Schede film discussi insieme 2005

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Schede film discussi insieme 2005
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La ragazza
con l’orecchino di perla
GIRL WITH A PEARL EARRING
regia: Peter Webber (G.B./Lussemburgo, 2004)
sceneggiatura: Olivia Hetreed
fotografia: Eduardo Serra
scenografia: Ben Van Os
montaggio: Kate Evans
musica: Alexandre Desplat
interpreti Scarlet Johansson (Griet), Colin Firth (Vermeer),
Judy Parfitt (suocera), Essie Davis (Catharina),
Tom Wilkinson (Van Ruijven)
produzione: Lions Gate, Archer Street Prod., Pathe
distribuzione: Mikado
durata: 1h 30’
PETER WEBBER
Di nazionalità inglese, ha realizzato cortometraggi (il primo
nel 1994, alla fine dell’università), ha lavorato come montatore, e ha diretto alcuni episodi di serie televisive. La ragazza con l’orecchino di perla è il suo primo lungometraggio.
LA STORIA
Ha solo diciassette anni Griet quando lascia la sua casa di
Delft dove vive con i genitori per andare a servizio presso la
famiglia del pittore Johannes Vermeer. Il lavoro che l’aspetta
è tanto e tra i vari compiti a cui deve dedicarsi con moltissima attenzione c’è la pulizia dello studio dell’artista, dove tutto deve restare esattamente dove si trova. Griet esegue quanto le viene ordinato in silenzio e con scrupolo, ma la sua pre214 LA RAGAZZA CON L’ORECCHIO DI PERLA
senza non passa inosservata. Il macellaio nota la precisione
con cui osserva la freschezza della carne che ha l’incarico di
comprare e riconosce subito in lei una cliente da trattare meglio. Ma chi ha in mano l’intera gestione della casa e ne amministra anche l’economia è la suocera di Vermeer, che sceglie per il genero i suoi mecenati e fa in modo che non dimentichino di celebrare attraverso un ritratto del pittore le
persone di famiglia. E ogni occasione è buona per rammentare loro quanto lei si aspetta. Così la nascita di Francisco, l’
ultimo dei Vermeer, deve essere festeggiata con un grande
pranzo che sarà però soprattutto utile a invitare il magnate
Van Ruijen e a mostrargli il ritratto della moglie appena terminato. Il ritratto riceve come sempre tutti gli elogi che merita. Ma questa volta non provoca immediatamente un nuovo ordine, che di solito, date soprattutto le difficoltà economiche in cui versa la famiglia, induce il pittore a prendere i
pennelli in mano. C’è dunque un certo stupore, soprattutto
da parte della suocera, sapere che Johannes ha ripreso a lavorare e non permette che si veda quello che sta facendo. In
quella che a chi lo conosce bene sembra una decisione inspiegabile c’è soltanto la magia di un volto, illuminato da un
gioco di luce. Griet, intenta a pulire i vetri della finestra dello
studio, viene colta da Vermeer che rimane colpito da quel
profilo appena nascosto dalla cuffia, e le chiede immediatamente di fermarsi in quel gesto. È l’inizio di un opera a cui
la ragazza è chiamata con un coinvolgimento completo. Sarà
accanto al pittore anche nella preparazione dei colori con
una partecipazione che dimostra non solo maestria, ma una
particolare affinità. Poco dopo Griet si sente al centro di pre-
tese e cattiverie un po’ da parte del resto della famiglia, che
culminano con una accusa precisa. La signora Vermeer irrompe nello studio del marito per denunciare la scomparsa
di un pettine di tartaruga col chiaro scopo di far ricadere la
colpa sulla ragazza, assolutamente innocente. Ma questo non
basta: le si rimprovera di non aver voglia di lavorare e di
scansare la fatica, e di essere stata assunta solo per spirito di
pietà. A questo punto interviene la vera padrona di casa, la
mamma della signora Vermeer: vuole che il genero ottenga
assolutamente una nuova commissione dal signore Van Rujiven. La proposta che viene lanciata al magnate e che lo convince ad accettare l’idea di sottoposi a, come ritiene, una
lunga e noiosa serie di pose, è quella di rittrarlo al centro di
una allegra compagnia e al tavolo di una taverna dove a servire ci sarà Griet. La voce gira immediatamente in paese. Si
commenta con ironia la strana prestazione della ragazza, su
cui Van Rujiven ha ormai posato gli occhi, e che invece
Johannes proteggerà fino al punto di evitarle di avvicinarsi a
quell’uomo. Ma l’attenzione di Vermeer per Griet e soprattutto il tempo che trascorre per il suo lavoro con lei scatena
la gelosia della moglie e il pretesto che diventa l’elemento intorno a cui la donna si accanisce è un paio di orecchini di
perle. Vermeer li ha immaginati illuminare il profilo di Griet
per il ritratto su cui sta lavorando e vuole che li indossi proprio per quel quadro. La ragazza capisce immediatamente le
conseguenze, prevede la reazione della legittima proprietaria
e fa di tutto per opporvisi. Ma è proprio la suocera che glieli
impone quale unica condizione perché il ritratto possa giungere a termine. Vermeer ottiene così quello che vuole. Subito
dopo però l’ira della moglie costringe Griet ad allontanarsi
definitivamente dalla casa del pittore. Sposerà il figlio del
macellaio e avrà in regalo, le perle che ha indossato per il ritratto. (LUISA ALBERINI)
LA CRITICA
Il “mistero Vermeer”, artista dalla vita senza clamori autore di
un piccolo numero di dipinti affascinanti quanto sommessi, è
all’origine del bestseller di Tracy Chevalier portato sullo
schermo in questo film gradevolmente accademico. Secondo
l’intrigante presupposto, il pittore olandese ritrasse La ragazza
con l’orecchino di perla (1665-66 circa) ispirato dall’amore segreto per una diciassettenne, Griet, a servizio nella sua casa di
Delft. Sposo di una moglie perennemente incinta, più rubensiana che prossima allo stile del marito, Johannes è un tipo
malmostoso, praticamente in sequestro volontario nel proprio
studio. Pian piano, però, si accorge della fanciulla, timida e
schiva ma sensibile alla bellezza: meglio ancora, alla materialità, delle cose; come dimostra ora riconoscendo un pezzo di
carne non fresca, ora imparando a dosare e impastare i colori.
A sua volta Griet è attratta dal maestro, pur non comprendendo di esserne ricambiata. Riuscito nei momenti in cui si
sofferma sulla cultura materiale e la quotidianità della vita
nella provincia olandese del ‘600 (un po’ in spirito nouvelle
histoire), il film di Webber non sa evitare la più ovvia delle ingenuità alle quali era, a priori, esposto: cercare di trasformare
ogni inquadratura in “un Vermeer” (da cui nomination
all’Oscar per fotografia, scenografia, costumi). (ROBERTO NEPOTI, la Repubblica, 20 febbraio 2004)
Il film medio, illustrativo, vignettistico e accurato, tenta di
evocare se non di riprodurre lo stile, la densità, la luce di
Vermeer, e naturalmente ci riesce poco; la velleità di fissità
pittorica paralizza gli interpreti (la migliore è Scarlett
Johansson, già apprezzata in Lost in Translation di Sofia
Coppola); anche se dell’opera di Vermeer si vede quasi nulla, la vicenda resta comunque interessante. (LIETTA TORNABUONI, La Stampa, 20 febbraio 2004)
Una storia d’amore nella quale la passione non si manifesta in
atti, ma in silenzi, sguardi, istintive complicità. Spostare una
sedia per dare più aria a una prospettiva, pulire il vetro di una
finestra perché quel taglio di luce possa illuminare un volto:
questo fa la giovane serva Griet, sensibile all’impasto dei colori
e all'arte, e questo conquista Vermeer, genio oppresso da una
famiglia numerosa e invadente e da un mecenate avido. [...] la
storia di La ragazza con l’orecchino di perla conteneva materiali
per un buon film: un film sulle esitazioni delle anime e sulle
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affinità elettive, sulla sublimazione e sulla sua travolgente forza creativa (e perciò erotica). Un mélo, di quelli nei quali non
succede niente e succede tutto, e poi la storia si porta via i
personaggi. Ma i produttori, la sceneggiatrice e il regista Peter
Webber si sono tenuti ben lontani dal mélo, troppo preoccupati dei valori “alti” (quindi terribilmente noiosi e pretenziosi)
del film, e di costruire ogni singola inquadratura secondo una
citazione dalla pittura di Vermeer. Il risultato é un film senz'anima e senza carne, bello per carità, della bellezza lucidata e
gelida di una riproduzione da catalogo, senza i piccoli sfregi e
le incrinature che fanno vivere la vera opera d'arte. (EMANUELA MARTINI, Film Tv, 25 febbraio 2004)
«E vero?», domanda Griet a Joahnnes Vermeer dopo aver
guardato nella sua camera oscura. In quel buio sorprendente, la servetta ha visto riflesso il quadro per cui sta posando.
Ne è stupita, come se la “macchina” fosse riuscita a illuminare anche ai suoi occhi la bellezza che il pittore cerca di fissare sulla tela. «E un’immagine», le risponde lui. Ma certo
non intende che, solo per questo, quello che lei ha visto non
possa esser vero. Di questo racconta La ragazza con l’orecchino di perla: della bellezza di un’opera di 44 centimetri e
mezzo per 39, dipinta attorno al 1665 e riscoperta solo nel
1882. Partendo da un romanzo di Tracy Chevalier, Peter
Webber e la sceneggiatrice Olivia Hetreed la immaginano
nascere nella casa di Vermeer, nelle luci attenuate, nelle ombre e nei colori del suo studio, a Delft. E ne immaginano la
verità: una tra le possibili. Il loro punto di vista è inusuale:
non quello dell’autore del quadro, non quello della sua poetica, ma quello di una servetta analfabeta. Non è “vera”,
Griet. E se anche lo fosse mai stata, certo oggi non ce ne resterebbe memoria. Non fu lei, dunque, a posare per il quadro. Neppure ha fondamento l’ipotesi che Vermeer abbia
avuto con la sua modella, chiunque sia stata, il rapporto intenso narrato nel film. Griet esiste solo sullo schermo, come
solo dentro la camera oscura esiste l’immagine che la sorprende. Ma dentro il film, appunto, è più che vera: è verosimile, e dunque vive la sola “vita vera” che abbia significato
al cinema. Chi è la Griet di La ragazza con l’orecchino di per216 LA RAGAZZA CON L’ORECCHIO DI PERLA
la? Meglio ancora, chi sarebbe potuta essere? Di lei Webber
ed Hetreed raccontano una storia in negativo, e anzi proprio una storia negata. Sospesa tra due mondi, pare non
aver patria. Il primo è quello misero da cui fugge, portando
però con sé e conservando con amore una piastrella decorata. Ad essa, e all’immagine che vi ha disegnato il padre affida tutto quello che le rimane: l’idea o forse solo il rimpianto
di un futuro impossibile. Quanto al secondo mondo, quello
in cui entra senza esserne riconosciuta, le rimane del tutto
estraneo, se a quell’idea o a quel rimpianto non fosse comunque legata. C’è, nel film di Webber uno sfondo che viene da dire opaco: quello del denaro. La sceneggiatura e la
regia annunciano già in una delle prime sequenze, con la
descrizione dei rituali crudeli e immediati di una bancarotta. E poi, nella casa di Vermeer, ne raccontano il dominio
pervasivo attraverso la rete di cinismo intessuta da Maria
Thins, la suocera. Tutto è da lei subordinato al denaro, a cominciare dal ventre della figlia Catharina, dai figli di lei,
usati per tenere il pittore in quella rete. Né la donna esita di
fronte alla richiesta del mecenate Van Ruijven: un ritratto di
Griet, e alla fine la stessa Griet, con la violenza che il denaro
gli consente. Non importa che tra Vermeer e la modella
possa nascere un rapporto che somiglia a un adulterio. Neppure della figlia tiene conto, l’avidità della donna. Tutto
questo Webber racconta in un film denso di ombre e delle
luci care a Vemeer. Ed è proprio questo il suo limite: questa
mimesi cromatica insistita, che si sovrappone alla sua “verità”, quasi velandola, e che alla fine dà più d’un sospetto di
banalità anche se di alto livello. Non è banale però il rapporto fra Griet e Vermeer. Per merito della brava Johansson
e dei silenzi che sa colmare d’espressività, tra i due s’immagina nascere una “comunanza creativa” alla quale non servono parole. Le basta, infatti, la materialità della pittura: la
manipolazione dei colori, la disposizione degli oggetti, la
scelta delle luci e delle ombre. Cresce man mano, questa
materialità, e diventa complicità erotica, per quanto solo
mediata dagli oggetti e dai gesti della creazione artistica.
Come al pittore, dunque, anche alla servetta capita di vedere quello che sta nella camera oscura (secondo una tecnica
d’analisi e di studio delle forme e dei colori che sembra fosse
proprio di Vermeer). Ci vede la verità dell’immaginazione,
quella verità che, in un oggetto o in una persona, sa cogliere
il senso dell’attimo, e che è capace di renderlo assoluto, sospeso nel gioco delle ombre e dei colori. D’altra parte, quella Griet di Webber è una storia negata, perduta in un tempo
che la esclude per sesso e per nascita, e che la condanna a
una vita misera, senza memoria e senza bellezza. E questa la
sola verità che alla fine le sia lasciata: ben più opaca di quella che, per un attimo anche a noi è parso di vedere nel buio
di una camera oscura. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole 24 Ore, 4
marzo 2004)
gente, artisticamente dotata, coraggiosa e lucida; imbelle ed
egoista il pittore, prepotente e immorale il suo mecenate.
Vincenzo Novi - Le inquadrature del film sono affascinanti
e sommesse come i quadri di Vermeer. Sanno trasmettere la
segreta vibrazione delle sue opere. Lo spettatore può coglierne l’appagante messaggio estetico a cui la vicenda (vera?, verosimile?) fa da supporto.
Giulia Carioli - È un film pittorico molto bello, anche se molto lento. La servetta è spesso taciturna ma dagli sguardi tra lei
e il pittore nasce un rapporto che assomiglia a un adulterio. È
un film denso di quelle ombre e di quelle luci care a Vermeer.
I COMMENTI DEL PUBBLICO
DA PREMIO
Gianfranco Biasia - Appassionante e pieno di spiritualità nordica. Un film pulito che induce alla massima comprensione
per la stupenda ragazza oggetto di attenzioni e bramosie.
Elena Bianchi - Splendido, rende in modo perfetto l’ambiente e il pensiero.
OTTIMO
Vittoriangela Bisogni - Un film pittorico, in cui ogni inquadratura potrebbe essere un dipinto di Vermeer. Questo a
me pare un pregio godibile, mentre sulla scheda ho letto che
secondo il critico Roberto Nepoti questa è la più ovvia delle
ingenuità, che il regista non ha saputo evitare. Piuttosto il
regista, con una sceneggiatura agile, è riuscito a evitare la
fissità e la stucchevolezza, vista la limitatezza della vicenda
narrativa. Comunque il film mi è sembrato quasi più riuscito del libro, grazie appunto alla potenza del mezzo visivo rispetto alla parola scritta. Oltre che uno spaccato di costume
e d’ambiente, il regista ha saputo ben delineare i personaggi.
Vincenti le donne rispetto agli uomini: sopra tutti la servetta che, pur schiacciata dalla sua posizione sociale, è intelli-
Rosa Luigia Malaspina - Le inquadrature presentano giochi di
luce, ombre e colori tipici di Vermeer. La ragazza con l’orecchino
di perla è un film sulla bellezza, in contrapposizione alle grettezze e limitazioni che comporta l’avidità di denaro, sull’intensità
esclusiva del rapporto tra pittore e modella, fatto di un’intesa
profonda che non ha bisogno di parole per esprimersi.
Pierfranco Steffenini - Della vita di Vermeer non si sa quasi
nulla. Rari sono i suoi dipinti e, tra questi, di molti è incerta l’attribuzione. Tra tutti spicca La ragazza con turbante,
opera affascinante e misteriosa. Il film di Webber, basato su
un romanzo, fornisce un’interpretazione fantastica sulla genesi del quadro. Va ascritto a merito degli autori di aver dato una chiave di lettura credibile e avvincente, in un’atmosfera di ambiguità che ben si addice al mistero che si addensa sulla vita e l’attività di Vermeer. Ma il pregio maggiore
del film consiste in una rappresentazione formale quanto
mai attenta a ricreare fedelmente ambienti e atmosfere delle
opere di Vermeer. Accurata la scelta e l’interpretazione degli
attori, in particolare dell’emergente Scarlett Johansson.
Gino Bergmann - L’opera del regista è mirabile: quasi ogni
fotogramma appare come un quadro del Seicento fiammingo. La vicenda è interessante, anche se il film nella prima
parte appare un poco slegato, senza una vera trama.
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BUONO
DISCRETO
Alessandra Casnaghi - In alcuni momenti, in determinate
sequenze, mi è parso di notare una “vicinanza” con il film Il
pranzo di Babette. Diversi il regista, l’ambientazione, il contenuto, ma simili le inquadrature ravvicinate delle mani (in
ambiente interno e poco illuminato) che lavorano alacremente: cucinano, dispongono con gusto e simmetria le verdure, triturano minerali e li polverizzano. Questo gusto per
il particolare, questo piacere nelle inquadrature mi ha colpita e mi ha affascinata. Non è un film memorabile, ma è garbato e raccontato con calma, dando la giusta attenzione
all’evolversi dei rapporti fra i personaggi.
Grazia Agostoni - Belle immagini e ricostruzione ambientale:
colori, ombre, sfumature che ricreano la pittura di Vermeer in
modo egregio. Ma poi? Lo spessore umano, sociale, biografico
è troppo esile. Troppo lento il ritmo, evanescente il racconto...
Webber è un regista delicato, esteticamente valido, ma noioso.
Lucia Fossati - Film di ambienti e di volti; i vicoli, le piazzette e i canali di Delft; gli interni delle case umili o signorili; i tagli di luce, le penombre: un equivalente filmico della
pittura fiamminga. I volti: quello di Vermeer, uno sguardo
che scruta con l’interesse del pittore; quello piatto e un po’
ottuso di Catharina; quello avido di Maria Thins; quello interessato e un po’ laido di Van Rujven; e poi il volto di
Griet, umile e sottomesso ma anche vivace e intelligente,
che si lascia trasformare nel volto misterioso della fanciulla
con l’opalescente orecchino, uno sguardo languido, liquido,
ritroso e invitante: pittura pura, vivente. Il film si lascia vedere con piacere, appaga gli occhi. La colonna sonora mi è
parsa troppo invadente e non ho capito l’insistenza sulla
meschinità della figlia gelosa del pittore.
Gioconda Colnago - Il regista Peter Webber, per via di
un’ottima messa in scena e un montaggio attento, tenta di
approdondire il groviglio comportamentale che induce l’uomo-pittore Vermeer a una doppia vita, sedotto dalle delicate
sembianze della “servente”. “fresco germoglio di vita”, a sua
volta affascinata da lui che l’aiuta a scoprire in sé stessa
l’istinto naturale della percezione artistica. La complessa storia, dalla quale nasce la realizzazione del quadro, è lodevolmente recitata con sguardi e gesti molto espressivi, significativi di costante complicità.
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Donatella Napolitano - Sempre più questo tipo di film ricorda un documentario tv. Il cinema è un’altra cosa.
MEDIOCRE
Miranda Manfredi - Il racconto incentrato sull’ispirazione
di un’opera d’arte si perde nel leggendario. Il film è permeato da un sottile erotismo intellettuale che premia la sensibilità di una povera ragazza analfabeta. In contrasto c’è una
classe sociale che sembra possedere solo l’arroganza e in cui
la cultura appare solo come problema economico. Il rapporto serva-padrone ha fatto scorrere lacrimevoli fiumi d’inchiostro nella letteratura “mélo” e questo film, basato su un
romanzo, non se ne discosta. Vermeer appare come un personaggio invaso da un fuoco creativo, ma poco credibile nel
suo tentativo di cercare solo l’anima della povera ragazza.
L’accurata scenografia con il gioco delle luci che fanno di
ogni scena un quadro fiammingo riscatta un po’ il contenuto da romanzo d’appendice. Una riflessione storica a largo
raggio mi porta a considerare come il Settecento con l’Illuminismo abbia inciso nel conflitto di classe irrisolto nel Seicento. Penso sia questo il valore umano che posso trovare in
un film piuttosto mediocre come questo.
Tullio Maragnoli - Fasulla biografia basata su un’ipotetica
perla che ben avrebbe potuto essere dipinta senza ricamarci
su e senza doverla infilzare al suo posto con quella specie di
spiedo: mica si doveva fare una foto. Situazioni e personaggi
stereotipati hanno reso il film alquanto soporifero. L’alloro
va alla macchietta della suocera, uscita pari pari da una vignetta dell’ex Domenica del Corriere.