I computer cambiano il mercato del lavoro" alcuni contributi della

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I computer cambiano il mercato del lavoro" alcuni contributi della
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Scritto con Maria Cristina Piva.
Pubblicato su “Rassegna Sindacale” 2000.
Il mercato del lavoro degli Stati Uniti e quello dei grandi paesi dell’Europa continentale sono alle
prese, da circa un ventennio, con storie e problemi diversi. La difficoltà di creare nuovi posti di
lavoro e la decisa crescita dei differenziali salariali tra le diverse categorie di lavoratori hanno
prodotto, infatti, situazioni non omogenee, ma ugualmente preoccupanti: i lavoratori europei si sono
ormai abituati a tassi di disoccupazione a due cifre, che hanno riguardato soprattutto i giovani in
cerca di prima occupazione e i disoccupati di lunga durata, mentre, dall’altra parte dell’oceano,
l’aumento della dispersione salariale sembra strettamente collegato con il crescente numero di
persone costrette a vivere in prossimità della soglia di povertà.
Se pochi sono i dubbi che riguardano tali evidenze, molte sono invece le perplessità su come
la scienza economica abbia provato a spiegarle e, proponendo misure di politica economica, a
risolvere i problemi ad esse collegate. L’aspirazione di riuscire a comprendere entrambi i fenomeni
all’interno di uno stesso quadro analitico, insieme alla nota passione per le soluzioni fornite dalla
metafora della mano invisibile, ha portato sempre più spesso gli economisti a pensare che la causa
del male europeo fosse da ricercare nella rigidità del mercato del lavoro. Secondo questa diagnosi le
istituzioni di uno stato sociale sempre più ingombrante avrebbero impedito all’offerta di lavoro di
soddisfare le mutate esigenze della domanda con la stessa efficienza mostrata dal mercato del
lavoro americano. Le cause di tali mutamenti ed i problemi ad esse collegate sono rimasti in
secondo piano, considerati nell’analisi come cambiamenti di breve periodo, facilmente risolvibili
dai meccanismi automatici del mercato. Gran parte del dibattito si è concentrato, date queste
premesse teoriche, su quale tipo di flessibilità introdurre nei vari contesti nazionali, tralasciando
quali potessero essere invece le politiche coerenti con i cambiamenti che hanno modificato le
caratteristiche della domanda di lavoro. Il progresso tecnologico, che negli ultimi vent’anni ha
tumultuosamente accompagnato sia le ristrutturazioni industriali che la nascita di nuovi servizi, è
così rimasto fuori dall’analisi.
Negli Stati Uniti l’atteggiamento nei confronti del problema della crescente disuguaglianza è
stato notevolmente più pragmatico. Data una ben definita evidenza empirica come quella del chiaro
allargamento del differenziale salariale fra le diverse categorie dei lavoratori, si è provato a
misurare, con l’aiuto di note teorie economiche e di tecniche econometriche sempre più sofisticate,
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quali altri cambiamenti registrati nello stesso periodo di tempo potessero dar conto del fenomeno.
Dato che la categoria che ha visto deteriorare maggiormente la sua posizione relativa è stata quella
dei lavoratori meno qualificati, numerosi lavori hanno sostenuto, con evidenze abbastanza robuste,
che la causa di tale fenomeno sia stato uno spostamento a loro sfavorevole della domanda di lavoro;
tale spostamento avrebbe più che controbilanciato l’ aumento dell’ offerta di manodopera qualificata,
dovuto al costante aumento dei tassi di scolarizzazione. Il problema, ancora oggi lontano da una
soluzione condivisa, è diventato allora trovare le cause che riuscissero a spiegare, almeno in parte,
uno spostamento della domanda di lavoro a favore dei lavoratori qualificati. .
Si è assistito così ad un singolare duello fra economisti: da un lato del campo di battaglia si
sono schierati gli economisti “internazionali”, che hanno attribuito la responsabilità della crescita
della disuguaglianza all’ aumento del commercio estero con i paesi in via di sviluppo, in grado di
produrre a prezzi più competitivi beni ad alta intensità di manodopera poco qualificata. I lavoratori
statunitensi poco pagati, in definitiva, avrebbero dovuto competere con i loro colleghi asiatici o
latino americani. Nell’ altro schieramento gli economisti del lavoro hanno, invece, puntato il mirino
sulla variabile progresso tecnologico ed in particolare sull’ uso dei computer, sostenendo che le
nuove tecnologie avrebbero, al tempo stesso, aumentato la domanda di lavoratori con un elevato
livello d’ istruzione e diminuito quella di lavoratori poco qualificati, resi inutili dalle nuove
macchine e ritenuti incapaci di imparare ad usarle in tempi brevi. I lavoratori statunitensi poco
pagati, in questo caso, avrebbero dovuto competere sia con l’ aumento della produttività dei
lavoratori qualificati che con le nuove macchine, introdotte grazie ad un cambiamento tecnologico
perciò definito VNLOOELDVHG.
Alcuni insuccessi del primo gruppo di duellanti, i quali hanno trovato l’ aumento del
commercio estero capace di spiegare solo una piccola parte dei cambiamenti descritti, hanno
contribuito a rendere la seconda ipotesi più interessante ed alcune delle più note riviste accademiche
americane, sin dalla metà degli anni novanta, hanno dedicato numeri speciali al problema. Più
recentemente, alcuni autori hanno provato a verificare l’ ipotesi del cambiamento tecnologico VNLOO
ELDVHG in ottica internazionale, considerando nell’ analisi anche alcuni paesi europei; nel dibattito
scientifico, quindi, seppure per via indiretta, il progresso tecnologico è tornato ad essere, anche nel
vecchio continente, una variabile rilevante per spiegare le dinamiche e gli squilibri del mercato del
lavoro.
Discutere le conclusioni raggiunte dal gran numero di lavori empirici che hanno cercato
evidenze a favore dell’ ipotesi di progresso tecnico VNLOOELDVHG è di per sé un compito arduo. I
risultati sono stati infatti diversi a seconda sia del tipo di variabili considerate, che del livello di
aggregazione scelto nell’ analisi. Inoltre la scelta di indicatori capaci di misurare l’ intensità del
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progresso tecnologico e le abilità dei lavoratori costituisce un problema aperto. Esistono però in
letteratura tre evidenze sulle quali vi è ormai un vasto consenso, che vale la pena commentare
brevemente.
La prima si può interpretare come un sostegno, seppure indiretto, all’ importanza del
progresso tecnologico: in molti paesi industrializzati i cambiamenti della struttura occupazionale
che hanno favorito i lavoratori qualificati, sia in termini di differenziali salariali che di occupazione
relativa e indipendentemente dal livello di aggregazione prescelto, sembrano dovuti a cambiamenti
LQWHUQL a ciascun settore piuttosto che a variazioni del peso relativo avvenute IUD dei settori. Un
cambiamento interno ad ogni settore indica, in via preliminare, che il progresso tecnologico
pervasivo possa essere la causa della variazione aggregata. In sostanza, se sono stati i computer i
responsabili del cambiamento, è ragionevole pensare che tutti i settori dell’ economia ne siano stati
interessati, dato che i calcolatori hanno trovato utili applicazioni in tutte le aree produttive.
La seconda evidenza, da molti considerata come un punto debole dell’ ipotesi VNLOOELDV, può
essere considerata, invece, come uno stimolo a specificare in che senso le nuove tecnologie possano
aver favorito determinate classi di lavoratori qualificati: alcuni studi micro-econometrici hanno
dimostrato che l’ alta correlazione, riscontrata in diversi lavori empirici, fra l’ uso del computer sul
posto di lavoro e gli alti salari, non è dovuta alla capacità dei calcolatori di far aumentare
drammaticamente la produttività dei singoli lavoratori in grado di utilizzarli. Piuttosto alcuni profili
professionali, già destinati per le loro qualifiche a percepire salari più alti, hanno una più alta
probabilità di utilizzare i computer, data la loro particolare posizione e i loro compiti specifici. In
definitiva gli effetti delle nuove tecnologie non sono così evidenti sulla produttività dei VLQJROL
lavoratori che le utilizzano e l’ ipotesi del cambiamento tecnologico VNLOOELDV deve necessariamente
complicarsi, tenendo presente, per esempio, che non tutte le occupazioni che prevedono l’ uso dei
computer richiedono necessariamente grandi qualifiche o che gli effetti che le tecnologie
dell’ informazione hanno sul modo di produrre non sono affatto scontate.
La terza evidenza empirica è fornita da lavori che hanno studiato la relazione fra il progresso
tecnologico e le competenze dei lavoratori con dati che consentono confronti internazionali: i
lavoratori qualificati hanno migliorato la loro posizione relativa in quasi tutti i paesi industrializzati,
ma le nuove macchine sembrano aver inciso più profondamente, sia in termini di salari che di
occupazione relativa, sulla struttura occupazionale di Stati Uniti e Gran Bretagna. Gli effetti del
progresso tecnico sulle condizioni dei lavoratori dell’ Europa continentale, che per altro, come già
ricordato, non hanno visto aumentare di molto i loro differenziali salariali, sono stati più modesti. I
lavoratori poco qualificati, che nei paesi anglosassoni hanno vissuto un notevole deterioramento
economico e sociale, non sembrano quindi averci guadagnato in termini di maggiore occupazione
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relativa. E’ lecito ipotizzare, data questa evidenza, che le differenti dinamiche delle due aree
geografiche siano state il risultato non solo dei differenti assetti istituzionali che regolano il mercato
del lavoro, ma di diversi mutamenti dei sistemi produttivi, interessati in maniera non omogenea
dalle dinamiche tecnologiche degli ultimi anni. In Italia, per esempio, sembra, da alcuni recenti dati
raccolti dall’ OCSE, che il basso aumento della quota di lavoratori qualificati rispetto agli altri paesi
industrializzati, dipenda dal minor tasso di crescita delle spese in ricerca e sviluppo e dal settore dei
servizi, all’ interno del quale viene sovrautilizzata manodopera poco qualificata e a basso costo.
Le luci e le ombre proiettate dalle evidenze empiriche indicano che i punti deboli dell’ ipotesi
del cambiamento tecnologico VNLOOELDV, derivano dalle sue fragili basi analitiche. E’ molto semplice
affermare genericamente che i computer avvantaggino i lavoratori qualificati e lo facciano in
maniera uniforme in tutti i paesi industrializzati. Ad un’ analisi più attenta, che incrocia, alle
evidenze messe in luce dall’ economia politica, contributi di storia della tecnologia, la
complementarietà fra capitale tecnologico e capitale umano non è poi così scontata. In primo luogo
il progresso tecnico, dalla rivoluzione industriale in poi, è sempre stato accompagnato da
cambiamenti della struttura occupazionale tanto drammatici, quanto complessi, che raramente
hanno avuto effetti univoci sulle caratteristiche della forza lavoro. Un esempio su tutti è fornito
dalla famosa fabbrica di spilli di Adam Smith: la divisione del lavoro, nella sua continua interazione
con la creazione e la diffusione delle nuove tecnologie, ha avuto spesso effetti molto simili a quelli
di una distruzione creatrice schumpeteriana. La vera e propria rivoluzione industriale innescata da
quella che oggi tutti chiamano economia della conoscenza ha, naturalmente, le sue peculiarità anche
nel suo modo di distruggere e creare competenze e nuove professionalità; peculiarità che vanno
ricercate nel modo in cui l’ uso dei computer all’ interno delle imprese ha modificato le
caratteristiche della domanda di lavoro. In secondo luogo, nonostante l’ aumento delle
interdipendenze tecnologiche fra i paesi industrializzati, è utile pensare al progresso tecnologico
non come a qualcosa che interessa uniformemente tutte le aree geografiche, ma come un processo
complesso che spesso ha un forte carattere nazionale o addirittura regionale.
Un recente articolo di Timothy Bresnahan, professore dell’ università di Stanford da anni
impegnato nello studio degli effetti dell’ introduzione delle nuove tecnologie, sembra andare in
questa direzione, complicando la discussione sull’ ipotesi VNLOOELDV e cercando di reinterpretarla. La
tesi forte del suo lavoro è che i computer, come del resto altri tipi di tecnologie, non producano i
loro effetti automaticamente, ma necessitino di profonde modifiche dell’ organizzazione interna alle
imprese, in grado, per esempio, di ridurre le gerarchie aziendali e valorizzare la capacità di lavorare
in gruppo e la creatività dei singoli lavoratori. Andrebbero così fatte le dovute distinzioni da un lato
fra le varie applicazioni dei calcolatori e dall’ altro fra le competenze e le qualifiche che tali
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applicazioni hanno premiato. Alcuni dati raccolti in imprese statunitensi sembrano confermare le
sue tesi, dimostrando che la domanda di lavoro ha conosciuto mutamenti strutturali solo quando
l’ introduzione dei computer è stata accompagnata da riorganizzazioni interne alle imprese e da
ulteriori innovazioni.
Si tratta di un tipo di impostazione che richiede un grande sforzo nella direzione di una
maggiore comprensione dei meccanismi microeconomici interni all’ impresa, ma che ammonisce sui
pericoli delle scorciatoie indicate dai nuovi determinismi tecnologici e pone al centro dell’ analisi,
nella sua interazione con le nuove macchine, l’ importanza dell’ organizzazione e della qualità del
lavoro. Insieme alla protezione di coloro i quali, dato il loro basso livello di istruzione, sembrano
non poter usufruire dei benefici del progresso tecnologico, appare questa una delle priorità che le
politiche devono considerare..
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