Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza 9

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Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza 9
Corte di Cassazione, II Sezione penale, sentenza 9 luglio (c.c.) – 21 luglio 2010, n. 28683
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BARDOVAGNI Paolo
- Presidente Dott. CASUCCI Giuliano
- Consigliere Dott. NUZZO Laurenza
- Consigliere Dott. MANNA Antonio - rel. Consigliere Dott. DIOTALLEVI Giovanni
- Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.A., in proprio e nella qualità di legale
rappresentante della (A) S.r.l.;
V.N.;
L.F.A.;
avverso la sentenza 15.12.09 della Corte d'Appello di Caltanissetta;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita in pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Antonio
Manna;
udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. MURA Antonio,
che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
udita la difesa del V. - avv. ----- -, che ha
concluso per l'annullamento dell'impugnata sentenza in virtù dei
motivi di cui ai ricorsi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza 31.3.09 il Tribunale di Nicosia condannava B. A., V.N. e L.F.A. per concorso nel delitto di cui
all'art. 640 bis c.p. perchè, il primo quale amministratore unico della (A) S.r.l., il secondo quale socio della
società e il terzo quale socio occulto della medesima (oltre che amministratore unico della (X)S.r.l.), si erano
procurati l'ingiusto profitto dell'indebita percezione del finanziamento, pari a complessivi Euro 728.111,28,
concesso in via definitiva ex L. n. 488 del 1992 dal Ministero dell'Industria con Decreto 29.4.02.
Gli artifici ed i raggiri erano consistiti nel fatto che, costituita la (A) S.r.l. su iniziativa del L.F. (socio
occulto), ne era stata rappresentata una falsa situazione.
Per l'esattezza, il livello occupazionale non rispondeva al vero (molti dei lavoratori formalmente assunti dalla
(A) erano in realtà rimasti a svolgere le proprie mansioni presso le società facenti capo al L.F., da cui
provenivano), era stato simulato l'acquisto, dalla (X)S.r.l., di due immobili da destinare all'attività di
produzione dei servizi e alla formazione e all'aggiornamento professionale ed infine risultava fittizio
l'aumento di capitale per complessive L. 1.750.000.000 deliberato per far figurare un capitale sociale pari
all'importo necessario a conseguire il finanziamento.
Tale aumento di capitale era stato ritenuto non genuino perchè i relativi conferimenti erano stati effettuati
con denaro proveniente da società riconducibili al L.F. (la citata (X)e la Ceramiche L.F.) e sostanzialmente
poi tornato alle stesse mediante simulate operazioni (fittizi pagamenti di debiti verso le società medesime)
pressochè contestuali ai versamenti in favore della (A).
La stessa sentenza irrogava a detta società, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, la sanzione amministrativa
pecuniaria di Euro 60.000,00 nonchè le sanzioni interdittive dell'esclusione da agevolazioni, finanziamenti,
contributi o sussidi, la revoca del finanziamento ottenuto, il divieto di contrattare con la p.a. e il divieto di
pubblicizzare beni e servizi per la durata di un anno.
Infine, il D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19 cit. il Tribunale disponeva altresì la confisca dei beni immobili in
sequestro.
Con sentenza 15.12.09 la Corte d'Appello di Caltanissetta revocava la sospensione condizionale della pena
concessa in primo grado al L. F. e dichiarava interamente condonata la pena inflittagli, confermando nel
resto la statuizione di prime cure.
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Con separati atti il B. (in proprio e nella qualità di legale rappresentante della (A) S.r.l.), il V. e il L. F.
ricorrevano contro detta sentenza, di cui chiedevano l'annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei
limiti prescritti dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
a) il L.F. coltivava l'eccezione di incompetenza territoriale, erroneamente disattesa dai giudici del merito,
essendosi perfezionato il delitto nel tempo e nel luogo in cui le tranches di finanziamento erano state
accreditate dal Ministero, vale a dire presso la BNL a Roma; solo per mera comodità ne era stato poi chiesto
lo storno presso una banca di Nicosia, ma ciò era un post factum rispetto alla già avvenuta consumazione del
delitto, coincidente nel tempo e nel luogo in cui si era verificata la deminutio patrimonii per l'ente pubblico;
b) il B. ed il V. denunciavano un errore di diritto ed un travisamento dei fatti laddove l'impugnata sentenza
aveva ritenuto l'illegittimità dell'indebitamento dei soci in favore della società nonostante che l'art. 2467 c.c.
consentisse in qualsiasi forma il finanziamento da parte dei soci; in particolare, il debito di L. 850 milioni
che la (A) S.r.l. aveva verso la (X)S.r.l.
era divenuto, grazie ad un fatto meramente permutativo, un debito verso i soci con vincolo di destinazione
per effetto delle condizioni imposte dalla norma agevolativa; inoltre, sosteneva il B., la Corte territoriale non
aveva considerato che l'indebitamento soggettivo dei soci conseguente alla delibera di aumento del capitale
sociale creava in capo alla (A) S.r.l. una reale disponibilità che sarebbe stata ripianata dopo l'erogazione del
finanziamento, cosa poi puntualmente avvenuta e non vietata dalla legge;
c) il L.F. deduceva vizio di motivazione laddove la Corte territoriale, vista la modestia dei redditi dichiarati,
aveva ritenuto la sostanziale incapacità economica dei soci della (A) che avevano deliberato il consistente
aumento di capitale;
a riguardo obiettava che non poteva accettarsi che la capacità imprenditoriale di un singolo soggetto
dipendesse dalle liquidità di cui disponeva; inoltre, una volta ammessa la possibilità di finanziare la (A)
mediante indebitamento dei soci, non rilevava più la possidenza di liquidità in capo ai soci medesimi;
d) altro travisamento dei fatti e vizio di motivazione lamentato dal B. e dal L.F. riguardava la motivazione carente ed illogica - relativa al pagamento, dopo l'aumento di capitale, di pregressi debiti della (A) verso la
(X)e la Ceramiche L.F., operazioni giudicate con sospetto dai giudici del merito senza che vi fossero prove a
riguardo, ma solo congetture nonostante la documentazione attestante i pregressi rapporti fra dette società;
aggiungeva in proposito il V. che la Corte d'appello non aveva indicato donde fosse emerso che il L.F. aveva
la possibilità di disporre della (X); sempre il V. lamentava travisamento delle prove laddove i giudici del
merito avevano affermato che alle entrate delle tranches di aumento di capitale corrispondeva una pressochè
contestuale uscita a favore di società ricollegabili al L.F., trascurando la documentazione prodotta a sostegno
dell'esistenza di pregressi ed articolati rapporti commerciali fra dette società e la (A) S.r.L, che spiegava i
pagamenti;
e) il B. ed il V. deducevano ulteriore travisamento dei fatti e vizio di motivazione nella parte in cui
l'impugnata sentenza, pur dando atto che la (A) aveva in realtà svolto una certa attività, aveva però concluso
per l'irrilevanza del dato nonostante che l'addebito iniziale di cui al decreto che disponeva il giudizio
concernesse proprio l'asserito carattere fittizio della costituzione della società; del pari era censurabile la
sentenza per aver omesso di motivare su altre doglianze devolute in appello (alle quali rinviavano), nonchè
per aver negato il raggiungimento dei parametri occupazionali necessari per conseguire il finanziamento
(parametri documentati dalle difese); il V. si doleva altresì dell'omessa motivazione sull'utilizzo degli
immobili acquistati e sul raggiungimento degli obiettivi occupazionali e di volume d'affari (analoga
doglianza era mossa anche dal L.F.), nonchè dell'illogicità della motivazione con cui si erano ritenuti
irrilevanti i controlli amministrativi effettuati con esito favorevole;
f) il V. deduceva mancata motivazione sul motivo d'appello relativo alla violazione degli artt. 521 e 522
c.p.p. per essere stata fondata la penale responsabilità degli imputati su fatti successivi alla data di
consumazione del reato, come gli episodi di contestata distrazione parziale degli immobili acquistati dalla
(X); analoga violazione si denunciava nella parte in cui la penale responsabilità del V. era stata ravvisata
sull'asserita sua incapacità economica di concorrere a finanziare l'aumento del capitale sociale, circostanza
non contenuta nel capo di imputazione;
g) il B., il L.F. ed il V. deducevano ancora travisamento dei fatti e vizio di motivazione laddove la Corte
territoriale aveva apoditticamente attribuito al L.F. il ruolo di dominus occulto dell'intera operazione;
il L.F. lamentava che la Corte territoriale aveva altresì frainteso la deposizione del teste G., definito antico
dipendente del L.F.;
obiettava poi il V. che, se davvero il L.F. fosse stato l'artefice dell'intera operazione, come statuito nelle
pronunce di merito, si sarebbe conseguentemente dovuta escludere ogni responsabilità del V. medesimo in
quanto semplice paravento;
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al più, gli si sarebbe dovuto contestare soltanto il delitto di cui all'art. 316 ter c.p.;
h) ancora il V. deduceva violazione degli artt. 507, 603 e 495 c.p.p. nella parte in cui la Corte territoriale
aveva respinto la richiesta di rinnovazione del dibattimento per escutere testi e produrre documenti intesi a
dimostrare la reale attività della (A) e le possidenze patrimoniali del ricorrente (per dissipare il dubbio che si
trattasse di persona non in grado di sostenere la propria quota di onere economico ai fini del deliberato
aumento di capitale);
anche il L.F. lamentava mancata assunzione di una prova decisiva chiesta in via di rinnovazione
dibattimentale (audizione del teste D.N., m.llo della G.d.F., cui il PM aveva rinunciato senza consenso sul
punto da parte della difesa e senza che a riguardo il giudice di prime cure avesse specificamente motivato la
revoca dell'ammissione del teste);
i) in ordine alla confisca, il B. ed il V. lamentavano che, in sostanza, i giudici del merito avevano trasformato
l'originario sequestro preventivo dei due immobili (che non costituivano profitto del reato) in uno per
equivalente, non consentito perchè l'art. 322 ter c.p. richiamato dall'art. 640 quater c.p. consentiva la confisca
per equivalente solo ove quella del prezzo o del profitto dei reati in esso considerati fosse stata impedita da
un fatto sopravvenuto tale da determinarne la perdita o il trasferimento irrecuperabile; inoltre, il D.Lgs. n.
231 del 2001, art. 19 era entrato in vigore dopo la consumazione del reato, da farsi coincidere con
l'erogazione della prima franche del finanziamento; ed ancora, l'impugnata sentenza non aveva risposto al
motivo dell'appello in cui si era evidenziata la scissione fra il ruolo dell'amministratore e quello della (A)
S.r.l.; aggiungeva il V. che erroneamente la confisca aveva avuto ad oggetto beni per un valore
corrispondente all'intero finanziamento anzichè alle sole tranches erogate successivamente all'entrata in
vigore del D.Lgs.;
j) il V. lamentava, ancora, l'incongruenza della confisca degli immobili rispetto all'asserita fittizietà del loro
trasferimento in capo alla (A), società destinataria della misura ablativa;
k) il B. ed il L.F. si dolevano dell'essere stato rubricato il delitto sub specie art. 640 bis c.p. anzichè sub
specie art. 316 ter c.p.;
l) tutti e tre i ricorrenti lamentavano omessa motivazione sulla richiesta di concessione delle attenuanti
generiche e di riduzione della pena;
m) il V. ed il L.F. lamentavano che la Corte territoriale non aveva rilevato l'avvenuta prescrizione del delitto:
a tal fine si sarebbe dovuto considerare non il tempo di pagamento dell'ultima tranche di finanziamento,
bensì l'esaurirsi delle singole condotte addebitate ai ricorrenti.
1- Osserva questa S.C. che il motivo che precede sub a) è infondato.
In virtù di consolidato orientamento giurisprudenziale, cui deve darsi continuità, il delitto p. e p. ex art. 640
bis c.p. si consuma non già nel tempo e nel luogo in cui viene emesso il provvedimento concessorio dei
finanziamenti e/o si realizza la deminutio patrimonii per l'ente pubblico, bensì nel tempo e nel luogo in cui il
soggetto attivo concretamente percepisce l'ingiusto profitto consistente nelle indebite erogazioni pubbliche:
solo in tale momento si consolida la loro definitiva perdita da parte del deceptus.
Essendo il reato de quo a consumazione prolungata (su ciò v. anche infra), tempus e locus commissi delicti
coincidono con quello di riscossione dell'ultima franche di finanziamento, ove questo abbia luogo - appunto in via frazionata (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 2^ n. 31044 dell'11.7.08, dep. 24.7.08, rv. 240659; Cass. Sez. 2^ n.
26256 del 24.4.07, dep. 6.7.07, rv. 237299; analoga conclusione vale per il delitto di cui all'art. 640 c.p.: cfr.
Cass. S.U. n. 18 del 21.6.2000, dep. 1.8.2000, rv. 216429).
Nel caso di specie il L.F., pur ammettendo di aver percepito a Nicosia i finanziamenti per cui è processo,
obietta che avrebbe potuto prelevarli direttamente a Roma, ove erano stati accreditati presso la BNL, oppure
che avrebbe potuto farseli accreditare altrove, anche all'estero.
Ma, si osservi, il fatto che avrebbe potuto farseli accreditare anche altrove o che li avrebbe potuti prelevare
direttamente a Roma non sposta il principio giuridico de quo, nel senso che se diverso fosse stato il luogo di
accredito - vale a dire quello di effettiva e concreta apprensione del bene oggetto di ingiusto profitto diverso sarebbe stato (ma non è quel che è avvenuto nel caso di specie) anche il luogo di consumazione del
reato (e, se l'accredito fosse avvenuto all'estero - il che non è -, sarebbero state applicabili le regole generali
degli artt. 8 e 9 c.p.p. in forza del rinvio di cui all'art. 10 c.p.p., u.c.).
Infine, si osservi che l'eccezione di incompetenza territoriale era stata sollevata avuto riguardo al luogo
(Roma) in cui era stato emesso il provvedimento concessorio dei finanziamenti (il che non rileva, come si è
detto), mentre solo nel ricorso per cassazione il L.F. ha specificato che i fondi sarebbero stati accreditati
presso la BNL di Roma e, poi, bonificati presso un istituto di credito di Nicosia, senza però neppure allegare
che il c/c di accredito presso la BNL a Roma fosse a lui intestato e non si trattasse - invece - del consueto c/c
di appoggio del mandato di pagamento.
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2- Ancora da disattendersi sono i motivi che precedono sub b), c), d), e), g), da esaminarsi congiuntamente
perchè riferiti alla motivazione svolta dai giudici del merito nel ricostruire la vicenda.
L'impugnata sentenza ha asserito non già l'illegittimità dell'aumento di capitale finanziato dai soci ex art.
2467 c.c., bensì il suo carattere fittizio, simulato, in quanto verificatosi solo sulla carta, senza comportare una
reale disponibilità per la società: la circostanza è - per altro - implicitamente riconosciuta nello stesso ricorso
del B. nel momento in cui si afferma che l'indebitamento soggettivo dei soci conseguente alla delibera di
aumento del capitale sociale aveva creato in capo alla (A) S.r.l. una reale disponibilità "che sarebbe stata
ripianata dopo l'erogazione del finanziamento, cosa puntualmente avvenuta e non vietata da alcuna norma di
legge per le società a responsabilità limitata".
Il punto, giova rimarcare, è un altro: quel che viene in rilievo nel caso di specie non è l'esistenza o meno d'un
divieto legislativo, bensì la non effettività di un aumento di capitale che, secondo la ricostruzione in punto di
fatto accolta con doppia pronuncia conforme da parte dei giudici del merito, è stata eseguita con denaro del
L. F. e/o di società a lui riconducibili e, poi, alle stesse immediatamente tornato mediante simulato
pagamento di crediti che le società medesime avrebbero vantato nei confronti della (A) S.r.l., il tutto allo
scopo di simularne una consistenza finanziaria non rispondente al vero.
Tale ricostruzione è stata accertata con motivazione immune da vizi logico-giuridici, in base ad un coerente
quadro indiziario del quale i ricorrenti sollecitano soltanto una diversa possibile lettura, il che non è
consentito in sede di legittimità, noto essendo che, affinchè sia ravvisabile una manifesta illogicità
argomentativa denunciabile per cassazione, non basta rappresentare la mera possibilità di un'ipotesi
alternativa - magari altrettanto logica in via di astratta congettura - rispetto a quella ritenuta in sentenza (a
riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata:
cfr. Cass. Sez. 1^ n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. 1^ n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass.
Sez. 1^ n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. 1^, n. 13528 dell'11.11.98, dep. 22.12.98;
Cass. Sez. 1^ n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16
del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. 1^ n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).
Anche la menzione del conferimento per cassa di L. 850 milioni rileva, nell'economia della motivazione
dell'impugnata sentenza, non solo e non tanto perchè avvenuto per cassa, quanto perchè risultato privo di
qualsivoglia traccia di previa movimentazione bancaria, così come non sono stati supportati
documentalmente (sempre secondo quel che si legge nell'impugnata sentenza) i pregressi rapporti
commerciali fra la (A) e le società del L.F..
Inoltre, l'indebitamento dei soci per effetto dell'aumento di capitale lasciava irrisolto il problema della loro
mancanza di liquidità.
Ancora correttamente è stato desunto in via indiziaria il carattere simulato di tutti i conferimenti grazie al
rilievo che ad ogni versamento (salvo quello di 850 milioni per cassa, poi impiegato per acquisto
immobiliare) faceva seguito un prelievo di uguale importo, in pari data o immediatamente dopo, destinato
alle società riconducibili al L.F..
Quanto, poi, al motivo sub e), in esso si confonde l'astratto diritto del socio di finanziare la società in sede di
aumento di capitale con la materiale capacità economica di farlo.
Anche riguardo ai rapporti tra la (A) e le società - sue creditrici - riconducibili al L.F., l'impugnazione investe
aspetti di merito sottratti alla presente cognizione: in questa sede basti rammentare che la Corte territoriale ha
motivatamente indicato il quadro indiziario posto a fondamento delle conclusioni cui è pervenuta,
essenzialmente imperniato sul fatto che le risorse economiche per l'aumento di capitale provenissero dal L.F.
e a lui fossero tornate per altra via, sotto le mentite spoglie di regolamento di pregresse esposizioni.
Lo stesso dicasi in ordine al ruolo del L.F., cui è stata motivatamente attribuita l'iniziativa e l'ispirazione del
reato, essendogli riconducibili le liquidità e le società utilizzate nell'intera operazione di aumento di capitale
e di predisposizione della apparente consistenza immobiliare e finanziaria della (A).
Ciò non contraddice la condanna del V. quale concorrente nel reato nè la qualificazione dell'illecito come
violazione dell'art. 640 bis c.p.p., atteso che nel concorso di persone ciascuno dei correi risponde del reato
anche se ha posto in essere soltanto un segmento della relativa condotta (sulla non ravvisabilità, nel caso di
specie, degli estremi dell'art. 316 ter c.p. v. meglio infra).
Del pari risponde a titolo di concorso morale nel reato il mero prestanome o "paravento" dell'operazione
delittuosa.
Contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, i giudici d'appello hanno risposto in ordine all'asserito
utilizzo degli immobili acquistati dalla (X)S.r.l. e al conseguimento degli obiettivi occupazionali dei
finanziamenti, che sono stati motivatamente esclusi perchè la sostanziale disponibilità degli immobili non è
mai passata all'acquirente, gli immobili stessi non sono stati destinati allo scopo per i quali figuravano
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acquistati e i lavoratori formalmente assunti continuavano, in realtà, ad espletare le proprie mansioni per
conto del L.F..
Ancora non risponde al vero che l'aumento di capitale non sarebbe stato in alcun modo necessitato ai fini dei
sussidi de quibus, giacchè l'impugnata sentenza ha correttamente evidenziato che, D.M. 20 ottobre 1995, n.
527, ex art. 6, comma 8 (pubblicato sulla G.U. 15.12.95 n. 292), ai fini dell'attribuzione del punteggio utile
alla graduatoria per la loro attribuzione era rilevante che la società avesse una disponibilità finanziaria non
inferiore all'importo delle agevolazioni richieste, il che spiegava l'importanza dell'aumento di capitale, anche
perchè - secondo l'accertamento in fatto operato dalla Corte nissena - la concessione provvisoria del
finanziamento era stata subordinata dal Ministero dell'Industria alla condizione che il richiedente
comprovasse l'apporto di capitale fino al raggiungimento di L. un miliardo e 750 milioni.
Per quanto concerne il carattere fittizio della costituzione della (A) S.r.l. - che ad avviso dei ricorrenti
sarebbe contraddetto dallo svolgimento di una qualche attività da parte della società medesima (e dal relativo
volume d'affari) - si noti che il senso del capo di imputazione e della motivazione dei giudici di merito è non
già in una pretesa simulazione (tecnicamente intesa) del contratto di società della (A) (la simulazione
riguarda, invece, l'aumento di capitale, l'acquisto degli immobili e le assunzioni di dipendenti, secondo
quanto emerge dall'impugnata sentenza), bensì nella strumentalizzazione della (A), vale a dire nell'averla
costituita ad hoc, rispetto a sussidi che, una volta percepiti, non sarebbero stati più impiegati per la
realizzazione degli obiettivi in vista dei quali erano stati concessi dal Ministero.
Nè lo svolgimento d'una qualche attività da parte della (A) contraddice la ricostruzione accolta in sede di
merito: nulla esclude che una società volta a lucrare indebiti finanziamenti finisca, poi, anche con lo svolgere
una qualche attività, connessa o meno con il reale scopo della sua costituzione.
Non si ravvisa contraddittorietà alcuna nemmeno neh" asserita irrilevanza dei controlli amministrativi a
fronte del quadro indiziario che dimostrava il carattere fraudolento dell'intera operazione: d'altronde, se
bastasse l'esito dei controlli amministrativi predisposti a monte e a valle dell'erogazione di finanziamenti
pubblici, si finirebbe in pratica con il demandare allo stesso deceptus l'accertamento del reato p. e p. ex art.
640 bis c.p..
In breve, tutte le obiezioni mosse dai ricorrenti si traducono in mere differenti valutazioni delle risultanze
processuali.
Nè in questa sede possono venire in rilievo i denunciati travisamenti, potendosi mediante ricorso per
cassazione dedurre solo un eventuale travisamento della prova e non già un travisamento del fatto, che
attiene alla generale ricostruzione della vicenda alla luce delle acquisizioni processuali e che non può dedursi
come vizio neppure alla luce del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (come modificato dalla L.
n. 46 del 2000).
In caso di denunciato travisamento della prova questa Corte Suprema, lungi dal procedere ad una
(inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova
risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza distorsioni,
all'interno della decisione.
In proposito la giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. 3^ n. 39729 del 18.6.2009, dep. 12.10.2009, rv. 244623; Cass.
n. 15556 del 12.2.2008, dep. 15.4.2008; Cass. n. 39048/2007, dep. 23.10.2007; Cass. n. 35683 del 10.7.2007,
dep. 28.9.2007; Cass. n. 23419 del 23.5.2007, dep. 14.6.2007; Cass. n. 13648 del 3.4.06, dep. 14.4.2006, ed
altre) può considerarsi ormai consolidata.
Ma nel caso di specie gli unici dedotti travisamenti della prova (concernenti la deposizione del teste G. e la
documentazione inerente ai pregressi rapporti fra la (A) e le società riconducibili al L.F.) sono generici e,
ancor prima, inibiti dal pregiudiziale rilievo che - secondo ormai largamente maggioritario orientamento di
questa S.C., meritevole di essere condiviso - la novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) consente la
deduzione del vizio di travisamento della prova, in ipotesi di doppia pronuncia conforme, nel solo caso in cui
il giudice d'appello, al fine di rispondere alle censure contenute nell'atto di impugnazione, abbia richiamato
atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che
non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr. ad es. Cass. Sez. 2^ n. 24667 del
15.6.2007, dep. 21.6.2007; Cass. Sez. 2^ n. 5223 del 24.1.2007, dep. 7.2.2007; Cass. Sez. 2^ n. 42353 del
12.12.2006, dep. 22.12.2006, e numerose altre).
Per chiudere il punto, sono infine generiche le doglianze relative ad una mancata risposta ad ulteriori motivi
di gravame non specificamente chiariti; nè a tale lacuna si può ovviare mediante rinvio a motivi d'appello di
cui però non si indica neppure in modo sommario il contenuto, così non consentendo l'autonoma
individuazione delle questioni che si assumono irrisolte o malamente risolte e sulle quali si sollecita il
sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso essere autosufficiente, cioè contenere la precisa
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prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre alla verifica di questa Corte
Suprema (cfr. ad es. Cass. Sez. 6^ n. 21858 del 19.12.2006, dep. 5.6.2007; Cass. Sez. 2^ n. 27044 del
29.5.2003, dep. 20.6.2003; Cass. Sez. 5^ n. 2896 del 9.12.98, dep. 3.3.99; Cass. S.U. n. 21 dell'11.11.94, dep.
11.2.95).
3- Il motivo che precede sub f) è da rigettarsi per manifesta infondatezza, vuoi perchè la prova del reato ben
può ricavarsi da condotte anche ad esso successive, vuoi perchè il ricorso confonde gli elementi costitutivi
del reato oggetto di imputazione con prove od indizi relativi, che ovviamente non devono trovare
collocazione in rubrica.
4- Ancora da respingersi sono le doglianze che precedono sub h), noto essendo che prova decisiva la cui
mancata acquisizione è deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) è solo
quella relativa ad un elemento probatorio suscettibile di determinare una decisione del tutto diversa da quella
assunta: ciò va escluso quando i risultati che la parte si propone di ottenere possono condurre - confrontati
con le altre ragioni poste a sostegno della decisione - solo ad una diversa valutazione degli elementi
legittimamente acquisiti nell'ambito dell'istruttoria dibattimentale (cfr. ad es. Cass. Sez. 6^ n. 37173
dell'11.6.08, dep. 30.9.08, rv.
241009; conf. Cass. n. 2827/06, rv. 233328; Cass. n. 46954/04, rv.
230589; Cass. n. 17844/03, rv. 224800; Cass. n. 3148/98, rv. 210191 e numerose altre).
A ciò si aggiunga che il ricorso ex art. 606, comma 1, lett. d) si riferisce ad una prova decisiva chiesta anche
nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'art. 495 c.p.p., comma 2, mentre i
ricorrenti parlano di prove sollecitate in via di rinnovazione dibattimentale, per le quali valga - invece l'antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo cui l'esercizio del potere di cui all'art.
603 c.p.p. (d'ufficio o su sollecitazione di parte), così come quello di cui all'art. 507 c.p.p., è meramente
discrezionale e, in quanto tale, non censurabile in sede di legittimità (cfr. Cass. Sez. 5^ n. 26085 del
16.6.2005, dep. 14.7.2005; Cass. Sez. 1^ n. 4177 del 27.10.2003, dep. 4.2.2004; Cass. Sez. 4^ n. 45998 del
29.9.2003, dep. 28.11.2003;
Cass. Sez. 6^ n. 33105 dell'8.7.2003, dep. 5.8.2003; Cass. Sez. 6^ n. 12539 del 12.10.2000, dep. 1.12.2000),
così come non lo è la revoca dell'ammissione di una prova ritenuta ormai superflua (indipendentemente dalla
rinuncia ad essa e/o dal consenso delle altre parti).
5- Del pari infondato è il motivo che precede sub i).
In primo luogo, non importa a che titolo fosse stato ordinato il precedente sequestro, atteso che la misura
ablativa può essere adottata anche senza essere stata preceduta da sequestro alcuno.
In secondo, la confisca degli immobili è stata disposta in forza del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19 sulla
responsabilità da reato degli enti: ai sensi dell'inequivocabile tenore testuale del comma 2 di tale articolo, la
confisca può avvenire anche per equivalente rispetto al prezzo o al profitto del reato quando non ne sia
possibile la diretta confisca ai sensi del comma 1.
Si tratta di confisca per equivalente del profitto del reato obbligatoria (in deroga alla norma generale dell'art.
240 c.p., comma 2), come chiaramente emerge dall'uso dell'avverbio "sempre" nel cit.
art. 19, comma 1; in contrario non trova applicazione dell'art. 322 ter c.p., il comma 1 secondo il quale, in
relazione ai delitti contro la p.a., si può procedere alla confisca di valore solo in riferimento al prezzo del
reato (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 14973 del 18.3.09, dep. 7.4.09, rv. 243507).
Non a caso il successivo art. 53 ("Il giudice può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca
a norma dell'art. 19. Si osservano le disposizioni di cui all'art. 321 c.p.p., commi 3, 3 bis e 3 ter, artt. 322,
322 bis e 323 c.p.p. in quanto applicabili") non richiama l'art. 322 ter c.p..
In breve, in tema di responsabilità da reato degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, la possibilità di
confisca per equivalente - che fa venir meno ogni rapporto diretto tra il reato e i beni oggetto della misura - è
obbligatoria ed è espressamente estesa, diversamente da quanto previsto dall'art. 322 ter c.p., comma 1,
anche al valore equivalente al profitto del reato.
L'obiezione dei ricorrenti, secondo cui le disposizioni del D.Lgs. n. 231 del 2001 non sarebbero applicabili
perchè entrate in vigore successivamente al delitto per cui è processo, si scontra con la sopra ricordata sua
natura di reato a consumazione prolungata, il che ne fissa la data ultima di consumazione al 22.7.02,
allorquando fu percepita l'ultima franche di finanziamento (momento in cui il cit.
D.Lgs. era già vigente).
Da ultimo, non si comprende il senso della censura secondo cui l'impugnata sentenza non avrebbe risposto
all'evidenziata scissione fra il ruolo dell'amministratore e quello della (A) S.r.l., giacchè la caratteristica della
responsabilità disciplinata dal D.Lgs. n. 231 del 2001 è proprio quella di far ricadere sugli enti le
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conseguenze dei reati posti in essere dalle persone che vi ricoprono uno dei ruoli elencati dall'art. 5 stesso
D.Lgs..
6- L'esame del motivo che precede sub j), avanzato dal solo V., va disatteso perchè pregiudizialmente
precluso dal provenire da soggetto non legittimato, atteso che il predetto impugnante è semplicemente socio
della (A) S.r.l.: trattandosi di società di capitali, egli non può farne valere i diritti in nome proprio.
Lo stesso dicasi per la censura - sempre formulata dal solo V. e non anche dal B. - che precede sub i),
secondo la quale la confisca avrebbe potuto avere ad oggetto beni per un valore corrispondente non all'intero
finanziamento, ma alle sole tranches erogate successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 231 del
2001.
7- Il motivo che precede sub k) è infondato perchè non intacca il nucleo irriducibile delle considerazioni
svolte dai giudici del merito, che esattamente hanno qualificato il delitto come violazione dell'art. 640 bis
c.p. - e non dell'art. 316 ter c.p. - atteso l'elemento specializzante dell'induzione in errore della p.a.
attraverso artifici e raggiri, come descritti nel capo d'accusa (per la distinzione tra le due figure cfr., ex aliis,
Cass. Sez. 2^ n. 45422 del 25.11.08, dep. 5.12.08, rv. 242302).
E' indubbio che il simulare aumenti di capitale, acquisti di immobili ed assunzione di personale costituisce
condotta artificiosa tale da indurre in errore l'amministrazione circa la reale consistenza imprenditoriale della
società richiedente e, così, da integrare gli estremi della truffa p. e p. ex art. 640 bis c.p..
8- Ancora da disattendersi è il motivo che precede sub 1), vista la sostanziale genericità dei motivi d'appello
con cui si invocava la concessione delle attenuanti dell'art. 62 bis c.p. e una riduzione della pena a fronte
dell'adeguata motivazione sul punto resa dalla sentenza di prime cure: in proposito va ricordato che, per
costante insegnamento di questa S.C., la genericità del motivo d'appello esime il giudice dell'impugnazione
dal motivare su di esso.
9- Anche l'ultimo motivo di ricorso è privo di fondamento: una volta fissata al 22.7.02 la data di percezione
dell'ultima franche di finanziamento e, con essa, la consumazione del delitto (alla stregua delle
considerazioni sopra svolte), la relativa prescrizione sarebbe maturata soltanto il 13.7.10, dovendosi la durata
massima della prescrizione (pari ad anni 7 e mesi 6) aumentarsi di complessivi mesi 5 e giorni 22 pari al
complessivo periodo di sospensioni intervenuto nel corso del giudizio di primo grado e di cui espressamente
si legge nella gravata pronuncia (senza che in proposito gli odierni ricorrenti abbiano mosso censure di
sorta).
L'assunto secondo cui ai fini della prescrizione si dovrebbe avere riguardo all'epoca in cui si sono esaurite le
singole condotte addebitate ai ricorrenti anzichè a quella di percezione dell'ultima tronche di finanziamento e, quindi, di consumazione del reato - collide con la giurisprudenza sopra ricordata, oltre che con la regola
generale di cui all'art. 158 c.p., comma 1, che aggancia al momento di cessazione dell'attività del colpevole
solo la prescrizione del delitto tentato.
10- In conclusione, tutti i ricorsi sono da rigettarsi.
Ex art. 616 c.p.p. consegue la condanna dei ricorrenti alle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda Penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2010.
Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2010
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