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Introduzione
di Federico Audisio Di Somma1
Il giovane profeta Geremia, carattere mite e amante della natura, fu chiamato
da Jahve a proclamare distruzione e fu imprigionato.
Quanto delle visioni devastanti dell’uomo ispirato dal cielo e quanto delle
visioni oniriche di uno psichiatra estromesso dal servizio riverberano in questo
romanzo? E quanto di ‘divino’ dimora nella sua anima?
Il misterioso personaggio che si cela all’indirizzo di posta elettronica
[email protected] è profeta, professore o entrambi?
Domande inevitabili, che preludono alla rilettura del testo, non solo consigliata, ma d’obbligo. Pena il confondersi in labirinti narrativi ai quali la presente
introduzione tenta di fornire una mappa.
Il paesaggio domina la scena: non si tratta di solitudini anacoretiche in deserti, ma bensì della collina torinese.
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Federico Audisio di Somma nasce a Torino il 14 marzo 1955. È laureato in Medicina
e Chirurgia. Nel 1997, Aiuto ospedaliero, lascia la carriera, prende congedo dal Reparto di
Medicina Preventiva e del Lavoro dell’Ospedale delle Molinette di Torino, per poter dedicare
sufficiente tempo ed energie allo studio e alla scrittura, antico amore frequentato con assiduità
fin dall’adolescenza. Dal marzo 2002 è presidente nazionale dell’Amif, l’Associazione Medica
Italiana di Floriterapia di Bach. Quale libero professionista esercita omeopatia a Torino presso
il proprio studio. Nel 2001 il suo primo romanzo, L’uomo che curava con i fiori, è pubblicato
in Italia da Edizioni Piemme e nel marzo 2002 entra nella rosa dei sei finalisti del Premio Bancarella 2002, 50ma edizione. Il 20 luglio, a Pontremoli, il romanzo è proclamato vincitore del
Premio Bancarella. Nell’ottobre 2002 traduce e integra, curandone l’edizione italiana, il Nuovissimo dizionario di omeopatia per tutti del medico parigino Jacques Boulet (Edizioni Piemme).
Nell’aprile 2003 esce Il fiore dell’omeopata - Tre romanzi brevi (Edizioni Piemme). La biografia è
tratta dal sito Web http://www.federico.audisiodisomma.com.
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“Guai a me a causa della mia ferita, la mia piaga è incurabile. Eppure io avevo
pensato: È questo il mio dolore e io devo sopportarlo”. (Geremia 10, 19)
La collina di Andrea Griseri è femmina, incarna il fascino offeso di un corpo
animale. L’immagine del grande taglio è contemporaneamente proiettata sui
prati e sui boschi e all’interno del mondo infero che anima di figure oniriche
l’intera vicenda.
Si tratta di una ferita inguaribile, fotografata con una particolare forma di
specillo medico distorto. Reca in sé il fascino autoptico di una resurrezione onirica. L’incantesimo che accende il motore del racconto, la sua macchina necroscopica, spezza il carattere atemporale della gita in auto iniziale e avvia la sua
stessa necessità di essere scritto.
Accade l’incidente stradale. È prodotto da un attimo di distrazione, dal richiamo sensuale della collina, dal cartello che annuncia la vendita di quella vasta
proprietà verde. La frase del ciclista ferito ha sapore evangelico, deriva dall’atmosfera del Nuovo Testamento e si rivolge all’epoca arcaica di Geremia, Vecchio
Testamento. La accoglie, estatico, il medico pirata della strada. Il poliziotto intervenuto a soccorso veste il ruolo di moderna guardia mesopotamica; minimizza
e trae fuori d’impiccio il dottore-profeta liberandolo dalla giustizia sommaria
della folla.
A questo punto si apre una suggestione cha ha tutte le caratteristiche del
binomio madre/femmina. Il protagonista è sedotto dal caldo abbraccio della
mammella collinare, viene carezzato dal pelo verdeggiante e catapultato verso
la sommità, nel chiarore ultraterreno a cui anelano le creature della nostalgia e
dell’inconscio.
Il cancello di questo passaggio è vegliato dal geometra Soffiantini, agente
immobiliare, la sua parola d’ordine oscilla dal linguaggio burocratico al dialetto
informatico. La compravendita diventa progetto utopico di una clinica collinare
per malati di mente.
I venditori, contadini Cortazzone, sembrano muovere nelle atmosfere dei
quadri di George Grosz. Ritorna la figura sensuale della donna. Nonostante il
contrasto tra il linguaggio arcaico e popolare degli agricoltori e quello forbito del
medico nasce tra loro una sacra alleanza istintiva. L’acquisto della collina è concluso, per parte cedente nello spirito grezzo del contratto, per parte acquirente
nello spirito del salvataggio ecologico.
Esplode una lotta senza quartiere con il geometra Soffiantini che vorrebbe
condividere con il medico una speculazione edilizia a dispetto di fantomatici
concorrenti. Il mediatore si lascia andare a un’aggressione fisica e verbale che
finisce per stravolgersi in sequenze impazzite di files informatici e in e-mail
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Introduzione
visionarie in cui, tramite l’alter ego del profeta, viene arruolata una Corte dei
Miracoli composta da matti, pazienti passati, presenti e futuri del dottor Geremia, psichiatra. Ritorna il riferimento biblico alla liberazione verso la terra
promessa, metafora della fuga dall’Egitto.
Il racconto, a questo punto, punto cruciale, piuttosto che elevarsi verso il
colmo della collina, verso la liberazione, precipita in un gorgo di situazioni che
lo limitano al versante scuro.
Entra in scena un nuovo anonimo personaggio, impresario edile concorrente. Egli incarna la subdola psicologia della bio-architettura nella forma di un
eco-mostro, un progetto di ospedale psichiatrico nella natura, finanziamento
pubblico e pubblica convenzione, corruzione di pubblici ufficiali conniventi, un
affare da lottizzare a metà con il dottore.
I matti, esseri metafisici sullo sfondo dei prati e dei boschi della collina, assistono a queste trattative danzando una cortese rêverie. A un cenno del professor
Geremia catturano l’impresario edile portandolo nel laboratorio-studio d’artista
dell’Arcimboldo. Qui avviene una sorta di cerimonia pagana o psicopatologica
il cui sciamano è il pittore stesso il quale, armato di verdure legumi e ortaggi,
veste il prigioniero come fosse un soggetto dei suoi tipici quadri. La scena si
conclude con un atto violento, al malcapitato viene infilato un grosso gambo di
carciofo nell’ano.
Geremia viene interrogato dalla polizia quale possibile mandante di questa aggressione e lasciato provvisoriamente libero. La verginità naturale della
collina riempie le giornate del medico finché giunge a controllarlo un collega
neolaureato, ficcanaso in maniera sospetta. Buste paga, il conto in banca dello
psichiatra è molto al di sotto la cifra necessaria all’incauto acquisto della proprietà. La Lucente, signorina ex matta, segretaria e protettrice del professionista, in
un ultimo sussulto di razionalità e di controllo, comprende l’assurdità di quella
operazione finanziaria, ormai sul punto di ritornare tra i suoi fratelli psicopatici
in danza notturna sui prati.
Si fa avanti il sindaco che immagina sulla collina una casa di riposo per anziani. Il dottore, quasi drogato dalla clorofilla e dalle erbe fragranti viene proiettato
in una visione cimiteriale. Puntuale come una iettatura la mail di Geremia, profeta pessimista, annuncia il fallimento dell’acquisto. La conferma viene, subito
dopo, dal direttore della banca, che s’incarica di risolvere la delicata questione
del compromesso già firmato con i contadini mediante l’entrata in gioco di due
impresari interessati alla collina.
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Intanto la situazione precipita: il ciclista investito è morto. Parte un sabba di
matti che cantano nella natura e il delirio onirico del dottore.
Il giorno dopo è tempo di resa dei conti nel reparto ospedaliero. I colleghi
medici Colombatto e Muggini hanno preparato con cura la trappola: per Geremia sospensione dal servizio.
Sulla collina i due impresari edili si spartiscono il bottino a suon di progetti
e scacciano il mancato proprietario.
Geremia piomba nella follia, dal sogno alla veglia e viceversa, accolto nella
sinfonia eclettica messa in piedi dai malati di mente, organizzati in una vivace
orchestrina. Defunti e fantasmi si uniscono a questa rappresentazione. Due torri
musicali, in cima alla collina, diffondono la musica ad alto volume. Colombatto
e Muggini osservano, partecipandovi come medici e come giustizieri, l’epilogo
della verginità della collina. Presto giungeranno le ruspe. In una visione apocalittica ecco avvicinarsi l’esercito dell’impresa edilizia, appena contrastato dalla
potenza musicale dell’impianto stereofonico. Il sindaco viene a liberare il dottor
Geremia annunciando di voler sistemare tutto e lo accompagna all’auto che lo
condurrà al ricovero coatto. I matti si ritirano e la musica tace.
Resta la stanza nuda affacciata sul giardino dell’ospedale, l’assenza di sogni, i
giorni tutti uguali della malattia. Ormai vecchio e senza visioni da risvegliare Geremia spegne il computer. Nessuna profezia verrà più a disturbare la sua fine.
Il racconto di Andrea Griseri richiama le impressioni pittoriche di Jean Dubuffet e quelle di August Macke, nelle sue righe le corporeità si dissolvono e si
ricompongono in fluidi movimenti che dall’onirico passano al reale. Un senso
di colpa pervade, in senso freudiano, il continuo coniugarsi con il femminino
della collina. La follia sembra sancita da una forza superiore e coinvolge, insieme
al destino del protagonista, l’ecologia di un mondo perduto. Ade, dio dell’invisibile, diluisce e concentra inchiostro color seppia. Mai vira al nero cupo e
il chiarore che s’intravede al culmine del bosco resta per sempre irraggiungibile.
Il profeta Geremia: “Eccomi a te, monte di distruzione, che distruggi tutta la
terra. Io stenderò la mano su di te, ti rotolerò giù dalle rocce e farò di te una montagna bruciata”. (Geremia 51, 25)
Federico Audisio di Somma
Torino, febbraio 2008
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