Dalla galassia digitale alla galassia Gutenberg

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Dalla galassia digitale alla galassia Gutenberg
Humanist Studies & the Digital Age, 2.1 (2012)
ISSN: 2158-3846 (online)
http://journals.oregondigital.org/hsda/
DOI: 10.5399/uo/hsda.2.1.3006
Dalla galassia digitale alla galassia Gutenberg
Arturo Mazzarella, Università Roma Tre
Abstract: This essay proposes going beyond the difference between literary
writing and new communication technologies. This appears to be possible by
using a genealogical perspective that can recognize the underlying
relationships between communication strategies that on the surface seem
different. For this, it is necessary to identify the remote and unexpected
ascendancies of diverse languages at a moment when the various media
express themselves in an increasingly similar style. Even literary language
should be considered a medium that shapes and models reality, using codes
that are anthropological before they are aesthetic. As Viktor Shklovsky, Italo
Calvino, and Paolo Fabbri have shown, literary language explores reality by
revealing its incompleteness. On the contrary, ordinary language is confined
to that incompleteness with its standard lexicon that would claim to enclose
reality within a net of pre-established recurrences.
Il saggio invita ad andare oltre il divario esistente tra scrittura letteraria e
nuove tecnologie della comunicazione . Questo appare possibile attraverso
una prospettiva genealogica che sappia riconoscere le relazioni sotterranee
che si stabiliscono tra strategie comunicative che in superficie appaiono
diverse. Per questo occorre riconoscere le ascendenze remote e inaspettate dei
diversi linguaggi in un momento in cui i vari media si esprimono in maniera
sempre più intrecciata. Anche il linguaggio letterario va considerato come un
medium che foggia e plasma la realtà utilizzando codici che sono
antropologici prima ancora che essere estetici. Come hanno mostrato sia pure
in maniera diversa Viktor Šklovskij, Italo Calvino e Paolo Fabbri, il linguaggio
letterario esplora la realtà, rivelandone l’incompiutezza alla quale è
inchiodato il linguaggio ordinario: quel lessico usuale che pretenderebbe di
racchiudere la realtà entro una griglia di ricorrenze prestabilite.
A guardarsi intorno, con il disincanto irriverente che ogni attendibile valutazione
richiede, non c’è dubbio: la letteratura sembra, oramai, avere compiuto il suo ultimo giro di
boa.
Da vertice incontrastato della piramide del sapere è scivolata, nel rapido giro di qualche
decennio, all’interno del limbo dei residui archeologici, delle testimonianze il cui
monumentale prestigio è pari al loro anacronismo. Non mancano, certo, le voci dei suoi
nostalgici apologeti che si appellano, per arrestarne il declino, all’investitura di un’aura
quasi metastorica, acquistata lungo secoli di onori e privilegi. Sono voci molto spesso
autorevoli, accorate e ispirate quanto lo erano i sacerdoti e le vestali dei grandi santuari che
esistevano una volta. Ma il loro pathos, purtroppo, non è sufficiente a contrastare la
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pressante invadenza con la quale l’attuale universo della comunicazione ha imposto, anche
al senso comune, nuove parole d’ordine. Artificialità, simulazione, virtualità.
Di fronte alla seducente effervescenza, alla sinuosa plasticità che evocano questi
termini, come non riporre la tetra gravità della pagina scritta tra gli attrezzi di un sapere
logoro e desueto? Non potrebbe essere altrimenti, almeno attenendosi alla conformazione
materiale dei media in questione: la scrittura letteraria, da un lato, e le nuove tecnologie
della comunicazione, dall’altro. Divisi dal solco, in apparenza incolmabile, che separa la
greve solidità dalla impalpabile leggerezza; che oppone il regime di rigidi vincoli percettivi
ed espressivi assegnati alla galassia Gutenberg – ma più in generale all’intero sistema
alfabetico – e la sterminata libertà assicurata a strategie puramente connettive, come quelle
adoperate dai media digitali.
Il divario non potrebbe essere maggiore, è ovvio. Solo se ci si arresta, però, alla
perversa idolatria dell’evidenza, incline a spiegare un evento in base allo spettro di
caratteristiche da esso immediatamente esibite. Si tratta di una tendenza pericolosa. In
questo caso rischia di presentare all’insegna di una indiscriminata apologia della novità ciò
che non lo è; o, meglio, è nuovo solo in parte. Ogni interpretazione, va ricordato, qualora
non riguadagni una postazione “genealogica” – direbbe Foucault –, è destinata alla pura
sterilità del suo esercizio, alla tautologia inconcludente delle sue acquisizioni.
La necessità di procedere a una verifica dei media che non sia puramente descrittiva
sta diventando un’urgenza difficile da rinviare, quanto più il loro assetto attuale pare
irreversibilmente regolato da vettori che trovano il proprio epicentro nella contaminazione e
nel meticciato. Sono concetti che, richiamando esplicitamente la costellazione semantica
dell’”impurità,” esigono chiavi interpretative multiple, in grado di penetrare all’interno di
una logica stratificata; di una storia scandita da convergenze e sovrapposizioni inaspettate;
che richiedono di accantonare la lineare, pacifica successione di “antichi” e “nuovi”
linguaggi, attestata da un osservatore pronto a registrare l’incontestabilità di quanto appare
evidente. “Là dove le cose iniziano la loro storia – ha ricordato Foucault in pagine oramai
classiche –, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, – ma la
discordia delle altre cose, il disparato” (32).
Ecco il compito della ricostruzione genealogica: scavare nella discordia, andare alla
ricerca di quel’“disparato” che giace sepolto nelle pieghe di eventi avvolti – così sembra –
dall’alone rassicurante della trasparenza, dell’univocità. Ciascun evento mostrerà, così, una
provenienza sempre ibrida e contraddittoria, esattamente antitetica alle certezze che la
fiducia nell’evidenza tenta di accreditare. La provenienza – prosegue, infatti, Foucault –
“permette anche di ritrovare sotto l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la
proliferazione degli eventi attraverso i quali (grazie ai quali, contro i quali) si sono formati”
(35).
Riguadagnata questa prospettiva genealogica, la storia dei media cambia di colpo i
suoi statuti. L’opposizione tra vecchi e nuovi linguaggi viene finalmente a cadere. Si profila
uno scenario inedito. Il ventaglio delle relazioni sotterranee che si stabiliscono tra strategie
comunicative in apparenza divaricate comincia a rivelarsi sempre più ampio. Ciascun
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medium perde la propria autonomia; anche quando sembra imporsi attraverso scatti
tecnologici così decisi e prepotenti – è il caso delle innovazioni introdotte dai nuovi media
– da scompaginare i codici tradizionalmente condivisi della produzione e del consumo.
Ciascun linguaggio mostra ascendenze remote e inaspettate; scopre di provenire da altri
linguaggi: magari considerati consunti e desueti. È precisamente il processo riepilogato con
queste parole da due noti studiosi delle strategie comunicative, Jay David Bolter e Richard
Grusin: “Sembra che nessun medium possa in questo momento storico funzionare
indipendentemente, costruendo il proprio spazio di significati culturali separato e privo di
contaminazioni” (40). Aggiunge Manuel Castells, un altro acuto interprete dell’attuale “età
dell’informazione”: “È proprio grazie alla diversificazione, alla multimodalità e alla
versatilità che il nuovo sistema di comunicazione è in grado di abbracciare e integrare tutte
le forme di espressione, nonché la diversità di interessi, valori e immaginari, inclusa
l’espressione di conflitti sociali” (433).
Alla fine di questa frastagliata trafila genealogica, potremmo anche imbatterci in esiti
imprevedibili. Potremmo, per esempio, accorgerci che la galassia Gutenberg e la galassia
digitale – ma prima ancora “elettrica,” direbbe Marshall McLuhan – non sono due emisferi
lontani anni luce, o comunque antinomici, bensì una coppia di epicentri mobili: attratti da
reciproche convergenze e affinità.
Non c’è da rimanere sconcertati. I media riservano sempre sorprese del genere. Sono
“mezzi,” appunto. Mezzi che trasmettono, veicolano, una matassa di investimenti percettivi
e cognitivi di gran lunga più ingarbugliata di quanto la loro lubrificata traduzione
tecnologica non lasci, di volta in volta, trapelare. Prima di potersi addentrare in questa rete
di asimmetrie, bisogna prima districare alcuni nodi preliminari, rispondere ad alcune
domande pressanti.
Ce n’è una che scatta subito; difficile da aggirare o addirittura – come, pure, avviene
di frequente – da lasciar cadere. Si potrebbe sbrigativamente formulare così: anche il
linguaggio letterario va considerato un medium?
La risposta non ammette repliche: certo che lo è. Lo è sempre stato. Si è sempre
dimostrato un medium dallo straordinario potere creativo; il quale foggia, plasma la realtà
(la “finge”, nell’accezione etimologica del termine, come abbiamo a lungo ricordato di
recente nel mio volume Potenza del falso): con la pregnanza che possiede solo un
dispositivo modellato da codici antropologici, prima che estetici.
Il linguaggio letterario corrisponde, infatti, a un’esigenza squisitamente
comunicativa. Qui affondano le sue radici: molto meno evanescenti e misteriose di quanto
secoli di solipsismo idealistico, o decenni di formalismo e semiologia (due tradizioni
concettuali molto più vicine di quanto sembri a prima vista), vorrebbero far credere. La
necessità di ampliare l’ambito del linguaggio ordinario, di estenderne i vincoli imposti da
una rigida predeterminazione, si incrocia puntualmente con il ricorso al medium letterario.
Se gli insistenti richiami che provengono, lungo questa direzione, da Vico, Herder o Novalis
dovessero sembrare troppo remoti, non lo sono certo le riflessioni di due testimoni di sicuro
più aderenti al nostro lessico quali Viktor Šklovskij e Italo Calvino.
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Lasciamo parlare, per ragioni cronologiche, prima Šklovskij, mentre è impegnato a
definire, partendo da Tolstoj, la sua celebre teoria dello “straniamento”:
Il procedimento dello straniamento in Tolstoj consiste nel fatto che non chiama
l’oggetto col suo nome, ma lo descrive come se lo vedesse per la prima volta, e
l’avvenimento come se accadesse per la prima volta; per cui adopera nella
descrizione dell’oggetto non le denominazioni abituali delle sue parti, bensì quelle
delle parti corrispondenti in altri oggetti. (13)
Poco oltre il discorso di Šklovskij acquista un respiro più ampio, allargando le maglie di
un’analisi che – per la spiccata vocazione teorica connaturata all’intelligenza di questo
bizzarro “formalista” – poteva diventare troppo circoscritta. È il motivo per cui Šklovskij si
preoccupa di aggiungere:
Il procedimento dello straniamento non è esclusivo di Tolstoj. Ne ho condotto una
descrizione su materiale tolstojano in base a considerazioni eminentemente
pratiche, semplicemente perché lo conoscono tutti. ... Personalmente, ritengo che
quasi ovunque ci sia un’immagine, ci sia straniamento. ... Scopo dell’immagine non
è l’avvicinamento del suo significato alla nostra comprensione, ma la creazione di
una particolare percezione dell’oggetto, la creazione della sua “visione,” e non del
suo “riconoscimento.” (18)
Il linguaggio letterario – vuole dire Šklovskij – ha un solo campo di articolazione:
precisamente quello delimitato dall’esperienza comune, anche la più consueta, la quale non
subisce alcuna alterazione, ma viene solo osservata da un punto di vista nuovo. Da una
prospettiva sottratta al condizionamento delle convenzioni, ai reiterati automatismi
percettivi che, inesorabilmente, confermano e ripropongono quanto è già noto. Sostituire la
“visione” al “riconoscimento” significa, per Šklovskij, scrutare e mettere a fuoco le
innumerevoli potenzialità, sempre nuove e diverse, che percorrono il tessuto dell’esperienza
quotidiana. La scrittura letteraria non inventa nulla: anche quella animata dalla tensione più
spericolata e trasgressiva (connotati che, se non si addicono certo a Tolstoj, sono di sicuro
prerogativa di Cervantes e Sterne: due autori su cui, sempre nella Teoria della prosa,
Šklovskij si sofferma a lungo). Essa si rivolge, piuttosto, all’esplorazione della realtà,
rivelandone, ogni volta, l’intrinseca incompiutezza. L’incompiutezza alla quale è inchiodato
il linguaggio ordinario: quel lessico usuale che pretenderebbe di racchiudere la realtà entro
una griglia di ricorrenze prestabilite.
Calvino ne è convinto quanto Šklovskij; con il vantaggio, scrivendo oltre mezzo
secolo dopo, di riuscire a modulare il concetto di realtà attraverso una gamma di accezioni
impensabili nei primi decenni del Novecento: molto più vaghe e indeterminate, ma nello
stesso tempo precise, consistenti, come raramente accade. Nel suo testamento intellettuale,
le Lezioni americane, Calvino depone molte delle proprie maschere volutamente depistanti
per giocare a volto scoperto. Per diventare addirittura perentorio. Come in questo caso:
Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi
sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale,
sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile .[...] Alle volte mi sembra che
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un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la
caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come
perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a
livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i
significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi
dallo scontro delle parole con nuove circostanze. ... La letteratura (e forse solo la
letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del
linguaggio. (678)
Attenzione, siamo di fronte a un passo cruciale che, se interpretato con aderenza al
ragionamento di Calvino, può anche segnare una svolta per le sorti della letteratura:
finalmente sottratta alla palude dei tronfi, quanto improduttivi, privilegi nella quale è stata
confinata lungo la sua storia. Calvino ci sta spiegando, con l’abituale semplicità, che la
letteratura, se si prescinde dai soliti luoghi comuni, non ha niente dell’ipotetico carattere
intransitivo che, con tenacia, le è stato attribuito nel tempo. Al contrario, si rivolge solo alla
realtà: con attenzione martellante. Non parla d’altro che della realtà. Ma non della realtà
percepita attraverso lo schermo deformante delle denominazioni consuete –automatiche,
direbbe Šklovskij. Il suo campo di pertinenza coincide con quel territorio, infinitamente più
esteso e sfuggente, che il linguaggio ordinario è costretto a escludere dal proprio ambito.
L’”epidemia pestilenziale” che, secondo Calvino, ha colpito il linguaggio deriva, non
a caso, da una progressiva atrofia espressiva; da una convenzionalità “anonima” e “astratta,”
incapace di conformarsi alle molteplici espressioni della realtà, virtualmente illimitate nelle
loro connessioni. Per non rimanere vittime di questo morbo che rischia di prosciugare la
sfera dell’esperienza, bisogna ricorrere a un antidoto in grado di infrangere l’ossificato
spettro della nomenclatura linguistica già codificata e collaudata. Anzi, più che di un
antidoto si tratta, per Calvino, di un anticorpo, che si sviluppa dall’interno stesso del tessuto
aggredito. Tale è, appunto, la letteratura. Parole che si oppongono, nella loro libertà
compositiva, ad altre parole: alle parole logore e consunte – anche se indispensabili – a cui
si affida la convenzione linguistica, falsamente precisa perché ritagliata su un arco di
possibilità espressive necessariamente limitate. Contro di esse, contro la loro programmatica
asfissia, Calvino si scaglia con vigore: trapiantando il concetto di esattezza – questo è il
titolo della “lezione” a cui ci stiamo riferendo – all’interno di una semantica ben più ampia
e variegata, nella quale nulla appare definitivo o irrigidito, dal momento che il linguaggio
viene impiegato in un intreccio di combinazioni talmente duttili da risultare pressoché
illimitate.
Richiamando
l’”opposizione
contemporanea,” Calvino aggiunge:
ordine-disordine,
fondamentale
nella
scienza
L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice
d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone
d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui
sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste
minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso,
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non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente
come un organismo. (687-688)
La traiettoria delineata da Calvino non ha nulla di arbitrario o di trasgressivo. Non erode
né incrina i procedimenti elementari che regolano la prassi linguistica. Piuttosto li affianca,
allentandone la prescrittività dei vincoli, fino a scioglierli in un tessuto di relazioni
molteplici e indeterminate. Tutte possibili: logicamente, fisicamente, possibili.
Siamo arrivati al nodo decisivo. Gli statuti della letteratura non si qualificano in base a
criteri specifici; non possiedono alcuna marca peculiare, né si fondano su una coerente
autonomia interna (al contrario di quanto è stato rivendicato dall’ortodossia formalista,
strutturalista e semiologica: Šklovskij escluso, ovviamente). Le funzioni particolari attribuite
alla letteratura – soprattutto a opera delle fin troppo celebri ripartizioni proposte da
Jakobson – non riusciranno mai a dissolvere la profonda contiguità che la stringe, l’ha
sempre stretta, al linguaggio ordinario: matrice e veicolo indispensabile di ogni
testimonianza che si inscriva all’interno dell’istituzione letteraria. C’è anche una prova
contraria che lo conferma. Quando questa rete di giunture viene meno, sotto la spinta di una
radicale operazione eversiva, si esce automaticamente dai confini della letteratura, per
entrare nel cosiddetto territorio dell’“anti-letterarietà”: come accade a ogni esperienza che si
presenti all’insegna dell’avanguardia o, comunque, di una premeditata, irriducibile,
trasgressione linguistica.
Perché, dunque, il discorso letterario possa dispiegarsi occorre necessariamente una
stretta connivenza con il linguaggio comune. Troppo spesso ci si dimentica, nel ricondurre
il nostro patrimonio linguistico alle accezioni più eccentriche e sofisticate, della tagliente,
ma anche brutale semplicità di Wittgenstein: costretto a ribadire, nelle Ricerche filosofiche,
che “ciò che chiamiamo ‘linguaggio’ è innanzi tutto l’apparato del nostro linguaggio
ordinario, del nostro linguaggio parlato; e poi altre cose, secondo la loro analogia o la loro
confrontabilità con esso” (Ricerche filosofiche 494). Parafrasando Wittgenstein, si rivela
dello stesso avviso anche Michel de Certeau, attento estensore delle mappe del sapere
quotidiano: “Noi siamo sottomessi al linguaggio comune, anche se non identificati con esso”
(39). Questo vuol dire, in altre parole, che l’inestirpabile radicamento del discorso letterario
sul tronco del linguaggio ordinario non esclude certo il serrato antagonismo tra i due regimi,
la sfida lanciata dalla letteratura alle risorse limitate di cui dispone il linguaggio quotidiano.
Proprio su questo sconcertante intreccio si soffermano sia Šklovskij sia Calvino.
Come sciogliere questo nodo? Azzardiamo un’ipotesi, anch’essa molto semplice.
Potremmo riassumerla così: la letteratura non è altro che il linguaggio declinato nella sua
tensione puramente “creativa.” Si tratta di un impulso che non trasgredisce l’assetto del
linguaggio ordinario; non lo eccede, non lo travalica. Costituisce, al contrario, il
presupposto sottinteso alla formazione, e al sostentamento, di ogni organismo linguistico: la
cui necessaria cristallizzazione in vincoli normativi va interpretata come la temporanea – e,
dunque, sempre precaria - traduzione sistematica di una costante esigenza inventiva.
Proprio intorno al concetto di energeia Wilhelm von Humboldt, padre della moderna
filosofia del linguaggio, ritaglia interamente la sua riflessione riguardo alla genesi e alla
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evoluzione della sfera linguistica. Non è una testimonianza isolata, né anacronistica.
Venendo ai giorno nostri, infatti, la naturale creatività radicata nell’esperienza del
linguaggio è stata sottolineata sia da Tullio De Mauro sia da Paolo Fabbri, con vigore pari
alla distanza teorica che li divide.
Leggiamo le parole di De Mauro:
In rapporto all’insieme la creatività si manifesta come continua oscillazione
potenziale ed effettiva. Mentre il “vocabolario” di altri tipi di codici semiologici è
stabile, nel caso delle lingue abbiamo a che fare con un insieme altamente instabile.
Da questa considerazione di ordine generale ne discende, secondo De Mauro, che
la creatività si manifesta sul piano dei significanti e dei significati come possibile
oscillazione tra un massimo e un minimo di informalità. ... Sul piano dell’insieme
lessicale, essa si manifesta come apertura dell’insieme all’accoglimento di nuove
parole, alla riutilizzazione di vecchie parole, alla rideterminazione di vecchi
sintagmi in nuove espressioni cristallizzate e idiomatiche. ... Sul piano della
sintassi, della connessione tra segni, la creatività opera come possibilità di
cancellazione ovvero di pieno riconoscimento delle articolazioni di ciascun segno e
delle sue connessioni articolate con altri. Infine sul piano del contenuto, la
creatività, il cui volto semantico è l’indeterminatezza, fa sì che entro una lingua o,
più esattamente, entro il suo contenuto possano disporsi piani diversi, il piano
delle realtà linguistiche e quello delle realtà extralinguistiche, l’uno e l’altro
riarticolabili e riarticolati in una pluralità di piani tale da non consentire di stabilire
un suo limite. Consegue da tutto ciò che la costruzione d’una frase o discorso per
veicolare un senso è sempre in qualche modo possibile a misura che sempre essa è
in qualche grado problematica. (46-52)
Il riscontro con gli esiti incrociati dalla riflessione di Paolo Fabbri – lungo un percorso
teorico di tutt’altro tipo – è puntuale. La creatività (poeticità, nell’accezione etimologica del
termine) si presenta, anche per lui, come il presupposto indiscutibile dell’esperienza
linguistica:
La poeticità è l’esperienza del linguaggio portato alla sua sempre penultima
possibilità. In altre parole, il linguaggio comune è soltanto una sottrazione
stabilizzata rispetto alle possibilità di cui la poeticità si propone come interprete
autentica. Quando pensate al linguaggio, non dovete pensare alla somma di
morfologie ereditarie del lessico e dell’enciclopedia a cui viene poi aggiunta la
somma delle regole sintattiche di combinazioni lessicali e di frasi. Dovete invece
pensare alla totale possibilità a cui il discorso poetico porta nella nostra condizione
di parola e da questa, poi, sottrarre quella serie di fenomeni che le urgenze della
vita ci fanno chiamare linguaggio comune. È sulla poeticità, cioè, sull’insieme dei
possibili racconti in variazione, sulle metafore che sfruttiamo e che noi vediamo
come totalità aperta, che una sottrazione radicale a un numero semplificato di
urgenze logiche ci conduce a dare il nome di linguaggio naturale. (65)
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Si potrebbe aggiungere, seguendo un ulteriore suggerimento di Fabbri, che “non c’è
lingua normale il cui scarto sarebbe la lingua poetica. È il funzionamento poetico a rivelare
la totalità onnicomprensiva del linguaggio il cui scarto ridotto è la lingua normale” (66).
La letteratura racchiude, dunque, al suo interno tutte le proprietà comunicative insite
nell’esperienza linguistica. Le contiene come incastonate in una cornice di ideale
trasparenza (vero e proprio brainframe – secondo il significato in cui lo intende Derrick de
Kerckhove, uno tra i più accreditati fiancheggiatori della rivoluzione digitale – Al punto da
restituire in filigrana lo schema che regola le condizioni stesse della comunicazione
linguistica: flusso di segni che deve il proprio dispiegamento alla costante variazione
“creativa,” all’indeterminata oscillazione semantica radicata nella sua costituzione.
Adesso la risposta al quesito dal quale avevamo preso le mosse comincia a delinearsi in
modo più nitido. La letteratura non solo è un medium al pari degli altri, ma si rivela un
veicolo dallo straordinario vigore comunicativo. Un tramite che consente di aderire alla
realtà con fedele precisione, in quanto la costeggia e la incalza seguendo l’unica legge che ne
governa il corso: l’imprevedibilità delle sue innumerevoli concatenazioni.
Scartando la piatta e ottusa realtà dell’evidenza, delle logore consuetudini, la letteratura
– grazie alla flessibilità del materiale linguistico adottato – può rivolgersi a un’altra realtà:
quella osservata dall’angolo prospettico di un’ illimitata pluralità dei punti di vista. Proprio
a essa si rivolge Calvino nelle Lezioni americane, dopo averla scrutata con attenzione
instancabile lungo tutta la sua opera narrativa:
La scrittura modello d’ogni processo della realtà... anzi, unica realtà conoscibile...
anzi, unica realtà tout-court... No, non mi metterò su questo binario obbligato che
mi porta troppo lontano dall’uso della parola come io la intendo, come
inseguimento perpetuo delle cose, adeguamento alla loro varietà infinita. ...
Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per
muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso
all’antropologia, all’etnologia, alla mitologia. (653)
Il freddo, algido Calvino, impassibile cultore di un’astratta ingegneria testuale alla quale
si è votato, negli anni, con religioso fervore – secondo un banale, ma resistente, luogo
comune continuamente riproposto –, si dimostra attraverso questi passaggi un formidabile
esperto di teoria della comunicazione linguistica. L’esercizio letterario si profila, ai suoi
occhi, come un tirocinio durante il quale viene sondato l’intero arco di risorse che il
linguaggio possiede. Vengono sperimentate le sue indefinite potenzialità creative, proprie di
un sistema combinatorio in grado di trovare sempre nuove connessioni, che dilatano ed
estendono gli inesorabili confini assegnati dal linguaggio ordinario ai suoi utenti. Grazie
all’apporto della letteratura, la comunicazione linguistica esibisce una volta per tutte la
perenne inquietudine che batte, pulsa, in ciascun segmento del suo processo, mai assestato
in un esito definitivo; sempre suscettibile, viceversa, di rettifiche e di nuove acquisizioni,
perché sospeso sulla frontiera esile e scivolosa di una ipoteticità impossibile da calcolare, di
una virtualità inesauribile. Ecco il tragitto che la scrittura letteraria dovrebbe seguire per
rimanere fedele alla propria connaturata vocazione creativa: proiettare le schegge della
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realtà presente sullo schermo delle molteplici connessioni che ognuna di esse lascia via via
intravedere.
Trasposta in questo sistema di configurazioni, la realtà si rivela un campo percorso da
tensioni e spinte che destabilizzano gli schemi dettati dalla consuetudine: destituiti a favore
dell’indeterminata sequenza di nessi che è possibile instaurare. Le tradizionali opposizioni
vengono, dunque, a sfaldarsi. Tutto diventa fluido, mobile, quasi immateriale; tanto da
consentire le associazioni più azzardate. Come quelle, per esempio, che si possono scorgere
tra termini dotati, per convenzione, di un significato opposto. Intorno alla loro paradossale –
ma solo in apparenza – osmosi ruota la semantica che, con le Lezioni americane, Calvino
intende proporre:
Ogni valore che scelgo come tema delle mie conferenze, l’ho detto in principio, non
pretende d’escludere il valore contrario: come nel mio elogio della leggerezza era
implicito il mio rispetto per il peso, così questa apologia della rapidità non
pretende di negare i piaceri dell’indugio. (668)
Cosa vuol dire Calvino? Forse che tutti gli slittamenti sono plausibili? No, di certo. Sta
semplicemente verificando la naturale oscillazione alla quale è soggetto ogni significato,
anche il più stabile. Sia De Mauro sia Fabbri concorderebbero in pieno con lui.
Di questa fisiologica vaghezza è responsabile solo il punto di vista che regola l’uso di
ciascun termine. Ed esso non solo varia, ma le sue variazioni devono essere, per quanto
possibile, anche previste: proprio per circoscrivere, di volta in volta, la determinazione del
singolo significato. È quanto afferma Wittgenstein in questa folgorante battuta del suo Big
Typescript: “Se non posso immaginare come sarebbe, se fosse diversamente, allora non
posso nemmeno immaginare come possa essere così” (The Big Typescript 106). Calvino
potrebbe sottoscrivere in pieno l’affermazione di Wittgenstein. Lo ha ribadito quasi in ogni
pagina delle Lezioni americane: le virtualità contenute all’interno del sistema linguistico
costituiscono lo sfondo nel quale prende corpo, si articola materialmente – come
provvisoria manifestazione – un preciso significato. La scrittura letteraria non fa altro che
esplicitare ed esibire queste potenzialità, presenti nella radice stessa del linguaggio.
Non a caso Calvino, servendosi dell’autorevole mediazione di Borges, conclude le sue
Lezioni sottolineando l’estesa e variegata gamma di virtualità impresse nella “grande rete”
della scrittura letteraria:
Le ipotesi che Borges enuncia in questo racconto [Il giardino dei sentieri che si
biforcano], ognuna contenuta (e quasi nascosta) in poche righe, sono: un’idea di
tempo puntuale, quasi un assoluto presente soggettivo; .... poi un’idea di tempo
determinato dalla volontà, in cui il futuro si presenti irrevocabile come il passato; e
infine l’idea centrale del racconto: un tempo plurimo e ramificato in cui ogni
presente si biforca in due futuri, in modo di formare ... “una rete crescente e
vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli.” ... Il modello della rete dei
possibili può dunque essere concentrato nelle poche pagine d’un racconto di
Borges, come può fare da struttura portante a romanzi lunghi o lunghissimi, dove la
densità di concentrazione si riproduce nelle singole parti. ... Sono giunto al termine
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di questa mia apologia del romanzo come grande rete. ... Chi siamo noi, chi è
ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture,
d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario
d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato
e riordinato in tutti i modi possibili. (729)
Nel giro di pochi passaggi Calvino offre una ricapitolazione esemplare dei presupposti
intorno ai quali ruota – ha sempre ruotato - la scrittura letteraria. Richiamarli all’attenzione,
insistere senza alibi o reticenze sulle loro peculiarità, diventa un compito ineludibile
quando la letteratura si trova proiettata, come accade nel corso del secondo Novecento,
all’interno di un sistema generale della comunicazione sempre più curvato verso una
capillare integrazione dei suoi singoli segmenti. Sollecitata da questo confronto, la scrittura
può rivelare un profilo del tutto inedito, e anche sconcertante, rispetto ai polverosi valori
estetici o etico-pedagogici che la tradizione umanistica – incurante della propria
irreversibile agonia – deposita intorno all’insieme di testimonianze appartenenti all’ambito
della letteratura.
Il ragionamento di Calvino non ammette, nella sua limpida scorrevolezza,
fraintendimenti; né, tanto meno, maliziosi equivoci interpretativi. A legittimare la
sopravvivenza della scrittura letteraria non è la sua sedicente superiorità gerarchica rispetto
a ogni altra pratica linguistica, come vorrebbe quella secolare tradizione che attribuisce un
valore metastorico alla lettera archiviata: traccia di una persistenza destinata a riproporre
inalterate le prerogative della sua originaria ispirazione. Disposte lungo questo nobile
sentiero, le opere letterarie possono essere valutate solo in base al criterio tautologico della
propria autosufficienza, non certo in relazione alle loro potenzialità comunicative: allo
scompaginamento, cioè, delle restrizioni usuali entro le quali è costretto a snodarsi il
linguaggio comune. È questa, secondo Calvino, l’unica traiettoria congeniale alla letteratura:
il percorso che, seguito con fedeltà e coerenza, riesce a esaltare la sua tensione creativa.
Allora, davvero, classicismo e modernità si intrecciano, secondo gli incroci suggeriti
dalle Lezioni americane, in una comune ascendenza genealogica, il cui schizzo figurativo
potrebbe coincidere con i bordi di una cornice – di un brainframe, ancora una volta – che
contiene al proprio interno il principio stesso della virtualità. Calvino, sulla scorta di
Borges, lo rappresenta come una “rete dei possibili” dalla quale si diramano innumerevoli
links narrativi: tanti quante sono le postazioni degli ipotetici punti di vista disseminati in
ogni racconto. Che nel suo puro assetto formale, emancipato dall’ingombro di messaggi
addizionali, corrisponde a una sorta di “albero delle possibilità”: così lo ha definito Milan
Kundera in uno dei suoi ultimi romanzi, L’identità.
Brainframe, possibilità, virtualità: sono termini che ci immettono di colpo nel lessico
proprio dei nuovi media.
È uno scenario semantico sul quale nessun linguaggio, nessun dispositivo, può
avanzare diritti di primogenitura o rivendicare una pertinenza esclusiva: appartiene, infatti,
sia alla letteratura sia alle tecnologie della comunicazione elettronica. L’opposizione tra
vecchi e nuovi media si rivela, di conseguenza, non solo inesistente, ma anche fuorviante,
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Humanist Studies & the Digital Age
Arturo Mazzarella
in quanto ritagliata su schemi gerarchici del tutto inattendibili. Perché, allora, non
reinventare il medium – come si intitola un lungimirante saggio di Rosalind Krauss –, non
scompaginare di continuo lo scenario già noto della comunicazione? Probabilmente è
l’unico modo per orientarci nel nostro aggrovigliato presente. Con la consapevolezza, però,
che nessuna invenzione si lascia mai predeterminare. È meglio saperlo in anticipo.
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