Tamara Ferrari

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Tamara Ferrari
Tamara Ferrari
IL CONFINE SMINATO
Cronache da Siria, Iraq, Afghanistan
Libia, Sud Sudan, Bosnia ed Erzegovina, Italia
con una testimonianza di FRANCO DI MARE
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Tamara Ferrari è originaria di Altilia, in provincia di Cosenza, ma
ha vissuto anche a Perugia, Roma e Milano. Giornalista, ha iniziato
come cronista di nera in Calabria, ha lavorato al quotidiano Avvenire
e al Tgcom, ha scritto per diverse testate italiane (Anna, Elle, Glamour,
Libero) e per America Oggi, il giornale degli italiani a New York. Dal
2006 è approdata a Vanity Fair, versione italiana della storica riviVWDDPHULFDQDGRYHODYRUDQHOO·XIÀFLRFHQWUDOHGL0LODQRHFXUDOD
rubrica on line Malanova, quando non è inviata nei teatri di guerra
di tutto il mondo. Nel 2005 è stata autrice dello scoop mondiale
sul risveglio di Salvatore Crisafulli, un uomo in stato vegetativo
permanente. Da quella esperienza è nato il libro Con gli occhi sbarrati
(L’Airone 2006).
Franco Di Mare, giornalista Rai e scrittore. Ha seguito, da inviato,
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conduce La vita in diretta.
* * *
Tamara Ferrari
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Con una testimonianza di Franco Di Mare
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In copertina: foto di Maki Galimberti
© 2014, Edizioni Spartaco
Tutti i diritti riservati
Edizioni Spartaco s.r.l.
sede operativa: via Martucci, 18
81055 Santa Maria Capua Vetere (CE)
www.edizionispartaco.it
Prima edizione italiana: maggio 2014
ISBN 978-88-96350-41-6
Finito di stampare nel mese di aprile 2014
da Printì – Manocalzati (Av)
per conto delle Edizioni Spartaco
Questo libro è stampato su carta Greenpaper
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LA COLLINA TRISTE
Scende giù dalla collina stringendo a sé la sua bambina
morta. La testa poggiata sul petto come se stesse dorPHQGRXQEUDFFLRDEEDQGRQDWROXQJRXQÀDQFRLIROWL
capelli raccolti a coda, all’estremità della gamba destra il
piedino mancante.
Cammina come ondeggiando, portandosi appresso il
suo dolore profondo. Non piange, non si ferma, non
permette a nessuno di aiutarlo. «Grazie, grazie» dice a
chi gli muove incontro. Nel buio della sera avanza sulla
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L’esplosione scuote il centro di Sarajevo poco dopo le
quattro del pomeriggio. Nel bar della caserma Tito Barracks i soldati si precipitano alla porta. «Sembrava vicino»
dice qualcuno. Davide Campisi manda giù un sorso di
caffè: «Non ci giurerei, ma mi è sembrato che lo scoppio
provenisse dalla collina qua di fronte». Poggia la tazzina sul bancone, esce per andare a informarsi e si sente
chiamare. La notizia fa il giro della base: alcuni bambini
sono saltati su una mina mentre si rincorrevano nel prato
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nostra competenza, ma lassù hanno richiesto il nostro
aiuto. Pare che uno sia ancora vivo, bisogna recuperarlo».
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I piccoli sono tre. Stavano giocando a guardie e ladri.
Due probabilmente sono morti, il terzo grida, invoca
aiuto. Sul posto ci sono già gli uomini delle ditte private
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in fretta possibile. «Noi saliamo da destra, voi dagli altri
lati» dice Campisi. Le urla lo scuotono, d’istinto vorrebbe correre il più velocemente possibile, ma non può, e
se ci fossero altri ordigni?
Afferra il metal detector, si porta al limitare della
strada, si concentra, parte. Nella testa le parole del suo
istruttore anziano ai tempi dell’addestramento in Italia:
«Regola numero uno: mai mettersi a rischio, anche se
c’è una vita da salvare. Se muori o diventi anche tu un
ferito, il tuo intervento non sarà servito a niente».
Da tutti i lati della collina gli uomini si affrettano, il
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«Occhio qui» grida uno dei soccorritori. «Qui ce n’è
un’altra» un secondo. Il prato sembra disseminato di mine.
In cima, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro, giacciono a terra i due bambini morti. Impossibile raggiungerli senza rischiare, meglio andare da quello che si lamenta.
Ed eccolo, il ferito. Solo che non è un maschietto, ma
una bambina con i capelli lunghi. Un uomo riesce a raggiungerla, la solleva e scuote la testa: «Sta morendo».
Dalla strada uno strillo. Un signore con indosso giacca e pantaloni scuri si precipita su per la collina, ignoUDQGRWXWWLJOLDOW©ËPLDÀJOLDªVXVVXUUDDOOXQJDQGROH
braccia. La prende, la poggia a terra delicatamente, la
scuote, nota il piedino tranciato sotto la caviglia.
«È morta dissanguata, siamo arrivati troppo tardi, ci
dispiace» i soccorritori cercano le parole giuste, ma non
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BAMBINI
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la stringe in un abbraccio, la solleva e si avvia giù per la
collina. Se la porta a casa, dalla sua povera mamma.
Ormai è buio a Sarajevo. Ma la decisione è presa: «Recuperiamo gli altri due ragazzini, alle mine ci pensiamo
domani». Qualcuno porta delle corde, le lanciano verso
i corpicini e lentamente riescono a trascinarli verso di
loro, li prendono, li consegnano alle famiglie. Sul mezzo, mentre tornano alla base, nessuno parla, quella sera
non c’è niente da dire. Il mattino dopo a colazione c’è
chi chiede informazioni. «Era una mina ad azione estesa, attorno ce n’erano altre quattro di minore potenza.
La bambina deve essere inciampata e l’ha azionata col
piedino. Le schegge hanno ucciso gli altri due ragazzini.
Forse, se avesse toccato una delle altre, adesso sarebbero tutti vivi, feriti ma vivi. Sono stati sfortunati» spiega
Campisi a quanti gli si avvicinano per avere notizie.
Per tutta la notte non si è dato pace, chiudeva gli occhi
e rivedeva quel padre che camminava sconvolto con la
ÀJOLDLQEUDFFLR4XHOO·LPPDJLQHFKHUHVWHUjSHUVHPpre impressa nella sua mente, lo tormenta. Si rifugia nel
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Diciotto mesi prima è nata la seconda, Federica, mentre
Erika ha già compiuto sei anni. Rivede il momento in cui
le ha salutate prima di partire per la Bosnia. Sono passati
solo pochi giorni ma la nostalgia si sente, specialmente
adesso, dopo aver visto quei tre bambini morti.
Tocca a lui far saltare in aria quelle quattro mine maledette. Mentre aziona l’esplosivo pensa al dolore di quel
pover’uomo, pensa che non dovrebbe mai accadere che
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