I ghiacciai e il paesaggio glaciale

Transcript

I ghiacciai e il paesaggio glaciale
I ghiacciai e il paesaggio glaciale
Luca Bonardi
1. Un tentativo di definizione
Un ghiacciaio è una massa di ghiaccio derivante dalla trasformazione della neve. La neve fresca,
appena caduta, ha una densità di circa 0.1 g/cm3. Il suo volume è quindi occupato in larga misura
(90% ca.) da molecole d’aria. Sotto il peso degli strati nevosi che progressivamente si accumulano,
per effetto dell’azione della temperatura e dei conseguenti processi di fusione e rigelo, la
componente gassosa si riduce e il manto nevoso acquisisce densità via via maggiori. Gli accumuli di
neve invernale che resistono alla fusione estiva, giungendo quindi sino all’inverno successivo,
prendono il nome di nevato o firn. Il successivo passaggio, dallo stato di nevato a quello di ghiaccio
vero e proprio, avviene in un numero di anni variabile (nelle Alpi attorno ai quattro-sette anni) in
funzione di numerose variabili, tra cui, principalmente, il regime termico prevalente.
Il ghiaccio, per effetto della forza di gravità, e in virtù della deformazione plastica a cui va soggetto,
tende a traslare dalle quote più elevate (bacino di accumulo o bacino collettore) a quelle inferiori
(bacino di ablazione) dove, per effetto delle temperature più elevate, avviene la sua fusione in
acqua.
Un ghiacciaio può quindi essere definito come una massa di ghiaccio naturale, dotata di movimento,
derivante dalle trasformazioni della neve e permanente alla scala temporale umana.
2. I ghiacciai, la storia del clima e la storia umana
2.1 L’atmosfera e il glacialismo durante il Pleistocene
Durante le fasi di massima espansione, i ghiacciai pleistocenici giunsero a occupare circa il 30%
delle terre emerse rispetto al 10% attuale. Accanto alle calotte Antartica e Groenlandese, le cui
superfici sono oggi di poco inferiori a quelle delle fasi glaciali, le principali coltri occupavano il
Nord America (Calotta Laurentide: 13 milioni di km2) e l’Europa settentrionale (4 milioni di km2).
Contemporaneamente, anche i ghiacciai montani si estendevano su territori immensi. Le principali
catene del pianeta si presentavano come enormi mari di ghiaccio dai quali emergevano solo i lembi
più elevati delle montagne.
L’atmosfera presentava concentrazioni di gas-serra assai più basse delle attuali: il contenuto di
anidride carbonica dell’aria era di circa un terzo inferiore a quello attuale mentre anche il metano
presentava concentrazioni equivalenti al 50% di quelle che conosce l’atmosfera dei nostri giorni.
Decisamente più elevato era invece il contenuto di polveri. Questi due ultimi fattori sono indicatori
di una variazione globale del clima. La scarsa concentrazione di metano può infatti attribuirsi alla
ridotta estensione degli ambienti umidi paludosi (soprattutto ai tropici), dove questo gas viene
generato, mentre la presenza di polveri in alte percentuali è possibile indice di una vegetazione
globalmente rada. Tali elementi, accanto alle risultanze delle ricerche sulla formazione delle dune di
sabbia e sui depositi pollinici, fanno ritenere che le fasi glaciali fossero governate da un clima
secco.
Poiché il gradiente termico verticale aumenta in presenza di atmosfera secca è possibile che tale
fattore, abbassando il limite delle nevi, abbia parzialmente contribuito a innescare, o a mantenere, le
fasi glaciali.
1
2.2 Ipotesi sulle variazioni climatiche e i cicli glaciali
Nella prima metà del XIX secolo, l’elvetico J. de Charpentier prima, e più compiutamente il
naturalista (e glaciologo) svizzero-canadese Louis Agasizz teorizzano l’ipotesi delle ere glaciali,
fasi, cioè, durante le quali estese porzioni della superficie terrestre vennero sottoposte all’intensa
azione di modellamento operata dalle masse glaciali. Ben presto (Adhémar 1842) si fa strada l’idea
di uno stretto legame tra variazioni climatiche e mutamenti nell’intensità stagionale di
irraggiamento solare per cause astronomiche direttamente collegate al variare dell’attrazione
esercitata dalla luna e dagli altri pianeti sull’astro terrestre.
Tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, l’astronomo iugoslavo Milutin Milankovic individua i tre
fattori astronomici ritenuti alla base delle fluttuazioni del clima terrestre.
1) inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (attualmente di 23,5°): il ciclo completo (21,5°-24,5°,
21,5°) avviene in circa 41.000 anni.
Tale fattore ha effetto sul clima determinando la distanza dei poli, e cioè degli emisferi, dal Sole (di
particolare interesse è la distanza del Polo Nord durante la stagione estiva).
2) eccentricità dell’orbita (attualmente 0,017): sviluppa un ciclo completo in 400.000 anni, ma i
massimi (massima differenza tra la distanza Terra-Sole all’afelio e quella al perielio) vengono
raggiunti ogni 100.000 anni, ed è questo il ciclo rilevante a fini climatici. I diversi gradi di
eccentricità dell’orbita determinano l’intensificazione dei caratteri stagionali su un emisfero,
attenuandoli, per contro, nell’emisfero opposto. Nonostante la variazione di intensità termica
(±0,3%) indotta da tale parametro appaia complessivamente poco significativa, il ciclo di 100.000
anni risulta tra i più evidenti nei riscontri forniti dalle diverse fonti paleoclimatiche
3) precessione dell’asse di rotazione (o precessione degli equinozi): descrive un ciclo completo in
circa 23.000 anni. Questo parametro governa l’interazione fra i primi due, determinando se in un
dato emisfero l’estate debba cadere in un punto dell’orbita vicino o lontano dal Sole: se, cioè,
l’intensità stagionale dovuta all’inclinazione dell’asse di rotazione (1) è, o meno, indebolita da
quella dovuta alla distanza dal Sole (2)
Negli anni Cinquanta, le tesi di Milankovic, sino ad allora accolte dai più con scetticismo, trovano
conferma nella cronologia delle glaciazioni proposta dalle ricerche di Cesare Emiliani. Attraverso
l’analisi dei contenuti di due isotopi dell’ossigeno, 16O e 18O nei gusci di foraminiferi (protozoi
marini con guscio calcareo) componenti parti notevoli dei sedimenti marini fu possibile disegnare
una prima curva delle fasi glaciali e interglaciali. Durante gli intervalli freddi, infatti, l’acqua
marina si arricchisce di 18O per effetto dell’immobilizzarsi di elevate concentrazioni dell’altro
isotopo nelle coltri glaciali.
I cicli di espansione e di ritiro delle calotte glaciali, riferite alle variazioni isotopiche, mostrano una
buona correlazione con i cicli astronomici di Milankovic e, in particolare, sembrano trovare
corrispondenza con le variazioni dell’insolazione nell’emisfero boreale (variazioni sino al 20%).
Come si è detto, le variazioni di eccentricità dell’orbita hanno effetti deboli sull’insolazione
stagionale, ma il profilo disegnato da Emiliani sembra mostrare il ruolo fondamentale proprio del
ciclo di 100.000 anni. Negli ultimi 700 millenni, 7 glaciazioni si sono succedute, all’incirca proprio
con tale ritmo: a ogni massimo glaciale, raggiunto con lenta progressione nel corso di qualche
decina di migliaia di anni, ha fatto regolarmente seguito una brusca e intensa fase di deglaciazione.
Già Milankovic, individuando quale fattore discriminante le variazioni nell’emisfero boreale, ne
attribuiva le cause alla localizzazione, in questo settore, della più parte delle terre emerse, su cui i
ghiacciai poterono contare quale indispensabile substrato di espansione.
2
Diverse teorie hanno tentato di fornire una spiegazione all’ultima grande fase di glaciazione (ca.
19.500 - 14.000 anni B.P.), e con essa alle precedenti, proprio a partire dai mutamenti preceduti
nell’emisfero Nord.
Secondo una prima ipotesi, l’espansione glaciale in questo emisfero avrebbe indotto, per effetto
dell’albedo, un abbassamento delle temperature sull’intero pianeta e, con esso, l’avanzata anche dei
ghiacciai australi. Varie ricerche hanno però dimostrato le conseguenze tutto sommato modeste, e
per nulla sufficienti a spiegare una variazione termica globale di quelle dimensioni, dell’albedo
provocato dalle pur vaste masse glaciali boreali. Inoltre, stando a questa ipotesi, dovrebbe essersi
manifestato un significativo gradiente termico Nord-Sud, capace ad esempio di differenziare lo
sviluppo dei ghiacciai montani, laddove però di esso non è stata riscontrata alcuna traccia.
Una seconda teoria collegherebbe l’ampliarsi delle coltri glaciali nell’emisfero nord con il
contemporaneo abbassamento del livello degli oceani e l’emersione di nuovi segmenti continentali.
Su questi ultimi, per quanto si è già detto, si sarebbero espansi, anche in assenza di una variazione
climatica globale, anche i ghiacciai dell’emisfero meridionale, sino a quel punto costretti dalla
limitatezza delle piattaforme continentali glacializzabili. Tale ipotesi, accettabile per le coltri
antartiche, si scontra però con l’avanzata dei ghiacciai montani dell’emisfero Sud che, per la
maggior parte, già in precedenza non giungevano a lambire le coste oceaniche (ghiacciai andini,
neozelandesi, ecc.).
Una terza ipotesi, mettendo in causa il mutamento delle dinamiche oceaniche, sembra fornire più
sostanziali elementi di comprensione.
Le ricerche condotte da C. Lorius e H. Oescheger sui contenuti di anidride carbonica presenti nel
ghiaccio fossile, evidenziano per le fasi glaciali una concentrazione di questo gas di circa due terzi
rispetto a quella dei periodi interglaciali. Secondo W.S. Broecker e G.H. Denton (1989-1990) un
tale mutamento nella composizione atmosferica può spiegarsi solo con qualche drastica variazione
della circolazione oceanica, in considerazione del fatto che i mari immagazzinano un contenuto di
CO2 sessanta volte superiore a quello dell’atmosfera1.
Fondamentali, sotto questo aspetto, risultano le ricerche di E.A. Boyle per il quale la distribuzione
del cadmio negli oceani segue da vicino quella di nitrati e fosfati. Poiché il cadmio può sostituire il
calcio nei gusci dei foraminiferi, la misurazione del primo elemento nelle carote sedimentarie può
far risalire alla distribuzione dei nitrati e dei fosfati durante le fasi glaciali. Boyle riscontra che
durante queste ultime nitrati e fosfati risultavano più uniformemente distribuiti nelle profondità
degli oceani rispetto a quanto accada oggi. La distribuzione e il contenuto di queste sostanze
nutritive dipende dalla permanenza delle acque in superficie ove si svolge l’attività biologica.
Attualmente, le acque profonde dell’Atlantico settentrionale contengono solo il 50% dei fosfati e
dei nitrati presenti nelle profondità dell’Oceano Pacifico e di quello Indiano per effetto della
particolare circolazione che qui ha luogo
2.3 Le correnti oceaniche: il nastro trasportatore
Durante l’inverno, masse d’acqua di elevata salinità scorrono verso il Nord-Atlantico a una
profondità intermedia di circa 800 metri per risalire in superficie in prossimità dell’Islanda. Qui,
masse di aria gelida sottraggono calore alle acque giungendo però ancora mitigate alle coste
settentrionali dell’Europa che, per questo, godono di un clima relativamente favorevole. Il rapido
raffreddamento delle acque (da 10 °C a 2 °C) ne determina, complice essenziale l’elevato contenuto
salino, l’affondamento. Questa in sintesi la genesi delle acque profonde nordatlantiche. La
1
L’anidride carbonica a livello della superficie oceanica, sin dove è cioè presente la radiazione solare, viene trasformata dal
fitoplancton, per effetto della fotosintesi, in tessuto organico. Questa materia, decade poi, con fosfati e nitrati, nelle profondità
oceaniche ove viene riossidata in anidride carbonica. Tanto dalla biocenosi (quantità e qualità delle specie presenti) tanto dal
permanere delle acque in superficie (efficienza della circolazione verticale) dipende il depauperamento della CO2 presente nelle
acque superficiali
3
circolazione verticale che qui ha luogo ha una portata pari a 20 volte quella di tutti i fiumi della
Terra. La causa delle glaciazioni potrebbe risiedere in un blocco di questo nastro trasportatore.
Le variazioni dell’intensità dell’insolazione stagionale influirebbero sulla circolazione atmosferica
e questa, a sua volta, sulla circolazione oceanica attraverso una modificazione della distribuzione
della salinità.
Quest’ultima, in effetti, dipende direttamente dalla circolazione atmosferica che, attraverso i venti,
regola le precipitazioni determinando qui un surplus là una riduzione della salinità.
Il nastro trasportatore atlantico sembra essere l’anello più sensibile del sistema e per questo
potrebbero essere le fluttuazioni dell’insolazione stagionale dell’emisfero Nord a controllare le
variazioni climatiche globali.
2.4 Casi di studio alle diverse scale temporali
Il caso del Dryas recente (11.000-10.000 anni ca. B.P.)
Il caso del Dryas recente (o superiore) (11.000-10.000 anni ca. B.P.), con il ritorno nel giro di un
secolo a condizioni glaciali, sembra poter confermare tale ipotesi. In quella circostanza, le acque di
fusione della grande calotta nordamericana (Laurentide) drenate per millenni dal corso del
Mississippi verso il Golfo del Messico si riversarono, improvvisamente, per effetto di una
diversione, nel San Lorenzo e di qui all’Atlantico settentrionale. Fu proprio il ritiro dei ghiacci
allora in corso ad aprire una porta alle acque verso Est. I sedimenti presenti nel Golfo del Messico
leggono con precisione tale evento registrando un repentino aumento dei rapporti isotopici a favore
del 18O attorno a 11.000 anni fa, in corrispondenza del mancato afflusso delle acque di fusione
glaciale ricche di 16O.
Il fluire di ingenti masse di acqua dolce e fredda nell’Atlantico settentrionale, nei luoghi di
formazione delle acque profonde, ne avrebbero ridotta la salinità e quindi la densità. Il nastro
trasportatore oceanico si sarebbe così arrestato inducendo un mutamento planetario del clima. Di
esso, con l’eccezione di alcune limitate aree degli Stati Uniti, vi è prova su tutto il pianeta, anche
nell’emisfero meridionale.
Dopo mille anni, l’avanzata di una lingua di ghiaccio bloccò nuovamente l’uscita delle acque a Est,
riattivando così il nastro trasportatore oceanico e permettendo all’Europa, e a buona parte delle terre
emerse, di tornare a riscaldarsi.
Dal 9.000 B.P. circa, l’emisfero Nord è andato soggetto a un incremento della radiazione solare
estiva (+5% circa): una fase plurimillenaria nettamente sfavorevole al glacialismo (Optimum
climatico: 9000-5000 B.P.) si era aperta.
Il caso della Piccola Età glaciale (secc. XVI-XIX) nelle Alpi centro-orientali
La Piccola Età Glaciale nel suo complesso non ha lasciato impronte tanto evidenti e indelebili nella
storia delle popolazioni montane della nostra penisola e le labili tracce del suo passaggio devono
spesso essere ricercate sotto uno spesso strato di rimodellamenti dei sistemi socioeconomici delle
comunità e di continui adattamenti alle nuove evenienze.
Fra i non molti che in Italia si sono preoccupati di studiare tale periodo, deve citarsi U. Monterin
che, per primo, con particolare riferimento alle porzioni più elevate delle Alpi occidentali, mise in
luce le differenti conseguenze prodotte dalla variazione sulla realtà ambientale e umana:
dall’abbassamento della fascia climatica delle conifere all’abbandono dei transiti lungo alcuni
valichi alpini, dalla scomparsa di colture allignanti un tempo a quote insospettabili, alla poderosa e
4
talora disastrosa avanzata delle masse glaciali, egli evidenziò gli effetti più durevoli fra quanti
prodotti dal “peggioramento” del clima manifestatosi a partire dalla metà del XVI secolo2.
Molto dopo, facendo uso di una documentazione assai più cospicua, Le Roy Ladurie poté tracciare
un quadro affascinante delle vicende che interessarono in questi secoli diversi segmenti dell’arco
alpino e altre regioni dell’Europa centro-occidentale3. In questo, come nello studio di Monterin, il
riferimento all’area italiana risultò tuttavia limitato al solo territorio valdostano, mentre andò
totalmente escluso ogni approfondimento relativo i restanti settori alpini e prealpini meridionali.
Qualche anno più tardi, toccò al ticinese Marco Pellegrini l’onore, e l’onere, di avventurarsi per
primo nei pressoché vergini archivi climatici delle Alpi centrali, della Valtellina e del Canton
Ticino in particolare4. Per quanto ci è oggi noto, come anche dimostrato dagli esiti di questa
esemplare indagine e delle poche altre condotte in proposito, in quest’area le ripercussioni della
PEG sulle vicende umane risultarono assai meno dirompenti che altrove, tanto da far ingiustamente
dubitare alcuni del manifestarsi stesso della variazione5.
In effetti, nelle vallate francesi del Monte Bianco, nel Vallese in altre aree delle Alpi svizzere e
austriache, l’interesse degli studiosi fu attratto innanzitutto dalla presenza di numerosi documenti e
di un sapere orale testimonianti gli spaventevoli effetti dell’avanzata delle lingue glaciali site,
talvolta ancor’oggi, a vista di insediamenti umani permanenti (i Ghiacciai di Taconnaz, Des
Bossons, la Mer de Glace, e l’Argentière nella Valle di Chamonix; il Ghiacciaio del Rodano nel
vallone di Gletsch; i Ghiacciai di Grindelwald Superiore e Inferiore nell’omonima valle, ecc.).
L’assenza di una medesima attenzione potrà invero apparire paradossale laddove si consideri che,
pur penalizzate da uno sviluppo altitudinale modesto rispetto ai grandi massicci delle Alpi
occidentali, le montagne lombarde e trentine rinserrano alcuni fra i più estesi ghiacciai italiani6. Qui
però, la presenza di estesi sub-pianori - o di un vero e proprio altopiano nel caso del Ghiacciaio
dell’Adamello - a quote abbastanza elevate (attorno ai 3.000 metri) e di condizioni climatiche
sfavorevoli al glacialismo rispetto al versante nord delle Alpi, determina il notevole ampliarsi delle
superfici ghiacciate in quota e, contemporaneamente, un loro limitato sviluppo verso valle. In questi
settori, come testimoniano i notevoli edifici morenici abbandonati al termine della PEG, i ghiacciai
giunsero solo raramente a lambire luoghi di presenza anche solo stagionale di attività umane. Le
stesse vie di transito, a quanto è finora dato sapere, evitavano qui di spingersi a quote e in siti
minacciati dalla presenza di ghiacciai o resi durante la PEG impraticabili dal prolungato persistere
delle nevi o dalla neoformazione di masse glaciali.
Nelle valli lombarde come in quelle trentine, le caratteristiche morfologiche delle masse glaciali,
diretta conseguenza delle peculiarità del rilievo e delle condizioni climatiche, quanto i caratteri
dell’insediamento, hanno in qualche maniera impedito uno stretto contatto tra gli elementi: tra
l’uomo cioè e i ghiacciai. Le variazioni di questi ultimi non dovevano quindi essere oggetto di
preoccupate attenzioni ne, per ciò stesso, si motivava l’esigenza di atti scritti, amministrativi o
religiosi, ad esse inerenti.
Quali che siano i segni lasciati nella storia dell’uomo, ciò che si impone con certezza, se non altro
per la generalizzata presenza degli apparati morenici sei-ottocenteschi, è l’esistenza di una fase, i
cui precisi limiti temporali restano da definirsi, contrassegnata da un clima complessivamente più
umido (eminentemente nelle stagioni di accumulo dei ghiacciai: autunno-inverno-primavera) o più
2
U. MONTERIN, Il clima sulle Alpi ha mutato in epoca storica? in “Ricerche sulle variazioni storiche del clima italiano”, Cnr, fasc.
II, Bologna, 1937. Un interessante caso è anche stato più recentemente descritto da M. PAPPALARDO in Un antica via del sale per
la Val Gesso (Alpi marittime) in rapporto alle oscillazioni frontali del Ghiacciaio della Maledìa, in “Studi Geografici in onore di D.
Ruocco”, a cura di F. Citarella, Napoli, 1994
3
E. LE ROY LADURIE, Histoire du climat depuis l'an mil, Paris, 1967; anche la traduzione italiana riveduta e ampliata dall'autore:
“Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall'anno mille”, 1982, Torino
4
M. PELLEGRINI, Materiali per una storia del clima nelle Alpi lombarde durante gli ultimi cinque secoli, in “Archivio storico
ticinese”, 1973
5
vedi G. BERRUTI, O. VALETTI, Contributo allo studio del clima dell'alta Valcamonica tra i secoli XIV e XIX (Brescia), in
“Natura Bresciana” Annuario del Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia, n. 25, Brescia, 1990
6
Fra tutti il primo e il secondo ghiacciaio italiano per estensione: il Ghiacciaio dell’Adamello, 1813 ha, e il Ghiacciaio dei Forni,
1290 ha, nel 1991.
5
freddo (nella stagione di ablazione) o, ancora, più umido e contemporaneamente più freddo
dell’attuale e dei decenni, o dei secoli, precedenti. Gli esiti delle poche ricerche condotte
sull’argomento sembrano avallare la tesi di un disordinato succedersi, a partire dalla metà circa del
XVI secolo, dei tre tipi climatici sopraddetti, intervallati da fasi, di mutevole durata, più secche e/o
calde a seguito dei quali i ghiacciai fecero registrare regressi localmente anche significativi.
Preso atto che nella Alpi centro-orientali la fluttuazione climatica non ebbe, per azione mediata dei
ghiacciai, importanti conseguenze sulle vicende umane, ciò non di meno possono trascurarsi gli
effetti diretti che i singoli eventi o il loro ripetersi, di segno nel complesso diverso da quello della
fase precedente e successiva, e la variazione di lungo periodo da essi indotta, hanno avuto sulle
vicende socioeconomiche, demografiche, culturali e, in definitiva, storiche delle popolazioni di
montagna.
6
3. I ghiacciai paesaggio della natura
3.1 Le forme del modellamento glaciale
Nel suo movimento, il ghiaccio erode (esarazione) e incide le rocce del substrato. Evidentemente
l’erosione glaciale è direttamente proporzionale alla pressione esercitata sul fondo e sulle pareti
rocciose e dipende quindi dallo spessore della massa glaciale e dalla sua velocità. L’insinuarsi del
ghiaccio nelle fenditure e le azioni di fusione e di rigelo, conseguenti non soltanto a fattori termici,
ma anche di pressione (aumentando la pressione il ghiaccio sgela per poi rigelare con l’allentamento
della pressione), portano alla progressiva sconnessione e frantumazione della roccia. Nel contempo,
lo sfregamento della massa ghiacciata e soprattutto dei detriti in essa presenti produce un azione di
abrasione del substrato roccioso. I materiali così prodotti sono poi rimossi dal ghiacciaio stesso e
trasportati verso valle.
Tali processi producono l’arrotondamento delle superfici sottoposte all’azione del ghiaccio (rocce
montonate) ma anche strie e scanalature, dovute allo sfregamento dei detriti asportati, dirette
secondo la direzione del flusso del ghiaccio.
Ben più estesamente, a testimoniare l’opera di modellamento dei ghiacciai conduce la presenza dei
circhi glaciali (la cui genesi secondo le più recenti teorie sarebbe da attribuire a più fattori), sorta di
depressioni subcircolari contornate da ripide pareti rocciose e parzialmente chiuse a valle da una
soglia; delle valli con sezione a U, per rimodellamento ed erosione sui fianchi e sul fondo di solchi
vallivi preesistenti; delle valli sospese, prodotte dall'incontro di due lingue glaciali di diverso
sviluppo; dei fiordi, “null’altro” che valli glaciali invase dal mare; delle piane di inlandsis.
3.2 Le forme di deposito
I materiali detritici trasportati dal ghiacciaio e lasciati sul posto dopo la fusione del ghiaccio, sono
detti morene. Quando si trovano alla base del ghiaccio stesso (morene di fondo) hanno un effetto
livellatore poiché colmano le zone di depressione. Sulla superficie del ghiacciaio possono essere
presenti materiali morenici in forma più o meno estesa, soprattutto lungo i settori frontali degli
apparati. In alcuni casi, tali materiali ricoprono porzioni talmente ampie del ghiacciaio da dare vita
a veri e propri “ghiacciai neri”. Alla confluenza di due colate, con origine in corrispondenza di
emersioni del substrato roccioso, possono rinvenirsi le cosiddette morene mediane. Queste
prendono la forma di strisce di materiale che correndo lungo la superficie glaciale palesano la
presenza di flussi distinti di ghiaccio nel corpo dello stesso apparato.
Fig. 1 – Morene mediane in prossimità della fronte del Ghiacciaio dei Forni
7
Le costruzioni prodotte dai materiali trasportati dal ghiacciaio vanno a formare le morene laterali e
quelle frontali. Queste si rendono maggiormente visibili quando il ghiacciaio vive una fase di ritiro.
Risalenti alle grandi glaciazioni pleistoceniche sono quelle che costituiscono gli anfiteatri morenici
presenti a valle dei maggiori laghi prealpini.
Fig. 2 – Il ben disegnato apparato morenico del Ghiacciaio di Castelli Est, frutto della breve
avanzata degli anni ’70 del XX secolo.
3.3 La morfologia glaciale
In presenza di irregolarità nel substrato roccioso, che inducono variazioni nella velocità di flusso,
nel corpo del ghiacciaio si producono “lacerazioni” dette crepacci (fig. 1). A seconda della loro
direzione e ubicazione i crepacci possono essere trasversali o longitudinali e marginali o terminali.
Dove le irregolarità assumono consistenza più profonda, in presenza di significativi dislivelli del
substrato, questi strappi, in una sorta di intreccio, danno vita ai seracchi. Alla morfogenesi delle
aree seraccate, contribuisce la diversa esposizione, e quindi la differente intensità di ablazione a cui
le varie superfici sono soggette.
Fig. 3 – Un’area fortemente crepacciata nella porzione mediana di un ghiacciaio vallivo
8
Fig. 4 – Seracchi in corrispondenza di una forte e improvvisa variazione di quota del substrato
roccioso
Presente nella maggior parte dei ghiacciai, anche in quelli di più piccole dimensioni, è la cosiddetta
“crepaccia terminale”, frutto dello stiramento del ghiaccio nelle zone, a pendenza accentuata, di
contatto con le pareti rocciose sovrastanti.
Fig. 5 – Crepaccia terminale. Questo tipo di fenditure costituiscono spesso un problema – e un
pericolo! – per gli alpinisti impegnati in ascensione.
Tra le forme più caratteristiche rinvenibili sui ghiacciai vi sono le cosiddette “tavole del ghiacciaio”
o “funghi di ghiaccio”), frutto della cosiddetta ablazione differenziale. La massa rocciosa presente
sulla superficie del ghiacciaio ne permette una migliore conservazione limitatamente alla zona
immediatamente sottostante.
Altrettanto caratteristica è la “bocca” che talvolta si sviluppa alla fronte dei ghiacciai, e in
particolare di quelli di maggiori dimensioni dotati di un forte spessore frontale. Dalla “bocca”
fuoriescono le acque di fusione che qui vi convergono in provenienza dalla superficie del ghiacciaio
(acque epiglaciali), dal suo interno (acque endoglaciali) e dalle pareti di fondo a contatto con il
substrato (acque subglaciali).
9
Fig. 6 – Un fungo di ghiaccio sul Ghiacciaio dei Forni
Fig. 7 – La grande – ma qui anche assai accentuata - “bocca” della Mer de Glace nel 1816.
10
3.4 Forme del glacialismo della provincia di Sondrio
3.4.1 Il glacialismo nella montagna orobica
Il glacialismo di questo settore è strettamente connesso alle caratteristiche pluviometriche dell’area.
Qui le precipitazioni risultano infatti particolarmente abbondanti (le più abbondanti della regione)
per effetto dei fenomeni di condensazione delle masse d’aria provenienti dalla pianura.
Altro fattore significativo è la peculiare morfologia del rilievo: aspro e capace di offrire riparo (coni
d’ombra) ai piccoli apparati che si annidano lungo le testate delle valli e favorevole allo sviluppo di
importanti fenomeni valanghivi. Negli anni di più consistente accumulo invernale, e anche a fronte
di estati torride, ghiacciai e glacionevati orobici sviluppano dinamiche positive talora in contrasto
con le più generali tendenze regionali.
Fig. 8 – I Ghiacciai di Pioda superiore e di Pioda inferiore: due piccoli ghiacciai di falda che ben
esemplificano il ruolo favorevole svolto dalla morfologia nella determinazione del glacialismo
orobico. (Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
11
3.4.2 Il glacialismo in Valle Spluga
Pur inseriti in un particolare contesto meteo-climatico (con quelli livignaschi sono questi gli
apparati lombardi che maggiormente godono degli apporti nevosi del “tempo da nord”), i ghiacciai
più occidentali della Lombardia mostrano dinamiche di accentuato ritiro, tra le più gravi dell’intero
arco alpino. Un contributo importante all’esistenza dei ghiacciai nel settore, in particolare di quelli
di minori dimensioni, è fornito dall’attività valanghiva. Gli apparati più importanti (Ponciagna,
Pizzo Ferrè, Cima di Lago Ovest ecc.) godono invece prevalentemente di contributi nevosi di
carattere diretto o misto.
Fig. 9 – Il Ghiacciaio di Pizzo Ferré, il più esteso del settore, ha perso negli ultimi anni buona parte
della lingua che permetteva di classificarlo come ghiacciaio di tipo vallivo. La contrazione frontale,
dalla Piccola Età Glaciale a oggi, è per questo apparato di ordine chilometrico. L’emersione di ampi
segmenti rocciosi (nella foto al centro) testimonia anche della notevole perdita di spessore subita da
questo apparato, come del resto da ogni altro della Valle di San Giacomo.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
12
3.4.3 Il glacialismo nel Gruppo Codera-Masino
I piccoli e nascosti ghiacciai della Val Codera si annidano, protetti da un rilievo assai impervio, alla
base delle pareti rocciose che delimitano dalla valle. Non diversamente, quelli della Val Masino
trovano posto nei numerosi circhi posti alla base di montagne assai note come il Pizzo Cengalo, la
Cima di Castello, il Pizzo Badile. Con poche eccezioni, tali caratteristiche definiscono un
glacialismo di settore estesamente tributario dei fenomeni valanghivi. Al contrario dei ghiacciai
orobici, tuttavia, i favorevoli effetti della morfologia sono qui in larga misura compensati (in
negativo) da una prevalente esposizione meridionale sfavorevole alla conservazione degli accumuli
nevosi.
Fig. 10 – Il Ghiacciaio di Rasica Est, stretto tra il Pizzo Torrone e la Punta Rasica, costituisce un
esempio significativo del glacialismo tipico di questo settore montuoso. L’apparato è oggetto di
studi specifici che trovano ragione nella particolarità dei fenomeni dinamici che lo interessano. La
morfologia del substrato e la sua composizione (masse di firn poco coese) determinano, da alcuni
anni a questa parte, lo scivolamento a valle di sue estese porzioni, con conseguenti, significative
perdite di massa. (Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
13
3.4.4 Il glacialismo nel Gruppo del Disgrazia-Mallero
Il Gruppo del Disgrazia rinserra ghiacciai delle più diverse tipologie e dimensioni, a prevalente
alimentazione mista (diretta + valanghe). Ai grandi apparati di Preda Rossa, della Ventina e del
Disgrazia, rispettivamente di oltre 100, 200 e 300 ettari di superficie, si affiancano quelli di medie
(Sissone, Canalone della Vergine, Cassandra Est, Vazzeda) e di piccole o piccolissime dimensioni.
Per tutti, nell’ultimo ventennio, all’accentuato ritiro frontale si è accompagnata una significativa
perdita di spessore. La bellissima piana della Ventina ospita, su spazi in larga misura occupati dal
ghiacciaio ancora durante il XIX secolo, il “Sentiero Glaciologico Vittorio Sella”, prima
realizzazione di questo tipo nel nostro paese (1992).
Fig. 11 – Il Ghiacciaio del Disgrazia, il più esteso del settore Disgrazia-Mallero, occupa interamente
il pendio sottostante la cresta Monte Pioda-Monte Disgrazia-Pizzo Ventina. La forma piuttosto rara
(circo-pendio) e la fronte estesa su più di due chilometri, conferiscono a questo apparato
caratteristiche estetiche piuttosto rare nel panorama del glacialismo valtellinese. Dinamiche
collegate al ritiro del ghiacciaio, furono alla base della disastrosa alluvione che colpì gli
insediamenti sottostanti il ghiacciaio (Baite della Forbicina e Rifugio Nucci) nel settembre del 1950.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
14
3.4.5 Il glacialismo nel Gruppo del Bernina
Caratteristica dell’area è la presenza di pochi ma importanti apparati glaciali, capaci di fare di
questo settore uno tra i più glacializzati dell’intero arco alpino lombardo. Esso rinserra infatti alcuni
tra i più importanti ghiacciai italiani: quelli di Scercen Superiore e di Scerscen Inferiore, di Fellaria
Orientale e di Fellaria Occidentale, tutti con superficie vicina ai 500 ettari, ma in fase di forte
contrazione areale e volumetrica. I Ghiacciai di Fellaria Orientale e Occidentale, uniti nelle loro
porzioni frontali sino agli anni ’30, durante la Piccola Età Glaciale spingevano la loro lingua sino
all’area attualmente occupata dal bacino artificiale di Campo Gera. Con i suoi campi superiori
saldati a quelli del Ghiacciaio del Palù (CH), il Ghiacciaio di Fellaria Orientale definisce un insieme
glacializzato di imponenti dimensioni.
Fig. 12 – Il Ghiacciaio di Scerscen Inferiore presenta i segni di una prolungata e acuta fase di
contrazione capace di renderlo oggi irriconoscibile rispetto alle caratteristiche che lo definivano
sino ad alcuni decenni fa. Sino agli anni ’40, infatti, l’apparato saldava la propria lingua con quella,
altrettanto potente, dell’omonimo ghiacciaio Superiore. Il forte ritiro frontale dell’ultimo ventennio
è la logica conseguenza dello smagrimento dell’apparato nelle sue porzioni superiori dove
pressoché ogni anno si registrano accumuli residui di scarsissima entità.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
15
3.4.6 Il glacialismo nel Gruppo dello Scalino-Painale
I pochi, piccoli apparati presenti in questo settore sono, se così si può dire, compensati dalla
presenza del notevole Ghiacciaio di Pizzo Scalino, un ghiacciaio montano di rara forma.
Le caratteristiche orografiche favoriscono qui la presenza di ghiacciai ad alimentazione mista
(diretta + valanghe). Come altrove, anche qui prevalgono dinamiche improntate a un significativo
decremento di massa dei ghiacciai.
Fig. 13 – Il Ghiacciaio dello Scalino occupa l’altopiano che si apre alla base della cresta Pizzo di
Canciano-Pizzo Scalino. Tali caratteristiche gli valgono l’appartenenza alla poco diffusa – nelle
Alpi - forma glaciale di “pianalto”, tipica di ben altre latitudini.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
16
3.4.7 Il glacialismo nel Gruppo Dosdè-Piazzi
Il glacialismo di questo settore, in considerazione della sua contenuta quota media, riserva
numerose sorprese, con la presenza di ghiacciai di notevoli dimensioni e di elevato significato
estetico. Su tutti spiccano i ghiacciai di Cardonnè e di Dosdè Est, con superfici vicino ai 100 ettari.
Con l’eccezione di alcuni piccoli apparati, l’alimentazione prevalente dei ghiacciai del gruppo è
quella diretta o mista. Anche qui i ghiacciai registrano consistenti perdite volumetriche e lineari.
Fig. 14 – Il ghiacciaio di Dosdé Est, il maggiore tra gli apparati di questo settore montuoso,
sviluppava, sino a pochi anni fa, una caratteristica lingua trilobata. Un notevole contributo al suo
smagrimento è avvenuto ad opera del noto evento alluvionale del 1987.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
17
3.4.8 Il glacialismo livignasco
In accordo con le tendenze che si osservano lungo l’intero arco alpino, anche il patrimonio glaciale
della Valle di Livigno è in fase di rapido depauperamento. Accanto alla contrazione lineare e alla
riduzione di spessore dei maggiori apparati (Ghiacciaio delle Mine, di Corna di Capra di Dentro, di
Val Nera est, di Val Nera ovest e di Campo nord), si è qui osservata nel XX secolo la scomparsa di
numerosi piccoli individui (Vago nord, glacionevati di Monte Corno, i piccoli apparati di Val
Federia e Val Campaccio, ecc.) e lo smembramento di altri più notevoli (Ghiacciaio di Campo e
delle Mine).
Fig. 15 – Il Ghiacciaio delle Mine, frutto dello smembramento di un più ampio ghiacciaio che
occupava l’area compresa tra il Colle delle Mine e la Corna di Capra, costituisce un caratteristico
esempio di ghiacciaio montano (forma “vallone”). Nell’area sottostante la fronte si sviluppa un
piccolo lago che raccoglie i contributi di fusione dell’apparato, oltre a quelli delle falde di ghiaccio
sepolto da detrito presenti al suo contatto.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
18
3.4.9 Il glacialismo dell’Ortles-Cevedale
vedi approfondimento paragrafi 4, 4.1 e 4.2
Fig. 16 – Prima del riconoscimento del carattere unitario del Ghiacciaio dell’Adamello (Bonardi et
alii, 1994)7 il Ghiacciaio dei Forni era considerato il più grande apparato glaciale d’Italia. Oggi esso
conserva la qualifica di più esteso ghiacciaio vallivo. La porzione frontale, tuttavia, come del resto i
settori mediano e superiore, è oggetto di una forte contrazione che tende rapidamente a mutarne i
caratteri morfologici.
(Foto: archivio Servizio Glaciologico Lombardo)
7
L. BONARDI, A. GALLUCCIO, C. LUGARESI, P. BATTAGLIA, G. CATASTA, E. VIOLA, Adamello il più grande. Un
ambiente glaciale unico, non solo per dimensioni, “Neve e Valanghe” - Rivista dell’Aineva, 26 (1995), pp. 34-47
19
4. Il glacialismo attuale in provincia di Sondrio
Una complessa serie di fattori geomorfologici e climatici correlati è alla base del sistema di
localizzazione dei ghiacci a qualsiasi scala, locale e globale. Tali elementi, qui non indagabili ma
comunque per buona parte riferibili a dati di ordine altimetrico, geologico, di disposizione ed
esposizione dei massicci e delle catene montuose all’interno del più vasto quadro alpino,
determinano la dislocazione delle masse ghiacciate anche all’interno della provincia di Sondrio
La distribuzione del glacialismo lombardo attuale pone in rilievo il ruolo svolto dai territori
della provincia di Sondrio (tab. 1). L’Alta Valtellina, in particolare, grazie soprattutto all’estesa
glacializzazione dei territori del Gruppo Ortles-Cevedale, incide per quasi il 38% sulla consistenza
delle superfici glaciali regionali (tab. 2): in parte significativa tale rilevanza è dovuta alla notevole
ampiezza del Ghiacciaio dei Forni che, con i suoi quasi 1200 ettari, si pone al secondo posto per
estensione fra i ghiacciai italiani.
province
glacializzate
Sondrio
Brescia
Bergamo
n. apparati superf. sup. tot. volume
volume tot.
totale
in acqua
ha
m3
%
241
52
14
9.206
2.661,5
63
77%
22,5%
0,5%
3.216.760.710
1.835.262.985
4.527.780
vol. tot.
m3
%
2.927.252.260
1.670.089.313
4.120.280
63,6
36,3
0,1
Tab. 1 - il glacialismo nelle province lombarde (su dati SGL, 1992).
comunità
montane
Valchiavenna
Morbegno
Valtellina di Sondrio
Tirano
Alta Valtellina
Valcamonica
Val Seriana Superiore
Brembo
Totali
n. apparati superf. sup. tot. volume
volume tot.
totale
in acqua
3
ha
%
m
24
33
55
39
90
52
13
1
307
435
330
3.600,5
315
4.525,5
2.663
61,5
1,5
11.932
3,65
2,77
30,18
2,64
37,93
22,32
0,52
0,01
100
67.094.360
65.004.175
1.435.487.395
40.536.490
1.608.638.290
1.835.307.040
4.483.725
44.055
5.056.595.530
m3
61.055.870
59.153.802
1.306.293.531
36.888.208
1.463.860.849
1.670.129.403
4.080.190
40.090
4.601.501.943
vol. tot.
%
1,33
1,29
28,39
0,80
31,81
36,30
0,09
0,00
100
Tab. 2 - il glacialismo nelle Comunità Montane della provincia di Sondrio e nelle altre comunità montane regionali (su
dati SGL, 1992).
Alla scala locale, rilevante appare inoltre il significato in taluni casi assunto dai fenomeni glaciali
in rapporto all’estensione delle superfici comunali. In particolar modo, i territori di Valfurva e di
Bormio, risultano interessati dal fenomeno rispettivamente per un notevole 16% (corrispondente al
valore, record per la Lombardia, di 3448 ha – 1992 - di ghiaccio) e per l’8%.
4.1. Un approfondimento: il glacialismo attuale nel versante lombardo del Parco Nazionale dello
Stelvio e le sue variazioni recenti.
Nonostante la tendenza climatica assai negativa per il glacialismo alpino che si registra a partire
dalla seconda metà dell’Ottocento, il patrimonio glaciale presente nel settore lombardo del Parco
20
dello Stelvio risulta ancor oggi rilevante. Al 2001, nel settore erano presenti 66 apparati glaciali
(oltre ad altri 12 dichiarati estinti) di piccole e grandi dimensioni, per una superficie glacializzata
complessiva di 3600 ettari (tab. 3). Il volume totale di questa massa risulta di 1.383.391.707 di
metri cubi di ghiaccio, corrispondenti a 1.258.886.456. Tali ordini di grandezza possono forse
essere meglio compresi considerando che tale superficie è circa doppia rispetto a quella di un
bacino prealpino come il Lago d’Orta mentre la quantità d’acqua relativa risulta pari a quella
presente nello stesso lago.
Tale pur consistente patrimonio, ha subito una forte contrazione nel corso degli ultimi 150 anni,
con l’esaurirsi della secolare fase climatica positiva nota come Piccola Età Glaciale (acme nel
periodo 1550-1860 ca.). Rispetto alle posizioni di massima avanzata a più riprese raggiunte durante
questo periodo, la perdita per il glacialismo del settore si aggira su valori superiori al 40%; ciò
equivale alla scomparsa di una superficie glacializzata di dimensioni vicine a quella complessiva
oggi presente. Salvo brevi fasi positive, la principale delle quali verificatasi tra la metà degli Anni
Sessanta e la metà degli Anni Ottanta, il periodo in questione ha visto, oltre che la citata contrazione
areale e la concomitante, ovvia, perdita di massa, la progressiva risalita delle quote minime dei
ghiacciai. In vario modo questa congiuntura ha prodotto significativi mutamenti ambientali del
paesaggio naturale.
numero dei
ghiacciai
66
media
delle quote max
(m s.l.m.)
3221
media
delle quote min.
(m s.l.m.)
2897
superficie
glacializzata
ha
3600
volume totale
m³
1.383.391.707
volume totale in
acqua
m³
1.258.886.456
Tab. 3: principali dati relativi all’insieme delle masse glaciali presenti nel 2001 nel settore lombardo del Parco
Nazionale dello Stelvio (SGL 2003).
4.1.1 L’andamento del glacialismo nel quarantennio 1961-2001
Per quanto concerne il periodo 1961-2001 è possibile stimare una contrazione dell’8% delle
superfici glacializzate e dell’11% del volume complessivo di ghiaccio. Quest’ultima variazione
risulterebbe corrispondente a una perdita di oltre 150 milioni di metri cubi d’acqua.
L’inversione di tendenza osservata a partire dagli Anni Ottanta ha rapidamente annullato, per i
ghiacciai dello Stelvio come per la più parte dei ghiacciai alpini, i vantaggi di massa accumulati nel
corso della crescita dei 15-20 anni precedenti.
Il decremento misurato nel periodo 1981-1991 – riduzione areale del 7% e riduzione
volumetrica del 9% pari a oltre 130 milioni di m³ d’acqua – può più propriamente ascriversi alla
sola seconda fase del decennio, durante la quale, anzi, la perdita ha anche “bruciato” gli accumuli di
massa relativi la prima parte del decennio. Fra tutti, merita menzione l’andamento eccezionalmente
negativo dell’estate 1987, stagione durante la quale i noti eventi alluvionali conseguirono anche
sulle masse glaciali esiti “drammatici”.
La tendenza dunque apertasi attorno alla metà degli Anni Ottanta è proseguita con sostenuta
intensità nel corso degli Anni Novanta, solo intervallata da annate non drasticamente negative (es.
1994).
Tale congiuntura (1981-2001) ha provocato la perdita di 590 ettari di superficie glacializzata (-14
%), corrispondenti a oltre 270 milioni di metri cubi di ghiaccio (-16 %), pari, questi ultimi, a 246
milioni di metri cubi d’acqua (circa la metà del Lago Trasimeno!). Nello stesso intervallo, la quota
minima delle fronti è risalita di ben 68 m, portandosi dai 2830 metri di inizio periodo ai 2898 m
finali.
21
Tali dati assumono maggior peso laddove si consideri che essi possono per lo più ascriversi alle
variazioni intervenute su un limitato numero di apparati glaciali, quelli di contenuto, areale e
volumetrico, ma per ciò stesso anche economico, maggiormente significativo.
Sarà a tal fine sufficiente notare come quasi l’88% del decremento volumetrico registrato tra il
1981 e il 2001 faccia riferimento a un campione di soli 7 apparati. Si tratta, per l’appunto, di quelli
costituenti la quota più significativa di riserva idrica (91,5 %) e dotati di maggiore capacità di
attrazione turistica e scientifica. Si osservi che variazioni in valori assoluti assai significativi
possono verificarsi anche nel corso di una sola stagione. Una ricerca con tecnica GPS sulle
variazioni stagionali del volume della Vedretta Piana ha rivelato che nel solo anno idrologico 19992000 la perdita è stata superiore ai 900.000 m³ di equivalente in acqua (Diolaiuti G. et al., 2001).
5. I ghiacciai per l’uomo (valenze socio-economiche)
5.1 – I paesaggi del turismo glaciale
In diverse aree delle Alpi, le masse glaciali risultano uno dei principali fattori di attrazione turistica.
Ciò accade soprattutto nelle Alpi settentrionali o nel Massiccio del Bianco (in particolare sul lato
francese), dove i ghiacciai assumono con maggiore frequenza ragguardevoli dimensioni e caratteri
morfologici (ghiacciai vallivi) di più importante contenuto paesaggistico. In queste zone, spesso,
l’avvicinamento alle grandi colate è reso agevole dalla quota talora modesta delle stesse e dalla
presenza di comode vie di accesso.
Nel versante meridionale delle Alpi, tale ruolo risulta, per ragioni di vario ordine, decisamente
inferiore ma, anche qui, il particolare fascino esercitato dai ghiacciai non impedisce ad alcuni grandi
apparati, ad esempio quello dei Forni, o a loro aree prospicienti di godere di una frequentazione
notevole. Certo, diversa era la capacità attrattiva quando i ghiacciai raggiungevano dimensioni ben
più ragguardevoli. Non casuale fu la fama internazionale conquistata dall’Albergo dei Forni, eretto
nei primi anni del Novecento a quasi 2200 m di quota, come approdo per i turisti che venivano ad
ammirare la maestosa colata dell’omonimo ghiacciaio. Nè casuale fu, più in generale, l’interesse
riscosso dai ghiacciai più accessibili del Massiccio dell’Ortles-Cevedale a partire dalla seconda
metà del XIX secolo.
Oggi risulta più importante il ruolo attrattivo, non meno concreto, che si manifesta secondo le
modalità dell’alpinismo, dello scialpinismo e dell’escursionismo d’alta quota. Per i cultori di tali
discipline, che costituiscono una vasta schiera, l’idea di montagna appare indissolubilmente legata
alla presenza dei ghiacciai. In questa direzione possono essere rinvenuti alcuni dei significati che
tali ambienti ricoprono nella montagna valtellinese.
Come un tempo, buona parte dei principali e più interessanti itinerari alpinistici (e scialpinistici) della provincia di Sondrio si snodano, lungamente, su superfici ghiacciate: quelle dei
Ghiacciai dei Forni, del Dosegù, de la Mare, del Cevedale, ecc. La localizzazione di molti rifugi
nelle valli della provincia è, da sola, indice evidente del gradimento che riscuote il paesaggio dei
ghiacciai. In generale, è evidente come proprio mediante un’iconografia centrata sui ghiacciai, o
comunque su montagne estesamente interessate dal fenomeno glaciale, venga di frequente veicolata
l’immagine del territorio valtellinese.
5.1.1 - Turismo ed educazione all’ambiente
In connessione con i contenuti paesaggistici e con il valore intrinseco derivante da una condizione
di elevata naturalità, possono essere lette anche le valenze educativo-formative proposte dalle masse
glaciali e, in particolare, da quelle di maggiori dimensioni. Del tutto evidente risulta il loro carico di
significati naturalistico-ambientali e storici.
22
Un’importante funzione di valorizzazione di questi significati può essere svolta da tutte le
esperienze destinate a supportare i processi di formazione e auto-formazione di quanti, giovani e
meno giovani, (turisti, escursionisti e alpinisti), vengono a contatto con l’ambiente glaciale. In
questo senso, è innanzitutto utile ricordare che il territorio della provincia di Sondrio ospita tre
specifiche realizzazioni destinate a tale scopo: il “Sentiero Glaciologico del Centenario” al
Ghiacciaio dei Forni in Valfurva, il “Sentiero Glaciologico Luigi Marson” ai ghiacciai di Fellaria e,
prima realizzazione di questo tipo in Italia, il “Sentiero Glaciologico Vittorio Sella” al Ghiacciaio
della Ventina.
Si tratta di percorsi tematici analoghi ad altri, più sperimentati (sentieri geologici, botanici,
naturalistici ecc.), finalizzati alla diffusione del sapere naturalistico. Presenti in ambienti a elevato
contenuto paesaggistico, tali sentieri risultano corredati da appositi cartelli indicatori delle posizioni
raggiunte nelle diverse fasi storiche dalle masse glaciali ed esplicativi delle varie evidenze
morfoglaciali. Questi sentieri si rivolgono a un pubblico ampio richiedendo però la conoscenza
delle precauzioni da osservarsi nell’attività escursionistica in ambiente alpino e, in taluni casi, delle
tecniche e dei materiali di progressione su ghiacciaio. In generale, tali formule, non al riparo dai
problemi derivanti da possibili elevati tassi di frequentazione, rispondono all’esigenza di una
fruizione turistica “leggera”, in grado cioè di conciliare la salvaguardia di ambienti di eccezionale
valore con la pressante domanda di fruizione e di valorizzazione di tali risorse e con la crescente
richiesta di contenuti conoscitivi proveniente dai frequentatori dello spazio alpino.
Quanto espresso dai sentieri glaciologici, come in modo analogo dai materiali divulgativi
proponenti itinerari di visita di contenuto scientifico-culturale, supporta quindi processi educativi
fondamentali anche in relazione alle necessità di un approccio meditato e corretto alla montagna
alpina. Tutti i sentieri presenti nel territorio provinciale risultano “corredati” da apposite
pubblicazioni, più o meno sintetiche, che introducono e accompagnano l’escursionista nella
comprensione dell’ambiente glaciale.
Accanto a tali significati, non si deve dimenticare la funzione economica che tali iniziative
possono svolgere, in particolare se affiancate da un adeguato sistema informativo. In particolare,
laddove tali pratiche fossero, come altrove, rivolte a scolaresche e a gruppi organizzati, si potrebbe
ottenerne una frequentazione in mesi di relativo minor afflusso (maggio-giugno) e in periodi
infrasettimanali, consentendo così un certo allungamento della stagione per gli operatori turistici
locali e più elevati tassi di occupazione delle strutture ricettive.
Pur rispondendo all’esigenza di più equilibrati modelli di tutela ecologica e di sviluppo
economico e culturale, e garantendo, allo stesso tempo, finalità ricreative ed educative al territorio
montano, questo tipo di valorizzazione deve saper prevedere e controllare gli effetti prodotti dalla
sua messa in essere, in relazione alla infrastrutturazione necessaria e ai prevedibili esiti di
incremento del carico antropico.
5.2 – Ghiacciai e ricerca scientifica
In virtù delle loro caratteristiche, morfologiche, tipologiche e localizzative, i ghiacciai presenti nella
provincia di Sondrio costituiscono un vero e proprio laboratorio scientifico. Non solo la ricerca
glaciologica in senso stretto, ma pure quella climatologica, idrologica, nivologica e geomorfologica
vi vengono svolte, in alcuni casi in maniera sistematica e continuativa, con esiti scientifici di
notevole rilevanza nazionale e internazionale.
Fra gli esempi più noti di indagine glaciologica svolta in questi territori vi è quello della
Sforzellina che gode di una delle più lunghe serie di bilancio di massa annuale dell’intero arco
alpino italiano (dal 1986) e che restituiscono quindi alcuni tra i più interessanti risultati scientifici
sulle variazioni volumetriche dei ghiacciai.
Tecniche e meteodologie di indagine anche innovative hanno visto la luce in questo settore delle
Alpi anche in tempi recenti. Tra i più recenti, ricordiamo comunque gli studi sulla variazione della
linea di equilibrio dei ghiacciai dalla Piccola Età Glaciale a oggi (PELFINI, 1994), quelli su alcune
23
modalità evolutive dei crolli glaciali (COLA E GALLUCCIO, 2000), quelli sui rock glaciers
(SMIRAGLIA, 1985 e segg.), quelli sulla dinamica delle pareti di ghiaccio (COLA ET ALII, 1998),
quelli sull’evoluzione del manto nevoso in ambito glaciale (SERVIZIO GLACIOLOGICO LOMBARDO E
CENTRO NIVOMETEOR. REG. DI BORMIO, dal 1997 a oggi) e quelli sull’impatto antropico derivante
dalla frequentazione turistica dei ghiacciai (DIOLAIUTI ET ALII, 2001)
5.3 – I ghiacciai della provincia di Sondrio: un’enorme riserva idrica
In forma di riserva idrica, la risorsa glaciale riveste una notevolissima importanza, innanzitutto sotto
l’aspetto strettamente idrologico.
Si tratta infatti di una risorsa, in termini quantitativi ma anche qualitativi (acqua dolce con livelli di
inquinamento molto bassi), di enorme rilievo.
Per comprendere appieno tale significato è necessario fare riferimento al concetto fondamentale
della dinamica glaciale, quello del sistema accumulo/ablazione. Durante il lungo inverno della
media-alta quota - indicativamente compreso tra i mesi di settembre/ottobre e quelli di
maggio/giugno, ma con notevoli variazioni a seconda delle annate e delle diverse quote altimetriche
- il ghiacciaio provvedere ad accumulare massa grazie alle precipitazioni meteoriche, in questa fase
dell’anno per lo più a carattere nevoso. Tali accumuli, in misura parziale o completa, e a cui si
aggiungono anche quote di ghiaccio e di residui nevosi degli anni precedenti (firn), subiscono,
sottoposti alle elevate temperature estive, la trasformazione allo stato liquido. Nella breve ma
intensa stagione di ablazione vengono così rese disponibili, per i più vari fini, naturali e antropici,
parti consistenti dei contributi meteorici annuali di H2O.
In tal modo, le acque di fusione glaciale, alimentando direttamente e in maniera preponderante e
talora esclusiva, almeno per lunghi periodi dell’anno, sorgenti, torrenti e piccoli laghi,
contribuiscono in maniera significativa al bilancio idrico locale. Più a valle, tale significato si
estende ad aree più vaste, sino a riguardare estesi settori dei territori di pianura. In particolar modo
durante la stagione estiva, quando si è peraltro già esaurito l’apporto derivante dalla fusione delle
masse nevose, risulta molto alto il rischio di deficit idrico provocato dalle temperature elevate
(evaporazione e evapotraspirazione). In questa stessa fase, che pure fa registrare le maggiori
necessità collegate all’utilizzazione agricola delle acque fluviali, il contributo proveniente dalle
masse glaciali (e beninteso anche della loro componente nevosa), per quanto limitata, garantisce gli
apporti di falda e il mantenimento di portate fluviali minime. Il contributo glaciale agli apporti idrici
diviene quindi misurabile per l’intero corso di alcuni tra i maggiori fiumi italiani che hanno origine
nella provincia di Sondrio o ai suoi limiti.
E’ importante notare come alcune aree della Valtellina appartengano al novero delle regioni
secche dell’Arco Alpino. Qui, infatti, ragioni di ordine eminentemente orografico riducono di molto
i contributi piovosi rispetto ad aree limitrofe ma diversamente disposte. Si consideri che gli apporti
piovosi si arrestano ai soli 834 mm medi annui di Santa Caterina Valfurva e ai 703 mm di Livigno;
valori, questi, che possono scendere anche di molto durante le annate più secche. Con frequenza
elevata, poi, le precipitazioni dei mesi più caldi di luglio e agosto non superano i 150 mm; valori,
pur consistenti se rapportati al dato annuale, insufficienti però a garantire il soddisfacimento del
fabbisogno idrico locale legato ai consumi civile, agricolo e industriale. Per queste aree, le acque di
fusione dei ghiacciai costituiscono oggi come un tempo una risorsa vitale.
Per ragioni in parte analoghe, altrettanto rilevante è il ruolo svolto dalle masse glaciali nel
campo della produzione idroelettrica. Si tratta, è vero, di un ruolo progressivamente contrattosi nel
nostro Paese a partire dalla fine degli Anni Sessanta (ma in termini relativi già dall’immediato
dopoguerra), in corrispondenza di scelte politico-economiche volte a coprire il crescente fabbisogno
energetico con produzioni di diversa derivazione, eminentemente di tipo termoelettrico tradizionale.
Nel corso di questi decenni, infatti, si è assistito alla netta riduzione del peso relativo della
produzione di energia idroelettrica anche se i dati di alcune regioni mostravano, alla metà degli
24
Anni Novanta, un’incidenza delle fonti idriche ben superiore a quella nazionale. Per quanto
concerne la Lombardia, tale divario appare comprensibile considerando il ruolo, coordinato, di due
diversi fattori: storico il primo che ha fatto di questa regione, sin dalle fasi iniziali del processo di
industrializzazione nazionale, il principale produttore e consumatore energetico del paese; morfoambientale il secondo, che ha concesso la disponibilità di sfruttamento delle generose riserve
idriche ivi presenti. A questo secondo fattore sono da ricondursi tanto la risorsa idrica presente
anche in forma permanente o semi-permanente (masse glaciali e nivo-glaciali) tanto la favorevole
morfologia di molte valli alpine, adattate, attraverso sbarramenti di vario tipo, alla raccolta, alla
riserva e al convogliamento delle acque. Il rapporto tra i due fattori appare significativamente
manifesto nelle vallate dello Stelvio, dove ai maggiori serbatoi (serbatoi a regolazione stagionale)
sottendono bacini a regime prevalentemente nivale o nivo-glaciale.
Un’esauriente comprensione del ruolo di tali risorse contempla il significato di riserva strategica
che esse detengono. Nonostante la diminuzione di importanza di questa fonte energetica, essa
continua infatti a svolgere un ruolo fondamentale che si esplicita maggiormente in corrispondenza
di improvvisi aumenti e di brevi oscillazioni della domanda tipiche soprattutto della fase invernale.
Il corso annuale della domanda, con massimi complessivi in inverno e minimi durante la stagione
estiva, è infatti pressoché opposto, nei nostri climi, alla disponibilità idrica direttamente sottesa alle
precipitazioni piovose. In ciò trova origine la presenza di invasi che, raccogliendo le acque di
fusione nivale e glaciale, permettono la distribuzione della risorsa assecondando così le curve
stagionali della domanda.
Per quanto riguarda la Valtellina, l’utilizzo a fini idroelettrici dei corsi d’acqua che originano
dai ghiacciai risale agli inizi del XX secolo, quando la possibilità di costruire linee ad alta tensione
per il trasporto dell’energia rese sfruttabili le fonti idroelettriche situate anche a notevole distanza
dai centri di consumo. La presenza di numerosi laghi di origine glaciale, facilmente trasformabili in
serbatoi, costituì un ulteriore, importante incentivo alla costruzione di impianti idroelettrici.
Per fare un esempio, tutti i ghiacciai del settore lombardo del massiccio dell’Ortles-Cevedale (con
rarissime eccezioni, fra cui la più significativa è quella del Ghiacciaio di Profa) forniscono il loro
contributo idrico ai laghi di Cancano, raggiunti attraverso una fitta rete di prese e di canali
sotterranei in grado di captare l’acqua proveniente dai torrenti glaciali.
25
6. Il futuro (?) dei ghiacciai
Come l’acqua, di cui sono eminenti manifestazione solide, anche le risorse glaciali alpine stanno
diventando sempre più rare.
A partire infatti dalla seconda metà del XIX secolo, dopo tre lunghi secoli di espansione (Piccola
Età Glaciale), i ghiacciai delle Alpi, come quelli di buona parte del pianeta, sono entrati in una fase
di rapido ritiro.
Il trend di marcata contrazione è stato solo brevemente interrotto da intervalli di segno opposto, tra i
quali in particolare quello compreso tra la metà degli Anni Sessanta e i primi Anni Ottanta.
Gli ultimi centocinquanta anni sono coperti, oltreché da osservazioni glaciologiche a mano a mano
più costanti e precise, anche da numerose e sufficientemente attendibili serie di registrazioni
termometriche e pluviometriche strumentali. Grazie a esse è possibile, almeno in parte, ricostruire le
cause più dirette di questo lungo ciclo sfavorevole al glacialismo alpino. Tali fonti testimoniano
dell’incidenza fortemente negativa svolta dall’incremento delle temperature e da quella, meno
tangibile e in parte correlata, offerta dalla riduzione delle precipitazioni nevose durante la fase di
accumulo.
Tale congiuntura ha provocato il depauperamento di una quota superiore al 40% della riserva idrica
rappresentata, ancora a metà Ottocento, dalle masse glaciali alpine mentre di poco inferiore risulta
la perdita in termini areali.
Uno studio svolto nell’ambito del Programma di Ricerca Nazionale Svizzero “Cambiamenti
climatici e catastrofi” (1999) relativo al periodo 1850-1973 ha rilevato una perdita complessiva per i
ghiacciai elvetici del 31% per quanto riguarda il volume e del 27% per quanto riguarda le superfici,
dati questi corrispondenti alle ragguardevoli cifre di 33 km³ di ghiaccio e a 500 km² di area
glacializzata.
Alcuni ghiacciai di grandi dimensioni hanno fatto registrare variazioni un poco meno sensibili, ma,
in compenso abbiamo assistito alla scomparsa dalle carte topografiche di centinaia di piccoli e medi
apparati, sfavoriti spesso, oltreché dalle dimensioni, da concomitanti fattori orografici (quota,
esposizione ecc.).
Nettissima è risultata, naturalmente, la risalita delle quote minime frontali, fatto questo capace, da
solo, di mutare il paesaggio di molte valli alpine glacializzate. Fra i più grandiosi, l’esempio di ritiro
del maggiore ghiacciaio italiano, quello dell’Adamello (Lombardia e Trentino), che ha visto la
principale delle sue fronti portarsi dai 1690 m del 1865 ai 2550 m attuali, rendendosi così (da
tempo) invisibile al visitatore che percorra la trentina Val di Genova.
Non meno significative appaiono, inoltre, le variazioni dinamiche e morfologiche intervenute
sull’ambito glaciale “residuo”. Fra le meglio osservabili, lo smembramento di parecchie unità
glaciali, l’emersione di nunatak (“finestre” appartenenti al substrato roccioso) sulla superficie
glaciale, l’incremento della copertura detritica sulle stesse superfici, la comparsa di laghi
proglaciali, l’abbandono, un po’ ovunque, di placche di ghiaccio “morto” ormai separate dai
retrostanti bacini collettori.
Particolarmente marcata è risultata la contrazione dei ghiacciai alpini a partire dalla seconda metà
degli Anni Ottanta dello scorso secolo. Una recente indagine del Servizio Glaciologico Lombardo
(2003) relativa al settore lombardo del Gruppo Ortles-Cevedale, uno dei più glacializzati delle Alpi,
ha calcolato, per il periodo 1981-2001, una contrazione volumetrica dei ghiacciai superiore al 16%,
corrispondente, in valori assoluti, a quasi 250 milioni di m³ d’acqua: circa la metà del Lago
Trasimeno! Nel breve intervallo 1981-2001, la quota minima delle fronti glaciali in questa zona
delle Alpi è risalita di ben 68 metri, portandosi dai 2830 m di inizio periodo ai 2898 m attuali.
A provocare tale fenomeno è il verificarsi, soprattutto negli Anni Novanta, di un nuovo accentuato
aumento delle temperature accompagnato in molti casi dalla penuria degli apporti nevosi autunnali
e invernali. Per meglio comprendere questo processo, alla lettura delle medie statistiche è
26
necessario affiancare quella delle numerose manifestazioni di carattere estremo. Queste, capaci di
significative conseguenze sulla dinamica glaciale, possono per così dire risultare “spalmate” sul
dato medio che, di conseguenza, può non fornire spiegazioni soddisfacenti. A tal fine, sarà
sufficiente osservare come alla base dell’attuale fase di regresso stiano, in misura notevole per
alcune regioni alpine, eventi meteo-climatici estremi di durata relativamente breve; fra questi, quelli
che provocarono la nota alluvione della Valtellina nell’estate del 1987 o, in tempi più recenti, la
straordinaria ondata di caldo che ha colpito il versante sud-alpino nel giugno del 2002.
A questo proposito, si tenga conto che la teoria dell’Effetto serra (di tipo antropogenico),
ripetutamente chiamata in causa nella spiegazione del fenomeno di contrazione dei ghiacciai,
appare coerente con un aumento delle precipitazioni, anche e soprattutto di quelle concentrate in
periodi brevi, e con una maggior frequenza di altri fenomeni climatici parossistici.
Eloquente il fatto che dal 1986 a oggi non si sia registrata nelle Alpi alcuna anomalia fredda
favorevole al glacialismo e che, per contro, molte se ne siano verificate di negative, nella forma di
intense fasi calde o in quella di prolungate siccità invernali.
Alla luce di questa stessa teoria è probabile che buona parte dei ghiacciai alpini possa andare
incontro nei prossimi decenni a una ulteriore, drastica riduzione, anche se tale fenomeno è possibile
che riguardi in misura diversificata le varie fasce altimetriche.
Già allo stato attuale, comunque, risulta necessario tentare di comprendere il significato delle
conseguenze prodotte, anche sui sistemi antropici, dai mutamenti intervenuti sulle masse glaciali e
di quelle anche che potranno maturare in un prossimo futuro, in vista di un più razionale utilizzo di
questa risorsa.
Di alcuni esiti del cambiamento in atto si è già detto: il mutamento del paesaggio alpino, ad
esempio, o l’insorgenza in alcune aree di fenomeni glaciali e periglaciali sconosciuti alle attuali
generazioni.
Per comprendere l’importanza del primo dato, è necessario tener conto del significativo ruolo di
attrattiva turistica svolto dalle masse glaciali. Ciò appare più direttamente osservabile lungo il
versante nord-alpino o nelle valli francesi del Monte Bianco di più facile accesso dove i ghiacciai
raggiungono dimensioni ragguardevoli e caratteri morfologici di importante contenuto
paesaggistico e, quindi, turistico. Basti ricordare che i cinque chilometri di ferrovia che conducono
a Monteverts, nei pressi della grandiosa colata della Mer de Glace, vengono percorsi ogni anno da
quasi 900.000 persone mentre anche la discutibile teleferica dell’Aiguille du Midi, sempre sul
versante francese del Monte Bianco, conta circa mezzo milione di passeggeri all’anno.
Anche al di fuori delle aree più vocate, comunque, i ghiacciai esercitano un notevole fascino sugli
appassionati della montagna. Ciò è misurabile nell’elevata frequentazione delle strutture ricettive
poste in stretta prossimità delle masse glaciali, e, non di meno, nell’attrattività dell’ambiente
glaciale a fini più “dinamici”: vie alpinistiche ed escursionistiche ad “elevato contenuto glaciale”,
vie di arrampicata su ghiaccio ecc.
In questa direzione non sono poche le preoccupazioni prodotte dalla violenta contrazione dei
ghiacciai. Ai timori degli appassionati che vedono scomparire o modificarsi sensibilmente lo spazio
delle loro performances sportive, si aggiunge quella degli operatori turistici la cui attività risulta
strettamente legata alla “risorsa ghiaccio”.
Insieme al dato estetico, inoltre, il decremento dei ghiacciai accentua la pericolosità di molti
itinerari alpinistici e, in qualche caso, pone a repentaglio la sicurezza stessa degli insediamenti
umani. Con i rischi di crollo glaciale è in particolare l’originarsi di pozze e laghi in prossimità delle
fronti, sulla superficie o all’interno delle stesse masse glaciali a originare le maggiori inquietudini.
Ciò, soprattutto, in considerazione di possibili, improvvisi svuotamenti connessi a fenomeni di
intensa fusione e alla “precarietà” delle sponde di contenimento.
Al di là della consueta enfasi mediatica con la quale è stato riferito, l’evento di formazione e
svuotamento del “Lago Effimero” sulla superficie del Ghiacciaio del Belvedere (giugno 2003,
Gruppo del Monte Rosa) costituisce un segnale rappresentativo delle trasformazioni in corso e dei
possibili rischi ad esse collegate.
27
Di diversa natura, ma ancora associati al riscaldamento climatico, sono i rischi provocati dalla
fusione del permafrost (suolo permanentemente gelato). Tale fenomeno tende infatti ad aumentare
l’instabilità dei versanti, in particolare di quelli contraddistinti da una giacitura più acclive, con la
possibile messa in atto di fenomeni gravitativi.
Accanto a tali elementi, e senza considerare le complesse determinazioni di carattere microclimatico connesse alle variazioni delle masse glaciali, le preoccupazioni più importanti provengono
probabilmente dal progressivo e rapido depauperamento di una riserva d’acqua di notevolissima
importanza sotto l’aspetto idrologico e sotto quello, in parte connesso, della produzione energetica.
Con ciò, si deve ricordare l’elevata qualità delle acque di fusione glaciale, dolci e, salvo qualche
eccezione, con livelli di inquinamento molto bassi. In molte valli alpine, l’approvvigionamento
idrico per fini civili avviene attraverso il contributo fornito dalla fusione dei ghiacciai alla rete
idrografica superficiale e alle acque di falda.
Per una più esaustiva comprensione del ruolo idrologico svolto dai ghiacciai è necessario tener
conto del fatto che questi “provvedono” ad accumulare massa sotto forma di neve durante il lungo
inverno della media-alta quota alpina (stagione di accumulo) e a cederne, ancora sotto forma di
neve, ma anche di ghiaccio e di firn (neve residua delle annate precedenti in fase di trasformazione
in ghiaccio), durante la stagione estiva (stagione di ablazione). Nel corso di quest’ultima, con un
ritardo di qualche mese sulle precipitazioni che li hanno originati, si rendono così disponibili per i
più vari fini, naturali e antropici, consistenti quote di contributi meteorici di H2O. Le alte
temperature della stagione estiva, e i conseguenti elevati tassi di evaporazione ed
evapotraspirazione, vengono quindi in parte compensati, più o meno direttamente, dalla
disponibilità di acque di fusione glaciale che alimentano localmente, talora in maniera esclusiva,
sorgenti, torrenti e piccoli laghi. E’ importante notare come alcune regioni alpine, tra esse ad
esempio la Val d’Aosta, il Vallese, la Valtellina e la Val Venosta, godano, per ragioni di ordine
orografico, di contributi piovosi decisamente scarsi (meno di 600 mm annui a Sion e Aosta, 458
mm a Silandro). Qui, i contributi piovosi dei mesi di luglio e agosto risultano insufficienti a
garantire il soddisfacimento del fabbisogno idrico legato ai consumi civile, agricolo e industriale. In
queste valli, l’acqua messa a disposizione dai ghiacciai costituisce letteralmente una risorsa vitale,
tanto che da secoli l’uomo ha sviluppato ingegnosi sistemi di captazione e distribuzione: i bisses del
Vallese, i Waaler venostani ecc.
Più a valle, tale significato riguarda estesi settori delle pianure, dove il contributo proveniente dalle
masse glaciali, ancorché limitato, garantisce gli apporti di falda e il mantenimento di portate fluviali
minime durante la stagione estiva, quando maggiori sono le esigenze idriche anche in relazione
all’utilizzo agricolo delle acque fluviali.
Per ragioni in parte analoghe rilevante è pure il ruolo svolto dai ghiacciai nel campo della
produzione energetica, soprattutto in regioni come la Lombardia dove parti consistenti del
fabbisogno vengono coperte dalla presenza di impianti di produzione idroelettrica.
Il rapporto ghiacciai-produzione energetica si palesa nel fatto che i maggiori serbatoi di raccolta
(serbatoi a regolazione stagionale) sottendono bacini a regime prevalentemente nivale e nivoglaciale.
Solo per fare un esempio, la diga della Dixence (Val des Dix, CH), “grandioso monumento”, come
è stato definito, “alle esigenze energetiche dei paesi alpini”, con i suoi 285 m di altezza e una
capacità di 400 milioni di m³ d'acqua, viene alimentata, per buona parte, da torrenti di ablazione
glaciale che drenano un’area di 180 km². Qui, come altrove, le acque di fusione rivestono un ruolo
strategico. Il corso annuale della domanda energetica, con massimi in inverno e minimi durante la
stagione estiva, è infatti pressoché opposto, nei nostri climi, alla disponibilità idrica proveniente
direttamente dalle precipitazioni piovose. Attraverso gli invasi, l’utilizzo delle acque dei ghiacciai
possono essere utilizzate durante l’inverno assecondando così le curve stagionali della domanda.
Alla luce di tali considerazioni appaiono motivate le preoccupazioni per il forte decremento che
colpisce oggi i ghiacciai alpini. Le conseguenze che ne derivano, seppure non tutte immediatamente
28
osservabili, ci consegnano la necessità di una più seria riflessione sulle cause, globali e non, di una
tale tendenza e sulle esigenze di una maggior tutela di questo patrimonio. Accanto ai rovinosi esiti
del riscaldamento del pianeta, alcuni ghiacciai alpini risentono infatti, tanto sotto il profilo dinamico
quanto sotto quello del loro aspetto ambientale, di attività scarsamente compatibili che su di essi vi
hanno luogo. Quelle, in primis, dello sci alpino, “forzate”, dall’innalzamento del limite delle nevi,
alla messa in atto di insostenibili pratiche di movimentazione delle masse nevose con conseguenze
palesemente negative sui bilanci di massa. Senza considerare gli esiti ambientali, normalmente
nefasti, prodotti da un’elevata frequentazione antropica su un sistema fragile come quello glaciale.
Se non fosse per il devastante contesto politico-economico e culturale che ci circonda, stupirebbe
l’assistere, come accade, a un rinnovato interesse per lo sfruttamento sciistico delle aree
glacializzate, in evidente contrasto con il dato di aleatorietà che le contraddistingue e in una fase
climatica di per sé fortemente penalizzante il loro stesso mantenimento.
Stupirebbe pure, per quanto concerne l’Italia, osservare il disinteresse manifestato dalle istituzioni
preposte, o come anche capita invece un interesse finalizzato a sostenere discutibilissime attività di
sfruttamento dell’ambiente glaciale, per le indispensabili attività di ricerca e di monitoraggio.
Esercizi, questi, affidati al solo illuminato interesse di una ristrettissima parte del mondo scientifico
e a quello delle decine di volontari che percorrono le valli meridionali delle Alpi per restituirci,
anno dopo anno, gli esiti di un mutamento solo in parte naturale.
29