without doubt,
to a substantial contribution on the investors’ part’. This statement is controversial given that
jurisdiction is to be judged on an investor-by-investor basis, i.e. has to exist for each claimant.
(45) Article 1(1) provides that ‘... investment includes, without limitation: ...(c) bonds,
private or public financial instruments or any other right to performances or services having
economic value, including capitalized revenues;...(f) processes, transferrals of technological
know-how, registered business names and goodwill.
(46) The Ambiente decision, supra note 13, par. 498-499.
(47) Fedax N.V. v. Venezuela, ICSID Case No. ARB/96/3, Decision on Jurisdiction, 11
July 1997 (‘Fedax v. Venezuela’) par. 500. The Ambiente tribunal also cited the Abaclat decision
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decision for support of this argument and relied on the Fedax v. Venezuela
tribunal’s statement that ‘[t]he important question is whether the funds
made available are utilized by the beneficiary of the credit, as in the case
of the Republic of Venezuela, so as to finance its various governmental
needs’ (48). The tribunal disagreed with Abi-Saab’s argument that the
territoriality requirement cannot be demonstrated except by tracing the
investment to a specific project, enterprise or activity in the territory (49),
by stating that ‘[n]owhere in the Argentina-Italy BIT can such a “specificity requirement” complementing the prerequisite of territoriality be
found’ (50). It further stated, again relying on the Abaclat decision, that
insofar as the funds were made available to the respondent, whether or
not the funds were actually used or whether or not the Claimants were
aware that they were making ‘an investment in Argentina’ was irrelevant
to the determination of the existence of protected investments (51). The
tribunal finally rejected Argentina’s argument that the Claimants’ security
entitlements were governed by non-Argentine domestic laws/subject to
the jurisdiction of non-Argentine courts and therefore lacked the territorial nexus to Argentina. With this regard, the following statement by the
tribunal is worth quoting, because this is relevant to the examination of
the issue of the existence of a prima facie treaty claim:
It was notably through the operation of Law No. 26.017263 that the Respondent sought to influence the terms of the bonds/security entitlements issued
by it. In addition, nowhere in the ICSID Convention or the Argentina-Italy
BIT it is said that an investment may only be considered to be made in the
territory of the host State if that State can exercise full sovereign rights or, for
that matter, otherwise full control in regard to those investments (52).
As to the respondent’s argument that the Claimants’ security entitlements were not ‘in accordance with the laws and regulations’ of the host
state, the tribunal rejected the relevance of Italian law with this regard,
and concluded that, as there was no indication whatsoever that provisions
of Argentine law had been violated by the bonds/security entitlements,
this requirement of jurisdiction ratione materiae was also fulfilled (53).
Bernárdez was ‘in full disagreement with the above overall conclu(supra note 12, par. 375) for support of this argument (the Ambiente decision, supra note 13, par.
502).
(48) Fedax v. Venezuela (ibid.) par. 41. The Fedax case is the first case where an ICSID
tribunal granted subject matter jurisdiction over a case arising out of the government’s debt
instruments.
(49) Abi-Saab dissenting opinion, supra note 14, par. 95.
(50) The Ambiente decision, supra note 13, par. 503 (citing the Abaclat decision, supra
note 12, par. 375).
(51) Ibid., par. 504 (citing the Abaclat decision, supra note 12, par. 378).
(52) Ibid., par. 507.
(53) Ibid., par. 517.
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sion’ (54) and, indeed, with all the reasons provided by the tribunal. He
first expressed his disagreement with the tribunal’s characterisation of
‘bonds/security entitlements as part of one and the same economic operation’, arguing that the concept of ‘general unity of an investment operation’ did not apply because: neither the purchase of the pertinent bonds by
the placement banks nor mere portfolio investments made by the Claimants in the Italian retail market amounted an ‘investment operation’ in the
first place; and that ‘[n]o factual and/or legal causality connection between
the issuance of the bonds and the issuance of the security entitlements has
been proven by Claimants in the instant proceeding’ (55). As to the former
reason, Bernárdez emphasised that the purchase of the Argentine bonds
did ‘not satisfy either the hard core of the objective requirements defining
traditionally an “investment” under the ICSID Convention, described
succinctly as contribution/duration/risk’ (56). He provided detailed analyses to support this proposition, among which the following considerations
are particularly pertinent to the main issue of this article. First, in assessing
the ‘contribution’ requirement, Bernárdez argued that the Fedax test (see
above) would lead to a ‘manifestly absurd or unreasonable’ conclusion
that ‘every ordinary commercial transaction by a government — by the
very fact of being “governmental” — would be an “ICSID investment”’ (57). He emphasised the commercial nature of the initial selling and
purchase in the primary market of the bonds:
Argentina participated in the transactions concerning the selling of its sovereign bonds to the placement banks (or underwriters) as a commercial actor.
One of the characteristics of the pertinent sovereign bonds being that
although issued by a sovereign State, the Argentine Republic in the instant
case, the sovereign bonds are governed by the municipal law of a given
foreign country and are subject to the jurisdiction of foreign domestic courts
of the major financial centres.
It follows from the considerations above, that the initial purchase of the
pertinent Argentine sovereign bonds by the placement banks (or underwriters) in international capital markets was a mere commercial transaction and
not, as concluded by the Majority, a transaction qualifying as an “investment”
in Argentina pursuant to the ICSID Convention, because to begin with a
“host State” entity is absent from such a transaction. Neither the Argentine
Republic acted as the host State of an investment when selling the sovereign
bonds nor, for the matter, the placement banks (underwriters) were acting as
foreign private investors in the territory of Argentine when purchasing the
sovereign bonds in the primary market (58).
(54)
(55)
(56)
(57)
(58)
Bernárdez Dissenting Opinion, supra note 15, par. 147.
Ibid., par. 150-163.
Ibid., par. 179.
Ibid., par. 181.
Ibid., par. 186-187.
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Having thus argued that the purchase of the sovereign bonds/security
entitlements at stake was not an ‘investment operation’, Bernárdez proceeded to the issue of whether or not the security entitlements held by the
Claimants qualified as an investment under Article 25(1) of the ICSID
Convention. He argued for the existence of the objective outer limits
embodied in Article 25(1) resulting from interpretation of the provision in
accordance with the VCLT, in particular ‘an objective hard-core or
intrinsic ordinary meaning’ (59) and the object and purpose of the Convention. He identified contributions, durability and operational risk as the
elements that constitute the objective requirements generally accepted in
investment treaty arbitration, and the ‘contribution to the economic
development of the host State’ had also an important role to play in
ascertaining the ordinary meaning of ‘investment’ within the specific
context of Article 25(1) (60). Applying this to the security entitlements at
stake, Bernárdez concluded that:
The ordinary meaning of the term “investment” in Article 25(1) of the ICSID
Convention deduced from the above considerations raises indeed the question of whether it may be affirmed that “portfolio investments” and other
financial negotiable products (traded with high velocity of circulation in
capital markets and at places far remote from the State in whose territory the
investment is supposed to take place) between persons alien to any economic
activity in the host State and which, generally speaking, cover a wide
spectrum of financial products ranging from standardized instruments (i.e.
shares, bonds, loans) to structured and derivatives products (i.e. hedges of
currencies, oil, etc., credit default swaps) may be qualified as “investment” in
the sense of the ICSID Convention in the light of their intrinsic characteristics
and the novelty of several of those products (61).
Bernárdez also argued that the Claimants’ security entitlements did not
qualify as investment protected by the BIT as, in his view, they satisfied none
of the requirements contained in the chapeau of Article 1 (62).
Having described the Ambiente tribunal’s approach to the issues (a),
(c) and (d), this article proceeds to examine the equally complex issue of
the existence of a prima facie treaty claim in this case.
2.1. Summary of the parties’ arguments and the tribunal’s analysis.
Argentina’s arguments on this issue may be summarised as follows. It is
well established that ‘an international court or tribunal must satisfy itself,
at the jurisdictional stage, that the case presented by a claimant is capable
of coming within the provisions of the treaty that has been invoked’
(59)
(60)
(61)
(62)
Ibid., par. 216.
Bernárdez Dissenting Opinion, supra note 15, par. 260-261.
Ibid., par. 262.
Ibid., par. 277-330.
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(prima facie test) (63). Neither the failure to pay the debt nor the 2005
Exchange Offer/Law No. 26.017 is capable of establishing the violations of
the provisions of the BIT. This is because, while the host state may breach
an investment treaty only when it acts in the exercise of its sovereign
authority rather than merely as a commercial party, it was impossible for
the respondent to exercise sovereign authority in regard to the Claimants’
security entitlements/the underlying bonds ‘since these are governed by
foreign law and enforceable in foreign jurisdictions’ (64). Law No. 26.017
does not modify significantly the substantive rights of those who did not
accept the 2005 Exchange Offer which Argentina had no power to force
bondholders to accept (65). In response, the Claimants argued inter alia
that Law No. 26.017 as a legislative act was ‘the most typical manifestation
of a sovereign act ...because non-participating holders lost any rights
under the bonds’ (66).
The tribunal agreed with the Respondent that a prima facie test was
applicable to the case:
[T]he Respondent is right to contend that it is necessary for an international
tribunal to satisfy itself, at the jurisdictional stage, that the case presented by
a claimant is capable of coming with (sic) the provisions of the treaty that has
been invoked in the dispute at hand (67).
The tribunal then identified the content of the test as follows. The
tribunal, at the stage of determining whether it has jurisdiction over the
claim, must satisfy itself that the facts alleged by the claimant, if ultimately
proved, would be capable of ‘falling within (or coming within) (or constituting a violation of) the provisions of the investment treaty’ (68) or
‘forming the basis for a treaty violation’ (69). It then endorsed the Abaclat
tribunal’s statement that a prima facie standard must be applied ‘both to
the determination of the meaning and scope of the relevant BIT provisions invoked as well as to the assessment of whether the facts alleged may
constitute breaches of these provisions on their face’ (70).
On application of this standard to the case, the tribunal singled out
(63) The Ambiente decision, supra note 13, par. 521.
(64) Ibid., par. 521-523.
(65) Ibid., par. 524.
(66) Ibid., par. 532.
(67) Ibid., par. 535.
(68) Ibid., par. 538, citing A. Sheppard, The Jurisdictional Threshold of a Prima-Facie
Case, in P. Muchlinski, F. Ortino and C. Schreuer (eds.) The Oxford Handbook of International
Investment Law (Oxford 2008) 932 at 960.
(69) The Ambiente decision, supra note 13, par. 539, citing C. Schreuer, The ICSID
Convention: A Commentary; A Commentary on the Convention on the Settlement of Investment Disputes between States and Nationals of Other States (Cambridge 2001) Art. 41, par. 86,
87.
(70) Ibid., par. 541, citing the Abaclat decision, supra note 12, par. 311.
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the acts of Argentina they focus on for the purposes of examining this
issue, stating that:
As concerns the Respondent’s counter-argument that whatever acts it may
have set, they did not amount to more than a non-payment of a contractual
debt and an absolutely voluntary restructuring offer and would therefore give
merely rise to a contractual, but not a treaty claim, the Tribunal considers that
it was not so much the failure to pay, but the use of the Respondent’s sovereign
prerogatives when restructuring its debt, notably including the adoption of
Law No. 26.017, which qualify the Respondent’s acts as potential breaches of
the Argentina-Italy BIT and thus as treaty claims (71).
The tribunal thus narrowed down the scope of Argentina’s activities
that may potentially have given rise to breaches of the BIT. This is
contrasted with the approach taken by the Abalcat tribunal which considered both Argentina’s failure to perform its payment obligations and its
intervention as a sovereign to ‘justify its failure’ and to ‘modify its
payment obligations towards its creditors’ as potential breaches of the
BIT (72).
The tribunal also endorsed the following reasoning of the Abaclat
tribunal: this is the case ‘where the equilibrium of the contract and the
provisions contained therein are unilaterally altered by a sovereign act of
the Host State’, because the Emergency Law ‘had the effect of unilaterally
modifying Argentina’s payment obligations [...]’; and that the present
dispute derives from the fact that Argentina ‘intervened as a sovereign by
virtue of its State power to modify its payment obligations towards its
creditors’ (73).
As to the respondent’s argument that Argentina may not exercise its
sovereign power over the security entitlements/underlying bonds because
the bonds were governed by foreign law and under foreign jurisdictions,
the tribunal rejected this by stating that:
While the Respondent could obviously not alter the terms of legal rights and
obligations as arising from different laws and jurisdictions, it could nonetheless influence those bonds/security entitlements within the reach of the
Respondent’s (notably territorial) jurisdiction, for instance by legally forbidding the executive authorities to enter into any settlement of the claims in
question or by ordering the domestic judicial authorities, should an “old”
(71) Ibid., par. 543 (emphasis added).
(72) The Abaclat decision, supra note 12, par. 320, 324. The author thanks Dr. De Luca
for suggesting the potential implications of this difference between the two tribunals on the
merits phase.
(73) The Ambiente decision, supra note 13, par. 544, citing the Abaclat decision, supra
note 12, par. 316, 318, 321, 323-325.
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bond come before them, to replace ipso jure the old bonds by the newly
issued bond instruments (74).
Accordingly, the tribunal concluded that, in light of the prima facie
standard, Argentina’s ‘acts in relation to its default in December 2001 and
its subsequent actions’ could ‘plausibly be understood as having unilaterally altered the contractual equilibrium and having transcended the realm
of purely non-sovereign action’ and thus ‘may well have amounted...to a
violation of at least one of the provisions’ of the BIT invoked by the
Claimant (75).
As noted, Bernárdez, while providing detailed dissenting opinions on
all the other issues identified by the tribunal, decided not to address this
issue on the ground that the existence/absence of a prima facie case in the
present circumstances was not of an exclusively preliminary character (76).
However, the author argues that the facts alleged by the Claimants in this
case are, even if they were ultimately proven, not capable of falling within
the BIT provisions invoked by the Claimants, and accordingly, under the
prima facie test there is no jurisdiction ratione materiae over the claim.
This is explained as follows. Subject matter jurisdiction is absent where the
claim is ‘not one that concerns an obligation of the host state under the
BIT’ (77). Whereas the obligations invoked by the Claimant in this case (in
the absence of an umbrella clause claim) may be breached only by
sovereign acts of the host state, Argentina’s acts ‘in relation to its default
in December 2001 and its subsequent actions’ do not amount to acts of a
sovereign but of a private market actor in its relations with the Claimant as
holdout creditors. Therefore, these acts are incapable of coming within the
provisions of the BIT invoked by the Claimant — i.e. they do not concern
Argentina’s BIT obligations invoked — and therefore do not meet the
prima facie standard for jurisdiction ratione materiae. This is elaborated
below.
2.2. ‘Sovereign acts’ requirement vis-à-vis expropriation/FET/full
protection and security. The principle is that investment treaty obligations
may be breached by the host state’s sovereign acts only. This has been
clearly recognised by a number of tribunals in the context of the distinc(74) Ibid., par. 547.
(75) Ibid., par.548.
(76) Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 18.
(77) Sheppard, supra note 78, 933. Another important possibility is of course where the
claim does not arise from ‘an investment’ covered by the ICSID Convention (for ICSID
arbitration) and the relevant BIT. Abi-Saab (Abi-Saab dissenting opinion, supra note 14, par.
34-119) and Bernárdez provided powerful arguments why the answer to the question should be
in the negative, referring in particular to Waibel’s article/book (M. Waibel, ‘Opening Pandora’s
Box: Sovereign Bonds in International Arbitration’, 101 AJIL (2007) 711; M. Waibel, Sovereign
Defaults before International Courts and Tribunals (CUP, 2011) Chapter 10).
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tion between contract claim and treaty claim (78). A clear endorsement of
this principle is found in Impregilo v. Pakistan: ‘[o]nly the State in the
exercise of its sovereign authority (“puissance publique”), and not as a
contracting party, may breach the obligations assumed under the BIT’ (79).
Likewise, the tribunal in Bayindir v. Pakistan stated that:
[B]ecause a treaty breach is different from a contract violation, the Tribunal
considers that the Claimant must establish a breach different in nature from
a simple contract violation, in other words one which the State commits in the
exercise of its sovereign power (80).
An exception to this principle which is generally recognised is the
so-called ‘umbrella clause’. The tribunal in Duke Energy v. Ecuador
recognises this exception when it stated that:
Establishing a treaty breach is a different exercise from showing a contract
breach. Subject to the particular question of the umbrella clause, in order to
prove a treaty breach, the Claimants must establish a violation different in
nature from a contract breach, in other words a violation which the State
commits in the exercise of its sovereign power (81).
It is largely accepted that a broadly drafted umbrella clause ‘elevates’
a breach of any obligation assumed by a host state with regard to a specific
investment, including the one based on its commercial conduct, to a treaty
breach (82). Yet it should be recalled that the Argentina-Italy BIT did not
have umbrella clause, and nor the Claimant, by contrast with the claimants
in the Abaclat case, did invoke the MFN clause in the BIT to ‘incorporate’
the umbrella clause in other investment treaties Argentina had concluded
(78) E.g. Waste Management, Inc. v. Mexico (“Number 2”), ICSID Case No. ARB(AF)/
00/3, Award of 30 April 2004, par. 174 (expropriation); Azurix Corp. v. Argentina, ICSID Case
No. ARB/01/12, Award of 14 July 2006 par. 315 (expropriation); Burlington Resources Inc. v.
Ecuador, ICSID Case No. ARB/08/5, Decision on Jurisdiction of 2 June 2010 par. 204 (FET);
Bureau Veritas, Inspection, Valuation, Assessment and Control, BIVAC B.V. v. Paraguay,
ICSID Case No. ARB/07/9, Further Decision on Objections to Jurisdiction of 9 October 2012
par. 211 (FET).
(79) Impregilo S.p.A. v. Pakistan, ICSID Case No. ARB/03/3, Decision on Jurisdiction of
22 April 2005 par. 281.
(80) Bayindir Insaat Turizm Ticaret Ve Sanayi A.S. v. Pakistan, ICSID Case No. ARB/
03/29, Award of 27 August 2009, par. 180.
(81) Duke Energy Electroquil Partners & Electroquil S.A. v. Ecuador, ICSID Case No.
ARB/04/19, Award of 18 August 2008 par. 345.
(82) E.g. SGS v. Philippines, ICSID Case No. ARB/02/6, Decision on Jurisdiction of 29
January 2004, par. 126; SGS v. Paraguay, ICSID Case No. ARB/07/29, Decision on Jurisdiction
of 12 February 2010, par. 168. It should however be noted that the tribunal in El Paso Energy
v. Argentina took a different view, that ‘the umbrella clause in Article II of the BIT...will not
extend the Treaty protection to breaches of an ordinary commercial contract entered into by the
State or a State-owned entity, but will cover additional investment protections contractually
agreed by the State as a sovereign — such as a stabilization clause — inserted in an investment
agreement’ (El Paso Energy v. Argentina, ICSID Case No. ARB/03/15, Decision on Jurisdiction
of 27 April 2006, par. 81).
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with third countries (see factual background above). Therefore, insofar as
the BIT obligations invoked by the Claimant in this case are concerned,
that Argentina’s relevant acts constitute sovereign acts is a necessary
condition for jurisdiction ratione materiae, which requires that the claim is
regarded as ‘one that concerns an obligation of the host state under the
BIT’.
2.3. The next question is whether ‘Argentina’s acts in relation to its
default in December 2001 and its subsequent actions, notably including
the adoption of Law No. 26.017’ (83) should be considered as sovereign
acts for the purpose of determining subject matter jurisdiction over the
claim. In this regard, the distinction between acta jure imperii (acts in
public authority) and acta jure gestionis (commercial or private acts),
developed in the context of the doctrine of restrictive state immunity, is
suggestive. This doctrine, now widely established (84), acknowledges certain exceptions of non-immune activities to a general rule of immunity.
The ‘central or distinguishing concept in a regime of restrictive immunity’ (85) is the exception of commercial activity, and therefore the distinction acta jure gestionis from acta jure imperii has been the central issue
in the development of this doctrine. The process of distinguishing these
two types of activities by a state consists of the following three steps: (i)
the identification of the particular act at issue; (ii) the determination of the
criteria for classifying the act; and (iii) the application of the criteria. Each
step will be examined below.
— Identification of the particular act. A starting point for any classification is the identification of the act (or acts) that form(s) the basis of the
claim. As Professor Crawford puts it: ‘it is essential to locate, to identify
with precision, the act or series of acts giving rise to the particular claim,
so that that particular act or series of acts can be classified’ (86). A question
arises here: where the state performed several acts in sequence, can each
of these acts assume a different character (87)? There has not been a
uniform answer to the question of ‘whether a State trader who has entered
(83) The Ambiente decision, supra note 13, par. 548.
(84) This doctrine is codified in international instruments (e.g. the European Convention
on State Immunity, the United Nations Convention on Jurisdictional Immunities of States and
Their Property) and national laws of many states (e.g. The Foreign Sovereign Immunities Act
of 1976 (‘FSIA’, U.S.), The State Immunity Act 1978 (‘SIA’, UK)).
(85) J. Crawford, ‘International Law and Foreign Sovereigns: Distinguishing Immune
Transactions’ (1985) 54 BYIL 75 at 91.
(86) Ibid., 94.
(87) Fox observes that this problem may arise ‘either where an initial commercial
transaction is subject to later governmental acts or where an initial exercise of authority
subsequently transforms into commercial activity’ (H. Fox, The Law of State Immunity (2nd ed.)
(OUP, 2010) 515).
436
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the market place can still claim immunity for his breach’ (88). As noted, the
Ambiente tribunal singled out ‘the use of the Respondent’s sovereign
prerogatives when restructuring its debt’ from the issuing and subsequent
default of its debt, to conclude that it was not the latter but the former
which constituted sovereign acts. This approach appears to be based on
the positive answer to the question above, i.e. that successive acts to an
initially commercial transaction may take a different — sovereign —
character. However, even assuming that the positive answer is adopted, in
this case it does not justify the tribunal’s conclusion, because ‘the use of
the Respondent’s sovereign prerogatives’ as successive acts, may not
constitute Argentina’s sovereign acts in relation to the claims presented.
In this sense, the moment in time at which the nature of the act is to be
determined, i.e. whether it is the default of Argentina’s bonds or the
subsequent promulgation of Law 26.017, is irrelevant in the Ambiente
case.
— Criteria for the distinction. International instruments concerning
state immunity (89) and domestic laws/case law (90) of the states that have
major dispute settlement forums for disputes arising from international
sovereign bonds (91) indicate that the widely accepted criterion for the
distinction is the approach of primarily examining the nature of the
transaction (the ‘nature-oriented’ test). A clear adoption of this approach
is found, for example, in Article 1603 (d) of the US Foreign Sovereign
Immunities Act of 1976 (‘FSIA’):
A “commercial activity” means either a regular course of commercial conduct
(88) R. Higgins, ‘Certain Unresolved Aspects of the Law of State Immunity’ 29(2)
Netherlands International Law Review (1982) 265 at 270. Compare e.g. the approach adopted
by Lord Denning in I Congreso del Partido [1980]1 Lloyd’s Rep 23, 39: ‘When a sovereign
chooses to go into the markets of the world just like an ordinary private ship owner for
commercial purposes - then he clothes himself in the dress of an ordinary ship’s captain. He is
liable to be sued on his contract or for his wrongs in the court of any country which has
jurisdiction in the cause. He cannot renounce the jurisdiction by a plea of sovereign immunity’
and the statement of Goff J at first instance: ‘The character of the contract cannot necessarily
preclude a breach from being held to result from an actus jure imperii, in which case sovereign
immunity may be claimed’. For a detailed examination of this issue, see E.K. Bankas, The State
Immunity Controversy in International Law: Private Suits against Sovereign States in Domestic
Courts (Springer, 2005) 215-224; Crawford, supra note 95, at 91-102; C.H. Schreuer, State
Immunity: Some Recent Developments (Grotius Pub., 1988) 22-24; Fox, supra note 97, 515-518.
(89) European Convention on State Immunity, May 16, 1972, Europ. TS No. 74, 11 ILM
470 (1972) (entered into force June 11, 1976); United Nations Convention on Jurisdictional
Immunities of States and Their Property, New York, 2 December 2004 (not yet in force).
(90) Claims against the Empire of Iran (German Constitutional Court), 45 ILR (1963) 57
at 62 (cited in 1 Congreso del Partido [1978] I QB 500); I Congreso del Partido [1983] 1 AC 244.
(91) New York law and English law are most commonly used as governing laws for
international bond issues. See Udaibir S. Das, Michael G. Papaioannou, and Christoph
Trebesch, ‘Sovereign Debt Restructurings 1950-2010: Concepts, Literature Survey, and Stylized
Facts’, IMF Working Paper, Monetary and Capital Markets Department, WP/12/203 (2012) 41;
Y Liu, ‘Collective Action Clauses in International Sovereign Bonds’ (2002), available at:
http://www.imf.org/external/np/leg/sem/2002/cdmfl/eng/liu.pdf.
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or a particular commercial transaction or act. The commercial character of an
activity shall be determined by reference to the nature of the course of
conduct or particular transaction or act, rather than by reference to its
purpose.
A strong reason to support this approach is that the purpose test is
susceptible to manipulation by states to give the acts at issue the appearance of sovereign acts (92), and therefore the test will lead to a radical
expansion of the scope of acta jure imperii and a resulting diminution of
the doctrine of restrictive immunity (93). On the other hand, it is undeniable that the nature and purpose are intertwined. Crawford observes that
‘the notion that human activity can be classified, or even described,
without referring to its purpose is a delusion’ (94). The US Supreme court,
when interpreting and applying Article 1603 of the FSIA in De Sanchez v.
Banco Central de Nicaragua, acknowledged that: ‘...unless we can inquire
into the purposes of such acts, we cannot determine their nature’ (95).
Article 2(2) of the UN Convention on State Immunity adopts a
‘two-pronged’ test, giving the purpose a subsidiary role to play (96):
In determining whether a contract or transaction is a “commercial transaction” under paragraph 1 (c), reference should be made primarily to the nature
of the contract or transaction, but its purpose should also be taken into
account if, in the practice of the State which is a party to it, that purpose is
relevant to determining the non-commercial character of the contract or
transaction.
This illustrates the difficulty of determining the nature of the acts. It
is submitted here that the criteria should be understood as follows. While
it is widely accepted that the primal reference is to be made to the nature
of the act identified, there is no uniform answer on how to determine the
nature.
Determining the nature of a transaction requires fact-specific inquiries that involve the examination of various factors. The most important
factor is the consideration of whether the state’s act is one which an
(92) See Crawford, supra note 95, at 90: ‘If the test of ‘public acts’ is to be literally
applied, a recalcitrant government has considerable latitude to manipulate its acts to give them
the appearance of ‘public’ acts’. This is because a state may almost always claim the existence
of some public purpose. See American Law Institute (ed) Restatement (Third) of the Foreign
Relations Law of the United States, Vol. 2, 200 ($712, Comment (e)).
(93) Schreuer (1988), supra note 98, at 16.
(94) Crawford, supra note 95, at 95. See also Schreuer (ibid.) at 16.
(95) De Sanchez v. Banco Central de Nicaragua 770 F. 2d 1385 (5th Cir. 1985).
(96) The commentary to the Convention explains this ‘two-pronged’ test as follows:
under this approach, the purpose of the contract/transaction is relevant only to the extent to
refute the assumption of commerciality of the state’s conduct resulting from the application of
the nature test.
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ordinary private person might also do or not (97). Yet the determination
based solely on this consideration is not sufficient for difficult cases such
as ‘the purchase of boots or the more modern instance of cigarettes for the
army’ (98). Therefore, this factor must be considered together with, or
supplemented by, other factors, including the purpose of the relevant
act (99).
Another important factor to be considered in the application of the
nature-oriented test is ‘the whole context in which the claim against the
State is made’ (100). Schreuer explains the relevance of the context with an
example:
For instance, the fact that property for diplomatic purposes was acquired
through a commercial contract does not mean that the property should
henceforth be treated as commercial in other context such as property
tax (101).
In other words, the nature of the transaction is determined by
reference to the claims of the other party (parties) to the transaction. It is
therefore entirely possible that the same act may well be considered as
sovereign in relation to A yet as commercial in relation to B. It also
follows that recognition, or ‘legitimate expectations’ on the part of the
private party as to the nature of the transaction is also one of the factors
to consider in determining the nature of a transaction (102).
The nature-oriented test has also been accepted by investment arbitration tribunals as a criterion for distinguishing between contract claims
and treaty claims. In Bureau Veritas v. Paraguay, the tribunal observed
that investment arbitration tribunals have adopted the following two step
processes:
(97) See e.g. Fox, supra note 97, at 506: ‘In its original form this criterion contemplated
a distinction based on legal acts which a private individual could or could not perform’; R.
Higgins, Problems and Process (Clarendon Press, Oxford, 1994) 84.
(98) Fox (ibid.) at 506.
(99) See Schreuer (1988), supra note 98, at 42 where he identifies a list of criteria for
distinguishing between acta jure imperii and acta jure gestionis. The criteria include, inter alia,
whether the act falls within a type of transaction which might also be done by private persons;
the claimant’s legitimate expectations towards the defendant’s state; the implications of the
state’s act for the future.
(100) In I Congreso del Partido, supra note 100, Lord Wilberforce clearly adopted a
contextual approach: ‘...in considering, under the restrictive theory, whether State immunity
should be granted or not the court must consider the whole context in which the claim against
the State is made, with a view to deciding whether the relevant acts on which the claim is based
should, in that context, be considered as fairly within an area of activity, trading or commercial
or otherwise of a private law character, in which the State has chosen to engage or whether the
relevant acts should be considered as having been done outside that area and within the sphere
of governmental or sovereign activity’ (at 267). See also Schreuer (1988) (ibid.) at 1: ‘this
process of identification should always remain in close relation with the claim put forward’.
(101) Schreuer (1988), supra note 98, at 21-22.
(102) Ibid., at 42.
439
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...first they address the nature of conduct; second, assuming the conduct to be
such as to give rise to the possibility of a breach of the obligation to provide
fair and equitable treatment, they address whether it meets the requirement
not to be arbitrary or discriminatory or otherwise unfair or inequitable. That
second element necessarily requires an assessment of motive, but it is plain
that the motive that explains particular conduct is treated as being distinct
from, and informing of, its nature (103).
The tribunal then adopted the nature-oriented test by stating that ‘[i]n
the present case the real issue the Tribunal is faced with is the determination of whether a refusal to pay an outstanding contractual debt can by
its nature constitute a sovereign act, in the sense of being conduct that an
ordinary contracting party cannot engage in’ (104). The following statement by the Duke Energy v. Ecuador tribunal is a clear endorsement of
the nature-oriented test: ‘[t]hese acts constitute conduct which any contract party could adopt; they are thus not capable of amounting to a breach
of fair and equitable treatment’ (105).
It should however be emphasised that the ‘borrowing’ of the criteria
comes with the proviso that the purpose and context of distinguishing
these two types of acts in investment treaties is different from those in the
law of state immunity. In the context of restrictive state immunity, the
purpose of distinguishing between acta jure gestionis and acta jure imperii
is to determine the availability of state immunity. On the other hand, in
investment arbitration, the purpose is to determine to what extent the
obligations under the relevant investment treaty apply, that is, the scope
of investment treaty protection. This being so, in applying the natureoriented test in investment treaty arbitration, factors particular to investment treaties, in particular the rationale behind investment treaties,
should also be taken into account. The primary object and purpose of
investment treaties is to promote economic relations between the contracting states by offering protection to investors of the other state who
are subject to domestic regulations on foreign investment (106). With this
regard, Professor Waelde’s following statement in his dissenting opinion
in Thunderbird v. Mexico is suggestive:
...international investment law is aimed at promoting foreign investment by
providing effective protection to foreign investors exposed to the political and
regulatory risk of a foreign country in a situation of relative weakness (107).
(103) Bureau Veritas v. Paraguay, supra note88, par. 268.
(104) Ibid., par. 269.
(105) Duke Energy v. Ecuador, supra note 91, par. 348.
(106) For a relationship between host state sovereignty and the rules of foreign investment, see Dolzer and Schreuer, Principles of International Investment Law (Oxford, 2008) 7-11.
(107) Dissenting Opinion of Professor Waelde of 26 January 2006 in International
Thunderbird Gaming Corporation v. Mexico (Award of 26 January 2006) par. 4.
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Certainly, states are free to undertake commitments that go beyond
this rationale under investment treaties by, for example, according certain
treatment to a national of the other state who ‘seeks to make’ investment (108). Arguably, an umbrella clause is regarded as one such ‘additional’ commitment. Yet the obligations invoked by the Claimant in the
Ambiente case, that is, the obligation to accord FET, full protection and
security and the prohibition of expropriation without compensation remain in the traditional framework of investment treaties described above.
This being so, these provisions do not operate where the foreign investors
and their investments are not subject to the regulatory framework of the
host state.
2.4. In applying the (modified) criteria for distinguishing between
sovereign and commercial/private activities of the host state to Argentina’s acts relating to its sovereign debt default and restructuring, particular
attention should be paid to the following: in this case, the Claimant’s
security entitlements were on international bonds which include a choice
of law clause subjecting the bonds’ contractual obligations to one governing law (109). In this regard this case is distinguished from Fedax v.
Venezuela, in which the transactions at issue (which involved issuance of
the promissory notes by the government and their assignment) were
governed by the law of the debtor state. The Fedax tribunal referred to
this fact as an ‘additional element’ of the transactions which supported the
tribunal’s finding that they were distinguished from an ordinary commercial transaction, stating that:
The promissory notes were issued by the Republic of Venezuela under the
terms of the Law on Public Credit (the Law), which specifically governs
public credit operations aimed at raising funds and resources ″to undertake
productive works, attend to the needs of national interest and cover transitory
needs of the treasury. It is quite apparent that the transactions involved in this
case are not ordinary commercial transactions and indeed involve a fundamental public interest (110).
(108) E.g. Article 1139 NAFTA. The so-called ‘admission model’ of investment treaties
that provide obligations of the host state at the phase of the admission of foreign investments
have increased since NAFTA. See generally, I. Gomez-Palacio and P. Muchlinski, ‘Admission
and Establishment’ in Muchlinski, Ortino & Schreuer, supra note 78, 227-258.
(109) P.R. WOOD, International Loans, Bonds, Guarantees, Legal Opinions (Sweet &
Maxwell 2007) at 193; N. Esho, M.G. Kollo, I.G. Sharpe ‘Eurobond Underwriter Spreads’
Discussion paper, 503, Financial Markets Group, London School of Economics and Political
Science (2004) (available at: http://eprints.lse.ac.uk/24744/) at 1-2. International bonds include
Eurobonds, i.e. ‘bonds that are issued in countries other than the one in whose currency the
bond is denominated’ (F. STURZENEGGER and J. ZETTELMEYER, Debt Defaults And Lessons From
A Decade Of Crises (MIT Press, 2007) at 59).
(110) Fedax v. Venezuela, supra note 57, par. 42.
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Waibel points out the difference between the Fedax case and cases on
Argentina’s sovereign bonds on this account, and observes that:
Fedax is no precedent for ICSID arbitration on sovereign debt instruments
governed by a private foreign law...The promissory notes in Fedax are
fundamentally distinct from modern sovereign debt. They were issued under
Venezuela’s own law and subject to the exclusive jurisdiction of Venezuela’s
own law and subject to the exclusive jurisdiction of Venezuelan courts. Since
Venezuela retained important public powers over such debt instruments, they
were not commercial transactions (111).
This observation was relied on by Abi-Saab when he argued that the
promissory notes in the Fedax case were distinguished from Argentina’s
sovereign bonds at issue, because the former were issued under Venezuela’s own law and ‘not free-standing or unhinged from any specific project
or economic activity in the host country’. By contrast, he argued, Argentina’s sovereign bonds, which ‘were sold in international financial markets
with choice of law and forum selection clauses subjecting them to laws and
fora foreign to Argentina’ and did not support any project/ economic
activity in Argentina (112), possessed neither of these features and therefore did not qualify as an investment under the BIT for lack of the
‘territorial link’ to Argentina (113).
The most distinguishing feature of international sovereign bonds is
that the creditor’s legal rights (114) under such international sovereign
bonds are beyond the reach of the sovereign power of the debtor
state (115). This is explained as follows. First, it is clear that the debtor state
may not alter the terms of the bonds (116). Secondly, the creditors’ rights
under sovereign bonds are justiciable before at least two major dispute
settlement forums for disputes arising from international sovereign bonds,
(111) Waibel (2011), supra note 87, at 225.
(112) Abi-Saab dissenting opinion, supra note 14, par. 78.
(113) Ibid., par. 105.
(114) Whether or not these rights under sovereign bonds amount to ‘an investment’
under Article 25 ICSID Convention and the relevant BIT remains highly controversial, but this
issue is outside the scope of this article.
(115) Waibel aptly observes that in the Argentina case, ‘[t]he legal framework for debt
issuance and debt service ... was beyond the reach of Argentina’s police powers, given that the
bonds were governed by a foreign municipal law’ (Waibel (2011), supra note 87, at 280).
(116) The distinction between international bonds and domestic bonds in terms of the
debtor state’s capacity to modify the terms of bonds is clearly recognised by the following
statement by the EFC Sub-Committee: ‘The standardised CAC treats a change in the law
governing a bond as a reserved matter only if a bond is governed by a law other than the law
of the issuer. The Committee believes there is no need to treat a change from the issuer’s own
domestic law as a reserved matter because the issuer already has the power, at least in theory,
to adopt any desired modification by means of domestic legislation without changing the law
governing its bonds’. EFC Sub-Committee on EU Sovereign Debt Markets, ‘Collective Action
Clause: Explanatory Note’ available at: <http://europa.eu/efc/sub_committee/pdf/explanatory_note_draft_on_the_model_cac_-_26_july.pdf>.
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i.e. English and US courts. In English law, the State Immunity Act 1978
expressly provides that a commercial transaction as a non-immune
act (117) includes ‘any loan or other transaction for the provision of finance
and any guarantee or indemnity in respect of any such transaction or of
any other financial obligation’ (118). The commentary to the SIA provides
that the phrase ‘transaction for the provision of finance’ would ‘certainly
encompass any bond or other bearer debt instrument, derivative transaction, letter of credit, bill of exchange or promissory note as well as the
provision of security for indebtedness’ (119). Under English law, therefore,
it is clear that sovereign immunity from jurisdiction does not apply to the
issuance of sovereign bonds. Turning to US law, in Weltover v. Argentina (120), the Supreme Court confirmed that the issuance of the Bonods
(international bonds issued by Argentina) was a ‘commercial activity’
under the FSIA, and the rescheduling of the maturity dates on those
instruments was taken ‘in connection with a commercial activity’ that had
‘a direct effect in the United States’ within the meaning of §
1605(a)(2) (121). Following this case, ‘under U.S. law, international bond
issues by a sovereign, and a subsequent default, are almost always considered commercial activities, regardless of the purpose of the issue, or the
reason behind the payments interruption’ (122). It should be recalled that
the claimants of the Abaclat case had filed two US litigations, which were
stayed by the New York District Court following the commencement of
the ICSID arbitration (123). Thirdly, in international bond contracts,
debtor states often explicitly waive sovereign immunity from jurisdiction
in order to ‘foreclose any ambiguity’ (124). Certainly, enforcement of a
municipal judgment against a state requires a further determination of
immunity, to which different criteria than those applied at the adjudicative
stage are applied (125). Yet even an ICSID award, which benefits from a
(117) Article 3(1)(a).
(118) Article 3(3)(b).
(119) Commentary to the SIA, reproduced in Andrew Dickinson, Rae Lindsay, James P.
Loonam, and Clifford Chance LLP, State Immunity Selected Materials and Commentary (OUP,
2004).
(120) Republic of Argentina v. Weltover, 504 U.S. (1992) 604.
(121) It provides that: ‘... the action is based upon a commercial activity carried on in the
United States by the foreign state; or upon an act performed in the United States in connection
with a commercial activity of the foreign state elsewhere; or upon an act outside the territory of
the United States in connection with a commercial activity of the foreign state elsewhere and
that act causes a direct effect in the United States;’
(122) Sturzenegger and Zettelmeyer, supra note 119, at 57.
(123) The Abaclat decision, supra note 12, par. 83.
(124) J.M. LOEB, ‘Strengthening Bond Creditors’ Remedies Under the Foreign Sovereign
Immunities Act’ Paper for the Seminar on International Finance, Harvard Law School (April
27, 2004). Such waiver is allowed by Article 2(1)(2) SIA and § 1605(a)(1) FSIA.
(125) FOX, supra note 97, at 246; Sturzenegger and Zettelmeyer, supra note 119, at 57-58.
It should, however, be noted that there are several cases where holdouts succeeded in enforcing
the claims or settled ‘at substantially better terms than the average creditor’ (U. Panizza, F.
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strong enforcement mechanism (126), is subject to state immunity at the
stage of executing the award (127). In other words, obstacles to enforcement exist in any transnational dispute settlement and therefore it should
not turn the commercial nature of acts into sovereign acts (128). This is not
to argue that there is no subject-matter jurisdiction where the rights at
issue are justiciable in courts or tribunals other than those in the host state.
Rather, it is to argue that in this case, the fact that the issuance/default of
sovereign bonds has been regarded as a ‘commercial transaction’ under
English law and ‘commercial activity’ under US law indicates that the
debtor state, as the issuer of the bonds, stands on an equal footing with the
creditors. The debtor state may be brought to courts or tribunals outside
its own jurisdiction, where the state immunity defence is not available.
As noted above, the Ambiente tribunal concluded that the use of
Argentina’s sovereign power when restructuring its debt (in particular the
promulgation of Law 26,017), rather than the default itself, may potentially give rise to treaty claims, on the ground that ‘the equilibrium of the
contract and the provisions contained therein are unilaterally altered’ by
Argentina’s sovereign act, because it derived from its exercise of sovereign
State power (129). Certainly, the adoption of Law 26,017 is not a kind of
conduct ‘available to the ordinary contracting party’ (130). However, it
should be recalled here that the nature of the state’s acts must be
Sturzenegger and J. Zettelmeyer, ‘The Economics and Law of Sovereign Debt and Default’
47(3) Journal of Economic Literature (2009) 651, at 659). Such cases include Elliott Assocs. v.
Banco de la Nacion, 194 F.3d 363, 365 (2d Cir. 1999) (Court of Appeals for the Second Circuit
granted a $56 million judgment in favor of Elliott) and Elliott Assocs., General Docket No.
2000/QR/92 (Ct. App. Brussels, 8th Chamber, Sept. 26, 2000) (the Brussels Court of Appeal
authorized its execution through an order that requires Euroclear to block any cash payments
from Peru associated with its Brady arrangement) (see M. Monteagudo, Peru’s Experience in
Sovereign Debt Management and Litigation: Some Lessons for the Legal Approach to Sovereign Indebtedness’ (2010), available at: http://lcp.law.duke.edu/. In 2011, the Supreme Court of
the UK permitted the claimant to seize Argentina’s assets in the UK based on the New York
judgment, stating that the recognition and enforcement of the New York judgment were
proceedings ‘relating to’ a ‘commercial transaction entered into by’ Argentina within the
meaning of section 3(1)(a) (NML Capital Ltd v Argentina [2011] 3 W.L.R. 273, par. 26). By
contrast, the recent series of judgments by French Cour de Cassation upheld Argentina’s
argument that it did not renounce its immunity of execution over the claims arising from the
New York judgment for NML Capital Ltd v Argentina (Cour de cassation, Chambre civile 1, 28
mars 2013, 11-10450; 10-25938).
(126) Under Article 54(1) of the ICSID Convention, each contracting state must enforce
the pecuniary obligations imposed by ICSID arbitration awards ‘within its territories as if it
were a final judgment of a court in that State’.
(127) Article 55 of the ICSID Convention: ‘Nothing in Article 54 shall be construed as
derogating from the law in force in any Contracting State relating to immunity of that State or
of any foreign State from execution’.
(128) See Waibel (2011) supra note 87, at 225: ‘[t]he character of the transaction does not
change simply because enforcement of municipal judgments against a state might prove more
difficult than against a private party’.
(129) The Abaclat decision, supra note 12, par. 318.
(130) Bureau Veritas v. Paraguay, supra note 88, par. 241.
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determined in ‘the whole context in which the claim against the State is
made’, and in this case the Claimant’s rights remain binding and justiciable
despite the adoption of the law (131).
With this respect, the tribunal’s observation that Argentina ‘could
nonetheless influence those bonds/security entitlements within the reach
of the Respondent’s (notably territorial) jurisdiction’ (132), although perhaps correct as a factual matter, is misplaced. This is because, as a matter
of law, even if Law 26,017 could (and did) make it effectively impossible
for creditors to seek satisfaction of their claims within the jurisdiction of
Argentina, it is no different in nature from Argentina’s failure to pay as a
non-performance of its contractual obligations, where the claim remains
valid under the governing law and where the creditors and the debtor are
on an equal footing before the court of jurisdiction. Investment treaties
are to promote and protect foreign investments ‘within the framework
acceptable to both of the State parties’ (133), and as demonstrated above,
the framework in which the treaty provisions invoked by the Claimant
operates is designed to protect the investor’s investments which are
subject to the host state’s exercise of its sovereign power. The purpose of
the adoption of Law 26,017, however ‘political’ it may be (134), does not
affect the fundamental equality between the debtor state and the bondholders. Moreover, the Claimants recognised, when acquiring Argentine
international sovereign bonds, that their rights were governed by a law
other than that of the debtor state and their rights would be subject to
foreign jurisdiction.
For these reasons, for the purpose of determining jurisdiction ratione
materiae, Argentina’s acts in relation to its default and its subsequent
actions, including the adoption of Law 26,017, should not be regarded as
acts of a sovereign with reference to the Claimant’s claim in this case.
3. This article concludes by arguing that, in light of the findings
above, the Claimant’s claim does not satisfy the prima facie standard for
jurisdiction ratione materiae set out by the Ambiente tribunal. The prima
facie standard adopted by the tribunal (see above) is arguably ‘softer’ than
(131) DE LUCA, supra note 32, at 219: ‘Argentina’s sovereign acts appear to be immaterial
in respect of the merits of the bonds cases before the national courts indicated in bonds
documents’.
(132) Ibid.
(133) Daimler Financial Services AG v. Argentina, ICSID Case No. ARB/05/1, Award, 22
Aug. 2012, par. 161. See also, Bernárdez dissenting opinion, supra note 15, par. 5.
(134) It should however be noted that the Ambiente tribunal did not identify any such
political motives behind Law 26,017. The Abaclat tribunal explained the motive as follows:
‘Argentina, which considered itself insolvent, decided to promulgate a law entitling it not to
perform part of its obligations, which Argentina, had undertaken prior to such law, and fixing
sovereignly the modalities and terms of such liberation’ (the Abaclat decision, supra note 12,
par. 323).
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one proposed by Judge Higgins in her separate opinion in the Oil Platform
Case (135) according to which the prima facie standard is satisfied when the
actions at issue ‘might’ violate the relevant treaty provisions (136). Nevertheless, the tribunal’s prima facie test still requires the tribunal to establish
the connexion between the alleged facts and their legal characterization so
that the facts, if proved, are capable of falling within the provisions of the
treaty invoked in order to find jurisdiction ratione materiae. Even if, as the
Abaclat tribunal stated (and endorsed by the Ambiente tribunal), a prima
facie standard must also be applied to ‘the determination of the meaning
and scope of the relevant BIT provisions invoked’ (137), the legal foundation of the claims, that is, the link between the facts and legal norms, must
still be objectively determined by the tribunal (138). The tribunal in Pan
American Energy v. Argentina provides a strong reason for this proposition:
...if everything were to depend on characterisations made by a claimant alone,
the inquiry to jurisdiction and competence would be reduced to naught, and
tribunals would be bereft of the compétence de la compétence enjoyed by
them under Article 41(1) of the ICSID Convention (139).
Likewise, the tribunal in Continental Casualty v. Argentina, while
holding that the claimant’s presentation was decisive as to the facts of the
case, stated that:
As to the legal foundation of the case... the Tribunal must evaluate whether
(135) Separate Opinion of Judge Higgins in Oil Platforms (Iran v. US) Preliminary
Objection, [1996] ICJ Reports 803 par. 33: ‘The Court should thus see if, on the facts as alleged
by Iran, the United States actions complained of might violate the Treaty articles’.
(136) Sheppard observes that the former test derives from the ICJ case law on jurisdiction
to grant provisional measures (Military and Paramilitary Activities in and against Nicaragua
(Nicaragua v. US) Order of 10 May 1984, ICJ Reports 1984, 169 par. 24; Legality of Use of Force
(Serbia and Montenegro v. Italy) ICJ Reports 1999, 481 par. 25), the test ICJ has applied for the
purpose of determining whether it has jurisdiction ratione materiae is subtly different. Sheppard,
supra note 78, at 939 and 960. For a comparative analysis of the content of a prima facie standard
in the common law and civil law systems and its implications to the WTO adjudicatory bodies
an international dispute settlement forum, see Y. Taniguchi, ‘Understanding the Concept of
Prima Facie proof in WTO Dispute Settlement’ in M.E. Janow, V. Donaldson, A Yanovich
(eds) The WTO: Governance, Dispute Settlement, and Developing Countries (2008) 553.
(137) The Abaclat decision, supra note 12, par. 311; the Ambiente decision supra note 13,
par. 511. The tribunal in Continental Casualty v. Argentina stated that the object of a prima facie
examination is to ascertain whether the claim meets the jurisdictional requirements ‘both as to
the factual subject matter at issue, as to the legal norms referred to as applicable and having
been allegedly breached, and as to the relief sought’ (Continental Casualty Company v.
Argentine Republic (Decision on Jurisdiction of 22 February 2006) ICSID Case No ARB/03/9
par. 62).
(138) Z. DOUGLAS, The International Law of Investment Claims (Cambridge 2009) Rule
27.
(139) Pan American Energy LLC and BP Argentina Exploration Company v. The
Argentine Republic (Decision on Preliminary Objections of 27 July 2006) ICSID Case No. ARB/
03/13 par. 50.
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those facts, when established, could possibly give rise to the Treaty breaches
that the Claimant alleges, and which the Tribunal is competent to pass
upon (140).
More recently, the Urbaser v. Argentina tribunal stated that ‘[t]he
prima facie test does not preclude the Tribunal from making legal determinations concerning jurisdiction’ (141).
There are cases where the tribunal rejected, as a result of the
objective examination on the legal foundation of the case, jurisdiction
ratione materiae over all or some of the provisions of the relevant investment treaty invoked by the claimant investors. For example, in Telenor v.
Hungary, the tribunal concluded that the claimant had failed to make out
a prima facie case of expropriation because there was ‘no evidence before
the Tribunal to suggest any activity on the part of the Hungarian Government that remotely approaches the effect of expropriation’ (142). In
SGS v. Philippines, the tribunal rejected jurisdiction ratione materiae over
the expropriation claim on the ground that ‘on the material presented by
the Claimant no case of expropriation has been raised’ because ‘[a] mere
refusal to pay a debt is not an expropriation of property, at least where
remedies exist in respect of such a refusal’ (143).
Applying this objective examination on the legal foundation to the
Ambiente case, the appropriate conclusion would be that: as Argentina’s
acts at issue do not amount to sovereign acts in relation to the claim
presented, the connexion between the alleged facts and the provisions of
the BIT invoked by the Claimant cannot be established.
4. The Ambiente case not only involves a number of difficult jurisdictional issues but also has significant implications for the role of investment treaty arbitration. While it was the second time that an investment
arbitration tribunal had addressed the relations between sovereign debt
restructurings and investment treaty arbitration, the Ambiente tribunal,
benefitting from the comprehensive analysis in the dissenting opinion of
(140) Continental Casualty Company v. Argentine Republic, supra note 147, par. 61-63.
See also Vasani and Fooden, supra note 28, 283-284.
(141) Urbaser S.A. and Consorcio de Aguas Bilbao Bizkaia, Bilbao Biskaia Ur Partzuergoa v. The Argentine Republic (Decision on Jurisdiction of 19 December 2012) ICSID Case
No. ARB/07/26 par. 57. See also Noble Energy Inc. and MachalaPower Cía. Ltd. v. Republic of
Ecuador and Consejo Nacional de Electricidad (Decision on Jurisdiction of 5 March 2008)
ICSID Case No. ARB/05/12 par. 151-152; Total S.A. v. The Argentine Republic (Decision on
Liability of 27 December 2010) ICSID Case No. ARB/04/01 par. 52.
(142) Telenor Mobile Communication A.S. v. Hungary (Award of 13 September 2006)
ICSID Case No. ARB/04/15 par. 79-80. See also Pope & Talbot v. Canada (Interim Merits
Award of 26 June 2000) par. 100.
(143) SGS Société Générale de Surveillance S.A. v. Republic of the Philippines (Decision
on Jurisdiction of 29 January 2004) ICSID Case No. ARB/02/6 par. 161.
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Arbitrator Abi-Saab in its ‘predecessor’ Abaclat case (144), provided detailed responses to Argentina’s arguments and explanations for its conclusions. Among the equally complex jurisdictional issues raised in this
case, this article shed light on an issue which has been less explored than
other issues, i.e. the issue of whether there was a prima facie breach of the
BIT. While Bernárdez’s dissenting opinion virtually leaves this issue
untouched, the author considers that a thorough examination of this issue
may well provide another strong reason why jurisdiction should be denied
in this case. The scope of investment protection under a particular
investment treaty must be within the framework set out by the contracting
states to the treaty, and in the circumstances of the case, the Ambiente
tribunal’s decision indeed went beyond the framework. Excessive intervention by investment arbitration undermines a swift and orderly sovereign debt restructuring, which is in the interest of neither majority creditors nor the debtor state (145). The issue of the existence of a prima facie
violation of the BIT obligations actually contains a fundamental question
on the scope of investment protection which reaches the jurisdictional
phase, and that limiting the scope of investment treaty arbitration in this
context is a way to balance the protection of foreign investment and the
need for a swift and orderly SDR.
TOMOTO ISHIKAWA
(144) The tribunal did respond to, or actually endorse, Professor Abi-Saab’s opinions in
examining issues such as the meaning of an ‘investment’ and whether or not the prerequisites
of amicable consultations and recourse to Argentine courts were mandatory jurisdictional
requirements. See e.g. the Ambiente decision, supra note 13, par. 459, 494, 579.
(145) It cannot be seriously contested that delays in the SDR process causes negative
consequences to both the majority of creditors and the borrower. For examinations of the
negative impacts of a protracted SDR, see e.g. Sturzenegger and Zettelmeyer, supra note 119,
at 23, 49-51; Kevin P. Gallagher, ‘The New Vulture Culture: Sovereign Debt Restructuring and
Trade and Investment Treaties’ The IDEA’s Working Paper (2011), available at: http://
www.ase.tufts.edu/gdae/publications/GallagherSovereignDebt.pdf; K. Tsatsaronis, ‘The Effect
of Collective Action Clauses on Sovereign Bond Spreads’, Bank for Intl Settlements Q. Rev
(Nov. 1999) 22; Jeremy Bulow and Kenneth Rogoff, ‘A Constant Recontracting Model of
Sovereign Debt’ 97(1) Journal of Political Economy (1989)155, at 158.
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RASSEGNE E COMMENTI
La “determinazione contrattuale” ex art. 808-ter c.p.c. quale
espressione di potere dispositivo ex lege
LUCA DAMBROSIO
1.
L’inesplorata proiezione della disciplina del negozio di accertamento in
capo al lodo irrituale; il lodo ex art. 808 ter quale espressione del potere
dispositivo ex lege.
Questo saggio si propone
(i) di sviluppare la compenetrazione tra negozio di accertamento e lodo
libero, a fronte della tradizionale mera enunciazione del primo per spiegare la
natura del secondo, senza giungere a trarne le debite conclusioni operative in
tema di causa, effetti ed impugnazione (1);
(ii) di rilevare che, con l’introduzione dell’art. 808-ter cod. proc. civ.,
secondo l’interpretazione che ne proponiamo, il potere arbitrale di disporre
delle sfere giuridiche dei litiganti, per mezzo del dictum con effetti contrattuali
(artt. 1321, 1372 cod. civ.), nasce direttamente dalla norma in parola, così
come sorge — analogamente e per le decisioni costitutive — ex artt. 2908 cod.
civ. e 824-bis cod. proc. civ., rispettivamente in capo all’autorità giudiziaria ed
all’arbitro rituale. Il mandato delle parti, tradizionalmente posto a base del
potere dispositivo degli arbitri irrituali, cessa dunque di essere la fonte del
potere sostanziale di disporre decidendo. Le principali conseguenze pratiche
di questa impostazione sono l’inapplicabilità dei vizi del consenso, ai fini
dell’impugnativa del lodo, e del termine di prescrizione di cinque anni
(1) La notevole vastità dei temi del negozio di accertamento e dell’arbitrato irrituale non
ha favorito il raccordo tra i due argomenti.
Come già rilevato anni or sono (DAMBROSIO, Il negozio di accertamento, Milano, 1996,
248), e l’osservazione vale ancor oggi, gli studiosi che si sono applicati all’arbitrato irrituale non
hanno esteso la loro indagine al negozio di accertamento e, simmetricamente, coloro che hanno
esaminato il negozio di accertamento, molto raramente hanno analizzato l’arbitrato (cfr.
DAMBROSIO, op. cit., 191 ss.).
Il coordinamento è così complesso da non poter avvenire autonomamente da parte della
giurisprudenza, per il suo limite naturale di doversi esprimere su di una singola fattispecie, senza
poter procedere ad un’elaborazione dogmatica a monte, che compete alla dottrina.
Per una completa ricostruzione storica della nascita dell’arbitrato irrituale, cfr. PUNZI,
Disegno sistematico dell’arbitrato, Padova, 2000, 63 ss.
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all’azione di annullamento ex art. 808-ter, oltre ad una reale aderenza alla
prassi che vede le parti non conferire agli arbitri poteri di rappresentanza
diretta; la necessità di valutare la risolubilità per inadempimento di un atto
unilaterale e di analizzare il tema (qui lo si riserva ad altro studio), non
battuto, dell’azione revocatoria di un lodo libero.
2. L’arbitrato irrituale è definito (2) come un mandato a concludere una
transazione od un negozio di accertamento, che consiste in un contratto
atipico col quale si definisce la reale configurazione della situazione originaria,
o — talvolta — come loro arbitraggio (art. 1349 cod. civ.) (3).
La differenza tra transazione e negozio di accertamento è netta, poiché la
prima dirime la lite (4) tout court ed il secondo — per l’appunto — giudica ed
accerta (5).
Non andando oltre la suddetta (mandato) definizione dell’arbitrato non si
colgono gli effetti della proiezione in seno al lodo di tal negozio, il quale
confina con molteplici altri istituti (confessione, riconoscimento di debito,
ripetizione del negozio, atti riproduttivi o ricognitivi ex art. 2720 cod. civ.,
ricognizione dell’enfiteuta ex art. 969 cod. civ., ricognizione della rendita ex
art. 1870 cod. civ., applicabilità dell’art. 1988 cod. civ. ai diritti reali, perizia
contrattuale (6)) e costituisce uno dei temi più difficili del diritto civile italiano.
Ad esempio, l’affermazione che il lodo ha effetti contrattuali è, come
emerge dallo studio del negozio di accertamento, in sé decisamente generica.
Quale efficacia materiale? Preclusiva, novativa, c.d. immediata, di giustapposizione di fonti, regolativa o modificativa etc. (7).
Nella letteratura e nella giurisprudenza sull’arbitrato, persistono talvolta
risalenti equivoci sui rapporti tra negozio di accertamento e transazione, in
realtà assodati dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si sono specificamente
occupate per decenni dei due contratti, più che dell’arbitrato, e che distinguono inopinatamente un contratto dall’altro.
Abbiamo così l’asserita esistenza di singolari lodi-transazioni (figli della
risalente tesi dottrinale minoritaria (8), secondo la quale i privati non potrebbero concludere negozi di accertamento), ove — tuttavia — non esistono
(2) Questa tesi è pacificamente affermata dalla giurisprudenza più recente (ad esempio,
Cass. 24 gennaio 2005, n. 1398, in Mass. Foro it., 2005) e dalla maggior parte della dottrina (per
molteplici riferimenti, cfr. DAMBROSIO, op. cit., nota 15 a pg. 198).
(3) Tesi nettamente minoritaria, ad esempio, SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 3
ediz., 1988, pg. 274 ed ulteriori richiami in DAMBROSIO, op. cit., nota 24 a pg. 203.
(4) Sui concetti di “... lite già incominciata ... lite che può sorgere” (art. 1965 cod. civ.), cfr.
DAMBROSIO, op. cit., pgg. 16 ss, per analisi critica e riferimenti in dottrina e giurisprudenza.
(5) Profilo da sempre pacifico in giurisprudenza (ad esempio, Cass. 9 luglio 1987, n. 5999)
e, con alcune eccezione, in dottrina (cfr. DAMBROSIO, op. cit., 29).
(6) Cfr. DAMBROSIO, op. cit.
Cfr. anche PRESUTTI, La natura giuridica dell’atto di approvazione delle tabelle millesimali,
Giust. civ., 2013, vol. LXIII, pg. 223.
(7) Per riferimenti, cfr. paragrafo 3 di questo saggio.
(8) Per riferimenti, DAMBROSIO, op. cit., pg. 11 e nota 19 a pg. 200.
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reciproche concessioni ed una parte vince e l’altra perde; “transazioni” che
non si riscontrano nelle stesse fattispecie giurisprudenziali che le enunciano —
ove i relativi lodi accertano — anche se, in sentenza, si ripete automaticamente la massima fossilizzata del mandato a transigere o ad accertare (9); vi
sarebbero — inoltre — arbitri irrituali che dispongono, ma non giudicano o
decidono (10), poiché questi sarebbero adempimenti riservati al giudice od
all’arbitro rituale, sicché è da chiedersi quale sarebbe la misteriosa operazione
logico-giuridica posta a base del dictum libero, che dà torto ad una parte e
ragione all’altra. L’effetto negoziale del lodo libero non è arbitrario, bensì
basato su di un’attività logico-giuridica di giudizio identica a quella dell’arbitro rituale e del giudice (11), fermo restando che le norme procedurali sono
diverse, come lo sono, tra loro, quelle degli ordinari giudizi di appello, di
cassazione e di primo grado, ma — non per questo — potendosi definire le
relative attività, come differenti da un giudizio. In che modo possa concretamente attuarsi tale intelligenza attraverso un atto dispositivo sarà illustrato nel
paragrafo 3.
Il tema dell’arbitrato irrituale è così contaminato da stratificazioni storiche, le cui impenetrabili dimensioni (12) facilitano la custodia del pregiudizio
che i privati non giudicano al di fuori dell’arbitrato rituale.
Giungendo a profili meno battuti, rileviamo che gli arbitri liberi sono
mandatari a concludere una transazione (?) od un negozio di accertamento
per incarico dei litiganti, ma sono privi di una sola riga in nomina sul potere
di rappresentanza diretta (13), che costituisce il necessario presupposto dell’efficacia sostanziale del lodo, che incide nella sfera giuridica dei controvertenti.
(9) Va rilevato, che nulla vieta di incaricare gli arbitri di transigere, ma questo non
avviene mai in pratica e mai lo prevede la clausola compromissoria. Diversamente, le transazioni vengono di prassi concluse attraverso l’opera dei legali delle parti od al più con la
collaborazione degli arbitri.
(10) Guai a dire che decidono, cfr., ad esempio, Cass. 10 novembre 2006, n. 24059, in
Foro it., I 2181.
FAZZALARI rileva (I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. proc., 1968,
464-465) che nell’arbitrato rituale come in quello libero vi è sempre un giudizio, ovviamente tra
le parti, e manca la sovraordinazione del giudice statale. La processualità non è esclusiva dello
stato.
(11) Tuttavia, DE NOVA (per esempio, in Accordi delle parti e decisione, Quaderno 11, in
Riv. trim. proc. civ., Milano, 2008, 59 ss. ed ora in DE NOVA, Il contratto. Dal contratto atipico
al contratto alieno, pg. 143 e nota 13 a pg. 144, Padova, 2011) avverte che le parti non possono
imporre al giudice, ma solo all’arbitro, la clausola interpretativa che limita l’interpretazione del
contratto solo a quanto in esso previsto; previsione frequente nei contratti di compravendita
azionaria, recepiti nella prassi italiana da quella anglosassone.
(12) Basti consultare la voce Arbitrato, del Repertorio del foro italiano, per rendersi conto
della molteplicità di pubblicazioni e sentenze prodotte in un anno.
(13) Cfr. SCHIZZEROTTO, Arbitrato improprio e arbitraggio, Milano, 1967, 158; RUBINO
SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato. Disciplina comune e regime speciale, 6ª ed., Padova, 2010,
vol. 1, 106; FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001, nota n. 180 a pg. 116; Cass. 24
agosto 1993, n. 8910, in Mass. foro. it., 1993 afferma che gli arbitri liberi, privi di poteri di
rappresentanza e dotati di un mandato collettivo, non esprimono una volontà negoziale diretta
delle parti.
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Va soggiunto che se invece rappresentanza vi fosse, si potrebbe utilizzare
l’art. 1390 (14) cod. civ. ai fini dell’impugnazione per errore del rappresentante
arbitro, senza il salto logico di impugnative, ove ritenute ammissibili (15), di
contratti dei quali non si comprende come si sia parti, vista l’assenza di
procura, eccezion fatta per il lodo concepito come arbitraggio di un negozio di
accertamento ove l’impugnazione è tuttavia diversa (art. 1349 cod. civ.); si
deve peraltro avvertire che il vizio non è espressione della volontà dell’arbitro
dissenziente con l’effetto che esso (art. 1429 cod. civ.) mal si concilia con
deliberazioni collegiali (16).
Si hanno poi opzioni tra un arbitrato e l’altro espresse “esotericamente”
in clausola compromissoria (17), che non sono tuttavia sfoggi di cultura, bensì
manifestazione del fatto che le parti non hanno chiare le due forme di
arbitrato e che riprendono espressioni tradizionali spesso prive di basi razionali (18), alle quali si dà credito in quanto soltanto “stratificate”. Così non si
scrive semplicemente che l’arbitrato sia rituale o libero, ma che gli arbitri
saranno, per esempio, “amichevoli compositori” etc. Per non dire della
fattispecie nella quale le parti riescono — addirittura — a pattuire contemporaneamente la competenza del giudice ordinario e dell’arbitro (19).
Ancora, l’arbitramento (art. 1349 cod. civ.) non sarebbe compatibile col
(14) Tesi sostenuta da chi scrive, op. cit., 210, con analisi anche delle interferenze con
l’art. 1395 (pg. 211), per l’arbitro che si trova ad essere rappresentante di due parti in conflitto
tra loro.
(15) Cfr. DAMBROSIO, op. cit., 216.
(16) DAMBROSIO, op. cit., 210.
(17) Ora, il nuovo art. 808-ter risolve definitivamente la disputa, imponendo sempre e
comunque l’arbitrato rituale, salvo espressa deroga scritta per l’arbitrato libero.
Ad esempio, Cass. 10 novembre 1981, n. 5942 ha qualificato come rituale, l’arbitrato
previsto da una clausola compromissoria, che attribuiva agli arbitri il potere di “giudicare” e
l’esonero da “formalità di procedura”.
(18) “Quando l’ambiguità lessicale dei contraenti sia da correlare alla loro incapacità di
prefigurare il significato oggettivo affidato alle parole, ipotizzare di ricostruire l’intenzione del
contraente colmandone l’ignoranza con dati di conoscenza propri dell’interprete, non è atto di
interpretazione, bensì atto di surrogazione del pensiero altrui, con la conseguente inapplicabilità
di criteri presuntivi. È nulla per indeterminatezza dell’oggetto, la clausola compromissoria che
non consente di stabilire se le parti abbiano voluto prevedere un arbitrato rituale o un arbitrato
irrituale” App. Firenze 5 ottobre 2007, in questa Rivista, 2008, 371 ove si compie una ricostruzione delle — inutilmente complicate — formulazioni di clausole compromissorie, dalle quali la
giurisprudenza ha tratto, con varie oscillazioni, indicazioni interpretative ai fini della sussistenza
di un arbitrato o dell’altro; per un’ampia rassegna giurisprudenziale, di tali “formule” predisposte dalle parti, cfr. BARTOLINI e DELCONTE, Il nuovo codice dell’arbitrato, Piacenza, 2006, 405
ss.
Per una soluzione meno drastica e nel senso della natura rituale, nei casi dubbi, poiché è
chiaro che le parti hanno voluto l’arbitrato, non conoscendo tuttavia le due opzioni possibili, e
costituendo il giudizio libero una deroga a quello codicistico, cfr. Cass. 2 luglio 2007, n. 14972,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, 143 n. F. Bartolini, cit.; cfr. anche T. Bologna 6 ottobre 2004,
in Foro pad., 2005, 510.
L’indirizzo costante era tuttavia nel senso dell’opzione di arbitrato libero per i casi dubbi
(es. Cass. 24 gennaio 2005, n. 1398).
(19) Risolve l’enigma nel senso della prevalenza del giudice ordinario T. Milano 10
settembre 2012, ILCASO.it, I, 7821-pubbl. 24/09/2012.
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negozio di accertamento (20), poiché nel primo non vi è lite ma un semplice
contratto da completare, senza che si avvisi come l’obiezione sia meramente
descrittiva di ciò che accade se si applica l’arbitraggio ad un contratto diverso
dal negozio dichiarativo od al medesimo, che ha la funzione di chiarire quello
precedente e controverso.
In un quadro così complesso, conviene per prima cosa precisare che il
negozio di accertamento non può essere espunto dalla tematica arbitrale per
semplificarla (21), poiché essa pone identiche indagini in punto efficacia (art.
1321 cod. civ.), vale a dire quale sia la relazione con la situazione giuridica
preesistente o meno:
— giustapposizione del lodo o novazione; accertamento di una mera
modalità (es. quantum) o della stessa esistenza/inesistenza della fonte originaria; valore meramente obbligatorio o ripetitivo del comando pregresso con
conseguenze ben diverse rispetto ai terzi etc.
— risoluzione per inadempimento del rapporto accertato e/o risoluzione
dell’atto accertativo, negozio o lodo che sia.
L’elenco potrebbe forse continuare.
Ma crediamo sia sufficiente soffermarsi sul tema dell’impatto degli effetti
del lodo su quelli della situazione giuridica pregressa, per comprendere che —
anche a non volere utilizzare il termine “negozio di accertamento” — i temi da
affrontare, con qualche sinora non ravvisata eccezione, sono gli stessi.
La necessità di un’analisi delle implicazioni tra il negozio dichiarativo ed
il dictum si riscontra anche in giurisprudenza ove non è presente alcun
collegamento tra le sentenze sul primo e quelle sul secondo, con non avvertite
implicazioni pratiche dirompenti.
Ad esempio, i giudici ritengono che il negozio di accertamento sarebbe
nullo per mancanza di causa ove si dimostrasse — impugnandolo — che ha
dichiarato come esistente una situazione giuridica in realtà inesistente, elemento che fungerebbe per l’appunto da causa del negozio (22).
O meglio, così sembrerebbe a leggere le massime (in realtà fuorvianti),
essendo tuttavia e al contrario vero che l’analisi sistematica delle motivazioni
conduce a conclusioni diverse, che non privano comunque — in ragione della
loro complessità — di forte impatto forense i sunti in questione.
Questo tema non è conosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina
sull’arbitrato irrituale, che pur collegano a tal negozio l’istituto in parola, di
talché nessun magistrato dichiarerebbe nullo per mancanza di causa un lodo
errato in punto esistenza della situazione giuridica controversa, per il semplice
fatto che mai un avvocato si sognerebbe di spiccare una citazione in tal senso.
Occorre anche rilevare (23) che — tuttavia — il negozio di dichiarativo
(20)
(21)
(22)
(23)
Cfr. paragrafo 6 di questo saggio.
Si allude alle tesi delle quali ai paragrafi 8 e 9 di questo saggio.
Cfr. paragrafo 4 di questo saggio.
Si è infatti giustamente rilevato (ALPA, L’arbitrato irrituale. Una lettura civilistica
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non assorbe interamente la tematica del lodo libero laddove questo deve
produrre un effetto costitutivo (analogamente all’art. 2932 cod. civ. (24)) o
risolutivo del contratto controverso, poiché la storia del primo lo configura
come atto di mero accertamento e non anche con effetti paragonabili a quelli
costitutivi, che l’art. 2908 cod. civ. consente di attribuire alla sentenza nei casi
previsti dalla legge. Studieremo allora in questo saggio (paragrafo 18 in
particolare) le implicazioni di questo rilievo.
3. Questi profili, come si dirà, riguardano in parte il passato dell’arbitrato libero, se si accoglie la nostra concezione del lodo ex art. 808-ter cod.
proc. civ.
Riteniamo che — dopo la riforma del 2006 — gli arbitri pronunciano con
effetti di contratto, in ragione di un potere che deriva loro dall’art. 808-ter, così
come lo stesso è conferito al giudice dall’art. 2908 cod. civ. (“Effetti costitutivi
delle sentenze”, art. 824-bis per l’arbitro rituale) (25). Non intendiamo tuttavia
giungere ad ulteriori assimilazioni che sarebbero estreme.
Ovviamente, sono sempre le parti ad investire della lite i giudici privati o
l’autorità giudiziaria, ma questo non significa — si noti — che essi traggano
dalla nomina o dall’atto di citazione il potere sostanziale di disporre giudicando.
Concepiamo il lodo come un atto unilaterale degli arbitri (art. 1324 cod.
civ.) che produce effetti contrattuali, o meglio, e se si vuole affinare maggiormente, negoziali, poiché promanano da un negozio, in capo ai litiganti.
La decisione potrebbe — per esempio — accertare l’esistenza del contratto traslativo del bene immobile X, con vincolo obbligatorio di questa
dell’art. 808 ter del codice di procedura civile, in Contratto e impr., 2011, 325; Aut. cit. e VIGORITI,
Arbitrato [nuovi profili del], Digesto delle discipline privatistiche, 4ª ed., Torino, 2011, Aggiornamento, 50), che il lodo irrituale non può essere un negozio di accertamento quando, per
esempio, risolve od estingue un contratto.
Questo è corretto per il semplice fatto che — tradizionalmente — esso è stato costruito,
in dottrina e giurisprudenza, come atto di accertamento e non di accertamento e conseguente
disposizione.
Nulla vieta in teoria di allargare il genus in esame sino a ricomprendervi anche tale
fattispecie, dovendosi tuttavia valutare se l’estensione in ipotesi si risolva in una classificazione
scolastica o comporti conseguenze pratiche, fermo restando che anche nel caso in esame vi è
un’attività di accertamento sulla quale si radica la disposizione conseguente.
Ad ogni buon conto, in realtà, il rilievo dell’Autore contiene solo una frazione di verità,
poiché il lodo si contamina col negozio di accertamento quando accerta od accerta e condanna,
come si dirà oltre.
(24) Il lodo libero può produrre effetti analoghi all’art. 2932, così Cass. 30 ottobre 1991,
n. 11650, in Foro it., 1992, I, 1465.
(25) “D’altro canto i confini tra attività di accertamento del giudice e potere dispositivo dei
privati non possono disegnarsi in termini di assoluta incompatibilità, se la giurisprudenza ha
elaborato e continua ad usare con frequenza la categoria del negozio di accertamento, e se la
pronuncia dell’autorità giudiziaria può nei casi previsti dalla legge avere effetti costitutivi (che
sempre si riassumono, come è scritto nell’art. 2908, nel costituire, modificare od estinguere
rapporti”). RESCIGNO, Arbitrato e autonomia contrattuale, in questa Rivista, 1991, 22.
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intelligenza, oppure e se previsto dalle parti, con effetto ripetitivo del comando pregresso e per l’effetto con opponibilità ex nunc del contratto di
vendita ai terzi.
Il lodo è il “contenitore” mentre il “contratto”, o meglio gli effetti del
contratto, sono il “contenuto”.
Non vi è contraddizione logico-giuridica in seno a questa scissione tra
contratto ed effetti, poiché esistono atti come le sentenze ex artt. 2597 e 1032
cod. civ., che sono distinte dagli effetti materiali, paralleli a quelli contrattuali,
che producono. Il contratto, o meglio, gli effetti materiali, non nascono solo
dagli artt. 1326, 1327, 1333 cod. civ. o dal negozio di fatto.
La decisione in esame è un atto di volontà negoziale, poiché sono gli
arbitri a plasmarne il contenuto sostanziale; non è — simmetricamente — una
dichiarazione di volontà non negoziale, perché i suoi effetti non sono già
sistematicamente previsti dalla legge (26), come invece nella dichiarazione di
cui all’art. 254 cod. civ., per esempio.
La nostra tesi, con le dovute delucidazioni che seguiranno, conduce a
negare ingresso all’applicazione del — davvero troppo lungo — termine
quinquennale di impugnativa del lodo ex art. 1442 cod. civ. e priva di
rilevanza, quale fonte del potere dispositivo, la natura (per es. mandato) del
c.d. contratto di arbitrato, vale a dire dell’incarico conferito dai litiganti agli
arbitri. Inoltre non ammette l’impugnazione per vizi del consenso ed è più
aderente alla prassi del conferimento dell’incarico senza poteri di rappresentanza.
L’arbitrato rituale presenta un’estesa disciplina in punto rapporti parti/
arbitri, che rende spesso superflua la ricerca integrativa nel campo del diritto
sostanziale (27); analoga normativa è invece assente nell’irrituale, per il quale
si pone così il tema dell’applicabilità, al riguardo, di norme sostanziali o
processuali, senza che la natura del legame parti/arbitri incida — tuttavia —
sugli effetti materiali del lodo libero, che nascono ex lege.
Si preciserà anche che il requisito formale (“disposizione espressa per
iscritto”) della clausola compromissoria per arbitrato ex art. 808-ter è richiesto
ad probationem e non ad substantiam come generalmente ritenuto (28), e che
nel dibattito anteriore alla riforma si sarebbe dovuto considerare anche l’art.
4, n. 2, della legge n. 218/1995 (deroga della giurisdizione italiana a favore di
arbitri o giudici esteri (29), da provarsi per iscritto) e non solo gli artt. 807 cod.
proc. civ. (forma a pena di nullità del compromesso rituale) e 1967 cod. civ.
(forma ad probationem della transazione).
(26) Per riferimenti ed analisi delle dichiarazioni di scienza e di volontà non negoziali, cfr.
DAMBROSIO, op. cit., nota 4 a pg. 147, pgg. 100 ss., 145 ss.
(27) Cfr. MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008.
(28) Riferimenti nel relativo paragrafo 10.
(29) Al riguardo della clausola compromissario per arbitrato estero, vedi Cass., sez. un.,
ord. 25 ottobre 2013, n. 24153, in Il corriere giuridico, 1/2014, 84.
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Si analizzerà la portata dell’apparente non applicazione del Titolo VIII
all’arbitrato libero (art. 808-ter ”Altrimenti si applicano le disposizioni del
presente titolo”), che in realtà significa semplicemente lo svincolo della procedura irrituale da quella codicistica, senza che questo comporti alcun divieto
di sua applicazione ove compatibile e necessario per assenza di regole pattizie.
Si confronteranno gli effetti contrattuali del lodo irrituale (precisandone
specificamente il contenuto e senza asserire che siano tali tout court) con quelli
della sentenza e del dictum rituale (art. 824-bis), non tanto per l’affermazione
di differenze scontate, ma per sminuire in parte le stesse.
Si concluderà, infine, che il lodo “riformato” è, almeno in parte, un
negozio unilaterale d’accertamento.
Ulteriori sviluppi di temi trattati e non in questa sede, sono riservati ad
altro studio.
2.
Cenni: l’ammissibilità del negozio di accertamento; la transazione.
1. Si legge
“L’ammissibilità della figura del negozio di accertamento non è affatto
pacifica in dottrina ...” (30).
(30) DALFINO, Note in tema di negozio di accertamento e trascrivibilità dell’accordo di
conciliazione sull’intervenuta usucapione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1298 ove nella nota
n. 6 si sostiene che “Il quadro giurisprudenziale si presenta meno oscillante nell’affermazione
della ammissibilità del negozio di accertamento ...”, laddove non si riscontra — in ben sessant’anni di giurisprudenza sul negozio di accertamento — un indirizzo, seppur sparuto, contrario
alla sua ammissibilità, anzi i giudici hanno sempre trattato le fattispecie concrete senza
attardarsi sul tema. A questa giurisprudenza va affiancata quella sull’arbitrato irrituale, che
evidentemente ammette il negozio di accertamento.
Va soggiunto che la giurisprudenza ammette pacificamente anche il negozio di accertamento unilaterale, ad esempio, Cass. 8 maggio 1983, n. 1698, in Giur. it., 1983, I, 1, 1408. In
dottrina, le due opere essenziali sono GRANELLI, La dichiarazione ricognitiva di diritti reali,
Milano, 1983; GRAZIANI, Il riconoscimento dei diritti reali: contributo alla teoria dell’atto ricognitivo, Padova, 1979. Si veda anche DAMBROSIO, op. cit.
Recentemente, un Autore (D’ANDREA, Sul problema del negozio atipico di accertamento,
in Riv. dir. civ., 2000, n. 1, 30 ss.) ha tratto la conclusione che nel nostro ordinamento il negozio
di accertamento non presenterebbe alcuna concreta area applicativa, poiché resterebbe assorbito dagli istituti della transazione, del riconoscimento di debito (art. 1988 cod. civ.) e della
confessione (art. 2730 cod. civ.) o — ad ogni buon conto — darebbe vita a dichiarazioni
irrilevanti pertanto non meritevoli di tutela. Al riguardo, ci permettiamo di rinviare a quanto da
noi osservato in altra sede (op. cit., pgg. 163-172; 226 ss.), ove si sono illustrati i criteri distintivi
dei suddetti istituti e la loro differente disciplina giuridica.
A dire dell’Autore, qualsiasi accordo integrato da reciproche concessioni sarebbe sempre
e comunque una transazione, a prescindere dall’eventuale funzione di accertamento attribuitogli dalle parti.
Si sostiene, inoltre, che in giurisprudenza esisterebbe una massima ricorrente (così Aut.
cit., op. cit., pg. 54 e sentenze citate in nota 53) che semplicemente ravviserebbe un “lodo di
accertamento”, quando gli arbitri accolgono integralmente la tesi di una delle parti, ed un “lodo
transattivo”, quando esistono reciproche concessioni rispetto alle “domande” spiegate dai
controvertenti.
In realtà, la giurisprudenza invocata dall’Autore non depone testualmente o concettualmente in tal senso (addirittura si citano Cass. 24 luglio 1997, n. 6927 in realtà pronunciata in
tema di adozione e non di arbitrato; Cass. 27 settembre 1993, n. 9727, in Foro it., 1993, I, 3254
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In realtà, il negozio di accertamento è costantemente disciplinato, ed
implicitamente ammesso, dalla giurisprudenza italiana, a partire dagli anni
cinquanta per giungere ai giorni nostri, senza che esistano contrapposizioni e
nemmeno analisi in punto legittimità; occorre inoltre rimarcare che il dato che
l’ammissibilità della figura in esame sarebbe attualmente controversa in
dottrina non è esatto, anche se riportato di frequente.
In questi decenni, la giurisprudenza ha — inconsapevolmente — posto il
tema, già segnalato nel 1996 (31), offrendo un contributo per la sua trattazione,
non dell’ammissibilità del negozio, bensì della c.d. expressio cause (diritti reali,
diritti di credito, etc.), vale a dire della completezza testuale del negozio di
accertamento e della sua distinzione concreta e non libresca da figure giuridiche e fattispecie giurisprudenziali affini, profili che riteniamo tuttavia scarsamente pertinenti al lodo, poiché esso difficilmente può pensarsi come
“muto” quanto agli accertamenti che compie.
Altrettanto problematica è la costruzione giurisprudenziale del negozio
di accertamento dell’esistenza della situazione dubbia (paragrafo 4), non
quello di una sua modalità (es. quantum dell’obbligazione).
Questi aspetti non sono presenti negli autorevoli studi di cinquanta anni
fa, che si sono principalmente occupati di efficacia e ammissibilità del negozio
di accertamento e che non disponevano di un copioso numero di casi pratici.
L’autonomia privata comprende anche il potere di accertare convenzionalmente le situazioni giuridiche controverse.
Questa convinzione è sostenuta dalla quasi totalità della dottrina ad
eccezione di alcune risalenti ed autorevoli posizioni, rimaste giustamente
isolate (32).
Non vi è oggi, pertanto, alcuna consistente discussione sull’ammissibilità
del negozio in parola nel nostro ordinamento.
È dunque illusorio pensare che il lodo irrituale non è correlato al negozio
di accertamento, per il solo fatto che questo sarebbe di dubbia ammissibilità.
Si rileva (33) che esistono alcuni istituti di diritto processuale e di diritto
sostanziale dai quali è lecito dedurre che, finché si tratta di diritti disponibili,
in verità relativa alla revoca del mandato arbitrale; Cass. 9 dicembre 1986, n. 7315, in Foro it.,
1987, I, 634 invece afferente il compromesso), con l’apparente eccezione di Cass. 3 dicembre
1994, 11357 (alla quale parrebbe assimilarsi, non citata dall’Autore, anche Cass. 13 marzo 1998,
n. 2741, in Rep. foro. it., 1988, voce Arbitrato, n. 67) la quale asserisce che non è incompatibile
con l’arbitrato irrituale l’attribuzione di un mandato a decidere secondo una soluzione di
accertamento, dunque non necessariamente transattiva, che implichi il riconoscimento della
pretesa di una sola delle parti; decisione che evidentemente è stata chiamata a pronunciarsi per
ribadire il consolidato principio che l’arbitrato libero non è necessariamente “transattivo”, ma
dalla quale non è lecito trarre la conclusione che il lodo di accoglimento parziale sia “transattivo” e quello di accoglimento integrale “accertativo”.
(31) DAMBROSIO, op. cit.
(32) Vasti riferimenti in DAMBROSIO, op. cit., nota n. 10 a pg. 11.
(33) Ad esempio, GIORGIANNI, Il negozio di accertamento, Milano, 1939, pgg. 20-21 ed
altri riferimenti in DAMBROSIO, op. cit., nota n. 11 a pg. 13; op. cit. alla quale si rinvia (pgg. 11-14)
anche per una maggiore analisi.
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l’ordinamento non impone la soluzione dei conflitti attraverso la sentenza del
giudice, bensì rimette ai privati la scelta di regolare la controversia come
meglio credono. Alludiamo alla conciliazione (art. 185 cod. proc. civ.), al
principio dispositivo del processo ed a quello dell’impulso di parte, agli
accordi sull’onere della prova, alla transazione, allo stesso arbitrato rituale.
È stato soggiunto (34) che il delicato profilo del giudizio, posto a base del
negozio di accertamento, non costituisce alcun pericolo nei confronti dei terzi,
posto che l’atto produce effetto nella sola sfera delle parti (art. 1372 cod. civ.).
Va anche rilevato che l’attività dichiarativa è certamente meritevole di
tutela ex art. 1322, secondo comma, cod. civ. poiché persegue interessi
afferenti la stessa funzione giurisdizionale, seppur con strumenti diversi.
2. È assodato che il negozio di accertamento presenta una netta differenza rispetto alla transazione, poiché per l’appunto accerta e non costituisce
una soluzione bonaria della lite mediante reciproche concessioni, che prescindono in toto dalla corrispondenza rispetto alla reale configurazione della
situazione controversa.
I rapporti tra i due istituti sono stati a lungo discussi in dottrina, mentre
decisa nel segnalarne la logica distinzione è sempre stata la giurisprudenza (35)
In realtà, la disputa non era storicamente alimentata da profili tecnici, ma
dal tentativo di negare la natura modificativa della transazione al fine di
costruire un genus di accertamenti, che godessero di un regime fiscale più
favorevole di quello degli atti traslativi o costitutivi.
3. Gli effetti del negozio di accertamento.
1. Per percepire gli effetti del negozio di accertamento occorre distinguere (i) il caso in cui vi è lite o dubbio su di una modalità del rapporto (ii) da
quello in cui l’incertezza colpisce la sua stessa esistenza.
2. Nella prima ipotesi la disciplina della situazione giuridica è definita
dal contenuto della fonte originaria quanto ai tratti sui quali non è intervenuto
l’accertamento e da quest’ultimo riguardo agli aspetti dubbi.
Vi è in sostanza la giustapposizione del negozio di accertamento alla
fonte, negoziale o meno, originaria (36).
(34) Sostanzialmente in tal senso CARRESI, voce Transazione (diritto civile), Novissimo
dig. it., 1973, 484.
(35) Ad esempio, Cass. 5 giugno 1997, n. 4984, in Foro it., 1997, I, motivaz. 2460.
(36) Fanno espresso riferimento al concorso di due fonti: Cass. 6 dicembre 1983, n. 7264,
in Rep. foro it., 1983, voce Contratto in genere, n. 93; Cass. 12 novembre 1981, n. 6001, in Rep.
cit., 1981, voce cit., n. 64; Cass. 27 aprile 1982, n. 2634, in Rep. cit., 1982, voce cit., n. 65; Cass.
16 dicembre 1979, n. 6332, in Rep. cit., 1980, voce cit., n. 49; Cass. 29 ottobre 1979, n. 5663, in
Rep. cit., 1979, voce cit., n. 71; Cass. 11 ottobre 1979, n. 5292, in Rep. cit., 1979, voce cit., n. 73;
Cass. 14 gennaio 1974, n. 241, in Rep. cit., 1974, voce Contratto in genere, atto e negozio giuridico,
n. 81; Cass. 7 Cass. 11 ottobre 1979, n. 5292, in Rep. cit., 1979, voce cit., n. 73; Cass. 14 gennaio
1974, n. 241, in Rep. cit., 1974, voce Contratto in genere, atto e negozio giuridico, n. 81; Cass. 7
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Il negozio dichiarativo ripete il precetto costitutivo originario nella frazione in cui è dubbio (37). Non genera un rapporto diverso da quello anteriore
né quanto al contenuto (accerta) né quanto al fatto costitutivo.
Il rapporto controverso viene in tal modo “regolato” attraverso il negozio
di accertamento.
Si può allora scolpire l’esatta fisionomia di quell’effetto regolativo dei
rapporti giuridici patrimoniali, che è individuato dall’art. 1321 cod. civ. come
effetto tipico del contratto, di fianco a quello estintivo e costitutivo, e del quale
è stata scorta da autorevoli dottrine (38) l’estensione al di là dell’effetto
modificativo per collocarlo nell’ambito dell’accertamento.
Gli effetti del negozio dichiarativo possono essere concepiti anche in
senso diverso da quello ora illustrato. Infatti, non è detto che l’accoglimento
di una teoria escluda necessariamente la fondatezza di un’altra.
Un’autorevole dottrina (39) escogita in modo convincente l’efficacia in
questione attraverso un obbligo di intendere la res dubia in modo conforme a
quello appurato.
marzo 1973, n. 583, in Rep. cit., 1973, Voce cit., n. 95; Cass. 27 maggio 1971, n. 1572, in Rep. cit.,
1971, voce contratto in genere, n. 66; Cass. 26 febbraio 1969, n. 633, in Rep. cit., 1969, voce
Obbligazioni e contratti, n. 91; Cass. 6 novembre 1968, n. 3658, in Rep. cit., 1969, voce cit., n. 94;
Cass. 23 ottobre 1968. n. 3421, in Rep cit., 1969, voce cit., n. 97; Cass. 11 maggio 1967, n. 696, in
Rep. cit., 1967, voce cit., n. 80; A. Firenze 10 ottobre 1965, in Rep. cit., 1966, voce cit., n. 112;
Cass. 27 luglio 1964, n. 2007, in Rep. cit., 1965, voce cit., n. 116; Cass. 4 luglio 1962, n. 1710, in
Rep. cit., 1963, voce cit., n. 88; Cass. 14 maggio 1962, n. 1024, in Rep. cit., 1962, voce cit., n. 82;
T. Roma 20 gennaio 1959, in Rep. cit., 1959, voce cit., n. 52; Cass. 28 aprile 1951, in Rep. cit.,
1951, voce cit., n. 92.
(37) Nel caso i cui la fonte del rapporto sia costituita da un fatto illecito, ci pare sia
impossibile pensare alla ripetizione del comando, che vorrebbe dire ripetizione dello stesso fatto
illecito.
L’accertamento può allora essere concepito come obbligo di intendere la “res dubia”
come accertata, teoria di cui diremo più oltre nel testo.
La nostra teoria sull’efficacia del negozio di accertamento trae spunto da quella di F.
Carresi (La transazione, Torino, 1966, 115 ss. in particolare pg. 121) che costruisce la transazione ed il negozio di accertamento come fenomeni di ripetizione negoziale.
Tuttavia la nostra dottrina si distingue da quella dell’Autore, poiché precisa (lo faremo nel
testo) come si deve qualificare specificamente la relazione tra i due comandi e come la stessa si
atteggia differentemente nel caso di dubbio su di una modalità e nell’ipotesi di dubbio sulla
stessa esistenza del rapporto.
Ci pare che tale relazione sia descritta in modo suscettibile di puntualizzazioni, visto che
la si definisce come rafforzamento degli effetti del rapporto controverso (pg. 21). Ma il concetto
di rafforzamento esprime il risultato e non il segmento (inteso come effetto tecnico) che collega
il rapporto originario al secondo comando.
Su questi temi si vedano anche FERCIA, Accertamento (negozio di), Digesto discipline
privatistiche, sez. civ., 4ª ed., Torino, 2012; RUPERTO, Gli atti con funzione transattiva, Milano,
2002, 502 ss.
(38) Un accenno in ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 26; Sacco,
in SACCO DE NOVA, Obbligazioni e contratti, 10, t. 2, Torino, 1984, 249, in Trattato di diritto
privato diretto da P. Rescigno.
(39) NICOLÒ, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del
negozio e della novazione dell’obbligazione, in Annali Ist. Sc. Giur. e Soc. della R. Università di
Messina, 1934, ora in Raccolta di Scritti, Milano, 1980, pgg. 424-426, 443.
Alla concezione di Nicolò si collegano: Cass. 12 novembre 1981, n. 6001, in Rep. foro it.,
1981, voce Contratto in genere, n. 64; T. Bari 7 giugno 1975, in Rep. cit., 1976, voce Contratto in
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Procediamo ora a confutare alcune ulteriori concezioni dell’efficacia del
negozio in esame.
Non pare possibile ideare, dopo l’excursus fin qui condotto, gli effetti
divisati come modificativi del rapporto anteriore (40) lasciandosi sedurre dall’argomento che i privati potrebbero errare nella ricostruzione della reale
fisionomia del dato incerto, mutandone dunque il contenuto.
Questa dottrina non isola dati giuridici e dati fattuali.
Infatti, finché un’eventuale difformità tra dato accertato e dato pregresso
non si emancipi dall’ambito del giuridicamente irrilevante attraverso, per
esempio, un annullamento per errore di diritto, si deve ritenere che qualsiasi
inesattezza rimanga nel limbo degli aspetti di mero fatto che non appartengono di per sé al mondo giuridico.
A ciò si deve aggiunger quanto opposto da altri (41), asserendo che la
teorica qui criticata ha il proprio recondito postulato nel pregiudizio che
l’attività di accertamento svolta dai privati sia alimentata da capacità tecniche
minori di quelle del giudice, sicché sia più cauto individuare un’efficacia di tipo
“statistico” (42).
Incorre nello stesso preconcetto, anche un recente studio (43).
Nemmeno pare convincente collegare al negozio di accertamento effetti
genere, atto e negozio giuridico, n. 89; Cass. 7 luglio 1971, n. 2132, in Rep. cit., 1971, voce
Contratto in genere, n. 64; Cass. 26 febbraio 1969, n. 633, in Rep. cit., 1969, voce Obbligazioni e
contratti, n. 98; Cass. 5 novembre 1968, n. 3685, in Rep. cit., 1969, voce cit, n. 93.
Contra: CARRESI, op. cit., 90-95; FALZEA, voce Accertamento, in Enc. dir, 1958, 211;
CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 8ª ed., 1949, 296 e nota
n. 28 a pg. 295; LAZZARO, La causa del negozio di accertamento, in Giust. civ., 1963, I, 83;
FABBRINI, L’accertamento privato, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, 636-638; FURNO, Accertamento convenzionale e confessione stragiudiziale, Firenze, 1948, nota n. 1 a pg. 82; GIORGIANNI,
Il negozio di accertamento, Milano, 1939, 88-94.
L’argomento di maggiore peso, contro la teoria in esame, sembra consistere nell’inconcepibilità di un dovere di essere certi.
L’impasse, a nostro parere, non potrebbe essere superata ricorrendo alla figura dell’obbligo di non contestare poiché esso spiegherebbe solo l’aspetto negativo dell’efficacia (divieto
di contestare) ma non definirebbe il lato positivo, cioè il vincolo a considerare la “res dubia” così
come accertata.
A nostro avviso il problema della configurabilità di un dovere di essere certi si supera non
formalizzandosi sullo stretto significato dei termini usati (che comporterebbero in questo caso
addirittura il contrasto con la libertà di pensiero, art. 21 Cost.).
L’obbligo di intendere va concepito non tanto secondo il linguaggio comune, ma nella sola
accezione che esso può assumere nel nostro ordinamento giuridico.
E cioè vincolatività dell’intelligenza della res dubia nel senso appurato convenzionalmente. Vincolatività che possiamo allora definire come obbligo di accettare l’elemento dubbio
così come dichiarato, obbligo che non significa tentativo di coercizione del pensiero, ma vincolo
non solo a non contestare ma a soggiacere a quanto definito coll’accertamento. Dato il
significato traslato i cui va inteso l’obbligo di intendere, continueremo ad esprimerci nel testo
con tale formula.
(40) La teoria dell’effetto modificativo appartiene a CORRADO, Il negozio di accertamento,
Torino, 1942, 95.
(41) Così CARRESI, La transazione, cit., 82-83.
(42) Cfr. PUGLIATTI, op. cit., 485.
(43) F. FESTI, cfr. paragrafo n. 9 di questo saggio.
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dichiarativi (44) in presenza dell’art. 1321 cod. civ. che non contempla tale
efficacia e, soprattutto, senza prima valutare se gli effetti del negozio in
questione possano essere costruiti in ragione di codesta norma.
Un’altra apprezzata dottrina (45) rinviene gli effetti in esame nell’immediato mutamento della situazione pregressa nel senso voluto dalle parti. Si
tratterebbe della c.d. efficacia immediata analoga a quella disposta ex art. 1376
cod. civ. in relazione ai diritti reali.
È difficile comprendere l’esatta portata di questa concezione, innanzitutto perché non spiega i rapporti tra il negozio di accertamento e la situazione
incerta, visto che essa postula che non vi sarebbe né affiancamento né
sostituzione della fonte originaria (46), non essendo, a nostro avviso, per
l’effetto percepibile quale sarebbe questo non indicato tertium genus rispetto
alla giustapposizione dell’atto pregresso od alla sua novazione.
Prima di procedere all’analisi dell’efficacia del negozio di accertamento
dell’esistenza della situazione originaria, occorre confutare la teoria del c.d.
effetto preclusivo (47).
Secondo questa dottrina si possono isolare nell’ambito dell’efficacia
materiale tre diversi effetti: costitutivi, dichiarativi, preclusivi.
I primi si caratterizzano per l’introduzione di una novità nell’ambito
giuridico.
I secondi si distinguono per la definizione di un comando che vale in
quanto conforme alla situazione preesistente che, per l’appunto, sono volti a
dichiarare.
I terzi (riferibili al negozio di accertamento) esprimono un comando che
vale a prescindere da rapporto di difformità (novità, costitutività) o conformità (dichiaratività) rispetto alla situazione giuridica anteriore.
Questa dottrina è stata recepita in senso diverso dalla sua reale (ed
appena illustrata) formulazione, da ricerche che le hanno attribuito il mero
valore descrittivo dell’impossibilità di impugnare atti quali la transazione ed il
negozio di accertamento per errore “sul caput controversum” (art. 1969 cod.
civ.).
(44) Non esiste in dottrina una vera e propria elaborazione dell’effetto dichiarativo del
contratto.
(45) GIORGIANNI, op. cit., 101.
(46) Aut. cit., op. cit., 100-101.
(47) FALZEA, voce Accertamento, in Enciclopedia del diritto, Varese, 1958, 217. Si veda
anche R. FERCIA, op. cit., ultime pagine.
Cenni critici in: CARRESI, Gli effetti del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 510-513;
Aut. cit., Il contratto, Milano, 1987, t. 2, in Trattato di Dir. Civ. e Comm. già diretto da A. Cicu
e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, pg. 68; VOCINO, Considerazioni sul giudicato, in Riv.
cit., 1962, nota n. 136 bis a pg. 1544; SANTORO-PASSARELLI, La transazione, cit., 215; GIACOBBE,
Note brevi in tema di accertamento negoziale, in Giust. civ., 1958, I, 1897; CORRADO, voce
Negozio di accertamento, in Noviss. dig. it., 1965, pg. 199; si vendano anche: LAZZARO, La causa
del negozio di accertamento, in Giust. civ., 1963, I, 83; PALAZZO, La transazione, Obbligazioni e
contratti, tomo 5, 299-300, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Torino, 1985; L.
BOZZI, Accertamento negoziale e astrazione materiale, Padova, 1999, 123-124, 180-181.
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L’inesattezza condiziona anche le decisioni della Suprema Corte (48).
Precisati gli esatti tratti della teoria in esame procediamo ad illustrare
alcuni rilievi critici.
In primo luogo, prima di procedere all’ideazione di tipi di efficacia
contrattuale diversi da quelli ex art. 1321 occorre — a nostro avviso —
valutare se questi ultimi non siano in grado di disciplinare l’efficacia del
negozio di accertamento. E ci pare che — sulla scorta di quanto abbiamo
studiato più sopra — si possa rimanere nell’ambito dei confini segnati dalla
norma citata.
In secondo luogo, non è condivisibile sostenere che il negozio di accertamento valga a prescindere dal suo rapporto di conformità o di difformità col
dato originario in quanto — per asserire ciò — occorrerebbe almeno dimostrare l’applicazione analogica dell’art. 1969 al negozio dichiarativo. Cosa che
appare inopportuna sia per il carattere eccezionale (art. 14 preleggi) di tale
norma rispetto al principio generale dell’impugnabilità del contratto per
errore, sia per la radicale diversità dei principi che sciolgono la lite nella
transazione e nel negozio di accertamento (49).
Né ci pare pensabile che l’accertamento privato implichi la necessità
logica della definitiva e drastica indiscutibilità del dato accertato, poiché — se
essa fosse configurabile — occorrerebbe proporla, nonostante le evidenti
differenze strutturali e non solo, anche per la sentenza. La rimozione dell’atto
erroneo è dunque evidente espressione di civiltà giuridica.
In terzo ed ultimo luogo, è discutibile che l’effetto costitutivo debba
sempre e necessariamente — come vorrebbe la tesi in esame — avere un ruolo
innovativo. Riteniamo, infatti, di avere dimostrato più sopra che la ripetizione
dello stesso comando costitutivo originario sia logicamente compatibile con
l’identità del contenuto delle due corrispondenti situazioni giuridiche.
La chiave del tema dell’efficacia sta tutta qui.
Il negozio di accertamento, nel contesto dei contratti e dei loro effetti,
costituisce un caso estremo, particolare; ma proprio da esso si scorge la reale
portata dell’effetto costitutivo. Se ripetere due volte lo stesso atto è consentito, significa che il negozio dichiarativo si risolve nel contesto dell’efficacia
tradizionale.
3. Passiamo allo studio del negozio di accertamento dell’esistenza della
situazione dubbia.
(48) Ad esempio, “Questa seconda doglianza richiama implicitamente due esigenze indubbiamente essenziali; quella conseguente alla inconfigurabilità del negozio astratto di accertamento nel vigente diritto positivo, di interpretare il valore dispositivo e costitutivo del negozio
medesimo nel senso che quest’ultimo determina e cristallizza nella direzione voluta la situazione
giuridica preesistente altrimenti incerta e le attribuisce effetti, sia positivi che negativi, sotto il
profilo, questi ultimi, dell’efficacia preclusiva ...” Cass. 24 luglio 1964, n. 2027, Giust. civ., 1965,
I, 784 ss.
(49) Sull’impugnativa del negozio di accertamento per errore, rinviamo a DAMBROSIO, Il
negozio, cit., 47 ss., 59 ss. ove rileviamo — peraltro — che, quando entrambe le parti sono in
buona fede, si tratta necessariamente di errore comune.
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Qui occorre distinguere il caso in cui si accerti come esistente la situazione dubbia, da quello in cui la si dichiari inesistente.
A nostro avviso, nella prima ipotesi l’efficacia dell’atto può anche qui
essere concepita nel senso della ripetizione del comando pregresso.
Così se si accerta l’esistenza del contratto di compravendita Y, il negozio
dichiarativo produce e ripete le stesse vicende scaturenti dall’atto originario.
Si hanno pertanto due contratti identici contro i quali non si può opporre il
principio del ne bis in idem, poiché quando l’iterazione del medesimo contratto si impone per perseguire un interesse meritevole di tutela si esce
dall’area dell’inutilità e ci si disimpaccia da quella dell’illiceità (il secondo
trasferimento sarebbe nullo per impossibilità giuridica dell’oggetto: artt. 1346,
1418 cod. civ. Non si può — infatti — vendere due volte la stessa cosa tra le
medesime parti).
Nel campo dell’accertamento dell’esistenza, non ci pare trovi spazio
l’effetto regolativo ex art. 1321, perché il negozio dichiarativo genera un
rapporto parallelo a quello originario che quindi non va a regolare.
Può invece ben trovare applicazione la teoria dell’obbligo di intendere.
A questo proposito rileviamo come il negozio di accertamento che
dichiarasse esistente, per esempio, una compravendita immobiliare, avrebbe
effetti diversi dal medesimo atto dichiarativo concepito come ripetizione del
comando.
Difatti il primo, avendo valore obbligatorio, sarebbe inopponibile ai terzi
nel senso che non costituirebbe mai — a differenza del secondo — titolo
costitutivo dell’acquisto. Per i rapporti con terzi si dovrebbe quindi avere
riguardo alla sola fonte originaria.
Fin qui si è detto dell’accertamento della situazione dubbia come esistente.
Proviamo ora ad immaginare come dovrebbe atteggiarsi il negozio di
accertamento che verificasse che una vendita non fosse mai avvenuta.
Qui è impossibile pensare ad una reiterazione del comando pregresso
poiché evidentemente esso manca.
In questa fattispecie, il negozio di accertamento pare allora concepibile
solo come obbligo di intendere la situazione dubbia come assodata nell’atto.
L’iterazione non è logicamente, ancor prima che giuridicamente, pensabile. Infatti che contenuto dovrebbe avere il comando replicato?
Non estintivo perché non vi è alcunché da estinguere e nemmeno
costitutivo, poiché si accerta la situazione originaria come mai esistita. L’unica
tesi percorribile pare allora quella dell’obbligo (50).
Assodata l’efficacia del negozio di accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del rapporto originario, occorre proporre qualche ulteriore osserva(50) Si noti — tuttavia — che NICOLÒ (op. cit., 404, 433) nega l’ammissibilità del negozio
di accertamento dell’esistenza e dell’inesistenza del diritto (si tratterebbe di confessione).
L’applicazione dell’obbligo di intendere a tali fattispecie è dunque una nostra “forzatura”.
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zione sulla capacità delle teorie criticate in occasione dello studio sull’incertezza di una modalità, di padroneggiare il fenomeno dell’accertamento della
globalità della situazione dubbia.
A proposito della teoria degli effetti modificativi (51), dobbiamo rilevare
la sua incapacità di disciplinare l’aspetto in questione. Infatti non è concepibile
— sul piano logico — accertare l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto,
modificandolo.
Per ciò che concerne le altre dottrine (dichiaratività, efficacia novativa,
efficacia immediata, efficacia preclusiva) le osservazioni svolte a suo luogo
valgono anche per l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza, pertanto ci
si permette di rimandare alle medesime.
4. Per ragioni di maggiore chiarezza concettuale occorre soffermarsi su
alcuni aspetti dei rapporti tra il negozio dichiarativo ed i terzi.
Il negozio di accertamento ha efficacia retroattiva inter partes (52) e,
quando è “titolo costitutivo” di diritti reali, effetto ex nunc rispetto ai terzi.
Esso non comporta la sostituzione del rapporto originario, il cui primo ed
indesiderato effetto sarebbe quello della perdita delle eventuali garanzie. Che,
al contrario, se prestate dalle parti, valgono anche, considerata la funzione di
continuità dell’atto dichiarativo, per il rapporto generato dall’accertamento.
Per quelle prestate dai terzi (per esempio fideiussione) è chiaro che il
terzo potrà sempre opporre alle parti le conseguenze relative alla validità o
meno del rapporto pregresso e che il negozio di accertamento non potrà
vincolarlo.
Così la fideiussione prestata per garantire l’adempimento del mutuatario
non potrebbe ritenersi efficace di fronte alla nullità del mutuo, accertato poi
convenzionalmente come valido ed esistente.
Soggiungiamo che le parti possono — non avendolo estinto — opporre al
terzo l’eventuale valido rapporto originario, confermato dall’atto dichiarativo,
pertanto il terzo garante continuerà ad essere obbligato per la garanzia
prestata.
Questo discorso non taglia le gambe all’accertamento convenzionale ed
esprime solamente le conseguenze legate allo strumento contrattuale in genere.
Ed è qui proposto per rendere più terso il quadro concettuale, di fronte
al tentativo (53) di percepire gli effetti del contratto cogliendoli nel momento
del rapporto con i soggetti estranei.
(51) CORRADO, Il negozio, cit., 11, analizza il tema dell’accertamento di una situazione
giuridica come inesistente; non soffermandosi sulla diversa ipotesi dell’accertamento dell’esistenza, concludendo — tuttavia — anche per l’inammissibilità di questa seconda figura.
L’A. osserva, al riguardo dell’inesistenza, che non sarebbe possibile accertare qualcosa
che non esiste. Questa opinione, oltre che discutibile sul piano logico, è per la verità smentita
dalla possibilità di utilizzare la dottrina dell’obbligo di intendere la situazione dubbia come
inesistente.
(52) In generale sul tema della retroattività: CARRESI, La transazione, cit., 24 ss.
(53) L’osservazione che si criticherà nel testo è di SEGNI, op. cit., 268-269.
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Così non sarebbe costitutiva la transazione propria (art. 1965 primo
comma) perché vi potrebbero essere terzi interessati a fare valere la realtà
della situazione originaria contro l’intelligenza assodata transattivamente.
Non ci pare possibile studiare in questo modo gli effetti del contratto.
Infatti, se di primo acchito l’argomento parrebbe probante, ci pare cessi di
esserlo ove si consideri che anche di fronte ad una novazione oggettiva, per
esempio, vi potrebbe essere un terzo interessato al riesame della situazione
estinta, naturalmente prendendo spunto da un elemento da considerare prima
della estinzione ex nunc operata con la novazione. Si pensi al caso in cui Tizio
vende a Caio il bene X che lo vende a Sempronio. La successiva novazione
oggettiva tra Tizio e Caio volta a sostituire la compravendita, non impedisce
a Sempronio di dimostrare di avere acquistato “a domino”. Qui la novazione
non è opponibile retroattivamente erga omnes, ma non per questo si può
cessare di definire questa novazione, e la novazione in generale, come atto ad
efficacia sostitutiva.
La conclusione che ci interessa, allora, per il negozio di accertamento è
che i rapporti con i terzi non sono idonei ad illuminare sugli effetti del
contratto.
4.
Cenni: la causa del negozio di accertamento e l’impugnativa per errore.
1. La causa del negozio di accertamento risiede nell’eliminazione dell’incertezza della situazione pregressa (54).
Se non vi sono lite o dubbio il negozio è nullo per mancanza di causa (55).
La causa è anche integrata dal rapporto preesistente (56), quando si
accerta una sua modalità (es. quantum).
Pertanto, è nullo per mancanza di causa il negozio dichiarativo afferente
il solo importo della somma dovuta a titolo di mutuo, se il prestito non
sussiste.
Diversamente, nel frangente di accertamento in punto an, ove si definisse
quale causa la stessa esistenza della situazione dubbia, si potrebbe avere un
negozio accertativo vincolante sino a prova contraria, vale a dire sino a
dimostrazione dell’inesistenza di quello stesso dato che si è inteso chiarire (57).
(54) Per tutti MINERVINI, Il problema dell’individuazione del negozio di accertamento,
Rass. dir. civ., 1986, 590 ss.
Profilo pacifico anche in giurisprudenza, es. Cass. 23 dicembre 1987, n. 9625, in Corriere
giur., 1988, 253, nota Mariconda e da ultimo Cass. 24 agosto 2012, n. 14618, in Mass. foro it.
(55) Profilo pacifico, cfr. DAMBROSIO, op. cit., nota 52 a 45.
(56) Cfr. DAMBROSIO, op. cit., 44.
(57) Lo rileva in nota a Cass. 6 dicembre 1983, n. 7274, in Foro it., 1985, I, 238 GRANELLI,
colonne 240 ss.; vedi anche in motivaz. di Cass. 23 dicembre 1987, n. 9625, Corriere giur., 1987,
253, nota di MARICONDA; altresì T. Bari 7 giugno 1975, in Giur. it., 1976, I, 2, 759.
Si confronti anche, per esempio, Cass. 23 marzo 1996, n. 2611 in motivazione, ove si tratta
di un atto bilaterale di accertamento dell’esistenza di un diritto di credito al ritrasferimento di
una frazione di proprietà immobiliare dal marito alla moglie, ma senza che risulti dall’atto e sia
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Sempre che non si sostenesse — all’opposto — che il negozio in esame non
valesse sino a prova dell’effettiva esistenza di quanto accertato, privandolo —
per l’effetto — di utilità (58).
Se si vuole costruire un negozio con effetti materiali si deve concepire
(lite su esistenza) la causa come mera rimozione dell’incertezza e non anche
come elemento integrato dal rapporto dubbio.
La sua mancanza potrà rilevare unicamente attraverso un’impugnativa
per errore, la cui prova non coincide col mero oggettivo raffronto tra situazione pregressa e quanto accertato (59), con eventuale nullità per mancanza di
causa, perché occorre dare prova anche dell’errore e della sua riconoscibilità.
Va infine soggiunto che quando si accerta l’esistenza di un diritto (60) non
si può sostenere che la causa sia limitata all’accertamento, vale a dire non è
possibile dichiarare che Tizio è titolare dell’immobile X tout court, bensì
occorre anche definire qual’è la causa dell’attribuzione (es. vendita del 19
gennaio 2010). L’opinione tradizionale di dottrina e giurisprudenza, che
considera solo l’eliminazione dell’incertezza e la fonte originaria, è allora in tal
senso non persuasiva (61).
stata provata altrimenti, la ragione giustificatrice di tale diritto, con l’effetto che la Corte reitera
il concetto che il negozio di accertamento non ha valore traslativo (è ovvio, ma non è questo il
problema e non è questo che le parti normalmente si propongono) e non è fonte autonoma di
diritti, a prescindere da quelli eventualmente prodotti dalla situazione originaria dubbia (il
rilievo non è persuasivo, se si indica nell’atto perché si ha diritto al ritrasferimento).
Il tema si intreccia con quello, assorbente al riguardo, dell’“expressio cause”, vale a dire
dell’indicazione nel testo, se a forma scritta a pena di nullità, della ragione originaria o
derivativa del diritto, o, se a forma libera, nella sua interpretazione, anche con elementi non
enunciati.
È essenziale — al riguardo — l’esame della rassegna di giurisprudenza e della sua analisi
critica in DAMBROSIO, op. cit., 129 ss., considerazioni che valgono anche oggi, cfr., ad esempio, T.
Genova, 5 gennaio 2008, in Foro pad., 2009, I, 657.
Si noti, anche, che Cass. 6 dicembre 1979, n. 6323, in Arch. civ., 1980, 465, 466 ha
affermato, distinguendosi dall’orientamento giurisprudenziale in parola, che è irrilevante ogni
indagine — a meno che non vi fosse incertezza — afferente l’effettiva pregressa produzione
degli effetti giuridici poi convenzionalmente accertati.
Secondo GALGANO (Il negozio giuridico, Milano, 1988, 100, in Trattato di diritto civile e
commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni) sarebbe nullo il
negozio di accertamento con cui le parti dichiarino, per errore, esistente un rapporto in realtà
inesistente.
A dire di BOZZI, op. cit., 151 e 173 ss. la situazione giuridica preesistente fungerebbe da
presupposizione del negozio di accertamento e non da causa.
A nostro avviso, la tesi in esame, seppur suggestiva, non può trovare accoglimento in
quanto la situazione preesistente costituisce, nel frangente di dubbio sulla sua stessa esistenza,
l’oggetto del negozio di accertamento, che è precisamente integrato anche dal chiarimento del
rapporto in questione (cfr. DAMBROSIO, op. cit., 123 ss.) e la sua mancanza può rilevare sotto il
profilo dell’errore e non della presupposizione, che per definizione non coincide con l’oggetto
del contratto.
(58) Cfr. per decisioni in tal senso, cfr. rassegna di giurisprudenza in DAMBROSIO, op. cit.,
129 ss.
(59) Cfr. DAMBROSIO, op. cit., 47 ss., 50 ss.
(60) Cfr. DAMBROSIO, op. cit., 113 ss.
(61) DAMBROSIO, op. cit., 77-120, cfr. per ragguagli bibliografici le note n. 45, 50, 51, 129
ss.
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La giurisprudenza — in realtà — avverte tale limite, senza saperlo, nel
momento nel quale considera talvolta come validi negozi di accertamento
dell’esistenza quelli nei quali si indica la causa dell’attribuzione; mentre, ove
l’atto è al riguardo “muto”, né tale ragione è provata aliunde, asserisce che il
negozio di accertamento non ha valore traslativo (e a ben dire, diremmo noi,
poiché, se fosse valido, sarebbe un negozio astratto: Tizio è proprietario del
bene x, punto).
A questi rilievi, vanno aggiunte alcune considerazioni in tema di forma
(art. 1350 cod. civ.) del negozio di accertamento e di possibilità di andare oltre
la stessa quando non è richiesta ad substantiam, per interpretare l’atto e
tenerlo valido, anche in assenza di expressio causae, aspetti che tuttavia non
affrontiamo in questa sede, facendone solo cenno a fine nota (62).
2.
Queste tematiche non si rinvengono nella giurisprudenza arbitrale,
Con Cass. 16 gennaio 1996, n. 301, in Mass. foro it., 1996 si è — invece — opportunamente
affermato che la possibilità di attribuire efficacia “costitutiva” ad una dichiarazione ricognitiva
di un diritto dominicale presuppone che la causa dell’atto risulti dal negozio, in ragione della
forma scritta ad substantiam richiesta dalla legge per il trasferimento della proprietà di un
immobile.
Sul punto si confronti anche T. Roma 19 giugno 1991, in Giur. merito, 1992, 1113 con acute
osservazioni di P. Giammaria.
(62) Rinviamo alla nostra rassegna di giurisprudenza citata (ma vedi anche pgg. 77 ss.),
dalla quale si trae il legittimo dubbio che, se il negozio di accertamento fosse sempre redatto
bene e cioè indicasse la causa dell’attribuzione, probabilmente sarebbe sempre ritenuto valido.
Anzi, il dubbio viene definitivamente sciolto da Cass. 24 agosto 2012, n. 14618 cit., Mass.
foro it.
“Nel negozio di accertamento, il quale persegue la funzione di eliminare l’incertezza di una
situazione giuridica preesistente, la nullità per mancanza di causa è ipotizzabile solo quando le
parti, per errore o volutamente, abbiano accertato una situazione inesistente, oppure quando la
situazione esisteva ma era certa; pertanto, con riguardo ad una scrittura privata avente ad oggetto
il riconoscimento di una determinata intestazione di proprietà immobiliare, la mancanza di effetti
traslativi, e la circostanza che il documento non contenga un’espressa indicazione dei rapporti che
l’hanno preceduta, non sono ragioni di per sé sufficienti per affermare la nullità e l’inoperatività
della scrittura medesima, per difetto di causa, rendendosi necessaria un’indagine sui possibili suoi
collegamenti con negozi precedenti intercorsi fra le stesse parti, al fine di stabilire se ricorra
l’indicata funzione, e se, quindi, sia configurabile un negozio di accertamento rivolto a rendere
definitiva e vincolante una precedente situazione incerta (fattispecie relativa ad una scrittura
privata, che il giudice di merito aveva qualificato come negozio di accertamento, con cui le parti
riconoscevano l’esistenza di un rapporto di società e con essa la contitolarità dei beni individualmente intestati, perché acquistati con i proventi dell’attività comune)”.
La massima merita alcune spiegazioni che si traggono solo dalla motivazione e dal
raffronto sistematico con altre decisioni, qui non riproducibile estesamente.
Giova premettere, che l’atto esaminato darebbe nella specie espressamente ragione della
causa dell’asserita contitolarità (comunione) di beni immobili (ed altri), da sciogliersi col
radicato giudizio di divisione, di cui anche al processo del quale alla massima.
Si indicava infatti la sussistenza di un rapporto (di fatto) di società tra due fratelli:
“Correttamente premessa natura e funzione del negozio d’accertamento, la Corte territoriale
ha poi rilevato che nel caso specifico dal tenore del contratto del 15.3.1976 si evince che i due
fratelli riconobbero l’esistenza del rapporto di società e, con essa, la contitolarità dei beni
immobili individualmente intestati a ciascuno di loro, proprio perché acquistati con i proventi
dell’attività comune”.
Abbiamo anche peraltro appena letto nella massima della “... la mancanza di effetti
traslativi ...” dell’assunto negozio di accertamento.
Si tratta di un profilo ovvio, poiché ci si propone — per l’appunto — di accertare e non
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per il semplice fatto che è difficile pensare ad un lodo concretamente “muto”
sulla causa dell’attribuzione, profilo che — tuttavia — non priva di peso
forense, per così dire, l’obiezione dell’impugnativa del lodo che accerta
l’esistenza di un diritto, che dovrebbe valere sino a prova contraria o non
valere del tutto, se si proiettassero alla lettera e senza analisi questi assunti
di trasferire; se si accertasse male, si trasferirebbe di fatto, al pari di una sentenza errata di
accertamento. Pertanto, non è corretto pensare che l’accertamento non sarebbe ammissibile per
una sua pretesa (chi l’ha mai scritto?) di produrre illegittimi effetti traslativi.
Si legge inoltre (sempre motivaz. sent. 2012) che
“ ... la nullità per mancanza di causa è ipotizzabile solo quando le parti, per errore ...”
abbiano accertato come esistente o inesistente un diritto simmetricamente non sussistente o
fondato.
La tesi del ricorrente è che si sarebbe considerato — in linea di fatto — il negozio come
costitutivo dei diritti e che “ ... tale negozio sarebbe stato privo di effetti se non si fosse dimostrata
l’esistenza del rapporto sottostante ..”, verifica alla quale la sentenza impugnata — seppur
richiesta — non si sarebbe applicata, arrestandosi a quanto allegato, ma non anche provato
aliunde.
In altri termini, il ricorrente propugna la tesi (sempre motivaz.) che
“... il negozio d’accertamento non crea il rapporto giuridico ma lo presuppone, sicché
quest’ultimo va provato autonomamente ...”
Pertanto — in soldoni — esso servirebbe a poco, dovendosi provare comunque ciò che il
negozio si proponeva di accertare.
L’allegazione fa in realtà ed incolpevolmente incauto affidamento su quelle massime che
negano validità al negozio, che non avrebbe effetti traslativi, e che non enuncia la causa
dell’attribuzione, nemmeno rinvenibile da altri riscontri, e procedono ad asserire la necessità del
raffronto tra le due situazioni (pregressa ed accertata) per statuire la nullità dell’atto, ma —
soltanto ed in realtà — perché la prova è nella specie assente e non poiché essa sia richiesta in
generale ove sia allegata in atto la ragione del riconoscimento.
Si enuncia, anche nella massima della sentenza in esame, che si possono raffrontare i due
rapporti, per dedurne un’eventuale mancanza di causa (errore o mancanza di incertezza);
considerazione giusta nel frangente dell’assenza (quasi del tutto teorica) di incertezza, come
pure si enuncia, ma errata nel caso dell’allegazione completa della situazione, così come
accertata, come la stessa sentenze finisce per concludere in motivazione.
Essa infatti così prosegue, dopo il passaggio dal quale è stata — pari pari — tratta la
massima “Il fatto che il negozio di accertamento non costituisca esso stesso, proprio per l’assenza
di una sottostante causa dispositiva, fonte del rapporto tra le parti, ed anzi che ne presupponga di
necessità la preesistenza, non significa, però, che il medesimo rapporto debba essere provato
altrimenti, che, diversamente, la stessa funzione del negozio d’accertamento sarebbe postulata
invano. È piuttosto la nullità del contratto da cui si origina il rapporto che, ove dimostrata, ne
travolgerebbe l’accertamento ...” sempre che, aggiungiamo noi, le parti non avessero trattato
della medesima e fermo il disposto di cui all’art. 1972 cod. civ.
Il dato tortuosamente ritraibile è allora il seguente, nel quale aggiungiamo un cenno in
tema di forma ad substantiam:
se si ritiene il negozio non soggetto alla forma di cui all’art. 1350 cod. civ. (a nostro avviso
— al contrario — applicabile in relazione all’accertamento di diritti reali immobiliari e anche a
diritti di credito al loro trasferimento), lo si può interpretare con integrale applicazione degli
artt. 1362 ss. cod. civ., così facendolo salvo qualora sia testualmente incompleto e non dia
ragione della causa, rinvenendo la medesima aliunde ove possibile; se — diversamente — lo si
reputa un negozio formale, l’indicazione della causa può essere soddisfatta anche da un’espressione maldestra o per relationem, senza — tuttavia — si possa giungere in loro assenza, alla sua
integrazione di fatto, attraverso l’interpretazione di profili extra-testuali, che farebbe venire
meno la funzione della forma a pena di nullità (“Nei contratti soggetti alla forma scritta ‘ad
substantiam’, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti,
anche posteriore alla stipulazione del contratto, non può evidenziare una formazione del
consenso al di fuori dello scritto medesimo” Cass. 7 giugno 2011, n. 12297, in I contratti, 2/2012,
125. Principio recetto).
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giurisprudenziali dal negozio al lodo; la nostra osservazione che potrebbe poi
trattarsi di un falso problema in seno alla giurisprudenza, non priverebbe certo
l’impugnazione di valore pratico-professionale, poiché sarebbe sufficiente non
avvertire di tale profilo.
3. Si ritiene generalmente (63) che al negozio di accertamento va applicato l’art. 1969 cod. civ., che vieta l’impugnativa per errore di diritto sul caput
controversum nella transazione e si reputa che altrettanto debba avvenire al
riguardo di quello di fatto, sempre al fine di evitare strumentalizzazioni delle
parti sulle questioni che hanno formato oggetto della controversia, che potrebbe essere altrimenti riaperta privando l’accordo della sua utilità.
La tesi non è meritevole di accoglimento, poiché il negozio dichiarativo
non ha funzione di sopire tout court la lite, bensì di accertare la res dubia ed
è dunque dovuto che questo possa avere luogo anche in sede di correzione
(rispettato il requisito della riconoscibilità ex art. 1429, che esclude un’equiparazione dell’impugnativa in esame a quella dell’oggettiva erroneità) (64).
4. Si noti che nella dottrina e nella giurisprudenza relative all’arbitrato
libero, non si ragiona — pur invocando il negozio di accertamento — considerando l’applicabilità o meno dell’art. 1969, con conseguente ed evidente
non coordinamento dell’indagine.
5.
La “falsa convinzione” dell’inammissibilità giurisprudenziale di un’impugnazione del lodo in punto an, derivante dall’omesso coordinamento della
giurisprudenza sul negozio di accertamento con quella sull’arbitrato libero.
Merita di rimarcare con un apposito paragrafo, che la mancata compenetrazione del negozio di accertamento con l’arbitrato libero raggiunge il suo
culmine nel non avere ravvisato, come detto, che il lodo è — “indirettamente”
— ben impugnabile in punto an e non sul quantum.
6. Cenni: l’arbitrato irrituale come arbitramento (art. 1349 cod. civ.) di un
negozio di accertamento. Ancora sull’impugnativa per errore.
1. È stata anche proposta, decenni prima dell’introduzione dell’art. 808
ter, la qualificazione del lodo libero come arbitraggio (art. 1349 cod. civ.) di un
negozio di accertamento o di una transazione (65).
La tesi maggioritaria in dottrina, alla quale aderisce la giurisprudenza (66), si esprime tuttavia per l’inapplicabilità dell’arbitramento al dictum
irrituale, per queste due obiezioni.
(63)
(64)
(65)
(66)
Cfr. DAMBROSIO, op. cit., 47.
Cfr. op. cit., 50 ss.
Indicazioni in DAMBROSIO, op. cit., 201 ss.
Per riferimenti, vedi nota precedente.
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L’art. 1349 sarebbe riferibile:
(i) a contratti da completare quanto all’oggetto, mentre transazione e
negozio dichiarativo governano liti su rapporti compiuti;
(ii) ad un c.d. conflitto economico ove dall’altra parte si ha una controversia giuridica.
Queste osservazioni non sono convincenti, poiché meramente descrittive
delle differenze, giuridicamente non rilevanti, che si riscontrano se l’arbitraggio opera in seno ai negozi in esame o ad altri contratti. Non è persuasivo
trarre da queste diversità alcun divieto di applicazione.
Infatti, quanto al punto sub (i), non si comprende quale problema sorga
nel rilevare che l’oggetto della transazione è costituito dalle reciproche
concessioni e quello del negozio di accertamento dalla situazione dubbia così
come acclarata e nel fare determinare questi dati da un terzo. Anche qui vi è
un elemento essenziale da completare.
Al riguardo dell’obiezione sub (ii), non è ravvisabile quale sia questo non
ulteriormente enunciato ostacolo che renderebbe inapplicabile la norma alle
liti.
Va soggiunto che le parti possono deferire al terzo un giudizio di diritto
e non solo un “equo apprezzamento” (art. 1349).
2. Per ragioni diverse da quelle ora criticate, non si può comunque
concepire il lodo libero come un vero e proprio arbitraggio di un negozio di
accertamento.
Non riteniamo infatti applicabile l’art. 1349, primo comma, laddove
prevede che la determinazione sia operata dal giudice, poiché egli non può
essere vincolato dalle regole procedurali arbitrali ove esistenti, che può
considerare solo ai fini della loro pregressa osservanza per trarne o meno
l’annullamento, ma non potrà mai emettere una sentenza determinativa del
contenuto del lodo, poiché deve procedere in base al diritto processuale ed è
pertanto al di fuori dell’arbitrato.
È inoltre chiaro che la limitazione dell’impugnazione alle ipotesi delle
manifeste iniquità od erroneità non è appagante in relazione al negozio di
accertamento pronunciato secondo diritto, mentre lo è nel caso di decisione
equitativa.
3. L’attività dell’arbitro è praticamente la stessa in entrambe le costruzioni (art. 1349, mandato ad accertare: vedi par. 1, inizio saggio) esaminate.
In concreto, si avrà un arbitraggio tutte quelle volte che, nella clausola
compromissoria ante riforma, le parti si sono obbligate “a considerare la
decisione del terzo come espressione della loro volontà” (vedi paragrafo 8 di
questo saggio).
4. L’applicazione dell’art. 1349 al lodo irrituale non consente di utilizzare l’arbitrato libero al fine del conseguimento di effetti analoghi a quelli
prodotti dalla sentenza ex art. 2932 cod. civ., poiché non esiste alcun contratto
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definitivo da completare e del quale accertare il contenuto, sussistendo per
ipotesi solo il contratto preliminare nel quale è inserita la clausola compromissoria.
Se la lite vertesse invece sull’accertamento della validità del preliminare
e non la sua esecuzione, l’arbitro non farebbe che completare il negozio di
accertamento fornendo alla parti il dictum alla cui osservanza sono obbligate.
Pertanto, è solo col mandato ad accertare e conseguentemente a disporre
che si può costruire un lodo irrituale traslativo in adempimento di un contratto
preliminare.
L’utilizzo dell’arbitrato libero “ex art. 2932” pone peraltro il problema
dell’applicabilità dell’art. 2652, ultimo comma, alla trascrizione del suo atto di
ingresso (67) ed esige che sia anche trascritto il relativo lodo, adempimento che
non potrà che avvenire a fronte dell’autenticazione delle sottoscrizioni e non
in ragione dell’art. 825 cod. proc. civ., che presuppone un lodo rituale
esecutivo e che non è applicabile (art. 808-ter ult. comma. A livello operativo,
e quale parziale tutela triennale, si può comunque trascrivere il preliminare,
art. 2645-bis, comma terzo, cod. civ.).
5. Da quanto osservato nel presente paragrafo, si può trarre la conclusione che l’applicazione delle norme di diritto sostanziale alla soluzione della
controversia da parte di uno o più terzi, riscontra il suo limite naturale
nell’impugnazione del lodo per errore di giudizio ove non è ipotizzabile una
dottrina soddisfacente. Rilievi critici analoghi, abbiamo proposto nel paragrafo n. 1 di questo saggio, con riferimento alla concezione del lodo libero
come mandato ad accertare o transigere.
7.
L’arbitrato libero nella costruzione giurisprudenziale.
1. La giurisprudenza propone una costruzione asistematica dell’arbitrato libero.
Si esclude l’applicabilità dell’art. 1349 e si sostiene la tesi del mandato a
transigere od accertare.
Non si considera tuttavia il tema della necessaria rappresentanza volontaria, presupposto di qualsiasi effetto negoziale in capo alle sfere dei litiganti
ed assente nella prassi degli atti di nomina.
Si limita l’impugnativa del lodo a casi limite, escludendo l’errore di
giudizio (68) e per l’effetto derogando arbitrariamente le norme cogenti dei
vizi del consenso, rispetto alle quali è la legge (es. art. 1969, 761 cod. civ.) che
detta esclusioni eccezionali (art. 14 preleggi) e non l’interprete.
(67) Cfr. CORBI, La trascrizione della domanda arbitrale, in questa Rivista, 2010, 729.
(68) Cfr., per esempio, Cass. 1 dicembre 2009, n. 25268, voce arbitrato, n. 116, in Rep. foro
it., 2009 la quale enuncia l’applicabilità dell’errore vizio del consenso, che — tuttavia — non
sarebbe mai riscontrabile ove gli arbitri avessero esaminato compiutamente gli atti.
In altri termini, la falsa rappresentazione della realtà, per essere rilevante, dovrebbe
essere pertinente alla mera percezione dei fatti di causa e non alla loro valutazione e si avrebbe
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Non si argomenta in alcun modo il divieto di impugnazione richiamando
l’art. 1969, anche — se in realtà — non applicabile.
Non ci si rifà alla giurisprudenza sul negozio di accertamento, che pure
non ammette l’annullamento per errore sottolineando la funzione preclusiva
del negozio.
2. Merita approfondimento la tesi giurisprudenziale che l’errore vizio
del consenso non è applicabile al lodo, poiché l’arbitro che effettua un giudizio
errato non necessariamente incorre in un errore-falsa rappresentazione della
realtà, nel senso che può bene avere preso diligente contezza di atti, verbali e
documenti ma sbagli a valutarli.
Il rilievo non è insuperabile se si considera che nel negozio di accertamento-lodo l’oggetto è il risultato dell’accertamento stesso e non tanto ed in
sé il dato da giudicare.
Nel codice civile l’“oggetto” non riveste un significato univoco e può
consistere nelle prestazioni o nel bene, ma anche nel risultato (qui accertamento) ed altrove, per esempio, nel trasferimento del diritto (art. 1376) (69).
L’errore di giudizio è allora l’equivoco sull’oggetto (art. 1429 n. 1) del
negozio di accertamento, nel senso del suo risultato, dipenda o meno da
diligente esame del fascicolo di causa. A volere spaccare il capello, senza
conseguenze pratiche, ove il giudizio derivasse dal negligente esame degli atti,
vi sarebbe errore ex art. 1429 n. 2, cioè sull’oggetto della prestazione dichiarativa e non solo sul suo risultato (n. 1).
3. Come detto nel paragrafo 5, non si tiene presente che, se si reputa che
il negozio di accertamento dell’esistenza del rapporto pregresso è nullo per
mancanza di causa, se si prova, in qualunque modo e in un successivo
processo, che la situazione controversa non era in realtà esistente, si dovrebbe
pervenire alle stesse conclusioni per il lodo irrituale, che sarebbe dunque
impugnabile in questo frangente.
Ma non si trova traccia di questa tematica nelle sentenze sull’arbitrato
libero e nemmeno nella relativa dottrina.
4. Occorre infine considerare quelle decisioni (70) che affermano che le
parti si impegnano a considerare il lodo come frutto della propria volontà,
senza tuttavia proporre questa concezione come espressa alternativa od in
contrapposizione alla tesi del mandato.
— per l’effetto — ove gli arbitri avessero supposto come esistenti fatti inesistenti e viceversa, o
ritenuto come pacifici i fatti contestati o l’inverso (diffuse citazioni ed illustrazione dell’evoluzione giurisprudenziale, in DAMBROSIO, op. cit. nota 41 a pg. 216), profili che riecheggiano la
revocazione ex art. 395, n. 4), cod. proc. civ.
(69) Per il significato ampio dell’oggetto del contratto, che non è limitato al “contenuto
dell’obbligazione”, ma va esteso al “risultato dedotto” cfr., ad esempio, DE NOVA, L’oggetto del
contratto: considerazioni di metodo, in Dir. informaz. e informatica, 1986, 805 ss. ora in DE
NOVA, Dal contratto atipico al contratto alieno, Padova, 486-487.
(70) Cfr. DAMBROSIO, op. cit., nota n. 42 a pg. 218.
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In realtà, questo obbligo altro non è che l’art. 1349 applicato al negozio
di accertamento, costruito secondo la tesi di Nicolò (cfr. paragrafi 3 e 8 di
questo saggio), vale a dire come obbligo di intendere la res dubia nel modo
accertato (qui dal terzo).
8.
Una teoria che costruisce l’arbitrato irrituale al di fuori del negozio di
accertamento: il lodo come prestazione d’opera intellettuale.
Negli ultimi venti anni e prima della riforma del 2006, sono state proposte
due teorie, che collocano il lodo irrituale al di fuori dell’area del negozio di
accertamento.
La prima (71) sostiene che
“Agli arbitri non si chiede di compiere un atto giuridico né, tanto meno, di
emettere una dichiarazione di volontà, destinata a produrre effetti giuridici per
i contendenti. Si chiede loro, piuttosto, di pronunciare un giudizio sulla ragione
e sul torto dei contendenti, di eseguire cioè una operazione intellettiva qualificabile, ai sensi dell’art. 2230 c.c., come prestazione d’opera intellettuale (72). E
la decisione degli arbitri è, per i contraenti la clausola compromissoria o il
compromesso, null’altro che un fatto giuridico, cui essi hanno, con propria
dichiarazione di volontà, attribuito effetti giuridici”.
Si aggiunge (73) che l’arbitrato libero è incompatibile con l’arbitraggio,
poiché nel primo il terzo interviene su di un rapporto completo e litigioso ove
nel secondo egli integra un rapporto in formazione.
Si precisa (74) che le parti si obbligano ad osservare il lodo concepito dalle
stesse come mero fatto giuridico. Aspetto che escluderebbe la costruzione in
esame dall’ambito di qualsiasi contaminazione col negozio di accertamento (75).
In verità, la teoria in esame non sfugge all’area del negozio dichiarativo.
(71) GALGANO, L’equità degli arbitri, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 410 e ribadito in più
scritti, cfr. DAMBROSIO, op. cit., 219 e GALGANO, Giudizio e contratto nella giurisprudenza
sull’arbitrato irrituale, in Contratto e impr., 1997, 885.
(72) Qualifica il rapporto tra le parti e gli arbitri rituali come prestazione d’opera
intellettuale, Cass. 26 novembre 1999, n. 13174, in Mass. foro it., 1999.
Per tale qualificazione, risalente ai primi anni del secolo scorso, in relazione all’arbitrato
rituale, si confrontino i riferimenti e l’analisi in MARULLO DI CONDOJANNI, Il contratto di arbitrato,
Milano, 2008, 32 e anche FAZZALARI, I processi arbitrali nell’ordinamento italiano, Riv. dir. proc.,
1968, 467.
(73) GALGANO, per esempio, Il negozio giuridico, in Trattato di dir. civ. e comm. diretto
da Cicu e Messineo, Milano, 1988, 110-111.
(74) Esempio, Il negozio, cit., 111.
(75) La tesi dell’impossibilità di redigere negozi di accertamento di fatti, è stata inesattamente attribuita a N. Irti, cfr. ampiamente DAMBROSIO, op. cit., nota n. 51 a p. 220, ove si rileva
che Irti non ha sostenuto l’inconciliabilità logica tra negozio di accertamento e fatti, problematica, in verità, non oggetto di ampia analisi in dottrina e giurisprudenza, con l’eccezione di cui
alla nota seguente. Pertanto, non è possibile espungere il negozio di accertamento dall’arbitrato
libero, in ragione di questo presunto postulato.
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In primo luogo non esiste alcuna incompatibilità tra atto d’accertamento
e fatti (76), né esiste una convinzione assodata in tal senso in dottrina e
giurisprudenza.
Secondariamente, l’obbligo delle parti di osservare il mero fatto-prestazione d’opera intellettuale altro non è che l’obbligo di intendere la res dubia
nel modo accertato (Nicolò, cfr. paragrafo 3 di questo saggio) dal terzo (art.
1349), laddove il suo dictum è un mero fatto giuridico poiché, come si è
osservato in generale (77), l’art. 1349 non prende in considerazione gli stati
soggettivi e considera l’impugnativa della scelta dell’arbitratore nella sua
obiettività a prescindere da colpa e dolo.
Allora si potrà anche non chiamarlo negozio di accertamento, ma i temi
in punto causa, effetti ed impugnativa, peraltro non affrontati dalla teoria in
questione, saranno gli stessi.
9.
Un’ulteriore teoria che costruisce l’arbitrato irrituale al di fuori del negozio
di accertamento: il lodo come mero atto.
1. La seconda teoria (78) reputa che si ha arbitrato irrituale quando le
parti
“... abbiano voluto incaricare l’arbitro di risolvere le loro liti giudicando
secondo diritto (198) nell’ambito di un regolare processo e pervenendo ad una
decisione non idonea ad assumere efficacia esecutiva, impugnabile davanti al
giudice ordinario con tre gradi di giudizio per gli stessi motivi per i quali può
essere appellato il lodo rituale di diritto” (79).
Il lodo libero e quello rituale sono o meno qualificabili come negozio a
seconda della concezione generale che si ha del medesimo (80).
Il primo non è comunque un contratto, poiché il consenso delle parti si
arresta al patto compromissorio ed al contratto di arbitrato, dopo i quali ogni
parte si contrappone all’altra (81).
Non sarebbero per l’effetto applicabili le impugnazioni per vizi del
consenso (82).
Il lodo libero non sarebbe in ogni caso un contratto di accertamento.
Infatti, esso sarebbe di dubbia ammissibilità (83) e scarsa efficacia
“... non vi è, infatti, la medesima probabilità di veridicità e di conformità a
(76) Cfr. per la dimostrazione della possibilità di accertare convenzionalmente anche i
fatti giuridici, profilo che — in realtà — non ha motivo di presentare problemi, DAMBROSIO, op.
cit., 223 ss.
(77) ZUDDAS, L’arbitraggio, Napoli, 1992, p. 93 per altri riferimenti DAMBROSIO, op. cit.,
nota n. 44 a p. 219.
(78) FESTI, La clausola compromissoria, Milano, 2001.
(79) Op. cit., 122.
(80) Pgg. 125-127.
(81) Pgg. 115, 117.
(82) Pg. 113.
(83) Pgg. 115-116.
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diritto del risultato ottenibile mediante un processo, considerato il rischio che il
contenuto del negozio possa essere il frutto dell’approfittamento di una delle
parti a danno dell’altra. In questo senso, può essere ragionevole dubitare
dell’efficacia del negozio di accertamento o, quanto meno, sottolineare la sua
soggezione alla più ampia impugnativa anche in deroga all’art. 1969 c.c.” (84).
Questo pericolo, in verità, non si correrebbe ove ad esprimere il giudizio
fosse un arbitratore, in ragione della sua qualità di terzo; ma si dovrebbe
tuttavia ed in definitiva propendere per la qualificazione dell’arbitrato libero
quale “giudizio privato” e non arbitraggio di un negozio di accertamento,
poiché l’arbitro opererebbe come l’arbitro rituale ed il giudice, dovendo allora
soggiacere alle stesse inderogabili garanzie processuali (85).
Vigerebbero i principi cardine posti a base di qualsiasi procedimento che
conduca ad un giudizio, ravvisabili nel divieto di rinunciare preventivamente
ad impugnare il lodo innanzi all’autorità giudiziaria (art. 24 Cost.), nell’imparzialità del giudice, nel contraddittorio (art. 111 Cost.), nella mancanza od
illogicità della motivazione dovendosi anzi concludere per l’integrale ed
inderogabile applicazione dell’art. 829 cod. proc. civ. ante riforma, che iniziava
così “L’impugnazione per nullità è ammessa, nonostante qualunque rinuncia,
nei seguenti casi” (86). Il nuovo art. 829 conferma il principio sottolineando di
riferirsi alla rinuncia preventiva.
2. Abbiamo già trattato nel paragrafo 2 il tema dell’ammissibilità del
negozio di accertamento e nel paragrafo 3 l’obiezione alla tesi che le parti
sarebbero dotate di “minori capacità” di accertamento del giudice.
Concordiamo che il negozio in questione è impugnabile per errore e
debba pertanto essere soggetto “... alla più ampia impugnativa anche in deroga
all’art. 1969 c.c.”, profilo che deve fare escludere che l’atto inesatto non sia
eliminabile e possa per l’effetto consacrare risultati non congrui.
Dunque, non vi è possibilità di argomentare contro l’ammissibilità del
negozio dichiarativo, per espungerlo dal tema arbitrale, non solo in ragione di
considerazioni generali (par. 2), ma anche in base ad un presunto divieto di
impugnativa per errore.
Condividiamo altresì, con alcune riserve, che il lodo libero possa essere
integrato da un arbitraggio di un negozio di accertamento.
Ma non è persuasivo che i principi cardine del processo, alcuni dei quali
di rango costituzionale, non possano governare l’iter attraverso il quale
l’arbitratore confeziona il lodo.
Né lo spiega l’asserzione (87) che ciò discende dalla natura di giudizio del
compito affidato al terzo, che presenta caratteri analoghi a quelli del giudice
e dell’arbitro rituale, poiché da questo innegabile profilo non consegue
automaticamente l’incompatibilità di regole procedurali.
(84)
(85)
(86)
(87)
Pg. 106.
Pgg. 107 ss.
Pgg. 95, 110-113.
Pg. 107.
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E, comunque, siano esse applicabili o no all’arbitraggio, certamente lo
sono al negozio di accertamento definito su mandato delle parti, secondo la
teoria dominante.
Quanto al profilo che il lodo non potrebbe essere un contratto, perché i
controvertenti si contrappongono in tutta l’attività che precede la sua emanazione e non vi è dunque consenso, ad eccezione di quello manifestato in
seno alla clausola compromissoria ed all’incarico agli arbitri, riteniamo che
l’accordo non possa ovviamente riguardare il contenuto del lodo ed è chiaro
che in questo senso non sarebbe configurabile alcun contratto, ma nulla vieta
che le parti concordino di dare ad un terzo il compito di decidere autonomamente il contenuto del contratto d’accertamento, rispetto al quale hanno così
prestato il loro previo consenso (salvi i diritti di impugnativa), che non deve
per l’appunto necessariamente riguardare la predeterminazione del suo contenuto. Infatti, è un contratto in generale anche quello integrato dal terzo ex
art. 1349, dove il consenso delle parti non individua l’oggetto.
Non riteniamo pertanto che la dottrina in esame abbia espunto il negozio
dichiarativo dall’arbitrato libero, tanto più che se il relativo lodo fosse —
accolta la tesi che si critica — un negozio, qualifica che essa precisa dipendere
da quale concezione dello stesso si accolga, ci si dovrebbe domandare quale
efficacia esso produrrebbe sulla situazione pregressa e quale sarebbe la sua
causa, indirizzando per l’effetto la ricerca nello stesso perimetro del negozio
di accertamento. Se fosse un atto, il vincolo alla sua osservanza assunto dalle
parti, lo ricondurrebbe — come per la dottrina di cui al paragrafo precedente
— nell’ambito dell’arbitraggio di un negozio dichiarativo con gli effetti della
tesi di Nicolò.
Al riguardo, infine, dell’applicabilità dell’art. 829, rileviamo che lo stesso
(versione ante riforma del 2006) non contemplava alcuna impugnazione per
errore di giudizio di fatto, bensì e solo per errore di diritto, a meno che le parti
— oltretutto — non avessero deciso per la non impugnabilità del lodo anche
in tale frangente (o si trattasse di lodo di equità).
Dunque, l’appello per errore di giudizio non era principio cardine sancito
dalla norma.
A nostro avviso, tale “facoltà di rinunzia” all’impugnazione per errore di
diritto, collocata oltretutto in una norma che prevedeva (e prevede) — al
contrario — come regola l’irrinunciabilità previa dell’impugnazione, doveva
“conseguire” dalla stessa scelta dell’arbitrato libero, senza dunque applicazioni analogiche dell’art. 829, comunque non in grado di garantire un’impugnazione del lodo quale vero e proprio gravame, che è lo sforzo, con parziale
successo, della fruizione (annullamento per errore) di strumenti sostanziali
per riesaminare il merito.
10.
La forma della clausola compromissoria prima (art. 4 legge 218/1995) e
dopo la riforma.
1.
Prima dell’introduzione dell’art. 808-ter, si riteneva in dottrina e
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giurisprudenza che l’art. 1967 cod. civ. (la transazione deve essere provata per
iscritto, fermo il disposto del n. 12 dell’art. 1350 cod. civ.) andava applicato
alla clausola compromissoria per arbitrato libero.
A questa opinione, se ne contrapponeva una minoritaria che invocava
l’applicazione dell’art. 807 (richiamato dall’art. 808) cod. proc. civ. (88).
Ora, o si sostiene che la clausola in esame non regge alcuna forma scritta
per l’impossibilità di applicare in via estensiva od analogica norme relative
alla forma di contratti od è indubbio che tra le due regole richiamate è
certamente l’art. 807 ad essere affine all’istituto in esame e non l’art. 1967.
Riteniamo infatti agevole opporre che l’art. 1967, anche accogliendo la
non persuasiva tesi arbitrato/transazione, si dovrebbe comunque riferire al
lodo integrante per l’appunto la transazione, mentre qui si discetta della forma
della clausola e non di quella del lodo.
Sarebbe insomma come guardare l’art. 823 cod. proc. civ. per rilevare i
requisiti della pattuizione compromissoria e non l’art. 807.
Il salto logico è dunque netto.
Né si può pensare ipotizzare che la clausola sia già un arbitraggio della
transazione-lodo alla quale manca solo la determinazione del terzo ex art.
1349 cod. civ.
Infatti, la materia del contendere non è stata ancora definita, né si sa se
verrà mai ad esistenza, pertanto non si può parlare di arbitraggio di una
transazione o di un negozio di accertamento prima ancora del conferimento
dell’incarico e della definizione di pretesa e contestazione.
Dunque, nel dubbio tra l’art. 1967 e l’art. 807 si sarebbe dovuta preferire
l’applicazione estensiva di quest’ultimo ed a prescindere dall’accettazione o
meno della tesi arbitrato irrituale/transazione.
Riteniamo tuttavia preferibile considerare anche l’art. 4, secondo comma,
della legge n. 218/1995 (89) e con prevalenza sull’art. 807, in ragione del fatto
che dispone una disciplina meno severa (90), cioè la forma ad probationem e
non ad substantiam.
Non essendo infatti prevista una norma specifica al riguardo dell’arbitrato irrituale, si sarebbe dovuto optare per la soluzione formalmente meno
esigente.
Questo a prescindere dal dibattito afferente la natura dell’eccezione di
arbitrato libero e quindi sul profilo che la relativa clausola configurasse o
meno una rinunzia alla giurisdizione, poiché l’art. 4 poteva trovare applicazione sulla base della mera constatazione della mancanza di tutela da parte del
giudice ordinario.
(88) Riferimenti in FESTI, op. cit., 245; per la giurisprudenza, BARTOLINI e DEL CONTE, Il
nuovo codice dell’arbitrato, Piacenza, 2006, 433.
(89) “La giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un
giudice straniero o di un arbitrato estero se la deroga è provata per iscritto e la causa verte su diritti
disponibili”.
(90) La forma per la validità è infatti di “ ... stretta interpretazione ...” GIORGIANNI, voce
Forma degli atti (dir. priv.), Enc. dir., Milano, 1968, 1003, cfr. anche 1004, 993-996.
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2. L’art. 808-ter prevede quale requisito formale della clausola compromissoria una laconica “... disposizione espressa per iscritto ...” ed omette —
significativamente — il testuale richiamo all’art. 807 (forma scritta a pena di
nullità per il compromesso), che è — al contrario — dettato dall’art. 808,
primo comma, per la clausola compromissoria e dall’art. 808-bis per l’arbitrato in materia non contrattuale, per la sola versione rituale, riteniamo.
A nostro avviso, una diversità di regime formale per una clausola e l’altra
è priva di basi razionali.
Ci si deve tuttavia attenere alla legge, così come si deve prendere atto che
l’art. 4 legge citata prevede una forma ad probationem per la deroga della
giurisdizione a favore dell’arbitrato estero e che l’art. 808 dispone lo scritto ad
substantiam, senza che la differenza di scelta appaia giustificata da ragioni
evidenti.
È peraltro vero che l’art. 808 ter non precisa tuttavia a che altri effetti la
legge imponga questo adempimento scritto.
Riteniamo allora che l’interpretazione debba condurre alla forma ad
probationem (91), poiché avendo escluso quella per la validità, non residuano
nel caso di specie altre funzioni da considerare (quali, ad esempio, quelle della
trascrizione dell’atto, artt. 2643, 2657 cod. civ.).
11.
Arbitrato irrituale: non applicazione del Titolo VIII?
L’art. 808-ter, primo comma, prevede
“Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in
deroga a quanto disposto dall’art. 824 bis, la controversia sia definita dagli
arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo”.
La norma stabilisce che, in assenza di deroga, l’arbitrato è rituale con
conseguente applicazione del Titolo VIII, che invece non opera nell’arbitrato
definito (rubrica) — per l’appunto — “irrituale”, cioè non vincolato dal rito.
Qui, le parti potranno concordare una disciplina ad hoc, adempimento
che — per la verità — è raro riscontrare al di fuori del regolamento predisposto da terzi (art. 832).
La precisazione della libertà di procedimento è rilevante, poiché gli
articoli 806 ss. prevedono regole inderogabili e dispositive (92) e l’introduzione
dell’art. 808-ter all’interno del Titolo VIII avrebbe potuto sollevare dubbi
quanto all’operatività delle prime, ove tecnicamente compatibili, anche in
relazione all’arbitrato libero.
(91) In tal senso, ma con argomentazioni diverse BOVE, in La nuova disciplina dell’arbitrato a cura di S. Menchini, Padova, 2010, 80 ove anche altri riferimenti. Parrebbe invece
esprimersi nel senso della forma per la validità PUNZI, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 406 e certamente in Il processo civile sistema e problematiche,
vol. III, I procedimenti speciali e l’arbitrato, 2ª ed., Torino, 2010, 280, 283.
(92) Lo rileva DE NOVA, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia privata, in questa
Rivista, 2006, 423.
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Al riguardo delle seconde, l’affermazione dello svincolo è meramente
descrittiva del fatto che esse non sono in re ipsa applicabili in assenza di
deroga delle parti, considerato che la loro natura non garantisce di per sé che
siano utilizzabili (cfr. ad esempio l’art. 830, secondo comma, che non ha senso
se riferito all’impugnativa del lodo irrituale). La portata semplicemente
espositiva si riscontra nel dato che la norma incompatibile non si applicherebbe già in quanto tale.
Le differenze tra i due tipi di arbitrato non sono dunque riscontrabili solo
in punto efficacia del lodo e sua impugnativa, bensì anche sotto il profilo
procedurale, ove l’estensione dell’autonomia privata è maggiore nella forma
libera.
Nessuna norma imperativa può regolare solo in quanto tale l’arbitrato
irrituale, con l’eccezione dell’art. 812 (Incapacità di essere arbitro) richiamato
dal n. 3 del 808-ter.
Al riguardo dell’art. 815 cod. proc. civ. (Ricusazione degli arbitri), va
rilevato che il principio dell’imparzialità non può che essere anch’esso posto
a base del procedimento libero (93), ma che è da valutare se le parti possano
prevedere una disciplina diversa da quella nominata e non solo integrativa
(art. 832, quinto comma, cod. proc. civ.) (94).
Si noti anche il n. 2 dell’art. 808-ter, afferente le modalità e la forma di
nomina degli arbitri, dal quale si deduce ad abundantiam la conferma della
libertà delle parti rispetto all’art. 810.
Ora, come accennato, nella prassi si ha spesso assenza di procedura,
poiché i privati non fanno uso della facoltà di concordare regole; situazione
che può reggere solo sino a quando non sorgono problemi, la cui soluzione
presuppone una disciplina che potrà anche essere ricavata — si noti — dalle
stesse norme del Titolo VIII se compatibili e non necessariamente da quelle
sostanziali (95).
Infatti, libertà dal Titolo VIII non significa divieto di applicazione per
colmare le lacune.
Il valore della previsione “Altrimenti si applicano le disposizioni del
presente titolo” è da cogliersi sul terreno dell’estensione dell’autonomia
privata nella procedura libera e non su quello della proibizione di operatività
in soccorso delle parti.
(93) C. CECCHELLA, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 124.
(94) Cfr. ZUMPANO, La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 163 anche per ulteriori riferimenti.
(95) Secondo PUNZI, op. cit., 405-406 si applicherebbero le norme dettate per l’arbitrato
rituale ad esclusione di quelle espressamente vietate dall’art. 808 ter; a dire di LA CHINA,
L’arbitrato, Milano, 4ª ed., 2011, 15-16 e VERDE, Arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2005, 672
non si applica il titolo VIII, ma vedi anche Aut. cit., in AA.VV., Diritto dell’arbitrato a cura di
G. Verde, 3ª ed., Torino, 2005, 159-160 nel senso dell’applicazione della disciplina rituale da
valutarsi caso per caso; nella stessa opera ed in tal senso AULETTA, 285-186, si veda anche ivi
DELLA PIETRA, 199.
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12.
Gli effetti della “determinazione contrattuale” (art. 808-ter) e quelli
“della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria” (art. 824-bis).
Le parti possono decidere (art. 808-ter) che la controversia sia sopita con
“determinazione contrattuale” in deroga degli “effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria” che l’art. 824-bis attribuisce al lodo rituale.
È utile analizzare la reale portata di questa differenza di efficacia.
Sappiamo che le decisioni del magistrato sono principalmente d’accertamento, di condanna e costitutive (l’art. 2908 cod. civ. dispone che nei casi
previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare od estinguere rapporti giuridici con effetto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa).
La deroga dell’art. 824-bis potrebbe allora significare che il lodo libero
non produce — a differenza del rituale — effetti d’accertamento, di condanna
o costitutivi.
Inoltre, il dictum irrituale non è idoneo — a differenza del “gemello” —
(i) ad essere omologato ed a divenire per l’effetto titolo esecutivo (ii) ad
iscrivere ipoteca (art. 2819 cod. civ.) (iii) ad essere trascritto in quanto tale
(art. 808-ter n. 5 e 825) (iv) ad interrompere la prescrizione breve (art. 2953
cod. civ.) (96).
Ma è tuttavia vero che il lodo libero può produrre effetti “dichiarativi” o
meglio di accertamento (par. 3 questo saggio), nonostante il disposto di cui
all’art. 1321 cod. civ., ed a maggior ragione modificativi e costitutivi, mentre
non è titolo esecutivo quando dispone una condanna, anche se la differenza in
punto pagamento somme di danaro non significa, come si sarebbe istintivamente portati a dedurre, che il lodo rituale sia più competitivo, come diremo.
Quest’ultima è la principale differenza.
Al riguardo degli effetti lato sensu costitutivi, vi è un’innegabile affinità
tra il principio (art. 1372 cod. civ.) che il contratto ha forza di legge tra le parti
e non produce effetto rispetto ai terzi, se non nei casi previsti dalla legge (97),
ed il richiamato art. 2908, che si raccorda col 2909 afferente la cosa giudicata
sostanziale (98).
La nostra osservazione non giunge tuttavia ad indagare funditus il parallelismo tra effetti del contratto rispetto a coloro che non ne sono parti ed efficacia
della sentenza costitutiva nei confronti di quanti non parteciparono al processo,
anche se è in parte sufficiente avere rilevato che, quanto meno rispetto alle sfere
dei controvertenti, non vi è differenza tra gli effetti costitutivi di una decisione
giudiziaria od un lodo rituale e quelli di un dictum libero.
(96) AULETTA, in La nuova disciplina dell’arbitrato, cit., 427.
(97) Cfr. GALGANO, Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Libro quarto-Delle
obbligazioni, Artt. 1372-1405, Bologna-Roma, 1993.
(98) Cfr. LUISO, I terzi e il lodo arbitrale, in questa Rivista, 2012, 805; AULETTA, op. cit.,
pgg. 425, 429; GARBAGNATI, Sull’efficacia di cosa giudicata nel lodo rituale, in Riv. dir. proc., 1985,
425; MONTESANO, Negozio e processo nel nuovo arbitrato, in Riv. dir. proc., 1984, 214; PUNZI, La
riforma dell’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1983, 83.
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Anzi, (almeno) il lodo irrituale produce immediatamente i suoi effetti
sostanziali, senza alcun rinvio all’acquisizione del giudicato, come è al contrario sostenuto talvolta per la sentenza costitutiva in deroga dell’art. 282 cod.
proc. civ. (99).
Limitatamente alle obbligazioni di pagare una somma di danaro e alle
altre di cui all’art. 633, primo comma, cod. proc. civ. va rilevato che accade che
si possa ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (art. 642, secondo comma, cod. civ.) in un tempo minore di quello
afferente l’omologazione del lodo rituale, con la conseguenza che il vantaggio
dell’essere titolo esecutivo può infrangersi per semplici ragioni pratiche. Il
lodo libero è infatti principio di prova scritta (art. 633 n. 1 cit.) e documento
equiparabile a quello sottoscritto dal debitore (art. 642 cit.).
Va inoltre soggiunto che (i) l’art. 474 cod. proc. civ. annovera, dopo la sua
riforma del 2005, la novità (100) (n. 2) che è titolo esecutivo la scrittura privata
autenticata (che potrebbe essere un lodo irrituale) relativamente alle somme
di danaro in essa contenute e che (ii) l’art. 12, primo comma, legge 28
novembre 2005, n. 246 ha previsto il divieto in capo al notaio di autenticare
scritture private contrarie alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume (101).
13.
La concezione del lodo contrattuale (art. 808-ter, II) quale espressione del
potere dispositivo conferito agli arbitri ex lege e non per mandato delle
parti od arbitraggio.
Vogliamo indagare se il potere degli arbitri di disporre delle sfere
patrimoniali delle parti risieda — come prima della riforma — nell’incarico
ricevuto o — piuttosto — promani direttamente dall’art. 808-ter, così come
deriva dall’art. 2908 per il giudice e dall’art. 824-bis per l’arbitro rituale.
Cosa si intende per “determinazione contrattuale” (primo comma)?
Forse il legislatore non ha voluto usare il termine “decisione”, sulla scia
di vecchi equivoci secondo i quali gli arbitri liberi non decidono?
Cosa che si è indotti a pensare anche perché la lite è “... definita dagli
arbitri ...” (primo comma) e non decisa.
Sicché avremmo una prima differenza tra le due forme di arbitrato,
rinvenibile nel “... fare decidere da arbitri ...” (art. 806) e nel fare “definire” con
“determinazione”, ma non “decisione”.
(99) Cfr., ad esempio, ARIETA e DE SANTIS, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo 2, Trattato
di diritto processuale civile L. Montesano G. Arieta, Padova, 2007, 38.
Cass. S.U. 22 febbraio 2010, n. 4059 ha escluso che la sentenza ex art. 2932 cod. civ. sia
provvisoriamente esecutiva.
(100) Per un’analisi ARIETA e DE SANTIS, op. cit., 96.
(101) Gli artt. 412 e 412-quater cod. proc. civ., relativi all’arbitrato irrituale del lavoro,
prevedono un lodo autenticato, che produce gli effetti dell’art. 1372 cod. civ., ed è omologabile.
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Vale a dire non avremmo alcuna seria differenza.
La “determinazione contrattuale” è allora da non tenere in alcuna considerazione, nel senso che è mero sinonimo di decisione con effetti contrattuali
od è possibile un’interpretazione che ne ricostruisca un significato preciso?
Conosciamo la “Determinazione dell’oggetto” di cui alla rubrica dell’art.
1349 cod. civ., ed anche la “determinazione [che] è fatta dal giudice” (primo
comma art. cit.) con sentenza “determinativa”, appartenente al genus delle
pronunzie costitutive (102).
La prima è essenzialmente frutto dell’autonomia delle parti, la seconda di
previsione di legge.
Ora, o si ritiene che la “determinazione contrattuale” alluda al “vecchio”
arbitramento (103) (senza peraltro che l’art. 808-ter compia alcun richiamo
all’impugnativa ex art. 1349), con conseguente impedimento all’emanazione
di un lodo “ex art. 2932”, come visto nel par. 6 di questo saggio, oppure
significa che la legge non considera i retaggi dell’art. 1349, come va a nostro
avviso ritenuto.
Pertanto, “determinazione” vuol dire tout court “decisione”.
Altrettanto non pertinente, è il mandato come fonte del potere di
decidere con effetti ex art. 1321, restando da valutare se lo stesso possa essere
considerato come mera origine dell’incarico in sé e per sé, senza influenzare
gli effetti del lodo.
L’art. 808 ter infatti si limita a prevedere (comma secondo, n. 2) che gli
arbitri siano nominati — a pena di annullabilità del lodo — con le forme e le
modalità prescelte, a differenza dell’art. 412 cod. proc. civ. (controversie di
lavoro, legge 4 novembre 2010, n. 183) che prevede un mandato a risolvere la
controversia in via arbitrale (con effetti ex artt. 1372 e 2113 ult. comma cod.
civ.), senza richiamare alcuna “determinazione contrattuale”, essendo l’art.
808-ter applicabile per i soli casi di impugnativa. (Vi è poi l’art. 412-quater, cfr.
legge cit., che, pur essendo pertinente ad una procedura di arbitrato libero ad
hoc, non contempla né il mandato né la determinazione) (104).
In conclusione, quest’ultima allude al lodo come decisione i cui effetti
contrattuali non sorgono dal rapporto sostanziale parti/arbitri, bensì promanano direttamente dalla legge, analogamente a quanto avviene per la sentenza
costitutiva del giudice ed il lodo dell’arbitro rituale.
(102) Per alcuni riferimenti LA ROCCA, Codice civile annotato con la dottrina e la
giurisprudenza a cura di G. Perlingieri, Libro sesto, Della tutela dei diritti, Napoli, 2010, 766;
FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino, 2002, 165,
323, 324.
(103) Cfr. BOVE, in La nuova disciplina, cit., 88.
(104) Rilevano un eccesso di “parcellizzazione” del giudizio arbitrale in molteplici riti che
affiancano quello comune BARBIERI - BELLA, Il nuovo diritto dell’arbitrato, Trattato di diritto
commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. quarantacinquesimo,
Bologna, 2007, 478.
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14.
Il lodo ex art. 808-ter quale atto tipico unilaterale distinto dal contratto
accertato.
Se gli effetti del lodo sono espressione di autorità ex lege, si può ancora
pensare — come prima della riforma — che il dictum sia un contratto del
quale sono parti sostanziali i litiganti, in ragione di arbitraggio o di mandato
con rappresentanza?
Si deve rispondere positivamente, innanzitutto poiché l’art. 808 ter prevede una “determinazione contrattuale” e un “lodo contrattuale”?
Ne derivano conseguenze di disciplina?
Certamente i controvertenti sono titolari diretti del rapporto controverso,
secondo il contenuto accertato dalla decisione arbitrale, anche se non vi è
alcuna conclusione del lodo-contratto a loro riconducibile (ex artt. 1326, 1327,
1333 o in via di fatto), visto che esso è emanato dagli arbitri.
Si è avvertito (105), in generale, che l’ordinamento prevede norme dalle
quali si deduce che il contratto non è solo quello in senso stretto, cioè con
corrispondenza tra accordo ed effetti (artt. 1321 e 1325 cod. civ.), sia sotto il
profilo del consenso (cfr. ad es. art. 1333 ult. com.) che dell’efficacia (es.
prezzo imposto), pertanto si potrebbe pensare ad una convenzione ex art. 1321
anche nel nostro caso, che coinvolgesse parti e arbitri.
Riteniamo tuttavia che il lodo debba essere qualificato come atto tipico
unilaterale; unilaterale poiché espressione di una decisione collegiale o singola
(arbitro unico) e non riconducile ad alcuna cooperazione attuata (artt. 1326,
1327) o mancata (art. 1333) di più parti, che comunque sta alla base del
concetto di contratto; tipico poiché previsto dall’art. 808-ter. Gli arbitri
dunque non concludono alcun contratto né tra loro né con le parti.
L’aggettivo “contrattuale” di cui all’articolo citato non è riferito al lodo
in sé e per sé, ma ai suoi effetti, cioè alle modalità con le quali si origina
l’accertamento in senso lato (dichiarativo, costitutivo, “di condanna”).
Non è una singolare spaccatura di capello tra atto ed effetti, così come
non lo è la distinzione, per esempio, tra sentenza ex art. 2932 cod. civ. ed
effetto traslativo della proprietà immobiliare od imposizione del contratto ex
lege (art. 2597 cod. civ.).
15.
La risoluzione per inadempimento del negozio di accertamento e del lodo
irrituale.
In altra sede (106), rilevammo come il negozio di accertamento — in sé e
per sé — non è risolvibile per inadempimento, perché — come “contenitore”
(105) SACCO in SACCO e DE NOVA, Obbligazioni e contratti, Trattato di diritto privato
diretto da P. Rescigno, vol. X, tomo 2, 3ª ed., Torino, 2002, 13 ss.
La risoluzione per inadempimento nel negozio di accertamento, in Recesso e
(106)
risoluzione nei contratti a cura di G. De Nova, Milano, 1994, 915; Il negozio, cit., 67.
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— è neutro (corrispettività o gratuità) ed è raramente configurabile un suo
inadempimento; mentre è il contratto accertato che potrà essere inadempiuto
e sciolto o meno, con conseguente caducazione anche del “contenitore”, che
avviene dunque in via mediata.
Il venir meno di entrambi in ragione della risoluzione non significa che
l’accertamento ed il rapporto dubbio non siano mai esistiti: il risarcimento del
danno, per esempio, va infatti riferito all’inadempimento del contratto, secondo il contenuto convenzionalmente concordato.
Lo scioglimento non può che riguardare sia il contratto accertato che
quello di accertamento, poiché se non interessasse entrambi una delle due
fonti continuerebbe a produrre i suoi effetti.
La giustapposizione (e non sostituzione) esclude un’ipotetica applicazione estensiva dell’art. 1976 cod. civ. che statuisce l’irrisolubilità per inadempimento, salvo patto contrario, della transazione con effetto novativo della
situazione giuridica originaria.
Se l’accertamento ha riguardato una modalità del rapporto, il venir meno
della fonte originaria non può che travolgerlo, mentre se esso è stato pertinente alla esistenza o validità, la risoluzione non può che interessare anche il
negozio accertativo, che altrimenti lascerebbe persistere in modo illogico
l’atto risolto, se accertato come esistente o valido.
Allo stesso modo, il lodo libero-negozio di accertamento era da considerare — prima della riforma — e per l’appunto nella sua qualità di negozio di
accertamento tout court, soggetto a caducazione in ragione della risoluzione
del contratto accertato (107).
La disciplina desumibile era dunque ben diversa dalla parallela ipotesi
nella quale fosse stata una sentenza dichiarativa ad aver statuito l’accertamento dell’esistenza, ove la successiva risoluzione del contratto mai avrebbe
comportato quella della sentenza.
Dopo la riforma, la qualità di atto negoziale unilaterale della decisione
arbitrale, che non integra tout court un contratto, non ne esclude la risolubilità
in ragione dell’art. 1324 cod. civ. e della qualificazione, se sussistente, di
contratto a prestazioni corrispettive del rapporto accertato.
16.
Gli specifici effetti negoziali del lodo irrituale.
L’art. 808 ter non precisa se il lodo avrà effetto obbligatorio o di
ripetizione del comando originario, opzione della quale invece ben dispongono le parti quando concludono un negozio di accertamento.
Certamente, non è preferibile pensare ad un effetto obbligatorio quando
il lodo deve produrre efficacia costitutiva (“ex art. 2932”), mentre la conclu(107) Per una fattispecie nella quale si è affermata la risolubilità per inadempimento del
lodo irrituale, cfr. App. Cagliari 21 aprile 1989, n. 144, in Riv. giur. sarda, 1990, 365.
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sione è opposta se la lite verte sull’esistenza o validità di un contratto e ne si
accerta l’inesistenza o nullità. Qui non si può ripetere il comando originario,
poiché non è mai esistito ed il lodo non potrà che vincolare le parti in senso
obbligatorio.
Al riguardo del dictum che accerta un profilo della situazione pregressa
(es. quantum) o la sua stessa esistenza, osserviamo che l’effetto tipico di cui
all’art. 1321 è quello di regolare (quantum) e costituire (esistenza) rapporti
giuridici, adempimenti che potrebbero certamente avvenire anche dando
origine ad un vincolo obbligatorio; riteniamo tuttavia preferibile optare — per
il quantum — per l’effetto regolativo inteso come ripetitivo dell’identico
comando originario, poiché più aderente al tenore dell’art. 1321, mentre per
l’esistenza consideriamo preferibile l’effetto obbligatorio, salvo diversa volontà delle parti, perché più confacente al mero fine di accertamento. La
ripetizione — con effetto rispetto ai terzi — sarebbe sovrabbondante, ancor
più per la parte che sostenesse l’inesistenza.
Rispetto al lodo di “condanna”, riteniamo poter confermare quanto
rimarcato in punto lite su di una modalità e sull’esistenza e per le stesse
ragioni, precisando che anche una decisione di accertamento potrà costituire
prova scritta ai fini dell’emanazione di un decreto ingiuntivo. Non è pertanto
dato riscontrare in seno ai verdetti arbitrali di condanna e di accertamento la
diversità (titolo esecutivo o meno) esistente per le simmetriche decisioni del
giudice e dell’arbitro rituale.
17.
Il lodo irrituale non è impugnabile per errore di giudizio. Il termine
quinquennale (art. 1442 cod. civ.) è inapplicabile (art. 1324 cod. civ.) alle
impugnative ex art. 808 ter secondo comma.
L’art. 808 ter non prevede un termine di prescrizione della domanda di
annullamento nei casi di cui ai numeri 1-5, il quale pertanto potrebbe essere
quinquennale ex art. 1442 cod. civ., durata che poco si addice all’impugnazione
di una decisione, seppur ad effetti contrattuali, per non dire dell’ulteriore
dilatazione dovuta all’eccezione di annullamento (ultimo comma), alla quale
si somma quella della competenza rimessa al tribunale o al giudice di pace e
non alla corte di appello, come nell’art. 829, con la conseguente instaurazione
di almeno quattro “pronunzie”.
Ora, se si configura il lodo come un atto unilaterale e non un contratto,
l’applicazione dell’art. 1442 deve essere valutata ai sensi dell’art. 1324, il quale
conduce a negarne l’operatività per palese non compatibilità. Dovrà allora
operare il termine di cui all’art. 828 cod. proc. civ. (108).
L’art. 808 ter nulla dispone sull’errore di giudizio.
(108) Al contrario, per l’impugnativa quinquennale, per esempio, PUNZI, Il processo civile,
cit., 286; Disegno sistematico dell’arbitrato, 2ª ed., tomo II, Padova, 2012, 635.
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Al riguardo, è bene premettere che il relativo appello è la regola (priva
di tutela costituzionale, art. 111 Cost.) del giudizio ordinario, ma non dell’arbitrato rituale, ove è ammesso solo per errore di diritto ed a certe condizioni
(art. 829 terzo comma).
Non è parimenti la regola dei vari arbitrati amministrati internazionali,
ove la preferenza netta va a lodi esecutivi ed inappellabili nel merito, in
accoglimento di una precisa esigenza imprenditoriale (109).
Allora l’omesso inserimento dell’impugnazione non è dovuto a mera
dimenticanza. Dal raffronto con l’art. 829, che la ammette solo in parte, si
deduce che non è voluta.
Si ricordi peraltro che — anche ove ammessa quale vizio del consenso —
sarebbe riscontrabile nei soli casi di arbitro unico e di lodo deliberato
all’unanimità, non essendo invece applicabile a quello deciso a maggioranza
ove non esiste un errore-vizio dell’arbitro dissenziente (110).
Va soggiunto che — se si accetta la concezione del lodo qui proposta —
viene a mancare l’art. 1390, quale collegamento necessario con la volontà
dell’arbitro, per configurare il vizio del consenso.
Non è peraltro condivisibile la tesi (111) che legge nel n. 4 dell’art. 808 ter
la possibilità di configurare l’assenza di errore di giudizio come condizione di
validità del lodo.
Non è infatti persuasivo che l’impugnazione, non introdotta con errori
oggettivi riferibili anche ad una deliberazione collegiale resa a maggioranza,
sia formulata indirettamente; tanto più che il n. 4 è in realtà parallelo al n. 7
dell’art. 829 che riguarda regole procedurali.
18.
Quanto rimane del negozio di accertamento in seno al nuovo arbitrato
libero?
Il lodo è un negozio unilaterale, vale a dire una dichiarazione di volontà
con effetti materiali.
Nulla osta ad una manifestazione volitiva che produce efficacia nella sfera
altrui; fenomeno che si verifica — per esempio — nella rappresentanza
volontaria.
La decisione arbitrale presenta una propria causa che è la funzione di
accertamento (se del caso costitutivo). Se la lite è finta il lodo è nullo.
È parimenti nullo per mancanza di causa, se accerta una modalità del
rapporto pregresso, ma questo non esiste.
(109) BERNARDINI, L’arbitrato internazionale, 2ª ed., Milano, 2008, 11.
(110) Ammette l’impugnativa ex codice civile ed oltre i casi di cui all’art. 808 ter, ad
esempio, BIAVATI, Arbitrato commentario diretto da F. Carpi, Bologna, 2ª ed., 2007, 173 il quale
(pg. 175) prospetta l’errore di giudizio quale condizione di validità del lodo, di cui al n. 4
dell’articolo in parola; ID., Il nuovo articolo 808 ter c.p.c. sull’arbitrato irrituale, in Riv. trim dir.
proc. civ., 2007, 1172.
(111) Ad esempio, cfr. nota precedente.
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Non è impugnabile tuttavia per errore vizio del consenso, a differenza di
quanto riteniamo debba avvenire per il negozio dichiarativo concluso direttamente dalle parti.
Se si riuscisse a dimostrare che le considerazioni in punto causa ed effetti
sono fuori luogo se riferite al lodo, poiché questo pone concretamente temi
diversi, allora si dovrebbe concludere che il negozio dichiarativo non c’entra
alcunché con l’arbitrato libero. Altrimenti, lo si può chiamare come si vuole,
ma la problematica riemerge sempre.
Il lodo ex art. 808-ter non tuttavia è un negozio di accertamento, laddove
produce effetti analoghi alla sentenza costitutiva.
Nulla vieta di allargare il genus sino a ricomprendervi anche questo atto,
ma la conclusione è diversa se si rileva che con questo termine si intende
tradizionalmente un negozio atipico, unilaterale o contratto, che ha funzione
meramente accertativa della situazione pregressa e non anche costitutiva degli
obblighi che scaturiscono dalla stessa.
Va tuttavia ben fissato che il lodo costitutivo ha qualcosa in più rispetto
al lodo-negozio di accertamento tout court, ma non ha alcunché in meno,
poiché presenta causa di accertamento e la relativa operazione logico-giuridica di giudizio è giuridicamente rilevante e lo sarebbe ancora di più se si
desse ingresso all’impugnazione per mancanza di causa del dictum afferente,
per esempio, l’esistenza e la validità di un contratto preliminare, che dovrebbe
seguire ad un diffusa e disattenta lettura delle sole massime in tema di negozio
di accertamento (cfr. Par. 4 di codesto saggio) (112).
Sarebbe infatti possibile sostenere la nullità del lodo per mancanza di
causa, poiché l’accertamento dell’esistenza del diritto di credito non rientrerebbe nella capacità del negozio, a meno di non dare prova dell’effettiva
esistenza e validità del profilo che si intendeva accertare.
Non sarebbe infatti pensabile, qualificato negozio di accertamento o
meno, un lodo che non avesse la funzione di accertamento (costitutivo) e, per
l’effetto, la sua assimilabilità alla causa del negozio in parola ed alla sua
disciplina.
Infine, l’aver previsto il lodo irrituale come istituto tipico non consente
ancora la considerazione che il negozio in esame sia tout court nominato,
poiché non è dettata alcuna disciplina complessiva, ma solo e parzialmente
quella afferente il lodo (113).
(112) Analoghe obiezioni si possono opporre alla simmetrica tesi che gli accordi di
reintegrazione della legittima non sarebbero negozi di accertamento, poiché lato sensu costitutivi (così, invece, BULGARELLI, Gli atti “disposiviti” della legittima, Notariato, 5/2000, 492; amplius
e contra L. Dambrosio relazione al convenio organizzato da Convenia, 4-5 febbraio 2014,
Milano, I. I contratti di reintegrazione della legittima. II. Alcuni profili processuali delle azioni di
riduzione e di restituzione ex art. 536 cod. civ.).
(113) Conclude analogamente, sulla tipicità del nuovo lodo, ALPA, Arbitrato e mediazione, cit., 326.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
New York Convention Roadshow, a cura dell’ICCA, a Napoli
Il 3 e 4 marzo 2014, a Napoli, nella sede di Castel Capuano, si è tenuto il
New York Convention Roadshow, un’iniziativa di livello mondiale dell’International Council for Commercial Arbitration (ICCA): in un ciclo di conferenze
di taglio formativo riservate ai magistrati e volte all’approfondimento della
Convenzione di New York sul riconoscimento ed esecuzione dei lodi arbitrali
stranieri e della sua applicazione nei singoli Stati.
L’organizzazione del New York Convention Roadshow di Napoli, il
primo in Italia, è stata possibile grazie alla Camera Arbitrale di Milano
(CAM) e all’Associazione Italiana per l’Arbitrato (AIA), in collaborazione
con la Scuola Superiore della Magistratura e il Ministero della Giustizia.
Il corso al quale hanno partecipato circa 30 magistrati provenienti da
tutta Italia ha avuto inizio nel pomeriggio del 3 marzo con i saluti introduttivi
di Emilia Fargnoli, in rappresentanza del Ministero della Giustizia in qualità
di Direttore Generale del Personale e della Formazione. Sono poi seguiti gli
interventi di benvenuto da parte di Raffaele Sabato, membro del comitato
direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, Stefano Azzali, Segretario
Generale della CAM, Silvia Borelli, Managing Editor all’ICCA, e Maria
Beatrice Deli, Segretario Generale dell’AIA.
I lavori sono iniziati con un’introduzione da parte della moderatrice, la
professoressa Chiara Giovannucci Orlandi, che ha illustrato le modalità di
svolgimento e le finalità del corso.
Il primo relatore, professor Piero Bernardini, ha avviato la discussione
con una panoramica completa sulla Convenzione, partendo dal suo contesto
storico nell’ambito delle convenzioni internazionali sull’arbitrato: il Protocollo
di Ginevra del 1923 sulle clausole arbitrali, la Convenzione di Ginevra del
1927 sulle sentenze arbitrali straniere e la Convenzione europea di Ginevra
sull’arbitrato commerciale internazionale del 1961. La Convenzione di New
York nasce, infatti, dall’esigenza di superare i c.d. accordi di Ginevra e sono
proprio tali caratteri distintivi che hanno fatto sì che ancora oggi essa venga
considerata lo sviluppo più significativo della disciplina sovranazionale dell’arbitrato internazionale.
Il primo giorno di lavori si è concluso con l’intervento del professor
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Charles Jarrosson, che ha iniziato il suo contributo, con oggetto l’analisi degli
articoli I e II della Convenzione (rispettivamente riguardanti il campo di
applicazione della Convenzione stessa e il riconoscimento delle convenzioni di
arbitrato), definendo alcuni dei termini chiave presenti nell’articolo I, quali
“sentenza arbitrale estera”, “riconoscimento” ed “esecuzione” del lodo. Il
Prof. Jarrosson è poi intervenuto sull’art. II della Convenzione, facendo
notare che, per quanto il titolo della Convenzione si riferisca solo a riconoscimento ed esecuzione dei lodi arbitrali, l’articolo in questione tratta invece
del riconoscimento delle convenzioni di arbitrato. Lo ha quindi inquadrato
come una “convenzione all’interno della Convenzione” in tema di compromesso e clausola arbitrale, ed ha evidenziato la presunzione di validità che
sottende la struttura e la finalità dell’articolo. In particolare, si è rilevata
l’armonia tra la precisazione che l’articolo II fa circa la natura contrattuale e
non contrattuale del rapporto giuridico compromesse dalle parti, in linea
quindi con l’articolo 808-bis del c.p.c, così come riformato nel 2006. Ha quindi
illustrato nel dettaglio i tre commi dell’articolo, con particolare enfasi sul
secondo, che ha generato un’interessante discussione riguardo il livello di
estensività dell’interpretazione del requisito della forma scritta.
L’avvocato Teresa Giovannini ha dato inizio, la mattina del 4 marzo, al
secondo giorno del corso. Oggetto del suo intervento erano gli articoli III e IV
della Convenzione (riguardanti riconoscimento ed esecuzione del lodo), a
proposito dei quali l’avvocato Giovannini ha enfatizzato il principio secondo
il quale il riconoscimento e l’esecuzione della sentenza arbitrale straniera non
debbano essere sottoposti a condizioni considerevolmente più onerose rispetto a quelle previste per la sentenza arbitrale nazionale. Nella pratica, ha
poi aggiunto, questo principio si risolve in due limitazioni all’applicazione
della lex fori: da un lato, l’applicazione in maniera non restrittiva delle regole
di procedura nazionali e, dall’altro, la disapplicazione di tali regole in caso
siano troppo onerose. L’utilizzo dell’espressione “considerevolmente più rigorose” nel testo dell’articolo, comunque, rende accettabile che il lodo estero
abbia un trattamento leggermente più oneroso rispetto a quello riservato ai
lodi nazionali.
L’ultimo contributo è stato quello del professor Luca Radicati di Brozolo,
che ha analizzato gli articoli V, VI e VII della Convenzione (riguardo i motivi
di diniego di riconoscimento ed esecuzione e l’annullamento o sospensione del
lodo). Si è avuta una panoramica completa non solo sulla regolare applicazione degli articoli e dei principi in essi contenuti (e.g. lista esaustiva dei
motivi di diniego, cinque ad istanza di parte e due sollevabili d’ufficio, o
l’impossibilità di una revisione del lodo nel merito), ma anche su casistiche che
pongono problemi particolari. Tra queste, ad esempio, l’evenienza in cui, solo
dopo la conclusione dell’arbitrato, in fase di riconoscimento ed esecuzione, ci
si accorga dell’inesistenza dell’accordo arbitrale. O anche la questione dell’incapacità della parte (motivo di diniego previsto all’articolo V.1.a) e del grado
di ampiezza della revisione del giudice nazionale, quando questo motivo
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venga addotto dalla parte resistente a riconoscimento ed esecuzione del lodo,
nel caso in cui la questione sia già stata sollevata e decisa nell’ambito
dell’arbitrato.
La sessione pomeridiana è stata dedicata ad un dialogo informale con e
fra i magistrati partecipanti, nel quale, oltre ai relatori, è intervenuto il
professor Ferruccio Auletta.
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