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Scarica l`edizione di febbraio
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno viii
Milano
n. 2 – febbraio 2016
LETTERATURA
Marilyn Monroe
e l’Ulysses
di Joyce
di massimo gatta
DANNUNZIANA
Pagine di bronzo,
pagine di carta
di luca piva
BIBLIOMANIA
Il conte Alberti
e il suo falso
Torquato Tasso
di antonio castronuovo
INVESTIGAZIONI
Poe e l’invenzione
della detective
story
di piero meldini
BIBLIOFILIA
«Al rogo! Al rogo
Sigismondo
Arquer!»
di giancarlo petrella
ISSN 2036-1394
la Biblioteca di via Senato
la Biblioteca di via Senato
Milano
mensile, anno vi
mensile, anno vii
n. 11 – novembre 2014
Milano
n. 1 – gennaio 2015
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 2 – febbraio 2015
COLLEZIONISMO
LIBRI
Elena Schiavi
e il sale della terra
L’editoria
del Collage
de ’Pataphysique
di luca piva
di antonio castronuovo
STORIE DI CARTA
EDITORIA
BVS: ARTE
Futurmughini:
verso la
dispersione
di massimo gatta
RIFLESSIONI
Grandi editori:
l’altro Mondadori
Quando l’Italia
avrà un governo
islamico
ANTIQUARIA
BIBLIOFILIA
Fra le carte di
Giuseppe Martini
A tavola,
per un pranzo
con il mostro
Torchi itineranti
e stampatori
erranti
di giancarlo petrella
di piero meldini
di giancarlo petrella
LIBRO DEL MESE
SPECIALE MANUZIO
LIBRO DEL MESE
Fra gli scaffali:
librerie da leggere
di massimo gatta
di massimo gatta
BVS: ARCHIVIO
MARTINI
La Comedia
di Dante con
figure dipinte
di gianfranco de turris
Catalogo delle
edizioni aldine
della BvS. Parte II
di gianluca montinaro
Da Antonio
Gramsci ad
Achille Occhetto
di giancarlo petrella
GUERRA
E LETTERATURA
IL RISTORO
Agli inizi del ’900:
fra militanza
e intervento
di gianluca montinaro
di franco andreucci
EDITORIA
Le ‘illuminazioni’
di Arnolfo
Luciano Bellosi
e Michelangelo
pittore
di luca pietro nicoletti
di marco cimmino
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 3 – marzo 2015
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 4 – aprile 2015
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
Divertito elogio
dei refusi
SUL NOLANO
Milano
n. 7/8 – luglio/agosto 2015
SPECIALE
RENATO SERRA
Il tenente che
sporse troppo
la testa
Bibliofilia
dell’oscenità
di antonio castronuovo
di antonio castronuovo
di giancarlo petrella
L’arcano silenzio
del misterioso
Voynich
Attraverso l’Italia
con fra Leandro
di marco cimmino
Tra le prime
edizioni
di Renato Serra
di massimo gatta
di vitaldo conte
BVS: FONDO
MODERNO
BIBLIOFILIA
Ferrero:
una dolce storia
Il “divin marchese”
de Sade a processo
Pinocchio: Tallone
e gli “Angeli
del fango”
La venuta del Re
di Franza in Italia
di antonio castronuovo
Renato Serra
e la generazione
‘sciupata’
LIBRI DEL MISTERO
FONDO IMPRESA
di gianluca montinaro
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
BVS: FONDO
ANTICO
BIBLIOFILIA
Il marchese
de Sade:
il censurato
“da liberare”
di guido del giudice
n. 6 – giugno 2015
di luigi piva
di giuseppe scaraffia
Giordano Bruno
e il vincolo
di Cupido
Milano
Gli eroi del
Notturno nell’isola
dei morti
Il marchese
de Sade: storia
e letteratura
di massimo gatta
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
BVS: FONDO
SORGE DELFICO
SPECIALE
DE SADE
EDITORIA
n. 5 – maggio 2015
di massimo gatta
Le edizioni
dell’epistolario
di giancarlo petrella
di antonio castronuovo
di massimo gatta
Bibliofilia sadica:
i volumi proibiti
LIBRO DEL MESE
La grotta delle
meraviglie della
“marchesana”
di massimo gatta
di giovanni sessa
GUERRA E
LETTERATURA
Un enfer per pochi,
anzi per uno solo
Gli intellettuali
e la I Guerra
Mondiale
L’arte di stampare
libri per l’eternità
la Biblioteca di via Senato
Milano
n. 9 – settembre 2015
di giano accame
di luca pietro nicoletti
di luca pietro nicoletti
SPECIALE MARCHESE DE SADE
mensile, anno vii
I disertori della
Grande guerra
e le forze politiche
dell’antinazione
Ricordo di
Alberto Ghinzani
e Giancarlo Ossola
di massimo gatta
di marco cimmino
di marco cimmino
BVS: FONDO
DE MICHELI
L’assordante
silenzio del torchio
di massimo gatta
Vittorie
dimenticate,
sconfitte celebrate
di giorgio galli
BVS: EDIZIONI
DI PREGIO
di piero meldini
In margine allo
‘Speciale Serra’
Sull’economia
sociale: il tempo
non è denaro
La filosofia di un
altro Occidente
Seduttori libertini,
seduttori romantici
di riccardo braglia
LIBRO DEL MESE
IL LIBRO DEL MESE
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
ISSN 2036-1394
ISSN 2036-1394
n. 10 – ottobre 2015
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 11 – novembre 2015
SPECIALE RENATO SERRA
ISSN 2036-1394
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno vii
Milano
n. 12 – dicembre 2015
la Biblioteca di via Senato
mensile, anno viii
Milano
n. 1 – gennaio 2016
SPECIALE
DANTE ALIGHIERI
BIBLIOTECHE
EDITORIA
Di libro in libro,
di volume
in volume
Le prime volte
del ‘maledetto’
Maldoror
Dibattiti medici
fra carne e verdura
BIBLIOFILIA
RICORRENZE
MAGIA E
RINASCIMENTO
I preziosi
incunaboli
di casa Maggi
L’opuscolo di
Croce in ricordo
di Laterza
Della Porta:
il mago dell’arcana
sapienza
di massimo gatta
di giancarlo petrella
LIBRI DI MEDICINA
Il melanconico
lamento
di Ippocrate
di guido del giudice
ALTERNATIVE
DI SCRITTURA
La pelle come
pagina e raffinato
libro d’arte
di vitaldo conte
FEUILLETON
L.E.X.
Le biblioteche
profonde
ANTICHI VOLUMI
di piero meldini
di antonio castronuovo
di massimo matta
BVS: BIBLIOFILIA
Questo libro non
s’ha da leggere!
di giancarlo petrella
di guido del giudice
Il raffinato Bartleby
dell’editoria
italiana
di massimo gatta
BIBLIOFILIA
Raffinato elogio
dell’arte
plagiatoria
Questo libro non
s’ha da leggere!
RICORDI
Il passato che non
passa. Interlandi:
razzista maledetto
di claudio bonvecchio
di carlo gambescia
SPECIALE
CENTENARIO DADA
(1916–2016)
Dada: iconoclastia
della cultura
Dante Alighieri
e l’utopia possibile
di marco fioramanti
Storia e vicende delle
edizioni dantesche
di vitaldo conte
di gianluca montinaro
di enrico malato
La Commedia di
Bonino Bonini (1487)
EDITORIA
LIBRO DEL MESE
di luigi mascheroni
Dante, nostro
‘moderno’ Virgilio
Pitirim i’ vorrei che
tu, Vilfredo e io...
di giancarlo petrella
Un commentatore
dell’opera di Dante
di antonio castronuovo
La Comedìa di Dante:
vertigine e totalità
di marco cimmino
Giordano Bruno e
‘la Furiosa Commedia’
Julius Evola
e il Dada in Italia
Le lettere dadaiste
fra Evola e Tzara
di gianfranco de turris
Dada 1921:
un’ottima annata
di michele olzi
La vita e il gesto
oltre la Kultur
di dario evola
Eterna provocazione:
le anime
del Dadaismo
di giancarlo petrella
di guido del giudice
di carmelo strano
RICORRENZE
Quando il ’900 mise
Dante sotto torchio
Il mistero della
Profana commedia
di giovanni sessa
e romano gasparotti
I primi 60 anni
della casa editrice
Feltrinelli
di massimo gatta
di massimo gatta
di massimo gatta
Il Dada, ovvero
sull’indifferenza
di antonio castronuovo
Dante nelle raccolte
di via Senato
di giancarlo petrella
di errico passaro
ISSN 2036-1394
ISSN 2036-1394
ISSN 2036-1394
ISSN 2036-1394
SPECIALE 750° DANTE ALIGHIERI
ISSN 2036-1394
SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016)
la Biblioteca di via Senato – Milano
M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O V I I I – N . 2 / 6 9 – M I L A N O , FEBBRAIO 2 0 1 6
Sommario
4 Libri e Letteratura
MARILYN MONROE
E L’ULYSSES DI JOYCE
di Massimo Gatta
60 Bibliomania
IL CONTE ALBERTI E IL SUO
FALSO TORQUATO TASSO
di Antonio Castronuovo
16 Dannunziana
PAGINE DI BRONZO,
PAGINE DI CARTA
di Luca Piva
66 In Appendice – Feuilleton
L.E.X.
LE BIBLIOTECHE PROFONDE
di Errico Passaro
24 Bibliofilia
«AL ROGO! AL ROGO
SIGISMONDO ARQUER!»
di Giancarlo Petrella
70 BvS: il ristoro del buon lettore
QUELLA ZANZARA, DI CASA
SULL’ISOLA DI PORTICINO
di Gianluca Montinaro
37 IN SEDICESIMO – Le rubriche
LE MOSTRE – LIBRO
DEL MESE – RIFLESSIONI –
LO SCAFFALE
a cura di Luca Pietro Nicoletti
e di Lorenzo Barbieri
72 HANNO COLLABORATO
A QUESTO NUMERO
54 Investigazioni letterarie
POE E L’INVENZIONE
DELLA DETECTIVE STORY
di Piero Meldini
Ringraziamo le Aziende che ci sostengono
con la loro comunicazione
Biblioteca di via Senato
Via Senato 14 - 20122 Milano
Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567
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www.bibliotecadiviasenato.it
Presidente
Marcello Dell’Utri
Direttore responsabile
Gianluca Montinaro
Servizi Generali
Gaudio Saracino
Coordinamento pubblicità
Ines Lattuada
Margherita Savarese
Progetto grafico
Elena Buffa
Fotolito e stampa
Galli Thierry, Milano
Immagine di copertina
Copertina del volume Roma se ne va
di Padre Zappata
(al secolo Girolamo Amati),
Roma, E. Perino Editore, 1885
Stampato in Italia
© 2016 – Biblioteca di via Senato
Edizioni – Tutti i diritti riservati
Reg. Trib. di Milano n. 104 del
11/03/2009
Per ricevere a domicilio
(con il solo rimborso delle spese
di spedizione, pari a 27 euro)
gli undici numeri annuali della rivista
«la Biblioteca di via Senato» scrivere a:
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L’Editore si dichiara disponibile a regolare
eventuali diritti per immagini o testi di cui
non sia stato possibile reperire la fonte
Editoriale
D
i falsari è piena la storia. Falsari
di dipinti (come il celebre Han van
Meegeren), di sculture (come i tre
studenti livornesi autori, nel 1984, del
celebre scherzo delle false teste di Modigliani
rinvenute nel Fosso Mediceo che attraversa la
città toscana), di reperti antichi (come Alceo
Dossena).
Su questo numero de «la Biblioteca
di via Senato» Antonio Castronuovo racconta
(grazie al ritrovamento di alcune pagine
finora ignorate) di un falsario di opere
letterarie: il conte Mariano Alberti
(1792-1866). Bibliomane, patito lettore
di Torquato Tasso e scatenato collezionista di
sue edizioni e cimeli, il nobiluomo, nella sua
follia, giunse ad annunciare il ritrovamento
di alcuni inediti del grande poeta sorrentino.
Con minuzia stese i falsi scritti e quindi,
inaugurata una pubblica sottoscrizione
(alla quale aderirono anche grandi
personaggi dell’epoca), promosse la stampa
del volume Manoscritti inediti di
Torquato Tasso (Lucca, Giusti, 1837).
Scoperto, pagò questa azione con ben
sette anni di carcere, durante i quali –
quando gli era permesso di uscire dalle mura
di Castel Sant’Angelo (le autorità pontificie
gli accordarono questo privilegio in virtù
della sua innocuità) – continuò a comprare
e raccogliere libri in modo forsennato.
I lettori (ma anche gli autori) di questa
rivista non potranno non guardare con
un sorriso a questo ‘strano personaggio’
e alla sua sfrenata passione bibliofila... che un
po’ accomuna tutti noi.
Gianluca Montinaro
4
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
5
Libri e Letteratura
MARILYN MONROE
E L’ULYSSES DI JOYCE
Storia della prima edizione del romanzo
MASSIMO GATTA
T
ra le migliaia di foto che l’hanno come imbalsamata nell’icona hollywoodiana ‘Bellezza-Glamour-Tacchi a Spillo e Sorrisi’,
solo qualcuna è riuscita a cogliere Marilyn Monroe
in dialogo con se stessa, lontana dai lustrini. Accadde, ad esempio, in una celebre foto di Eve Arnold
del ’52 (Marilyn legge Ulisse), dove Norma Jeane
Mortenson è intenta a leggere quel libro altrettanto celebre quanto lei. Una
lettura a voce alta, com’era
abitudine nel medioevo
prima che il moderno
imponesse quella silenziosa. Ad alta voce a causa del ‘tono’ del libro,
«per capire meglio, ma
che era difficile», come Marilyn disse alla fotografa (lo ricorda
Stefan Bollmann nel suo bel libro sulla lettura al femminile nell’arte).1 Il suo corpo è come inscritto in un ovale di luce, nell’oscurità accogliente
del sottobosco, racchiuso, come a proteggerlo, sul
grosso volume rilegato (tela? cartone?) e dai tagli
scuri, che tiene poggiato sulle mani curate e aperte a
forma di leggio; libro, peraltro, del quale non diNella pagina accanto: Marilyn Monroe legge Ulysses, 1952,
foto di Eve Arnold. Sopra: Ulysses, Paris, Shakespeare and
Company, 1922, prima edizione
stinguiamo il titolo e neppure l’autore. Una lettura
nello splendore di questa giovane ragazza bionda,
all’epoca ventiseienne, di una bellezza smarrita ma
tale da far male agli occhi. Poi sapremo, da un’altra
foto coeva che la ritrae quasi nella medesima posizione e con lo stesso libro, che si trattava dell’Ulysses
di James Joyce, romanzo chiave, scandaloso e
controverso, della modernità novecentesca, uscito dai torchi digionesi di Maurice Darantiere esattamente 30 anni prima
della foto della Arnold.
Ma perché Marilyn legge proprio quel libro (anche
se non nella prima edizione)?
Forse perché condizionata dall’appeal intellettuale di Arthur Miller, sposato
nel giugno del ’56? Poco probabile anche perché la foto è degli anni del corteggiamento e del
matrimonio con Joe Di Maggio, certamente non un
intellettuale. Forse perché quel libro era una sfida a
tutti quei luoghi comuni che da sempre le vorticavano intorno: essere una gran bellezza ma senza
cervello?2 Non lo sapremo mai. Di certo, però,
quella foto della Arnold è una splendida teatralizzazione: «Il Corpo di Hollywood che legge la Mente
di uno scrittore irlandese esule a Trieste o a Parigi.
Gli Stati Uniti che leggono l’Europa».3
6
Questa che state leggendo è la biografia di una
celebre prima edizione, per la verità più citata che
letta, e sicuramente poco amata da alcuni scrittori di
casa nostra: «Dove hai letto che io traduco, o abbia
tradotto, l’Ulisse? Se ti scrivevo che è un libro che
non sono mai riuscito a finire di leggere e che incarna per me la quintessenza dell’insopportabile», scriveva infatti Cesare Pavese;4 oppure «Devo dirti fin
da principio che io ho una prevenzione sia per tutte
le narrazioni in cui c’entrano i pazzi sia per tutte le
opere di tipo ‘monologo interiore’: tanto che non
sono riuscito a finire l’Ulysses e anche Faulkner mi
sta piuttosto sullo stomaco», chiosava a sua volta
Italo Calvino.5
Era un sabato gelido, quel 4 febbraio del ’22,
alla Gare de Lyon di Parigi, dove una donna attende
da ore il treno da Dijon che Mâitre Darantiere le
aveva preannunciato il 28 gennaio con questo telegramma: «Aurez premiers exemplaires Ulysses sa-
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
medi 4 fevrier. Darantiere». È alta, americana del
Maryland e appassionata. Ed è una libraia raffinata e
controcorrente, la libraia di Joyce, come decenni dopo qualcuno l’avrebbe definita firmando un libro su
di lei e sugli anni della lost generation.6 Adrienne,7
l’amica-amante, l’attende in rue de l’Odéon,8 nella
sua libreria La Maison des Amis des Livres,9 quasi di
fronte a un’altra libreria, la Shakesperare and Company10 ‘da Sylvia’,11 al n. 12. Ma cosa arriva da Dijon
di così importante da far trepidare entrambe le donne? Si tratta degli esemplari 1 e 2 della tiratura in
mille copie del romanzo icona del Moderno,
quell’Ulysses che molti lettori americani si erano rifiutati di leggere, scandalizzati, e la cui prima parte
era apparsa, a partire dall’aprile del ’18, su «The Little Review», la celebre rivista d’avanguardia diretta
da Margaret Anderson e Jane Heap, stampata a Chicago, per la quale le due donne vennero processate e
condannate, mentre il manoscritto sarà acquistato
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
dal loro avvocato difensore, John Quinn, che oltre al
codice penale amava collezionare libri.12 Nel ’19 la
rivista venne confiscata e i numeri coi capitoli dei
Lestrigoni e di Scilla e Cariddi, vennero burned, bruciati, con la successiva condanna nel ’21 e il divieto
di pubblicarlo negli USA. Invece Mâitre Darantiere,
tipografo di fiducia della Monnier, aveva accettato la
sfida di stampare integralmente il romanzo, e di farlo alla sua maniera, cioè impeccabilmente; componendolo a mano usando i meravigliosi caratteri Romain Ancien della fonderia Deberny, in un formato
in-quarto (cm 23x18x4,8) di ben 732 pagine per millecinquecentocinquanta grammi di peso, con una
legatura cartonata in blu greco (lo stesso della bandiera e che Darantiere andrà a prendere in Germania),
su preziose carte diverse. Inoltre, per amicizia, aveva
chiesto di essere pagato solo al momento della riscossione delle quote della sottoscrizione, avviata da
tempo e che vide tra i primi André Gide, Italo Svevo,
Silvio Benco, E. Hemingway, W.B. Yeats, Lawrence
d’Arabia, ma non G.B. Shaw nonostante le sollecitazioni di Ezra Pound.
A Digione, nel piccolo atelier Darantiere, al 13
di rue Paul Cabet, è Roger Lautray, giovane impressore, a stampare tra la primavera del ’21 e il febbraio
del ’22, quel romanzo così controverso, insieme a
ben 26 compositori, impegnati su quelle bozze sempre più costellate di integrazioni, aggiunte, modifiche, cancellature. Lautray segue il maestro Darantiere, e il suo Atelier particulier, anche a ChâtenayMalabry e sarà in seguito eccelso collaboratore di
Alberto Tallone e amico della sua famiglia.13 Dopo
la scomparsa dello stampatore-editore, ogni estate
lo stampatore sarà ad Alpignano a insegnare ai giovani Aldo ed Enrico Tallone i segreti della stampa,
direttamente sulle macchine tipografiche da lui utilizzate all’epoca per l’Ulysses: una Phoenix V (costruita da Skelter e Gieseke a Lipsia nel 1905) e una Succès, costruita in Francia negli anni Venti, un’eccellente macchina piano-cilindrica, esempio di semplicità e pulizia di linee, reperto rarissimo essendo il
suo costruttore, Franco Pozzoli, di origine italiana
7
Sopra da sinistra: la libreria parigina di Adrienne Monnier
e quella di Sylvia Beach, in rue de l’Odéon 7 e 12.
Nella pagina accanto da sinistra: bozza di una pagina della
prima edizione dell’Ulysses con correzioni dell’autore;
facsimile del contratto per Ulysses
così come Marinoni, che nell’Ottocento a Parigi fu
il più importante costruttore europeo.14
Intanto Sylvia Beach attende quelle prime copie con ansia; la n. 1 è per Joyce, come regalo nel
giorno del suo 40° compleanno; la n. 2 è invece per
la sua libreria Shakespeare and Company. Darantiere ne ha voluto stampare 100 copie su carta a mano
vergé Hollande, numerate e firmate da Joyce (le più
care, vendute a 350 franchi), poi 150 su vergé d’Arches (a 250 franchi) e infine 750 su carta a mano, più
sottile di quella d’Olanda (a 150 franchi). Nei suoi
ricordi forse la Beach confonde il giorno perché
scrive: «Con il cuore che mi batteva come uno stan-
8
tuffo, ero sul marciapiede mentre il treno di Digione rallentava e si fermava e il capotreno balzava a
terra con un pacco in mano, guardandosi intorno in
cerca di qualcuno: di me. Di lì a pochi minuti suonavo il campanello alla porta di casa Joyce e porgevo
allo scrittore la copia n.1 dell’Ulysses. Era il 2 febbraio 1922»;15 oppure è Darantiere ad aver sbagliato
giorno, nel telegramma inviatole. Comunque sia
ben 5000 refusi infestano quella prima rarissima tiratura: «Le sue 732 pagine contenevano migliaia di
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
refusi (da uno a sei ciascuna, secondo una prima stima molto approssimativa), di cui gli Errata aggiunti
alla seconda edizione corressero solo una parte infinitesimale».16 Non sapremo mai se uno di quei cinquemila refusi17 si deve alla maldestra battitura di
una giovane donna, improvvisatasi dattilografa, e
che a suo modo diventerà famosa quale autrice del
più breve romanzo nella storia letteraria. Raymonde Linossier (1897-1930) è infatti ricordata sia dalla
Beach18 che da Adrienne Monnier: «Fu nell’ottobre
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
del 1917 che vidi per la prima volta Raymonde Linossier. Lei frequentava l’Ecole de Droit, io ero allieva della mia stessa scuola, la libreria. Da due anni
esercitavo un mestiere di cui non sapevo ancora
molto, tranne l’ebbrezza di chiacchierare con persone che amavano i libri che amavo anch’io. Raymonde Linossier era entrata un mattino in libreria,
non come una passante che vuole ammazzare il tempo ma con l’aria amichevole e amabile di chi viene a
farvi visita. Non credo che le avessero parlato della
libreria. Potei vedere, conoscendola meglio, che si
accostava a ogni cosa allo stesso modo, con la più
cordiale urbanità»;19 così come la ricorderà Riley
Fitch.20 Fu infatti una delle prime socie e frequentatrici della libreria di Adrienne Monnier, tra le cosiddette “Potasson”21 del cerchio degli ascoltatori di
Léon-Paul Fargue. A lei si deve il microromanzo
brevissimo Bibi-la-Bibiste, «uno dei grandi avvenimenti letterari del 1918»,22 stampato a mano nel ’18
in rue Tardieu 4 a Montmartre, da Paul Birault23
(stampatore anche della rivista «Sic», diretta da Birot) in soli 50 esemplari numerati su carta simil-riso
(pagati dalla sorella Alice Linossier-Ardoin). Questo librino (oggi riemerso dalle nebbie dell’ingiusto
oblio grazie alle cure di Antonio Castronuovo) venne dedicato dall’autrice al compositore e amico
Francis Poulenc, omosessuale dichiarato, per il quale «Raymonde era la sola persona con la quale
avrebbe voluto vivere, essendo anche arrivato al
punto che l’idea di rinunciare a lei gli era insopportabile».24 Come ricordava la Beach «Joyce aveva
tentato innumerevoli volte di far battere a macchina
l’episodio [quello assai scandaloso di Circe, N.d.A.]:
nove dattilografe erano fallite nell’impresa. L’ottava, mi disse Joyce, per la disperazione aveva minacciato di buttarsi dalla finestra. […] Il posto di Cyprian venne preso dalla mia amica Raymonde Linossier: quel lavoro, disse, l’avrebbe aiutata a passare il tempo quando faceva il turno di notte al capezzale di suo padre ammalato. Si mise all’opera e, tenuto conto del fatto che l’inglese non era la sua lingua madre, proseguiva molto rapidamente, quando
9
anche lei dovette smettere. Trovò però subito una
sostituta in una sua amica inglese, moglie, a quanto
Raymonde mi disse, di un tale che lavorava all’Ambasciata inglese».25 Joyce fu grato alla Linossier per
l’apporto dato alla stesura dattiloscritta dell’arduo
manoscritto e le invierà copia autografata, inserendola anche nell’episodio di Circe, già ricordato.26
Inoltre, come scrisse Pascal Riou «partecipò alla
traduzione dell’Ulisse e io so che qualche lettera
scambiata con Joyce giace nella biblioteca di una
università americana».27 Quella stessa gratitudine
che Vladimir Majakovskij forse provava per Marija
Nella pagina accanto dall’alto in senso orario: Sylvia Beach,
Shakespeare and Company, Milano, Rizzoli, 1962; Noel
Riley Fitch, La libraia di Joyce, Milano, Il Saggiatore, 2004;
Raymonde Linossier e il colophon dell’Ulysses, 1922
10
Tatarijskaja, ventinove anni «[…] dattilografa […]
ha battuto a macchina quasi tutte le sue opere, incluse le ultime, le commedie».28
La seconda edizione dell’Ulysses verrà stampata nell’ottobre dello stesso ’22, sempre a Digione, in
2000 copie numerate (quasi identico il formato e la
copertina blu, con solo la modifica dell’indicazione
in «Edited by John Rodker for the Egoist Press» di
Londra): di queste una parte venne distrutta direttamente a Dover, e 500 copie a New York, bruciate
dalla New York Post Office Authorities. A gennaio
del ’23 altra ristampa, in 500 copie numerate, stampate dalla Egoist Press, 499 delle quali ancora confiscate dalle autorità doganali inglesi a Folkestone. A
gennaio dell’anno dopo verrà stampata a Parigi,
sempre dalla Shakespeare and Company, una edizione a più larga tiratura. Alcune ristampe successive usciranno in «giacca bianca, come camerieri»,
come scrisse la Beach nelle memorie, perché a Digione avevano terminato tutte le copertine blu; altre copie verranno stampate in economia su una
«specie di carta assorbente» (è ancora la Beach). Intanto negli USA viene approntata, da un certo Samuel Roth, un’edizione pirata scorrettissima, con
tagli e alterazione a cui seguirà, il 2 febbraio del ’27,
un pubblico manifesto di protesta. Curioso che tra i
firmatari italiani compaiano anche due insospetta-
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
bili come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. La
traduzione in francese, promossa dalla Monnier, è
di Auguste Morel e Stuart Gilbert, con la supervisione di Valéry Larbaud, e uscirà solo nel ’29, mentre in Italia i lettori dovranno attendere il 1960 per
la celebre versione integrale di Giulio de Angelis,
con la consulenza di Glauco Cambon, Carlo Izzo e
Giorgio Melchiori, n. 441 della mondadoriana Medusa. All’edizione venne allegata una preziosa plaquette di poche pagine, fuori commercio, firmata
da Claudio Gorlier, con la medesima copertina del
romanzo, che ne ricostruiva le travagliate vicende
editoriali.29
Ma quella mattina di fine primavera del ’56, alla libreria Quantum, Jack Kerouac e Neal Cassady
alla splendida commessa Marilyn Monroe non chiedono certo copia dell’Ulysses, bensì un più misero
atlante stellare. Lei ha letto quel romanzo quattro
anni prima, ed ora è finita in quella strana libreria
che ha eliminato i libri «per non far sentire i clienti
dei meri consumatori», dopo due impieghi finiti
male: come hostess in una fiera dedicata all’alluminio e indossatrice per una linea di completini sportivi femminili. In entrambi i casi è stata mandata via
perché troppo appariscente, troppo sex-appeal, e la
gente guardava lei invece che i prodotti. Proprio
quel sex-appeal che la Arnold era riuscita e tenere alla
12
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
larga dal suo obiettivo, nella foto del ’52. Chissà se
allora Marilyn immaginava che sarebbe finita alla
Libreria Quantum a vendere libri a Kerouac e Cassidy, imbambolati come tutti di fronte alla sua prorompente bellezza.30
Sylvia Beach e Adrienne Monnier erano riuscite a scrivere, attraverso le rispettive librerie parigine, un capitolo centrale della vita culturale di quegli
anni. Due libraie appassionate, che oggi sarebbero
state spazzate via senza tanti complimenti dalle
grandi catene, ma che all’epoca furono un faro per
una moltitudine di intellettuali e di celeberrimi exilés.31 E l’Ulysses fu come il testimone oculare del loro
infaticabile lavoro letterario in favore del Moderno.
Intorno a quell’edizione parigina si intrecciarono i
fili di altri destini, altre esistenze, altre passioni;32 un
libro che Svevo aveva acquistato a Parigi, due anni
dopo l’uscita, per una conferenza milanese che
avrebbe tenuto nel ’27, senza attendere l’omaggio
da parte di Joyce, che infatti non ci fu.33 Ecco perché
è così suggestivo riannodare oggi quei fili approdando, come il vascello di Baudelaire, nella silenziosa
radura di Alpignano, dove hanno trovato rifugio e
NOTE
1
Stefan Bollmann, Elke Heidenreich,
Le donne che leggono sono pericolose,
prefazione di Daria Bignardi, Milano, Rizzoli, 2007, p. 147.
2
Cfr. Massimo Gatta, Marilyn libraia e
lettrice dell’Ulysses. Storia portatile di una
edizione, «Charta», n. 115, maggio-giugno
2011, pp. 34-39.
3
Così descrive quella celebre foto della Arnold Jorge Carriòn in Librerie. Una
storia di commercio & passioni, Milano,
Garzanti, 2015, p. 143.
4
Cesare Pavese a Carlo Muscetta, lettera del 24 febbraio 1941.
5
Italo Calvino a Fortunato Seminara,
lettera del 20 gennaio 1955.
6
ospitalità proprio le due macchine tipografiche che
Darantiere utilizzò per far circolare Joyce tra le mani dei lettori oltre a qualche cassa del rarissimo carattere Romain ancien, lo stesso utilizzato da Darantiere per comporre l’Ulysses. Ad Alpignano, vicino
Torino, ha sede la stamperia-editrice che Alberto
Tallone impianta alla fine degli anni Cinquanta, realizzando il suo sogno di vivere e lavorare in uno stesso luogo (casa-editrice, appunto); è appena ritornato
in Italia, dopo circa trent’anni trascorsi a Parigi,
stampando libri di straordinario pregio letterario.
Ha iniziato come libraio antiquario e poi apprendista entusiasta proprio del maestro di Digione, quel
Darantiere di cui stiamo parlando. E in una lettera
alla madre, Eleonora Tango, scritta da ChâtenayMalabry il 9 settembre del ’32, dove Darantiere possedeva la stamperia in una località denominata Vallée aux Loups, spiega come il maestro gli abbia affidato la sua prima composizione manuale: «Cara
mamma, il Signor Darantiere è molto buono, le ore
passano nella sua stamperia velocissimamente. I
compagni di lavoro sono dei pazienti maestri. Darantiere mi farà comporre un volumetto che sarà ti-
Noel Riley Fitch, Sylvia Beach and
the Lost Generation. A History of Literary
Paris in the Twenties and Thirties, New
York, W.W. Norton & Co., 1983, si cita dall’edizione inglese, London, Penguin Books,
1985; trad. it., La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, prefazione
di Liliana Rampello, Milano, Il Saggiatore,
2004.
7
Cfr. Antonio Castronuovo, Adrienne
Monnier, «Belfagor», fasc. IV, n. 394, 31 luglio 2011, pp. [427]-443 [Ritratti critici di
contemporanei], si cita dall’Estratto.
8
Vedine il suggestivo ricordo in
Adrienne Monnier, Rue de l’Odéon. La libreria che ha fatto il Novecento, postfazione di Edda Melon, Palermo, Duepunti
edizioni, 2009; l’edizione originale del libro, Rue de l’Odéon, uscì a Parigi nel 1960
da Albin Michel, con scritti di Saint-John
Perse, Jacques Prévert, Michel Cournot e
La Petite Ida. Cfr. sul tema anche Laure
Murat, Passage de l’Odéon. Sylvia Beach,
Adrienne Monnier et la vie littéraire à Paris
l’entre-deux-guerres, Paris, Fayard, 2003;
Eternelle libraire. Adrienne Monnier, Paris,
Association Verbes, 2010, edizione f.c., e
infine Maurice Imbert, Raphaël Sorin,
Adrienne Monnier & La Maison des Amis
des Livres 1915-1951, IMEC, 1991.
9
Cfr. la rara plaquette della Monnier,
La Maison des Amis des Livres, s.n.t., con
l’indicazione a stampa: “Cette plaquette a
été tiré a soixante-dix exemplaires hors
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
13
Stamperia Tallone, Alpignano; sullo sfondo la macchina di
Darantiere utilizzata per la stampa dell’Ulysses
rato a soli sei esemplari; nell’achevé d’imprimer sarà
scritto: “M. Tallone a composé le texte”. Questa lettera è stata da me composta con caratteri Caslon
corpo 20. Scrivi spesso al più felice degli operai: il
tuo figlio Madino».34 Da allora centinaia di pregiate
edizioni fanno bella mostra di sé sugli scaffali dei bibliofili di mezzo mondo; edizioni puntigliosamente
elencate nella pregevole bibliografia che Anna Mavilla ha dedicato a Tallone, che Franco Maria Ricci
ha elegantemente pubblicato,35 aggiornando così
quella ormai classica, ma datata, firmata da Piero
Pellizzari.
A distanza di tanti anni le due macchine da
stampa, utilizzate da Darantiere per l’Ulysses, sono
ancora lì. Fanno ancora bella mostra di sé nella
stamperia Tallone: la Phoenix V è quotidianamente
in uso, mentre la piano-cilindrica Succès è in fase di
restauro. E se le macchine avessero memoria chissà
cosa potrebbero raccontarci di quegli anni febbrili,
dove sembrava che i libri potessero davvero cambia-
commerce”; si cita dall’esemplare per
Winzer, con la dedica autografa: “Qui a
fait un très beau portrait d’Adrienne Monnier, et que nous aimons bien”.
10
Sylvia Beach, Shakespeare & Company, Milano, Rizzoli, 1962, ristampato
con introduzione di Masolino D’Amico,
Milano, Sylvestre Bonnard, 2004 [Il piacere di leggere].
11
Bello il ritratto che ne fece lo scrittore Frederic Prokosch in Da Sylvia, in Idem,
Voci, Milano, Adelphi, 1985, pp. 36-40.
12
Cfr. Hans Tuzzi, Ulysses, in Idem, Il
mondo visto dai libri, Milano, Skira, 2014,
pp. 125-129.
13
Cfr. Maurizio Pallante, I Tallone, prefazione di Gianfranco Contini, Milano, Li-
bri Scheiwiller, 1989; vedi anche Giovanni
Tesio, “Che bellezza comporre la Città del
Sole”. Intervista a Enrico Tallone, «La Stampa-Tuttolibri», sabato 4 marzo 2011, p. XI e
il recente intervento di Enrico Tallone, Perseguire un ideale, in Talismani dell’editoria. I Tallone e gli scrittori del ‘900, a cura di
Andrea De Pasquale e Eleonora Cardinale,
Roma, Biblioteca Nazionale Centrale,
2015, pp. 11-14 [catalogo della mostra, Biblioteca Nazionale centrale, Roma, 17
giugno – 30 settembre 2015].
14
Ringrazio Enrico Tallone per queste
preziose informazioni.
15
Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit.
16
Masolino d’Amico, Introduzione, in
Sylvia Beach, Shakespeare and Company,
cit., p. 7.
17
Un bibliofilo raffinato e colto come
Leonardo Sciascia non poteva non ricordare la prima edizione dell’Ulysses coi suoi
molteplici refusi, lo fece in 1912+1 (Milano, Adelphi, 1986), particolare per il quale
rimando ad Andrea Kerbaker, Sciascia tra
bibliofilia ed eros, «Todomodo», IV, 2014,
pp. 97-100.
18
Sylvia Beach, Raymonde, in Eadem,
Shakespeare & Company, cit., pp. 208[212].
19
Adrienne Monnier, Raymonde Linossier (1930), in Eadem, Les gazettes
1923-1945, Paris, Gallimard, 1996, pp. 7078, ristampato in forma ridotta in Eadem,
14
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
A sinistra: Adrienne Monnier, Rue de l'Odéon, Paris, Albin
Michel, 1960. A destra: James Joyce, Lettere a Sylvia Beach
1921-1940, Milano, Archinto, 1989
re (in meglio) il mondo. E a Londra, di recente, una
libreria antiquaria proponeva nel proprio catalogo
tutte e tre le tirature originali del febbraio del ’22, e
poter sfogliare quelle pagine, ancora fruscianti dopo
oltre 80 anni, avrebbe comportato l’esborso rispettivamente di 235.000, 30.000 e 95.000 sterline36,
mentre ci voleva un milione di dollari tondo per acquistare la copia messa in vendita il 23 ottobre 2013
dai librai Pregliasco e Philobiblon presso la loro
nuova libreria PrPh Gallery di New York.37
Ma la storia non è finita qui. L’episodio della
Marilyn libraria fa capolino anche in paradossale romanzo di Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito, ristampato da una casa editrice nata da un fax minimo (la
prima edizione Fanucci è ormai rara). Così ricorda
Marco Cassini, il fondatore insieme a Daniele di
Gennaro della Minimum fax: «Decisi di fare l’editore una sera di dicembre del 1994, anche se, senza saperlo, forse già lo ero. Quella sera c’era l’open office
delle edizioni e/o, la tradizionale festa natalizia della
casa editrice romana, che stavolta celebrava anche il
suo quindicesimo anno di attività. A quei tempi Mi-
Rue de l’Odéon, cit., pp. [65]-74; nella traduzione italiana il ricordo è alle pp. 35-40,
la citazione a p. [35]; ristampato ora in
Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste. Breve
romanzo dadaista, a cura e con un saggio
di Antonio Castronuovo, Roma, Stampa
Alternativa, 2015 [Fiabesca, 113], pp. 8897. Vedi la rec. di Davide Brullo, In poco, c’è
tutto. Il micro-romanzo della Linossier, «Il
Giornale», 21 febbraio 2015, p. 27.
20
Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce.
Sylvia Beach e la generazione perduta, cit.,
p. 63, 103, 190, 363.
21
Cfr. Antonio Castronuovo, I potas-
son, in Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste, cit., pp. 62-67.
22
Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit., p. 209.
23
In verità fu la moglie di Birault a
stamparlo, il marito era all’epoca sotto le
armi, cfr. Adrienne Monnier, Raymonde Linossier, cit., p. 36. Questa stampatrice, nel
ricordo della Monnier, “Nessuna audacia
letteraria o tipografica la intimoriva, e se
ricordo bene fu addirittura la sola a riuscire a stampare certi ideogrammi di Apollinaire e dei suoi seguaci”, ibid, p. 36.
24
Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste,
cit. In particolare per il nostro discorso il
capitolo Libraie e amici, pp. 31-37.
25
Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit., pp. 92-93.
26
«Una delle mie più interessanti amiche francesi fu Raymonde Linossier, la ragazza che – come ho già raccontato – mi
venne in aiuto al tempo dell’episodio di
Circe, durante la composizione di Ulysses.
Di lì a pochi giorni Joyce mi disse: “Ho
messo Raymonde nell’Ulysses”», Sylvia
Beach, Shakespeare & Company, cit., p.
208.
27
Pascal Riou, Ritratto di Raymonde
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
15
nimum fax già esisteva, ma non credo si potesse definire propriamente una casa editrice». Una bella e
semplice storia editoriale come ce l’ha raccontata
Gianfranco Tortorelli nel suo saggio.38 Parole che
anche la Beach, la Monnier, Darantiere, Tallone,
Linossier e la Marilyn lettrice avrebbero sottoscritto se non altro perché, come ha scritto di recente
l’incisore-tipografo Lucio Passerini: «Il tempo che
si può passare intorno ai libri, a progettare, ragionare, comporre, stampare, illustrare, allestire, leggere
è il lusso necessario che mi piace chiamare Buon
Tempo».39
E chissà cosa avrebbe pensato Sylvia Beach delle odierne librerie indipendenti, dopo avere creato la
più importante di tutte; è quello che si chiede anche
Margaret Victoria, ripensando a Sylvia e alla sua storia, mentre riflette nei locali della libreria Dragonfly
dove lavora, nel simpatico romanzo di Shelley King:
«Hugo aveva appeso dietro il bancone della Dragonfly una fotografia incorniciata della signorina
Sylvia, in piedi sulla soglia della sua libreria insieme a
James Joyce. A volte mi chiedevo cosa avrebbe pensato lei della Dragonfly. Me la vedevo seduta vicino a
Hugo in vetrina, divertita dal mio continuo scorrazzare in giro nel tentativo di rendere il negozio appetibile per la generazione di Google».40
Linossier e di suo padre Georges, «Les cahiers de Francis Poulenc», n. 3, Paris, Éditions Michel de Maule, 2011, pp. 111-113.
28
Testimonianza riportata da Serena
Vitale nel suo Il defunto odiava i pettegolezzi, Milano, Adelphi, 2015, pp. 24-25.
29
Claudio Gorlier, Ulisse di James Joyce, Verona, Mondadori, luglio 1961, plaquette f.c.
30
È quanto avviene nel bel romanzo di
Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito, Roma,
minimum fax, 2010.
31
Cfr. Mattia Di Taranto, Sylvia Beach,
Joyce e altri exilés, «Wuz», n. 2, aprile 2007,
pp. 3-7.
32
Cfr. Glenn Storhaug, ‘Seems to See
with His Fingers’: the Printing of Joyce’s
Ulysses, «Matrix», 2003, pp. 50-56.
33
Cfr. Giampiero Mughini, In una città
atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso
Svevo”, Milano, Bompiani, 2011, pp. 9197.
34
Maurizio Pallante, I Tallone, cit.
35
Bibliografia talloniana 1931-2010,
a cura di Anna Mavilla, premessa di Maurizio Nocera, Fontanellato, Ricci Editore,
2011.
36
Twentieth-Century English Litera-
ture, catalogue 72, London, Peter Harrington Rare Books, 2010, pp. 8-9, nn. 6-7-8.
37
Cfr. Hans Tuzzi, Ulysses, cit., p. 129.
38
Cfr. Gianfranco Tortorelli, Contromano. La storia della Minimum fax dal
1994 al 2008, Bologna, Pendragon, 2010.
39
Il Buon Tempo. Le edizioni del torchio
privato di Lucio Passerini, qui per la prima
volta raccolte in volume e illustrate, Crocetta del Montello, Grafiche Antiga, 2010.
40
Shelley King, Tutta colpa di un libro,
Milano, Garzanti, 2015, p. 160.
16
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
17
Dannunziana
PAGINE DI BRONZO,
PAGINE DI CARTA
D’Annunzio, Cellini e il Perseo
LUCA PIVA
«D’
Annunzio ha
due modi di
intendere la
scultura: gioia delle forme, gioia
della materia, e questa seconda
supera forse la prima e si lega a
un piacere degli stessi mezzi
tecnici e dei procedimenti del
mestiere i quali sembrano interessarlo nello scultore più che in
qualsiasi altro artista».
Queste avvedute considerazioni aprono il capitolo dedicato
alla scultura nella monografia su
Le arti figurative nell’arte di Gabriele d’Annunzio, composta con acume e dottrina
da Bianca Tamassia Mazzarotto e pubblicato dall’editore milanese Bocca nel 1949, scorta preziosa
per chi voglia inoltrarsi in una esplorazione puntuale e approfondita della materia.
Numerose pagine dannunziane conservano
indizi di un atteggiamento di attenzione e confidenza nei confronti degli strumenti e dei materiaNella pagina accanto: Vita di Benvenuto Cellini, frontespizio
della prima edizione a stampa (Colonia, Pietro Martello,
1728). Sopra: copertina del saggio Le arti figurative nell’arte
di Gabriele d’Annunzio di Bianca Tamassia Mazzarotto
(Milano, Bocca, 1949)
li utilizzati dagli scultori: dalla
umile creta, nella quale primamente trova corpo la figura che
abita la fantasia dello statuario,
al gesso, intristito da un opaco
pallore ma disponibile a spettacolari metamorfosi, al marmo
lucente dei monti Apuani, nei
quali sta in attesa «un chiuso popolo di statue addormentate». E
poi il bronzo, misteriosamente
ombroso o verdeggiante come
acqua al sole, che ispirò a d’Annunzio una duratura passione e
in diverse occasioni ha donato
sanguigno nutrimento al suo punto di vista poetico sulla realtà.
Da un lato si possono annoverare numerosi
episodi nei quali il metallo che diede voce a campane e cannoni è chiamato a dare sostanza letteraria a un ricco assortimento di similitudini: così,
davanti al lido pisano, il mare etrusco può apparire
«pallido verdicante come il dissepolto bronzo degli ipogei» (Meriggio), e «come bronzo» rimbomba il galoppo del centauro che corre a bere il nero
vino nell’otre obeso (Il Tessalo), ed è «eternato nel
bronzo di Corinto» dal sortilegio del verso il sanguinoso combattimento fra il centauro e il cervo
(La morte del cervo), né può essere d’altro che bron-
18
zo la voce di Capaneo, l’eroe che sfida il dio davanti alle mura di Tebe (Fedra). Dall’altro, si può provare a compilare una sommaria rassegna dei casi in
cui il proteiforme amalgama di rame e stagno offre
allo scrittore materia per argomentazioni più estese del punto d’appoggio retorico che basta a sostenere una metafora.
Un destino generoso ha voluto che l’iniziazione del poeta all’amore per il bronzo giungesse
assieme con l’iniziazione all’amore carnale. La Favilla del Maglio intitolata La Chimera e l’altra bocca,
pubblicata nel 1924 ne Il secondo amante di Lucrezia
Buti, ci accompagna attraverso le sale del Museo
Archeologico di Firenze, quali apparivano nell’anno 1877, dove incontriamo il quattordicenne
Gabriele a braccetto con ‘Malinconia’, la prima di
tutte le sue innamorate; i due vi si erano recati con
il proposito di contemplare l’Idolino di Pesaro,
l’ammaliante efebo ellenistico che ha il colore
d’alga marina, ma fu l’incontro con la Chimera
d’Arezzo, «spasimo metallico lustrante in una pelle
indicibilmente verdebruna», a inebriare la coppia
di ginnasiali trascinandoli in un turbine di emozioni: l’ardimentoso adolescente non sa trattenersi dall’introdurre «con furia»
una mano nelle fauci spalancate
dell’infernale creatura, ritraendola dolente, e l’avventurosa
circostanza infiamma a tal punto
i due studenti da condurli a coronare la memorabile giornata
con un epilogo gradevolissimo,
ma tutt’altro che innocente.
Uno dei rari episodi luminosi che si distinguono nella tenebrosa intonazione delle pagine del Notturno rievoca una visita alla piazza dei Miracoli, a Pisa, in compagnia di Eleonora
Duse. Sorpresi da un temporale
primaverile, i due amanti cercano riparo addossandosi alla por-
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
ta centrale del Duomo, realizzata alla fine del Cinquecento da un gruppo di artisti della cerchia del
Giambologna: sul modello della ghibertiana Porta
del Paradiso del Battistero fiorentino, le due ante
monumentali associano otto grandi quadri narrativi, dedicati alla vita di Maria, a una lussureggiante profusione di decorazioni vegetali e zoomorfe.
Lo scorrere dell’acqua piovana dona all’intreccio
di fronde metalliche la medesima fresca vitalità
dell’erba del prato: «Premuti contro il bronzo dei
battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso. L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli
uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il
piacere dell’artista che aveva modellate le forme,
la sua sapienza e il suo capriccio. Quanto più miravamo il bronzo, tanto più la sua patina diventava
ricca, possente, profonda. S’arricchiva dei nostri
occhi affettuosi, e ci rendeva amore per amore».
Con puntiglioso magistero lessicale, un altro
passo della stessa opera paragona all’operare del
fonditore l’ispirata oratoria che consentì al Vate di
plasmare il sentimento della folla nelle ‘giornate radiose’ che nel 1915 prelusero all’entrata in guerra dell’Italia: «Le
ultime parole sono come quei
colpi che il fonditore dà col mandriano nella spina arditamente
perché coli nella forma il metallo
liquefatto. La folla è come una
colata incandescente. Tutte le
bocche della forma sono aperte.
Una statua gigantesca si fonde».
In un ultimo episodio dal
Notturno la presenza del bronzo
rimane sullo sfondo come
un’oscura eco; è quello, indimenticabile, dell’incontro con
Vincenzo Gemito, esiliato nel
suo romitorio alpestre, circondato da «branchi demoniaci di
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
19
Nella pagina accanto: Forse che si forse che no, copertina della pima edizione (Milano, Treves, 1910). Sopra: la Chimera d’Arezzo
(V sec. a.C.), Firenze, Museo archeologico nazionale
capre», chiomato e barbuto come «un profeta impazzito al vento del deserto». La follia ha tolto allo
scultore napoletano ogni capacità di operare ma,
con sinistro accanimento, la sua mano destra replica all’infinito un gesto disperato: nascosta nella
tasca, stringe un pezzo di cera rossa e ripete instancabilmente il movimento del ceroplasta che la
ammorbidisce fra le dita per renderla modellabile:
«percosso nella fonte, destituito della potenza di
creare, egli non aveva conservato se non quell’atto
istintivo, quella consuetudine tecnica di artiere
celliniano, di fonditore a cera persa».
Un popolare capolavoro ci si fa incontro da
una pagina del Libro Segreto, richiamando un ri-
cordo successivo di qualche anno: nella Venezia
assediata del 1917 il poeta-soldato assiste alla rimozione del monumento equestre al condottiero
Bartolomeo Colleoni dal suo piedistallo in campo
San Zanipolo, al fine di metterlo al riparo dai
bombardamenti austriaci. La statua del feroce uomo d’armi modellata da Andrea del Verrocchio e
gettata in bronzo dal veneziano Francesco Leopardi è una delle sue predilette e, in questa circostanza, perfettamente intonata al suo stato d’animo bellicoso, eppure in lui «subito si eccita il demone del mestiere», che lo induce a soffermarsi
lungamente sugli aspetti più materiali dell’opera: i
falli della fusione, il terriccio residuo, «la sprezza-
20
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sopra: cerchia del Giambologna, Rinoceronte (seconda metà del XVI sec.), dettaglio dal portale del Duomo di Pisa.
Nella pagina accanto: Benvenuto Cellini (1500-1571), Perseo con la testa di Medusa (1545-1554), Firenze, Loggia dei Lanzi
tura potente, la negligenza ne’ particolari degli ornati fatti a stampa senza collegamenti esatti contro
le sbavature e le rigonfiature del getto». Qui come
altrove, il sapore educato della forma si perde nel
gusto selvatico della materia.
La pregiata lega metallica che occupa un ruolo da comprimario nelle opere sopra citate diventa
protagonista in un piccolo gruppo di Faville uscite
sul Corriere della Sera fra il 1906 e il 1911. La prima, Il fiore del bronzo, rievoca un gradevole dopopranzo in cui, all’ombra della pergola di una trattoria veneziana, una dotta tavolata di amici passa
in rassegna con compiaciuta competenza i diversi
accorgimenti adottati dai grandi bronzisti greci
per impreziosire la superficie delle loro statue. «Vi
sono patine inimitabili che si esprimono dalla
composizione della materia e ne sembrano la vera
fioritura o, meglio, la vera pelle»: il dialogo elude
ogni altra questione e si concentra solo su questa
pelle, sfoggiando un’estrema finezza di gusto per
le qualità tangibili che fanno da veste sensuale alle
perfette costruzioni dl genio ellenico. Sarebbe però errato ridurre questo esercizio all’atteggiamento passivamente ricettivo che distingue il più estenuato estetismo decadente: l’attrazione dannunziana per i segreti del mestiere e dei materiali non
fu rivolta semplicemente a nutrire una curiosità
onnivora e insaziabile, ma introduce a una concezione della esecuzione artistica che riconosce
nell’adempimento scrupoloso e sagace delle pratiche artigianali il cerimoniale arcano capace di coagulare nella sostanza plastica il dettato della Musa.
Scrive la Tamassia Mazzarotto che «la fusione di
una statua ha sempre per il poeta la solennità di un
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
rito; rito di trasmutazione che risale nei millenni ai
favolosi gittatori dei primi bronzi greci. Il fonditore è una specie di sacerdote misterioso e mistico,
tenace e onnipotente, che comanda al fuoco e al
metallo, che impone la misura dell’arte alla potenza divina».
La favilla La resurrezione del centauro ci conduce a Bellosguardo, nella cavernosa officina del
fonditore pistoiese Gusmano di Betto Vignali, dove lo scrittore si reca ad assistere alla fusione di un
grande e complesso gruppo scultoreo creato da
Clemente Origo, che rappresenta il combattimento fra il centauro e il cervo, ispirato alla poesia
alcionia La morte del cervo. «L’aria ripalpita di
un’ansietà religiosa come nell’attesa del miracolo.
A poco a poco il vigore del fuoco sembra attrarre il
respiro degli uomini e costringerli a vivere secondo la sua vicenda. Noi viviamo fuori dal tempo con
un’anima attonita e trepida che vibra secondo
quella lingua di fiamma indicatrice della corrente
aerea mossa tra il camino e il fornello. Da quante
ore il fuoco fatica? Perché tanto è lento a struggere il metallo? Il maestro guarda il cielo e fiuta il
vento come un veleggiatore alla panna». Nella
bottega novecentesca l’esperienza accumulata nei
secoli fa sì che la complicatissima impresa proceda
con lineare sicurezza, senza assumere il carattere
di tempestosa avventura che ebbe, «in una bottega
fiorentina, in una notte remota», la fusione del
Perseo narrata nella Vita di Benvenuto Cellini; ciò
non di meno, lo spirito dell’animoso toscano aleggia su tutto l’episodio e assurge a nume tutelare di
tutto il viaggio del poeta su questa «fiumana di
metalli sacri». Lo scrittore che esaltava «l’istinto
agonale come solo creatore di bellezza e di signoria nel mondo» e che di lì a poco si sarebbe fatto
soldato e condottiero di soldati, non poteva non
ritrovarsi nel creatore ardito e fecondo, signore e
padrone della sua arte, ingordo di gloria, che si
vantava di non conoscere «di che colore la paura si
fusse» e, indifferente al «furore della fortuna e di
perverse stelle», proclamava che, di suoi pari,
21
«n’andava forse un per mondo». Contro l’uso del
suo tempo d’Annunzio non si attardò a passare al
vaglio le presunte millanterie che, a torto, erano
addebitate alla autobiografia celliniana, perché gli
si confaceva perfettamente l’immagine che lo
scultore volle lasciare di sé: semmai a lui invidiò
sempre l’opportunità che gli offriva la sua arte di
misurarsi in un concreto corpo a corpo con la realtà, inseguito dal poeta in tutte le sue attività extraletterarie: dall’allevamento dei cavalli e dei cani, al
laborioso allestimento delle sue dimore, all’esercizio delle armi.
Nelle molte pagine della Vita dedicate al Perseo, Cellini si sofferma sulla cronaca appassionata
delle drammatiche traversie superate nel portare a
compimento l’impresa della fusione, che era stata
unanimemente giudicata impossibile, mentre nessun spazio vi trova la trattazione di questioni di natura strettamente estetica, quasi che la divina bellezza che aveva saputo donare al suo eroe, come a
22
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
prodigio sgorgata dalle sue mani, gli venisse a minor motivo di merito: tanto saldamente egli reggeva le chiavi d’accesso al suo dominio poetico,
così che altre cure non si poneva che di dar l’assalto alla materia bruta per piegarla al suo volere. Per
questa via, prima ancora che per l’eccellenza delle
sue opere, Benvenuto grandeggia anche nell’Encomio del bronzo, favilla composta in quartine di endecasillabi rimati sull’onda dell’emozione per
l’esperienza di Bellosguardo, che celebra accoratamente la scultura conflatile e i maestri greci
dell’età aurea, approdando al fiorentino «eroe cui
l’arte è guerra», campione di un tipo umano industre e temerario, disposto a qualsiasi rischio e a
qualsiasi fatica pur di dar corpo ai suoi disegni:
O Benvenuto, Benvenuto,
veggomi in cuore il tuo volto riarso,
il tuo capo strinato di faville
che senza elmetto sta nella battaglia,
e la man tua tremenda che attanaglia
i manovali o all’opra si fa mille,
e pino e quercia veggoti a pien braccio
raccòrre e darli a quel terribil fuoco;
e il rappreso metallo a poco a poco
rilampeggiare, e fondersi il migliaccio,
e gli uomini sbiancarsi al tuo ruggito,
e la gran febbre che ti fa di bragia,
e l’odor della cera e della ragia,
e crepitare il tetto incarbonito
e la pioggia crosciar di verso gli orti,
e tu gridar: “Porta qua, leva là”:
e tu razzare di felicità,
tu: Dio che resuscitasti dai morti!
Tu lodar Dio col sangue nella strozza,
e ognuno far per tre e tu per cento
milia, e il furore vincer lo spavento...
La fusione decritta nella «Resurrezione del
Centauro» fornì il modello per un episodio inserito nell’ultimo romanzo di d’Annunzio, Forse che sì
forse che no, pubblicato da Treves nel 1910; qui il
protagonista, eroico pioniere dell’aviazione, per
celebrare le proprie imprese e commemorare un
fraterno compagno caduto durante una gara di volo sportivo fa realizzare una coppia di statue gemelle dal soggetto emblematico: un nudo possente dalle ali distese. «Era Dedalo? Era Icaro? Era il
folle demone del volo umano? Pareva che uno degli Schiavi michelangioleschi, un di quei quattro
che il Titano lasciò sbozzati, […] col nerbo delle
braccia franche avesse imbracciato due ali per le
guigge al modo di due grandi clipei e con tutto lo
scatto delle congiunte gambe pontando i piedi
spiccasse il volo».
Nel 1901, all’uscita de Il Fuoco, il romanzo
precedente, d’Annunzio si trovava al centro esatto
della vita letteraria nazionale; dieci anni dopo
questo primato aveva cominciato a divenire incerto, mano a mano che le sue scelte tematiche e linguistiche andavano rivelandosi eccentriche rispetto all’orientamento delle tendenze culturali più
aggiornate, destinate a prevalere nel volgere di
poche stagioni. Significativo a questo proposito è
proprio l’atteggiamento che d’Annunzio mantenne nei confronti delle arti figurative: mentre egli
perseverava a celebrare Policleto, Lisippo e Cellini, pittura e scultura avevano già intrapreso il percorso che, a tappe forzate, le avrebbero condotte a
disconoscere l’autorità dei canoni formali fissati in
Grecia e lungamente coltivati in Italia, e a sperimentare, in prototipi di dimensioni ridotte, quello
stravolgimento dell’indole e della fisonomia
d’Europa cui due guerre mondiali avrebbero presto provveduto a dare attuazione concreta nel corpo vivo del continente. In particolare, d’Annunzio
si mantenne perfettamente estraneo all’atteggiamento di pensiero incline a considerare le incombenze materiali che accompagnano l’esecuzione
di ogni opera d’arte, e i repertori di procedure ido-
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
nee ad assolverle, come vincoli contrapposti alla
genuina espressione dell’impulso creativo: al contrario, egli continuò sempre a riconoscere nell’edificio di regole e consuetudini perfezionate di
secolo in secolo che compongono la sostanza di
ciascun idioma espressivo la base di collaudata sapienza capace di elevare la statura creativa d’un artefice, sommando alla forza della sua mano la forza
accumulata nel succedersi delle generazioni, solidificata nei precetti del mestiere.
I protagonisti del Forse che si forse che no, come
quelli contemporanei de La Nave e di Fedra, sono
stati giudicati inverosimili dal punto di vista psicologico, alla stregua di caricature deformate da una
esagerata violenza di sentimenti e di sensi. L’immagine dell’aviatore che si specchia nel suo simulacro di bronzo può offrirci la chiave di lettura per
riconoscerne la vera natura poetica, che non fu
ispirata alla imitazione della realtà ma a una sua
trasfigurazione epica: «Non era la colata del metallo strutto che soffiava e stridiva nei rami di gitto
a riempire il cavo della statua bella, ma era la bellezza e l’immortalità d’una seconda vita». Come il
Discobolo, il Diadumeno e l’Apoxyomenos, come il
Perseo, come le grandi parti del dramma musicale e
quelle del suo fiammeggiante teatro di poesia, personaggi come questo non cedono all’inverosimile
ma aspirano piuttosto a una dimensione maggiore
del vero, proponendo alla letteratura novecentesca una strada alternativa tanto alla mimesi naturalistica quanto allo sperimentalismo intellettualistico, alla quale sarebbe toccato maggior seguito
nelle espressioni d’arte popolare che in quelle di
rango più elevato.
La statuaria monumentale sembra dettare al
romanziere e drammaturgo la scala di dimensione
sulla quale misurare i suoi personaggi, e ci suggerisce una fonte familiare e sedimentata, propedeutica alla fascinazione nietzschiana, alla quale ricondurre il superomismo dannunziano. Nel Fuoco, romanzo traboccante di propositi e programmi
per il secolo appena nato, d’Annunzio si prefigge
23
Antiporta della prima edizione di Fedra, tragedia di Gabriele
d’Annunzio (Milano, Treves, 1909)
«il gesto del Perseo» quale modello per la «grande
tragedia» alla quale avrebbe dedicato tanto del suo
lavoro del successivo decennio. Tre secoli e mezzo
innanzi, su uno dei cartigli di lode che nella primavera del 1554 i fiorentini affissero alla base del
Perseo appena scoperto, un cittadino aveva scritto
in latino: «La natura era il modello dell’arte; ma
dopo che Cellini ha fuso il Perseo l’arte sarà modello alla natura». Molto meglio che come un ingegnoso artificio retorico, questa sentenza andrebbe letta come il motto di una famiglia di artisti, lungamente vissuti sotto il nostro cielo, che
non si accontentarono di inchinarsi alla realtà o di
fuggirla, ma vollero domarla, offrendo al proprio
popolo un modello al quale attenersi per diventare
maggiore di sé stesso.
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febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
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Bibliofilia
«AL ROGO! AL ROGO
SIGISMONDO ARQUER!»
Vicende della Sardiniae brevis historia
GIANCARLO PETRELLA
Come preannunciato nel numero di ottobre di
questa rivista si offre qui un altro episodio di ordinaria
censura. Storie concrete di uomini e libri, o piuttosto di
uomini armati di penna e forbici e libri mutilati, deturpati, espurgati in nome dell’ignoranza e dell’ipocrisia,
affinché gli occhi non vedessero e gli animi non venissero corrotti. E di uomini incarcerati o uccisi, come in
questo caso, per misere vendette di parte per avere osato
muovere critiche all’ordine costituito.
La puntata precedente aveva come protagonista il
più noto libro di geografia rinascimentale, promosso a
Basilea dall’erudito protestante Sebastian Münster.
La vicenda che qui si ricostruisce con rapidi tratti
ne fu la diretta conseguenza.
I
l 4 giugno 1571, nella pubblica plaza de Zocodover a Toledo, al termine di un solenne
autodafé, fu condotto sul rogo il giureconsulto cagliaritano Sigismondo Arquer (1530-1571),
avvocato fiscale di Filippo II coinvolto nelle vicende politico-amministrative di riforma dell’isola,1 nonché autore della prima descrizione storico-geografica della natia Sardegna. Fra i capi di
Nella pagina accanto: Sebastian Münster, Cosmografia
universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, (esemplare della
Biblioteca Queriniana di Brescia, 3a R. I. 8), frontespizio
con nome dell’autore cassato («damnato»)
imputazione che gli erano stati rivolti durante un
estenuante processo, oltre alla frequentazione di
sospetti luterani, figuravano anche taluni malaccorti giudizi disseminati proprio nella sciagurata
Sardiniae brevis historia et descriptio.
Tutto era iniziato più di vent’anni prima, allorché il giovane Sigismondo, fresco di laurea in
utroque iure e teologia a Pisa e Siena, tornato in
Sardegna, aveva trovato la propria famiglia vittima delle macchinazioni ordite dal partito avverso
al viceré. Il padre Giovanni Antonio, accusato di
frode e stregoneria, aveva trovato rifugio in Spagna e Sigismondo, allo scopo di evitare il sequestro dei beni paterni, nel settembre del 1548 si era
deciso a partire alla volta della Germania per intercedere presso Carlo V. Durante una sosta di tre
mesi in Svizzera entrò in contatto con alcuni illustri ebraisti e teologi protestanti la cui frequentazione si sarebbe rivelata in futuro determinante ai
fini della sua condanna. Il filologo e teologo Konrad Pellikan lo presentò il 21 aprile 1549 al celebre
Bonifacio Amerbach a Basilea, dove si trattenne fino ai primi di giugno presso l’eterodosso torinese
Celio Secondo Curione. Tale permanenza a Basilea fu infine occasione per l’incontro fatale.2 Tramite il circolo degli eterodossi basileesi l’Arquer
fu avvicinato dal teologo e cosmografo protestante Sebastian Münster, all’epoca dei fatti ancora
impegnato nella revisione del suo mirabile pro-
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Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea,
Heinrich Petri, 1550, p. 242, incipit della Sardiniae brevis
historia et descriptio (a sinistra) e p. 243, carta della
Sardegna (a destra)
getto della Cosmographia universalis, un ampio trattato storico-geografico che intendeva illustrare
tutte le terre allora conosciute. Non è azzardato
ipotizzare che il Münster, venuto a conoscenza
dell’origine isolana del giovane e colto ospite, non
si sia fatto scappare l’occasione per commissionargli un contributo su una terra che doveva ai tempi
apparire quantomeno ‘esotica’ al pubblico dei dotti. In quelle sei settimane trascorse dall’Arquer a
Basilea, e cioè prima della partenza avvenuta il 5
giugno 1549, prese così corpo il «compendio de le
historie di la tenebrosa Sardegna» (come ebbe a
definirlo l’autore stesso), ossia la Sardiniae brevis
historia et descriptio. Ironia della sorte, sarebbe rimasta l’unica opera a stampa di questo giureconsulto che probabilmente non aveva alcuna velleità
letteraria, e che soltanto scrisse, durante i lunghi
anni di carcere, una serie di versi, intitolati Coplas al
imagen del Crucifixo.3 Il giovane Sigismondo, sebbene fisicamente lontano dalla sua terra, vi alterna
ricordi e osservazioni possibili solo a un profondo
conoscitore dei luoghi descritti, come a esempio le
critiche all’imperizia dei contadini, a erudite citazioni tratte da fonti greco-latine, molto probabilmente messegli a disposizione dai suoi dotti ospiti.
Il testo (una decina circa di pagine) si articola
in brevi capitoli, ai quali l’autore affida un’acuta e
spregiudicata descrizione dell’isola, non soltanto
dal punto di vista storico-geografico, ma anche
culturale, linguistico e soprattutto sociale. A una
descrizione di natura prettamente geografica, che
ha il merito di indagare per la prima volta quanto
riportato dalle fonti classiche (De Sardiniae situ et
magnitudine, De Sardiniae antiquis vocabulis), seguono tre capitoli rispettivamente dedicati alle città dell’isola, in particolare Cagliari (De Sardiniae
civitatibus, De Calari metropoli Sardiniae), alla lingua dei Sardi, con un’interessante traduzione del
Pater noster in sardo, e infine alle condizioni di vita
e ai costumi della popolazione (De magistratibus
Sardiniae, incolarum natura, moribus, legibus et religione). Il testo è accompagnato, oltre che da piccole
silografie già impiegate anche altrove nella Cosmographia e quindi indipendenti dal contributo dell’Arquer, da due ottime carte geografiche realizzate probabilmente dall’équipe di collaboratori di
Münster su indicazioni e materiale fornito dall’Arquer stesso. La prima è una mappa a piena pagina
della Sardegna, piuttosto dettagliata (Roberto Almagià la definì «la migliore tra tutte le carte relative all’Italia contenute nell’opera munsteriana»),
con le principali città e piccoli borghi (a dire il vero
molti di più rispetto a quelli citati dall’Arquer nel
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
27
testo), indicati con i rispettivi nomi volgari o latini.
Una didascalia rimanda inoltre il lettore curioso al
testo e alla tavola di Tolomeo «si voluerit nomina
antiqua etiam scire». Con questo sottile espediente il Münster invitava cioè a comprare o a procurarsi copia di una delle preziose edizioni di Tolomeo,
corredate di tavole cartografiche da lui curate,
pubblicate a più riprese a partire dal 1540. La seconda carta, ancora a piena pagina, è invece una
pianta schematica della città di Cagliari, sulla quale rintracciare, attraverso lettere di rimando, gli
edifici elencati nel testo. All’interno della Cosmographia Cagliari veniva così a guadagnarsi un posto
di rango, anche se certo la mappa non poteva rivaleggiare con le mirabili vedute prospettiche delle
più illustri città di area tedesca, le cui descrizioni
erano corredate da silografie addirittura a più pagine ripiegate e rilegate nel volume.4
Al momento di partire da Basilea, l’Arquer
non doveva però essere pienamente soddisfatto del
contributo se infatti, in conclusione del quarto capitolo, prometteva di riprendere l’argomento e
comporre «si Dominus requiem et otium dederit,
prolixiorem de rebus Sardorum historiam». Il
Münster invece dal canto suo, con o senza il consenso dell’autore, si era invece affrettato a pubblicare la Sardiniae brevis historia già nella prima edizione in latino della Cosmographia universalis,
stampata a Basilea nel 1550 presso quell’Heinrich
Petri, che, nel corso degli anni, godrà di un monopolio pressoché assoluto sulla stampa dell’opera.5
Con questa nuova edizione il Münster sceglieva di
ampliare il mercato cui si era finora rivolto, indirizzandosi finalmente, a distanza di sei anni dalla
princeps in tedesco della Cosmographia, al pubblico
dei dotti dell’intera Europa, fino a quel momento
penalizzato dalle stampe in lingua tedesca e caratteri gotici. A quest’altezza la Cosmographia, o meglio la Cosmographey oder Beschreibung aller Länder,
circolava infatti già in ben cinque edizioni, tutte
però in lingua tedesca, stampate sempre dalla stessa tipografia di Basilea tra il 1544 e il 1550.6
Con la pubblicazione della Sardiniae brevis historia in seno alla Cosmographia la vicenda del cagliaritano veniva però a saldarsi in modo indissolubile – tale infatti risulta dalle accuse mossegli dai
giudici nel corso del processo inquisitoriale – con
quella di Sebastian Münster, autentico coprotagonista della storia, sebbene scomparso anzitempo a
soli tre anni dal fatidico incontro del 1550. Su di
lui, e di conseguenza anche sulla Cosmographia, si
era infatti posato lo sguardo severo dei censori:
l’opera omnia del Münster fu condannata già negli
Indici dei libri proibiti di Venezia e Milano del
1554, sebbene in realtà mai applicati, e poi in quello romano e in quello spagnolo entrambi del 1559.
A distanza di quasi un decennio dalla pubblicazio-
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 244-245
ne della Sardiniae brevis historia, il nome del Münster figurava nella lista dei più pericolosi eresiarchi, quelli di prima classe, in compagnia dei pestiferi Erasmo e Lutero, e perciò ne fu proibita l’intera produzione.
È a questo punto che la fazione avversa agli
Arquer, fallito un tentativo di avvelenamento e
conclusosi con un nulla di fatto un primo generico
processo per eresia, trovò nella più subdola accusa
di luteranesimo l’arma per eliminare l’avversario.
Si può dire che a fornirglierla fosse stato Sigismondo in persona. Non solo con la pubblicazione della
Sardiniae brevis historia nell’opera di uno scrittore
dal 1559 apertamente condannato perdipiù stampata a Basilea, la sentina di tutte le eresie, ma soprattutto con alcuni imprudenti giudizi sulla
Chiesa sarda e il Tribunale dell’Inquisizione in
Sardegna che potevano apparire sospetti in materia di fede, se non addirittura aperte prese di posizione contro l’autorità ecclesiastica. Non è forse
un caso che proprio in questi anni gli avversari
dell’Arquer, intravedendo in alcuni brani della
Sardiniae brevis historia argomentazioni sospette, si
interessassero a divulgare il breve contributo
dell’Arquer indipendentemente dalla voluminosa
Cosmographia, facendone stampare a Valladolid, a
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
29
Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 246-247
mo’ di estratto, un’apposita edizioncina, di cui non
sembra però sopravvivere alcun esemplare.7
L’obiettivo era dare il maggiore risalto possibile ad
alcuni incaute affermazioni disseminate dall’Arquer nel suo contributo geografico. La prima inchiesta, condotta dall’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues, appena giunto in sede con fama di
severo inquisitore, si concluse nel 1560 con il pieno proscioglimento dell’imputato.8 Fu solo nel
corso del nuovo processo avviato nel 1563 dall’inquisitore Diego Calvo,9 e destinato a concludersi
con il solenne auto da fé del 1571, che l’Arquer fu
chiamato a rispondere, oltre che dei passi incrimi-
nati, di ben più gravi frequentazioni sospette a Basilea, in Sardegna e in Spagna, fra cui quella con Jerónimo Conqués e soprattutto don Gaspar Centelles, luterano impenitente bruciato sul rogo
nell’autunno del 1564, col quale aveva intrattenuto un compromettente scambio epistolare.10
Le macchinazioni dei suoi avversari potevano
basarsi, oltre che su testimonianze false o distorte,
su alcuni incauti giudizi dati dall’Arquer. Si tratta
di tre prese di posizione nei confronti della vita ecclesiastica sarda a metà Cinquecento. La prima, inserita nel capitolo De magistratibus Sardiniae, riguarda il presunto abuso di potere dell’Inquisizio-
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 248-249 (mappa di Cagliari) e incipit del
paragrafo De magistratibus Sardiniae
ne in Sardegna, probabile riflesso dell’incarceramento del padre nel 1543, e la libertà spregiudicata
di cui godevano gli inquisitori:
Evvi parimente il generale inquisitor contra gli
heretici contra gli apostati e contra malefici secondo costumi e secondo le constitutioni della
Spagna oltra quelle cose che son concesse comunemente agl’inquisitori dagli imperadori e da
pontefici. Costui ha privilegi senza misura e non
riconosce alcun superiore nella Sardigna fuor
ch’el supremo inquisitor della Spagna di cui è delegato. Ordina egli parimente sotto sé degli altri
inquisitori e ministri di tutti i quali egli è giudice. I
quali contra que’ che d’errori son sospetti con tanta severità procedono che con poche parole sprimer non si potrebbe. [Infatti in carcere trattengono, interrogano e torturano i miseri uomini per
molti anni prima di condannarli o assolverli]. (dalla versione in italiano pubblicata nei Sei libri della
Cosmographia Universale, Basel, H. Petri, 1558
nella quale fu però omessa, rispetto all’originale
latino, l’ultima frase qui tra parentesi quadre).
Nel corso del processo Sigismondo Arquer
ribatterà all’accusa di chi vedeva in questo passo un
32
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, p. 250: interventi censori coevi (sull’esemplare
della Biblioteca Queriniana di Brescia) a cassare i passi incriminati ritenuti lesivi dell’autorità ecclesiastica
chiaro rifiuto dell’autorità della Chiesa sostenendo invece che tutto il brano ribadiva come l’inquisizione agisse secondo il diritto, in base alle leggi
imperiali ed ecclesiastiche e, pur procedendo forse
con eccessiva severità, operasse sempre contro sospetti di eresia, non contro buoni cristiani. Si noti
però che molto sottilmente l’Arquer aveva usato i
termini suspectos e addirittura, più avanti, con un
cenno di pietà, miseros homines, senza invece parlare apertamente di eretici confessi.
Sempre nel medesimo capitolo, l’ultimo della
Sardiniae brevis historia, l’Arquer aveva trattato
della desolante condizione religiosa delle campagne sarde, affrontando nello stesso tempo il tema
dei rozzi costumi della popolazione e le gravi colpe
del clero. In particolare le sfere ecclesiastiche potevano rimanere turbate dal passo sui balli e canti
profani che si celebravano nelle chiese di campagna durante le feste dei santi e dal conseguente richiamo alla mancata sollecitudine pastorale del
clero, causa di quegli eccessi superstiziosi:
Vivono bene secondo le legge della natura e ottimamente viverebbono se avessin sinceri predicatori del verbo di Dio. Quando i contadini celebrano il giorno della festa di verun santo, udita la messa nel tempio di quel santo, tutto quanto il rimanente del giorno con la notte ballano nel tempio,
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
cantano canzone da uomini profani, fanno balli
tondi gli uomini con le femmine, ammazzan porci
e armenti e mangiansi quelle carni con gran letizia
in onor di quel santo. Sonvi molti altresì i quali ingrassano qualche bestia in onor propiamente di
qualche santo per mangiarsela nel tempio di lui
massimamente fabricato in qualche selva e nel
giorno della festa.
Il brano preannuncia poi, in un pericoloso
crescendo di sprezzanti battute, la terribile condizione del clero sardo, di cui l’Arquer stigmatizza la
scarsa cultura e la propensione a disinibiti costumi
sessuali: «Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus
inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur qui
latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis
quam legendis libris». («Sonvi i sacerdoti ignorantissimi tal che tra lor radi, come anche tra suoi monachi, si truovan che intendin la lingua latina.
Hanno le lor concubine e maggior studio mettono
a far di figliuoli che a legger de’ libri»). Incautamente l’Arquer aveva scelto di collocare questo
passo non certo in posizione defilata, ma addirittura sotto gli occhi di tutti, ossia a conclusione dell’opera. La prima descrizione storico-geografica
dell’isola di Sardegna, convogliata nella monumentale Cosmographia munsteriana, si chiudeva
perciò con una punta di feroce ironia sulla degenerazione del clero sardo: «Habent suas concubinas,
maioremque dant operam procreandis filiis quam
legendis libris» (si veda in proposito l’esemplare
della Cosmographia qui riprodotto con interventi
censori coevi volti a cassare i passi incriminati).
Nel corso del processo, chiamato dall’Inquisizione spagnola a giustificare tali sprezzanti affermazioni, l’Arquer avrebbe ribattuto che in nessun
caso quelle critiche potevano essere lette come un
rifiuto dell’autorità ecclesiastica, ma piuttosto fossero motivate proprio dal rispetto e dall’amore per
la Chiesa di Roma. D’altronde giudizi ben poco lusinghieri sulla condizione del clero in Sardegna
33
aveva espresso, senza per questo essere chiamato a
renderne conto, persino l’arcivescovo di Cagliari
Parragues nel 1560 in una lettera a Filippo II: «le
chiese non sono guidate da propri pastori, ma da
mercenari ingaggiati a prezzo e licenziabili a volontà. La maggior parte di questi ultimi sanno appena leggere, non hanno alcuna conoscenza della
legge di Dio e della Chiesa».
A distanza di oltre dieci anni veniva infine
mossa all’Arquer l’accusa più subdola, ossia la frequentazione di quel Sebastian Münster, che, a rigor di logica, nel 1550, prima cioè degli Indici del
1559, non era però né un autore condannato né
tantomeno potevano essere proibiti i suoi libri. A
meno che non si evocasse un’applicazione retroattiva della legge. Non a caso questa sarà anche la linea difensiva adottata dall’Arquer durante l’intero
lungo processo svoltosi a Toledo: «las obras de
Munstero en general sólo fueron prohibidas después en Italia por los SS inquisidores generales de
Roma y en Espanna […] en el anno de mil y quinientos y cinquenta y nueve». A chi lo accusava di
aver familiarizzato con il cosmografo luterano, rispondeva che i rapporti risalivano a pochi mesi tra
il 1549 e il 1550, e che a quella data non solo il Münster «non estava tenido por luterano en el mundo
antes», ma «sus obras públicamente se vendían» e
la Cosmographia «ni era prohibida ni sospechosa».
Anzi, a garanzia dell’ortodossia dell’uomo e dell’opera, additava i capitoli su Colonia, Treviri e
Magonza, composti addirittura da tre arcivescovi e
principi cristiani, senza poi dimenticare che la Cosmographia era addirittura dedicata al cattolicissimo Carlo V: «El mesmo libro parese que todo en
generál fue dedicado al emperador don Carlos
nuestro rey y señor y cierta parte del libro al emperador Fernando, su hermano, príncipes cathólicos.
Y en el mesmo libro consta lo que otras vezes tengo
dicho de muchos perlados y príncipes christianos
cathólicos de la Iglesia de Dios, que dieron las descriptiones e historias de su tierra […] por de lo que
me accusan malamente, pueden mucho más accu-
34
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
sar a emperadores, reies, príncipes, obispos y arçobispos cathólicos». Inutilmente l’Arquer aveva
tentato di difendersi dall’accusa di simpatie luterane sostenendo che se davvero avesse voluto misconoscere l’autorità ecclesiastica avrebbe potuto
esprimere giudizi ben più gravi, tantopiù che l’opera si pubblicava in terra riformata. L’essersi invece
limitato, in un testo stampato a Basilea, a rivolgere
solo alcune accuse di malcostume al clero sardo,
senza però mai sottrarsi all’autorità della Chiesa di
Roma e dei suoi ministri, doveva apparire la conferma della sua sostanziale ortodossia.
Dalle carte processuali risulta inoltre il reiterato invito dell’imputato a leggere e collazionare il
NOTE
1
Su Sigismondo Arquer (1530-1571),
oltre alla voce di A. STELLA, in Dizionario
Biografico degli Italiani, IV, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 302-4,
si vedano M.M. COCCO, Sigismondo Arquer
dagli studi giovanili all’autodafé, Cagliari,
Ed. Castello, 1987; M. FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa di Sigismondo Arquer, «Rivista storica italiana»,
CV, 1993, pp. 411-475; A. RUNDINE, Inquisizione spagnola e censura dei libri proibiti in
Sardegna nel ‘500 e ‘600, Sassari, Università di Sassari, 1996, pp. 16-17; R. TURTAS,
Antonio Parragues de Castillejo e Sigismondo Arquer a confronto, «Archivio
Storico Sardo», XXXIX, 1998, pp. 203-226;
ID., Storia della Chiesa in Sardegna, Roma,
Città Nuova, 1999, pp. 363-67; S. LOI, Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo
dell’Inquisizione. Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500,
Cagliari, AM&D Edizioni, 2003; G. PETRELLA,
testo della Sardiniae brevis historia nelle diverse traduzioni, perché, a suo dire, potevano riscontrarsi
alcune differenze: «varía la traductión del latín»,
avverte l’Arquer nella deposizione del 16 ottobre
1564.11 Risulta infatti che all’incartamento processuale fossero state allegate anche due versioni della
Sardiniae brevis historia, una in latino e l’altra in
francese.12 Doveva poi circolare la misteriosa edizione fatta appositamente stampare dai suoi nemici a Valladolid: l’apparente scomparsa di tutte le
copie non consente però di verificare in che modo
questa si differenziasse dall’originale latino. Ma è
soprattutto in una delle numerose petizioni del
settembre 1567 che l’Arquer avanza il sospetto che
le sue parole siano state mal interpretate e richiede
perciò un supplemento di indagini. Invita a rin-
L’eretico travestito: un capitolo poco conosciuto della fortuna della ‘Descriptio Sardiniae’ di Sigismondo Arquer, in Itinera
Sarda. Percorsi fra i libri del Quattro e Cinquecento in Sardegna, a cura di G. Petrella,
Cagliari, Cuec, 2004, pp. 175-215; G. PETRELLA, La Sardiniae brevis historia di Sigismondo Arquer e la tradizione a stampa
della Cosmographia di Sebastian Münster,
«Italia Medioevale e Umanistica», XLVII,
2006, pp. 255-285.
2
Sul soggiorno svizzero dell’Arquer e
sui personaggi qui evocati si vedano E. SILBERSTEIN, Conrad Pellicanus: ein Beitrag zur
Geschichte des Studiums der hebraischen
Sprache in der ersten Halfte des 16.
Jahrhunderts, Berlin, Rosenthal, 1900; Die
Amerbachkorrespondenz, hrgs. von B.R.
JENNY, Basel, Verlag der Universitätsbibliothek, 1973, VII, pp. 214-15; VIII, pp. XXXV-VI;
B.R. JENNY, Sancta Pax Basiliensis. Neue
Quellen und Hindweise zu Sebastian Münster und seiner Kosmographie, insbeson-
dere zu den Beiträgen Hans David und
Sigismund Arquer, «Basler Zeitschrift für
Geschichte und Altertumskunde», LXXIII,
1973, pp. 37-70, in particolare pp. 57-70;
FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa, pp. 424-25; M. KUTTER, Celio
Secondo Curione. Sein Leben und sein
Werk (1503-1569), Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1955; A. BIONDI, Curione Celio Secondo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXI, pp. 443-449; P. SIMONCELLI, Curione Celio Secondo, in The Oxford Encyclopedia of the Reformation, ed. by H.J.
HILLERBRAND, New York-Oxford, Oxford
University Press, 1996, I, pp. 460-461; C.
ZÜRCHER, Pellikan Konrad, in The Oxford Encyclopedia, III, pp. 241-242. Su Sebastian
Münster (1480-1553): K.H. BURMEISTER, Sebastian Münster: Versuich eines biographisches Gesamtbildes, Basel–
Stuttgart, Helbing-Lichtenhahn, 1963; ID.,
Sebastian Münster. Eine Bibliographie mit
22 Abbildungen, Wiesbaden, G. Pressler,
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
tracciare una copia dell’edizione in tedesco della
Cosmographia, dalla quale risulterà anche come
Münster fosse cronista di Carlo V cui aveva dedicato l’opera, e a confrontarla col testo latino e francese. Sarà allora evidente a tutti che la versione originale è stata alterata in alcuni passi e non corrisponde alla stesura primitiva: «Manden trasladar
en romance la dicha historia de Serdeña que está en
alemán en la dicha Cosmographia alemana, por que
así conste de la variedád que hai con la que en latín,
francés y alemán, por que así paresca como a los dichos libros no se ha de dar fe contra mí, por la diversidád que hai en ellos por la primera scriptura
[…] y ansí […] por combinatión de las dichas tre
escripturas por los lugares que sennalaré en latin,
francés y translatión de alemán, se conocerá come
1964; ID., Briefe Sebastian Münsters,
Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1964; J. FRIEDMAN, in The Oxford Encyclopedia, III, pp. 9899.
3
COCCO, Sigismondo Arquer, pp. 401414, 511-555.
4
Sulle due carte che accompagnano
l’opuscolo: R. ALMAGIÀ, L’Italia di Giovanni
Antonio Magini e la cartografia dell’Italia
nei secoli XVI e XVII, Napoli, Perrella, 1922,
p. 82; ID., Monumenta Italiae cartographica, Firenze, Istituto geografico militare,
1929, coll. 15a, 18b, 22ab, 24ab; O. BALDACCI, Appunti sulla carta della Sardegna di Sigismondo Arquer, «Bollettino della Società
Geografica Italiana», LXXXV, 1951, pp.
358-362; L. PILONI, Le carte geografiche
della Sardegna, Cagliari, s.i.t., 1974, tav.
XXII; M. DONATTINI, Descrizione e rappresentazione della Sardegna negli Isolari del
Cinquecento, in XIV Congresso di Storia
della Corona d’Aragona. Sassari-Alghero
19-24 maggio 1990. La Corona d’Aragona
35
se han adulterado algunos lugares y palabras del dicho Compendio».13
L’impressione è che il tribunale non abbia mai
preso in considerazione il suggerimento dell’imputato o almeno, dalle carte processuali, non risulta che la prospettata comparazione dei reperti allegati sia stata effettivamente compiuta. Gli sforzi
profusi durante le fasi processuali non valsero a
nulla se non forse a illudersi di intravedere al di là
dei roghi un’insperata crepa nel castello accusatorio. L’accusa di eresia e frequentazione di empi luterani fu applicata in maniera sostanzialmente retroattiva. La sentenza fu pertanto decretata e la
condanna eseguita.
in Italia (secc. XIII-XVIII). 4. Incontro delle
culture nel dominio catalano-aragonese
in Italia, V, a cura di M. G. MELONI – O. SCHENA, Cagliari, 1997, pp. 157-182: 166-169.
5
Cosmographiae universalis libri VI,
Basel, H. Petri, 1550 (H.M. ADAMS, Catalogue of books printed on the continent of
Europe 1501-1600 in Cambridge Libraries,
Cambridge, University Press, 1967,
M1908; VD16, M6714).
6
Cosmographey, Basel, H. Petri, 1544;
1545; 1546; 1548; 1550 (VD16, M668993).
7
FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa, pp. 414-415.
8
Nel 1557 Azore Zapata aveva fatto
pervenire all’Inquisizione una denuncia ai
danni dell’Arquer per quanto scritto nella
Sardiniae brevis historia (RUNDINE, Inquisizione spagnola, p. 16 nota 46). A conclusione del primo processo, il Parragues non
ritenne opportuno inviare in Spagna le
carte processuali, che definì addirittura
«cosa de poco momento». Pochi mesi dopo
però, per motivi che ancora sfuggono,
cambiò idea a proposito dell’Arquer, accusandolo apertamente di non aver consegnato all’Inquisitore generale il fascicolo
processuale che gli aveva affidato (sulla
delicata e controversa questione TURTAS,
Antonio Parragues de Castillejo e Sigismondo Arquer, pp. 212-226; ID., La Chiesa
sarda attorno alla metà del Cinquecento: il
momento della decisione, «Biblioteca
Francescana Sarda», VIII, 1999, pp. 205216; ID., Storia della Chiesa, p. 364).
9
RUNDINE, Inquisizione spagnola, p. 16
nota 46.
10
Le lettere sono state esaminate e
pubblicate da COCCO, Sigismondo Arquer,
pp. 417-64.
11
COCCO, Sigismondo Arquer, p. 257.
12
LOI, Sigismondo Arquer, p. 26.
13
COCCO, Sigismondo Arquer, p. 297.
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Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
37
inSEDICESIMO
LE MOSTRE – LIBRO DEL MESE – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE
LA MOSTRA/1
LE BATTAGLIE E LA MAREMMA
Fattori a Palazzo Zabarella
a cura di luca pietro nicoletti
er entrare nel mondo di
Giovanni Fattori (1825-1908), il
viatico migliore sono ancora le
parole usate da Luciano Bianciardi, nel
1970, per introdurre il volume dei
“Classici dell’arte” Rizzoli dedicato al
maestro livornese. Per lo scrittore,
Fattori «entra nella battaglia con umiltà,
come un uomo di retrovia: Luchino
Visconti quando fece Senso aveva ben
capito la lezione, e volle anche lui
arrivare a Custoza passando prima fra i
cariaggi e fra le monachine delle
P
infermerie da campo. Il fatto eroico pare
che proprio non gli interessi, gli basta
raccontare la fatica, l’ansia, il sudore, la
paura, tutto ciò che si coglie se al fronte
si arriva da dietro. I suoi soldati non sono
più dei prodi, no, sono faticatori,
contadini, artigiani, analfabeti, gente che
ci lascia la pelle e già sconta il sacrificio
della vita con una vita stentata e agra.
[…] Quei soldatini visti di spalle che
muoiono a Villafranca, alla Madonna
della Scoperta, a Pastrengo, noi poi li
ritroviamo, smessi i panni militari, nei
Sopra: La boscaiola. Costume toscano, 1861,
olio su tela, collezione privata. Sotto: Carica di
cavalleria (La battaglia della Sforzesca), 1877
ca., olio su tela, collezione Sacerdoti-Ferrario
38
quadri sulla Maremma, toscana e
romana. Sono gli stessi uomini che
abbandonata la fatica e il rischio della
battaglia, adesso affrontano la fatica e il
rischio della vita quotidiana che è fatta
di lavoro e di stenti». Che ci fosse un
nesso fra il film di Visconti e le scene
militari del pittore è ormai un dato
assodato, tanti e tali sono i riferimenti
visivi presenti nella sua cinematografia:
si potrebbe anzi dire, senza sbagliare
molto, che è proprio il cinema, in questo
caso, a far capire meglio la pittura. Lo fa
capire anche Fernando Mazzocca, fra i
curatori, insieme a Francesca Dini e
Giuliano Matteucci, della mostra a
Palazzo Zabarella, a cui si deve, insieme a
Carlo Sisi, una rilettura fondamentale
della pittura dei Macchiaioli. Era stata
proprio Padova, in passato, il luogo da
cui questa nuova lettura era partita, con
una mostra dedicata,
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sopra: Piantoni. Il muro bianco (In vedetta),
1874 ca., olio su tela, Fondazione Progetto
Marzotto. A sinistra: Autoritratto, 1854,
olio su tela, Firenze, Galleria d’arte moderna
di Palazzo Pitti. Nella pagina accanto:
La rotonda di Palmieri a Livorno, 1866,
olio su tavola, Firenze, Galleria d’arte
moderna di Palazzo Pitti
programmaticamente, ai Macchiaioli
“prima dell’Impressionismo”, sfatando in
questo modo quel luogo comune che
voleva negli artisti del Caffè
Michelangiolo una controparte italiana
della pittura francese. Subito dopo, in
un’altra importante mostra, questa volta
a Genova, era stato messo a fuoco quel
nesso di continuità fra Romantici e
Macchiaioli nel segno dei comuni ideali
risorgimentali e delle idee, in fatto di
pittura, espresse da Mazzini
Non era mancata infatti, in passato,
un’interpretazione che vedeva la pittura
di Fattori e degli altri con gli occhi della
pittura francese: era l’dea forte di
Ardengo Soffici, a cui si doveva la
conoscenza di Cézanne in Italia, che
voleva i Macchiaioli come Impressionisti
italiani. Era del resto l’idea portante della
prima impegnativa monografia
dedicatagli cinque anni dopo la morte,
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
nel 1913, dal pittore Oscar Ghiglia. Ne
risentiva anche Emilio Cecchi scrivendo,
nel 1920, uno dei saggi più importanti
per la riscoperta moderna di Fattori: «Ma
per l’acutezza e l’implacabilità con la
quale seppe vedere quei corpi di soldati
stanchi, mascherati dal polverone delle
marce, deformati da una montura a
casaccio e da un casco enorme, aggobbiti
sulla sella, ridotti all’aspetto di cose
brutte invece che di uomini, e quegli
animali anchilosati e azzoppati
dall’arnese e dalle fatiche, non credo
azzardoso dire che il Fattori ha poco da
invidiare al Degas, grande illustratore
delle alterazioni del corpo umano sotto i
cilizi della moda, e della convulsa
esaltazione del corpo animale nello
sforzo sportivo». Era una risposta
all’entusiasmo nazionalista di Ugo Ojetti,
che ne aveva elogiato l’impegno
narrativo di Fattori nel genere storico
facendone una gloria italiana da cui i
giovani avrebbero dovuto trarre esempio
senza bisogno di andare a conoscere le
novità di Parigi. Fattori era visto infatti
come un maestro che rinnovava la
gloriosa tradizione di purezza formale
toscana, erede di Paolo Uccello e Piero
della Francesca. Questa era congeniale
per altro anche a De Chirico, per il
quale, altrimenti, si rischiava di ridurlo
ingiustamente a «un impressionista di
terz’ordine». In un caso come nell’altro,
comunque, Fattori era stato eretto a
maestro in una posizione di isolata,
solitaria grandezza, prima del resto del
gruppo.
La partita, in quel caso, si giocava
sulla predilezione per il pittore delle
grandi tele dedicate alle battaglie
risorgimentali o quello delle piccole e
piccolissime tavolette e telette dipinte
direttamente dal vero con “macchia”
veloce e luminosa. Il che significava
misurarsi con il pittore di storia o con il
pittore di paesaggio, fra la piacevolezza
della presa diretta e il dipinto che
manteneva un effetto di presa diretta
sebbene meditato a studio dopo lunga
elaborazione. Indubbiamente, come si
evince in mostra, Fattori è pittore da
FATTORI
PADOVA, PALAZZO ZABARELLA
A cura di Fernando Mazzocca,
Francesca Dini e Giuliano Matteucci
24 ottobre 2015
28 marzo 2016
39
grandi quadri o da piccolissime tavole: le
prime sono affollatissime e restituiscono
la percezione di confusione di una guerra
raccontata senza retorica, le seconde la
dimessa bellezza di un paesaggio di
sintesi. È pur vero, però, che anche la
presa diretta ha i suoi canoni, ha il suo
modo di guardare, ha il suo modo di
dipingere quello che già sappiamo esserci
e che dipingiamo per come sappiamo
che va rappresentato secondo
convenzioni di taglio e di composizione:
diventa evidente nei quadri di taglio
medio, in cui Fattori sembra sentirsi più a
disagio, quando ricorre talvolta a evidenti
espedienti della grammatica visiva a
introduzione o impaginazione della
scena. Sono le opere in cui sa
maggiormente essere antiretorico, a cui
fa riferimento Bianciardi, quelle che ne
restituiscono la statura di grande e
isolato pittore, capace della quieta
grandezza del riposo, come nella tela
oggi a Brera, capace di restituire il senso
della calura e del meriggio con sapiente
controluce, come della cruda brutalità
dello staffato, disperatamente
aggrappato alla vita, ma destinato a una
fine rapida ma dolorosa, nella polvere
striata di sangue.
40
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
LA MOSTRA/2
GILLO DORFLES OLTRE IL ‘900
Mostra antologica al MACRO
uando nel 2001 il PAC di
Milano dedicò a Gillo Dorfles
una grande mostra
antologica a cura di Martina Corgnati,
fu deciso di intitolarla Il pittore
clandestino. Non che fosse un segreto
vero e proprio il fatto che Dorfles
avesse coltivato per tutta la vita la
pratica della pittura, ma fino ad allora il
profilo del critico d’arte e dello studioso
di estetica avevano oscurato del tutto
questo aspetto rimasto più privato.
Eppure non erano mancate, in oltre
cinquant’anni, le mostre e
partecipazioni a mostre, sia all’interno
del Movimento Arte Concreta (MAC), di
Q
cui fu fra i fondatori, sia nei decenni
successivi. Prima di allora, però, non si
aveva in effetti una cognizione chiara
dell’ampiezza e dell’articolazione del
suo percorso di pittore, di cui diede poi
organicamente conto la mostra con cui
Palazzo Reale, nel 2010, festeggiò i suoi
cento anni: allora, per merito degli
sforzi di cui si era prodigato Luigi
Sansone, veniva allo scoperto una
ricerca che aveva costeggiato le
temperie del Novecento mantenendo
una propria marca specifica e
inconfondibile. «La sua dirompente
distanza dai compagni di strada»,
sottolinea Arturo Carlo Quintavalle,
riconoscendo i meriti di Sansone, «non
è mai stata valutata appieno, salvo in
tempi recentissimi».
Da allora le mostre pubbliche si
sarebbero moltiplicate, mostrando non
solo le opere storicizzate ma anche
quelle dipinte successivamente alla
mostra di Palazzo Reale e quindi
escluse dal voluminoso catalogo
“raisonné” uscito in quell’occasione. Il
canone stabilito allora si ripropone
nell’antologica curata da Achille Bonito
Oliva presso il MACRO, ma arricchito da
un nutrito apparato documentario di
libri e lettere dall’archivio del critico
esposto per la prima in maniera così
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
ampia: implicitamente sembra
un’indicazione dei prossimi campi su
cui bisognerà cimentarsi per dare un
ritratto a tuttotondo di Dorfles e
dell’oltre mezzo secolo di arte e cultura
italiana che ha vissuto. Dopo
l’importante raccolta degli scritti
radunati sempre da Sansone nel
poderoso Gli artisti che ho incontrato
(Skira, 2015) non sarebbe fuori luogo
auspicare per un futuro non troppo
lontano un’edizione, altrettanto
complessa e forse voluminosa, del
carteggio intrattenuto dallo studioso
con artisti e intellettuali italiani e
stranieri: ne emergerebbe un quadro
del Novecento e delle sue dinamiche
fattive viste dal punto di vista di chi le
cose non solo le ha viste ma le ha fatte
intervenendo in prima persona nel
dibattito e nell’editoria, portando in
Italia autori ancora poco letti. Sarà da
indagare in tal senso, per esempio, il
lungo e precoce rapporto con Rudolf
Arnheim, di cui la mostra dà conto
soltanto con poche e densissime lettere
che fanno immaginare un ben più fitto
e importante carteggio fra i due.
Tutto questo, però, accompagna e
fa da contrappunto alla storia del
Dorfles pittore, a partire dagli esiti
recenti per tornare agli inizi a metà
degli anni Trenta. La sua partenza
giovanile è pienamente nel solco di una
pittura onirica. Visti col senno di poi, i
lavori di allora mostrano la costanza di
taluni tratti e, soprattutto, di precisi
modi operativi, come il campire le
forme con lunghe e sinuose pennellate
che seguono il contorno dando una
scossa vitale alle forme: sono modi
desunti dalla pittura espressionista
nordica, come in dialogo con quelle
41
Nella pagina accanto, sopra: Gillo Dorfles, Milano,1966. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo
Mulas Tutti i diritti riservati. Sotto: Gillo Dorfles, Senza titolo, 1930, china su carta. In questa
pagina, in alto: Gillo Dorfles, Letargo, 2013, acrilico su tela, Collezione privata, Milano
esperienze ignorate in Italia e che
presto, in quegli anni, verranno tacciate
di “degenerazione”. L’immaginario è
quello del sogno, fatto di forme
fluttuanti in uno spazio incerto come
deve essere l’atmosfera del sogno.
Quasi subito, già negli anni Quaranta,
oltre ai Ritratti di matti eseguiti durante
la specializzazione in psichiatria a Pavia
nella clinica neurologica di Giuseppe
Carl Riquier, si datano anche le prime
terrecotte, fondate su una chiara
integrazione tra forma e colore, e si
afferma l’uso da parte sua della
tempera grassa, che rispetto all’olio
consente modulazioni dal guazzo fino a
grafie più nette, riflettendo sul
Kandinsky di Parigi alla ricerca di un
modo di strutturare lo spazio. Dalla
tempera viene anche il modo di
campire e disegnare, di tracciare in
punta di pennello sia tocchi di scuro sia
lumeggiature a tratteggio, dando vita a
forme organiche fluttuanti, come viste
a un immaginario microscopio e
restituite in maniera grafica e
decorativa, pronte al balzo verso la
traduzione con altri medium (ne è
esemplificativo, in mostra, un arazzo
desunto da una piccolissima tempera di
quel periodo). Ciò che è chiaro fin da
ora, però, è che Dorfles, con il suo
“occhio ciclopico” (Bonito Oliva) non
sarà mai un pittore propriamente
geometrico, nemmeno negli anni di
adesione al MAC: un qualcosa di
irruento, di volutamene irregolare, anzi,
sarà sempre uno sprazzo di licenza
rispetto a eccessi di rigore e di
esattezza ortogonale, attingendo da più
fonti. Non si può fare a meno, ad
esempio, di pensare a una memoria
latamente futurista di fronte a
Intersezioni I del 1956, mentre deve
42
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Da sinistra: Senza titolo, 1952, monotipo e tecnica mista su carta; Composizione con cresta, 1949, olio su tavola, CSAC, Università di Parma, Sezione Arte
essere un ragionamento intorno a Paul
Klee, di cui Dorfles è uno dei primi e
più acuti interpreti, in un quadro
cruciale come Composizione IX del
1953: segni liberi e disseminati,
richiamati da segni bianchi come
lumeggiature e alleggeriti da pennellate
più tonali di fondo, ma assimilabili ad
una pittura-scrittura. Eppure già alla
fine degli anni Quaranta, Dorfles era
giunto ad una aggregazione centrale
dei segni, gerarchizzando figura e
sfondo, animando questa dentro
contorni frastagliati e mistilinei.
Ma una libertà irrefrenabile doveva
portarlo fuori da steccati troppo netti,
lasciando la pittura libera di non essere
diligente e di sperimentare (se non
mescolare) diversi registri linguistici.
Basta vedere la Composizione con
segno arancione del 1957, scelta come
immagine guida della mostra e del
catalogo: un fondo verde con una
sagoma nera e una improvvisa linea
arancione che conduce fuori del
quadro: una linea spessa e materica di
particolare luminosità, che fa capire
cosa intendesse l’artista, nell’intervista
rilasciata in occasione di questa mostra,
dichiarando la propria predilezione per
il «ghirigoro astratto».
È negli anni Sessanta che il colore
diventa “sporco”, come a volersi
contaminare rinunciando a una
precedente vocazione alla campitura
piatta. Da qui in avanti il suo lavoro
diventa via via più visionario, fatto di
forme organiche inscindibilmente
legate allo sfondo: la forma è infatti un
contorno chiuso che circoscrive una
GILLO DORFLES.
ESSERE NEL TEMPO
A cura di Achille Bonito Oliva
ROMA, MACRO
27 novembre 2015
30 marzo 2016
sagoma campita di colore, a cui spetta il
ruolo di stabilire i rapporti tra figura e
sfondo, in cui si ritrovano i medesimi
andamenti di linee. In prima battuta
Dorfles traccia le forme, poi il colore si
avvolge ad esse seguendo l’andamento
dei profili. Sono gli occhi, come dei
bottoni, che organizzano la
composizione, animando le figure e
instaurando un dialogo con l’esterno.
Dietro le sue figure, diceva Dorfles
stesso nell’intervista summenzionata, ci
sarebbero soltanto «realtà del colore e
della forma». Non mancano, però,
presenze che abbiano una strutturata
anatomia fantastica, come il Cybernauta
del 2001, vera e propria mescolanza di
Sutherland e Baj, di nucleare e surreale,
che concorrono a costruire un
personaggio. Non ci sono spazi ma
figure, personaggi protagonisti che si
affacciano dalla tela come da un mondo
incerto e lontano, tanto siderale quanto,
a volte, micro cellulare.
giochipreziosi.it
UN MONDO DI
DIVERTIMENTO!
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44
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
IL LIBRO DEL MESE
LA MUSA E IL CENTAURO
Lettere di Aldo Carpi a Fede Mylius
di luca pietro nicoletti
ella storia del’epistolografia
novecentesca, i carteggi
amorosi hanno uno statuto
particolare: sono il diario di una
passione più o meno dichiarata, nel
quale un’anima fa chiarezza dentro di
sé. Credo si debba mettere in questa
cornice il rapporto intenso e
completamente spirituale, quasi
stilnovista, fra il pittore Aldo Carpi e
la sua allieva Federica Mylius. Ne è
una testimonianza il bel carteggio
riportato alla luce e curato da Marta
Sironi, che presenta una selezione
esemplare delle oltre cinquecento
missive di questa corrispondenza in
un piccolo e prezioso libro per le
edizioni Nutrimenti di Roma.
Sono la punta di un iceberg
costituito dalla fittissima
corrispondenza conservata parte nel
fondo Carpi-Arpesani custodito
presso il Centro Apice dell’Università
degli Studi di Milano, parte allo CSAC
di Parma, che offre la misura del ruolo
e dell’importanza che la figura di Aldo
Carpi ha ricoperto per quel periodo a
cavallo fra anni Trenta e anni
Cinquanta, come le toccanti
testimonianze di artisti e giovani
allievi di Brera, che gli scrivono per
avere consiglio o conforto anche una
volta richiamati alle armi, di cui forse
potrà rendere conto, in futuro,
l’edizione di una più estesa selezione
dell’epistolario.
N
In questa costellazione, però, il
caso Mylius ha un posto speciale.
Sono lettere scritte e illustrate dal
solo Carpi, senza che prevedano una
risposta: la presenza dell’altro serve a
sviluppare il pensiero, ad avere un
interlocutore che aiuti a mettere in
ordine idee ed emozioni. Ed è questa,
probabilmente, la ragione per cui le
lettere si conservano oggi nell’archivio
di Carpi e non presso gli eredi Mylius:
la donna, capita l’importanza di
Aldo Carpi
“Il tuo nome è Eric. Lettere
di Aldo Carpi a Fede Mylius“
A cura di Marta Sironi
Roma, Nutrimenti, 2015
questo documento per la storia
dell’artista, deve avergliele restituite
affinché lui potesse trarre da questo
brogliaccio epistolare qualcosa di
nuovo. È lei, del resto, a seguirlo
durante la stesura del suo unico testo
dato ufficialmente alle stampe, le
Divagazioni di Sileno a cui Carpi
lavora fra il 1938 e il 1943, ma
pubblicate solo nel 1949.
Il carteggio comincia nel 1941, i
due si conoscono già da almeno una
decina di anni. Lei è una giovane
allieva che prende dal maestro lezioni
di pittura, ma spesso fa anche da
modella per lui: Carpi preferiva evitare
i modelli di professione, scegliendo
invece donne con cui avesse una
particolare intesa spirituale, che
fossero presenze costanti nella vita
dello studio, con cui si instaura, scrive
l’artista il 20 luglio 1941, un «circuito
vivo» impossibile con chi posa per
professione.
La guerra incombe: la vita di Brera
diventa difficile anche prima che lo
scultore Dante Morozzi denunci Carpi
alle autorità per antifascismo,
provocandone l’arresto e la successiva
reclusione nel campo di
concentramento di Gusen.
È nella dimensione dello studio
che l’artista, come molti suoi coetanei,
trova un luogo di elevazione spirituale
entro cui il cui perimetro mettere in
scena la macchina della pittura e
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
45
dentro il quale coltivare il proprio
mondo interiore, in cui ogni presenza
assume un ruolo e un significato
diverso da quello che ha al di fuori di
esso. Carpi infatti attribuisce alla
giovane addirittura un nuovo nome.
Fede, diminutivo di Federica, diventa
Eric, come se la giovane si scindesse
in due creature distinte: Fede è
l’allieva, mentre Eric è la creatura nata
«nel campo del lavoro».
Così, se Eric diventa la musa, Carpi
diventa il “Centauro”, in omaggio a un
affresco in stile pompeiano da lui
dipinto nell’autunno 1941 per un
soffitto di Villa Vigoni di Loveno di
Menaggio, sul lago di Como, dove
Fede passava la villeggiatura estiva.
Vi si vede un centauro trattenuto
da un amorino, come a voler criptare
in quell’immagine il rapporto fra i
due, che si trasfigura attraverso la
parola: come scrive Marta Sironi nella
lunga postfazione, «la parola, in
generale, rimane per Carpi carica di
significato spirituale e la necessità di
tradurre in parola la parabola di
questo rapporto ideale sembra voler
trovare una via espressiva capace in
qualche modo di raccontarne
l’inafferrabilità».
ALDO CARPI
Aldo Carpi (1886-1973) è stato
pittore, per un trentennio docente di
pittura all’Accademia di Brera, che
diresse dal 1945 al 1958.
Tra le sue opere spicca il ciclo
delle Maschere, una quarantina tra
dipinti e disegni eseguiti tra il 1914
e il 1944, e la realizzazione delle
vetrate del Duomo di Milano e di
altre chiese milanesi.
Durante la Seconda guerra
mondiale fu deportato nel campo di
Mauthausen-Gusen: da quella
tragica esperienza nacque il Diario di
Gusen, edito nel 1971 da Garzanti e
più volte ripubblicato (l’ultima per
Einaudi nel 2008).
46
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI
GIARDINI, LIBRI E BIBLIOTECHE:
UN INDISSOLUBILE LEGAME
In ricordo del giardino di Villa Santorini
di lorenzo barbieri
è un’evidente quanto
inconscia correlazione tra la
lettura e il giardinaggio, un
viaggio straordinario, conservatosi e,
anzi, rinsaldatosi nel tempo, che vede
l’umana riflessione unirsi
simbioticamente con un locus amoenus
nel quale perfezionarla.
Ognuno di noi ha il suo giardino,
reale o figurato, nel quale ritirarsi in
C’
lettura col proprio testo, antico e
piacevolmente intrecciato piuttosto che
introvabile e mirabolante: una dose di
carta stampata per quella cura
omeopatica che amplia il proprio
orizzonte conoscitivo.
Il percorso parte da lontano e
possiamo risalire fino all’Eden, il
giardino per antonomasia, nel voler
ricostruire il legame di un percorso che
«dalla foresta selvaggia - come scrive
Biedermann nella sua Enciclopedia dei
simboli - attraverso il boschetto sacro
conduce al giardino, cioè ad una
porzione di natura organizzata e curata
in modo artificiale, a cui il simbolismo
tradizionale assegna un ruolo positivo.
Il Giardino del Paradiso rimanda al
Creatore, che assegnò ai primi esseri
umani un luogo ben curato e dal quale
erano esenti i pericoli».
Un riconoscimento, un premio,
quello di beneficiare del giardino (e dei
suoi frutti) che, come ci insegna
l’undicesima fatica di Eracle, richiede
grandi sforzi e difficoltà: infatti, l’eroe
greco, per recuperare i pomi d’oro dal
Giardino delle ninfe Esperidi deve
approfittare del titano Atlante e, in
quello stesso giardino, ogni notte,
scendeva per riposare Elios.
Non è certo un caso che i giardini
pensili di Babilonia voluti, secondo gli
scritti di Diodoro, dalla regina
Semiramide, siano annoverati come
una delle sette meraviglie del mondo e
abbiano influenzato la cultura a tal
punto da trovare spazio nelle opere di
Rossini e Verdi, nei libretti
rispettivamente di Rossi e Solera.
Così come, ironicamente, casualità
vuole che Platone adunasse i suoi
discepoli oltre il Ceramico esterno (un
quartiere di vasai dell’Atene antica), nel
bosco sacro lungo l’omonima via che
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
conduceva a Eleusi: in quel luogo, un
giardino ospitante la tomba dell’eroe
greco Acadèmo, nacque la nota
Accademia a riprova di questo forte
legame simbiotico. Nel tempo,
infittendosi il reciproco innervarsi, la
scienza di Lorenzo Valla ha individuato
sovrapposizioni tra giardino e paradiso,
quasi a indicare un junghiano bisogno
riconciliatore alla base della
realizzazione di chiostri. La riflessione e
lo studio dei monaci non avveniva
esclusivamente nelle cellette dei
monasteri: c’era bisogno di assurgere
verso un luogo piacevole come quelli
narrati da Omero e Virgilio, poi da
Petrarca e Boccaccio, nelle varie
innovazioni descrittive che l’incedere
del tempo ha offerto.
Le più importanti corti europee si
dilettavano nei giardini, simbolo di
potenza e ricchezza: dall’Italia alla
Francia fino all’Inghilterra ed è proprio
qui che, nel XVII secolo, cominciavano a
emergere le prime differenze: il garden,
riservato a pochi amici intimi, luogo di
riflessione, sarebbe stato un modello di
successo, artistico e letterario, per tutto
il Settecento a cui si sarebbe
contrapposto il jardin francese, luogo di
sfarzose cerimonie e adibito a grandi
feste e teatri. Lo stesso Francis Bacon
ne menziona l’importanza in un
passaggio intitolato proprio Of Gardens
di un suo scritto (tradotto di seguito da
Pindemonte):
God almighty first planted a garden.
And indeed it is the purest of human
pleasures. It is the greatest
refreshment to the spirits of man;
without which, buildings and palaces
are but gross handiworks; and a man
47
Sopra: la facciata di Villa Santorini-Toderini-Fini (sec. XVI), a Dolo, rasa al suolo dalla tromba
d’aria abbattutasi l’otto luglio 2015.
Nella pagina accanto, in alto: Eugenio Silvestri (XIX sec.), Ippolito Pindemonte (incisione);
in basso: Francis Bacon (1618 ca.), ritratto di autore anonimo, Londra, National Gallery
shall ever see, that when ages grow to
civility and elegancy, men come to
build stately sooner than to garden
finely; as if gardening were the greater
perfection.
Le doti di pazienza, forza d’animo e
osservazione non sono forse quelle
richieste sia dal giardinaggio che dalla
riflessione? Il dibattito, culturale e
letterario, sui giardini si allargava anche
in Italia, in particolare riguardo al
garden inglese appassionante a tal
punto che nel 1792 alla patavina
Accademia di Scienze, Lettere ed Arti si
sarebbe acceso il dibattito tra Ippolito
Pindemonte, Melchiorre Cesatorri, Luigi
Mabil e Vincenzo Malacarne, come ci
ricorda Pietrogrande in un inciso sul
Dibattito padovano sui giardini
all’inglese tra Sette e Ottocento raccolto
in Padova e il suo territorio (1995).
È proprio Pindemonte a esporre
all’Accademia una Dissertazione su i
giardini inglese e sul merito di ciò
dell’Italia riprendendo il passaggio di
Bacon, proposto sopra:
Un giardino, scrive Bacon de
Verulania, è il più puro dei nostri
piaceri, e il ristoro maggiore de’
nostri spiriti, e senza esso le
fabbriche ed i palagi altro non sono,
che rozze opere manuali: di fatto si
vede sempre, che ove il secolo
perviene al ripulimento ed
all’eleganza, gli uomini si danno
prima a fabbricare sontuosamente, e
poi a disegnar giardini
garbatamente, come se quest’arte
fosse ciò che havvi di più perfetto.
L’Italia, al risorgere delle lettere e
delle belle arti, fu la prima a coltivare,
come gli altri studj, quello ancora
delle amenità villerecce: ma conviene
confessare, che ora molte nazioni
nell’amore ci vincono e nella cura di
queste tranquille ed erudite delizie, e
che l’Inghilterra è nelle medesime la
maestra delle nazioni tutte.
48
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Sopra da sinistra: I giardini pensili di Babilonia, in una incisione tedesca del XVII secolo; Jacopo da Bassano (1515-1592), il Giardino dell'Eden, Roma,
Galleria Doria-Pamphili
Pindemonte continua, arrivando a
trattare ad esplorare quel legame
simbiotico di qui si parlava poc’anzi
L’arte del giardiniere inglese consiste
nell’abbellire così un terreno assai
vasto, che sembra possa che la
natura l’abbia in quella guisa
abbellito ella stessa […] che cosa
veramente desidera l’uomo inglese?
Desidera vedersi in mezzo ad una
varia, e, quanto più gli può andar
fatto, deliziosa campagna: quindi di
studiare di formare il terreno, regolar
le acque, servirsi delle rupi e delle
balze.
rivendicando però l’italica paternità
dello studio dei testi antichi e
dell’esecuzione dei medesimi portando
a supporto il passo della Gerusalemme
liberata di Tasso
… il bel giardin s’aperse…
E quel, che il bello e il caro accresce
l’opra,
L’arte, che tutto fa, nulla si scopre
in contrapposizione al Paradiso
perduto di Milton («Ed a’ confin d’Eden
s’avvicina») che sarebbe arrivato solo
un secolo dopo.
La svolta, grazie ad un romantico
costruttore di giardini come Giuseppe
Jappelli, la si ha anche nella diffusione
del palladianesimo che arriva al suo
massimo splendore a opera
dell’architetto veneto, sviluppando
un’avanguardia nella creazione di
giardini che, seppur contrastata da chi
non si preoccupava di traghettare
gentilmente la concezione
architettonico-stilistica del tempo, che
affondava le sue radici nel giardino
italiano, si cristallizzò in quello stile
paesaggistico che univa architettura,
arti e giardinaggio. Lo studio e la
ricerca nelle ville venete si
svilupparono a tal punto da costituire
un vero e proprio percorso culturale e
di formazione che, nel tempo, fu
accompagnato dallo sviluppo di
circuiti enogastronomici e, venendo
ancora di più ai giorni nostri, turistici.
Esiste quindi una identità tra la
realizzazione di un giardino e l’attività,
letteraria e scientifica, che ne presiede
alla corretta creazione e sarebbe
troppo scontato attribuire a questa
progettazione umanistica i benefici di
cui molti letterati parlano: da Goethe
a Quasimodo, da Scott a Battaglia,
passando per la «digestione spirituale»
che Hesse attribuisce all’«occuparsi
della terra e delle piante».
Leggere, scoprire e riscoprire per
non dimenticare non è forse
trasportare su un piano letterarioculturale una battaglia di civiltà,
botanicamente teorizzata da Gilles
Clément, comune ad ognuno di noi
per impedire ‘i cervelli (e le coscienze)
all’ammasso’?
Il pericolo di dare per scontato ciò
che ci circonda, il non conoscerlo o
peggio l’ignorarlo è un rischio che non
si può sottovalutare perché ciò che la
tromba d’aria ha raso al suolo l’8 luglio
2015 a Dolo non è semplicemente una
delle molte ville venete (e mi sto
riferendo a villa Santorini-Toderini-Fini)
ma l’opportunità di calarci in
quell’atmosfera, in quel microcosmo il
cui retroterra culturale forniva gli
elementi essenziali per l’esatta
coagulazione gnoseologica. Dobbiamo
insomma non solo «coltivare il nostro
giardino» (come ci ricorda Voltaire) ma
preservarlo, interiormente ed
esteriormente.
50
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
LO SCAFFALE
Pubblicazioni di pregio più o meno recenti,
fra libri e tomi di piccoli e grandi editori
“Codice Rustici. Un viaggio
attraverso la Storia, l’Arte e la
Chiesa della Firenze del XV
secolo”, a c. di Kathleen Olive e
Nerida Newbigin Firenze, Olschki,
2015, II voll., pp. 568 e pp. 320,
2200 euro
Nel 1441, alla vigilia dei
cinquant’anni, l’orafo fiorentino Marco
di Bartolomeo Rustici decide di
compiere un vero e proprio viaggio
esistenziale. Destinazione: la Chiesa del
Santo Sepolcro a Gerusalemme. È
questo il cuore palpitante di un
cammino che si costruisce, fin dalle
sue battute iniziali, su un percorso
circolare - da Firenze a Gerusalemme,
attraverso Porto Pisano, Genova, Cipro,
Il Cairo, il Monte Sinai e dunque il
ritorno a Firenze - e su un simbolismo
devozionale, teologico e pedagogico. È
questa la segreta bellezza della
Dimostrazione dell’andata o viaggio al
Santo Sepolcro e al monte Sinai, nota
più semplicemente come Codice
Rustici,i conservato alla Biblioteca del
Seminario Arcivescovile Maggiore di
Firenze dal 1812 e del quale oggi la
gloriosa Olschki il facsimile corredato
di edizione critica. Il Codice Rustici è
un formidabile intreccio di testo e
immagine. Non a caso Elena Gurrieri,
la responsabile della Biblioteca del
Seminario, nelle cui mani pazienti il
codice è stato conservato e dalla cui
mente d’ingegno è nata l’iniziativa di
questa edizione, lo ha definito una
«splendida miniera di notizie e
immagini». Si è in presenza di uno
strabiliante album di rappresentazioni
visive della Firenze del ‘400, città delle
meraviglie, cantiere perpetuo di lavori
e opere prodigiose, segnali dell’uomo
rivolti a Dio. Non solo: l’avventura che
Marco di Bartolomeo compie con
Maestro Leale e Antonio di Bartolomeo
Ridolfi è anche un enciclopedico
racconto modellato su molti itineraria
mentis in Deum (vegliato dal nume
tutelare di Petrarca e del suo
Itinerarium Syriacum): un viaggio
spirituale che parte da Firenze per farvi
ritorno, dimostrazione di una fede
anzitutto d’amore verso la propria
città, ritratta nelle 80 carte che ne
illustrano la geografia, i dettagli delle
chiese, le strade, le mura. Da questo
punto di vista anche le curiosità del
viaggio, le preziose illustrazioni che
punteggiano le pagine come estensioni
della parola, raccontano di un impeto
cartografico e descrittivo che tutto
vuol raccontare, che tutto vuol vedere.
Una febbre di visioni lampeggia negli
occhi di Rustici e corrisponde al
bisogno di dare un senso alla propria
vita nello specchio del mondo. Marco
scrive, riscrive le sue pagine, fa
interferire altri testi con quello che ha
in mente: gli episodi drammaturgici
sono spesso espedienti per citare
letture svolte altrove.
La redazione di quest’opera è
affascinante e travagliata e si conclude
solo nel 1457, alla morte dell’autore. Il
Codice Rustici,i allora, appare come un
vero e proprio libro di libri, accordato
alla perfetta armonia degli astri, al pari
del Palazzo di Tolomeo, luminosa
licenza poetica che Rustici decide di
‘erigere’ a Gerusalemme.
Da Firenze a Firenze, per la via di
Gerusalemme. La grandiosa circolarità
del tempo si riflette nello spazio.
L’itinerario è verso Dio e verso quel
luogo che per Marco di Bartolomeo
Rustici è una vera e propria città di
Dio: Firenze.
La mastodontica impresa editoriale
si divide in due volumi: nel primo è
riprodotto in facsimile il codice; nel
secondo trovano spazio gli studi
d’approfondimento (a cura di Elena
Gurrieri), l’edizione critica e la
trascrizione del Codice.
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
«Indice di Gradimento», anno 1,
n. 2, 2015, Firenze, Biblioteca
della Luna Crescente, pp. 48,
15 euro
Giunge al
secondo
numero la
rivista «Indice
di Gradimento»
diretta da
Vincenzo
Crescente.
Questo fascicolo (che vede le firme, fra
gli altri, di Emanuele Ricucci,
Benedetta Mazzelli e Federico Fastelli)
è principalmente dedicato a un’analisi
dei Talk show politici (con anche
un’intervista a Nicola Porro,
vicedirettore de «il Giornale» e
conduttore di Virus, su Raidue) e a una
ricognizione (veloce e puntale) su Le
grandi occasioni perse della Tv italiana.
Belle le immagini che adornano il
testo, tratte dal glorioso «Sette».
Rosanna Marziale, “Bufala”,
Milano, Italian Gourmet, 2015,
pp. 270, 69 euro
Tradizione,
prodotti di alta
qualità e
sperimentazione
sono le parole
che
rappresentano la
cucina di
Rosanna Marziale, chef del rinomato
ristorante ‘Le Colonne’ di Caserta. La
sua cucina, ispirata alle tradizioni
locali, trova solide fondamenta nelle
preziose materie prime del territorio, e
allo stesso tempo è contraddistinta
dall’instancabile e appassionata ricerca
di creazioni culinarie sempre originali,
innovative, raffinate. Mossa dal
desiderio di far conoscere in tutto il
mondo l’eccellenza dei prodotti della
sua terra, e celebre per la sua
predilezione per la mozzarella di
bufala, Rosanna Marziale ha appena
dato alle stampe Bufala. Il volume,
oltre a contenere la storia
gastronomica della famiglia Marziale,
propone anche 100 ricette (tutte
elaborate con i prodotti che si ricavano
dal bufalo mediterraneo italiano:
mozzarella e altri formaggi, latte,
ricotta e carni) fotografate e corredate
da schede sugli ingredienti, sulle
preparazioni di base e su racconti di
cucina.
«Atrium. Rivista di studi metafisici
e umanistici», anno XVII, n. 2,
Lavarone, Cenacolo Pitagorico
Adytum, 2015, pp. 156, 15 euro.
Il Cenacolo Pitagorico Adytum (con
sede a Lavarone) è un’associazione
culturale costituita da alcuni studiosi
che condividono gli ideali tradizionali
nella ricerca metafisica, storica e
metastorica, e negli studi umanistici.
Ogni trimestre edita la rivista «Atrium»,
giunta al diciasettesimo anno di vita.
Diretta da Giulio Maganzini
(coadiuvato
dal direttore
editoriale
Nuccio
D’Anna), la
pubblicazione
non manca
mai di
presentare
51
brevi e interessanti saggi. Come nel
caso di questo quarto numero
dell’annata 2015, che presenta articoli,
fra gli altri, di Antonio Rigopoulos (La
concezione dell’uomo nel buddhismo
antico), Nuccio D’Anna (Il simbolo
dell’ascia. Funzione rituale e valore
“premonetario”),
” Franco Galletti ((«Le
«Le
spalle inver’ Dammiata». I Fedeli
d’Amore, i Francescani e l’Oriente) e
Claudio Mutti (L’opera di René Guénon
in Vasile Lovinescu), nonché la
pubblicazione di un testo, quasi
sconosciuto, del grande Pio Filippani
Ronconi su Il quadruplice vuoto e la
Mahamudra secondo il Sahaja yana.
Costanzo Felici, «Il trattatello sui
funghi (XVI secolo)», a cura di
Giorgio Nonni, Fano, Metauro
edizioni, 2015, pp. 120, 8 euro.
Un grato
effluvio di
funghi
mangerecci
emana dalle
pagine di questo
Trattatello sui
funghi di
Costanzo Felici
(1525-1585) da Piobbico, che con
grande accuratezza lessicale descrive
gli esemplari che nascono in primavera
e in autunno nei prati, nei boschi e nei
pianori dell’Appennino marchigiano,
ben ventotto specie distinte secondo le
loro proprietà organolettiche. Porcini,
biette, prataioli, manine e spignoli che spesso le contadine del luogo
vendono al mercato infilzati in giunchi
- costituiscono un cibo prelibato nei
sughi, alla brace o conservati in
52
salamoia. Persistono, ovviamente, le
credenze sulla velenosità dei miceti,
eredità di una cultura antica e
medioevale ancora presente nella
trattatistica cinquecentesca.
Impreziosiscono questa edizione
(molto accurata dal punto di vista
filologico) una introduzione e una
breve nota biografica sull’autore a
firma del curatore del volume.
Costanzo Felici, «Il trattatello sulle
olive (XVI secolo)», a cura di
Giorgio Nonni, Fano, Metauro
edizioni, 2015, pp. 60, 6 euro.
Testimonianza di una cucina
povera a vocazione vegetariana, il
Trattatelo sulle olive di Costanzo Felici
(1525-1585) da Piobbico, viene
presentato finalmente in un’edizione
filologica (sapientemente curata da
Giorgio Nonni) che consente ai lettori
di gustare la saporosità di un dettato
linguistico che affonda nelle pieghe
della sapienza popolare di questo
lembo appenninico delle Marche.
Gustoso esempio di utilizzo
gastronomico delle olive nella cucina
feriale e nei periodi bui delle
quaresime - quando i cicli di astinenza
prevedevano un consumo di ortaggi
poveri e il volgo soleva mangiarle con
pane e sale - questo testo offre ricette
anche per la conservazione delle olive
in salamoia o
con cenere e
calcina. Solo
così la sapienza
lenta
dell’agricoltore,
che colmava di
sudate fatiche
una terra che
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
era spesso restia a contraccambiarlo,
era in grado di allontanare lo spettro
della fame e di preservare per tempi di
magra un possibile companatico come
le olive.
Tiziana Colombo, «Nichel.
L’intolleranza? La cuciniamo!»,
Cinisello Balsamo, Silvana
editoriale, 2014, pp. 288, 20 euro.
Quando Tiziana
Colombo ha
scoperto di
essere
intollerante al
nichel ha
creduto che il
mondo le
crollasse
addosso. Ma l’autrice di questo libro
non è una persona da scoraggiarsi
facilmente. Dopo aver elaborato il
cambiamento ha intrapreso un
percorso nuovo, impegnativo, fatto di
studio, confronto con specialisti e
persone nella sua stessa condizione,
confidenze con familiari e amici,
cercando di ottenere tutte le
informazioni necessarie per poter
proseguire la sua vita di sempre, cui
temeva di dover rinunciare.
Grazie alla sua determinazione al
suo entusiasmo è riuscita a ricostruirsi
la propria quotidianità, arricchendola
di forza e consapevolezza.
Da qui l’idea di scrivere questo
volume, che raccoglie il frutto di tutti i
suoi sforzi, della sua tenacia, della sua
passione per la cucina, espressa dalle
numerose ricette su misura (precedute
da un’ampia introduzione al discusso e
controverso tema delle intolleranze
alimentari) da lei stessa selezionate.
«Menta e Rosmarino. Rivista
culturale dei comuni di: Azzio,
Brenta, Caravate, Cazzago
Brabbia, Cittiglio, Cocquio
Trevisago, Cuvio, Gavirate,
Gemonio, Orino», anno XIV,
n. 34, Gavirate, Associazione
culturale Menta e Rosmarino,
2015, pp. 60, s.i.p.
Una rivista nata per raccontare e
dare voce alle tradizioni, ai valori e ai
ricordi di alcuni piccoli comuni del
Varesotto che affacciano sul lago.
Questo è «Menta e Rosmarino»
(diretta da Alberto Palazzi),
pubblicazione giunta al
quattordicesimo anno, e che da
tempo si è ormai affermata come
caposaldo di queste piccole comunità.
Storia, personaggi, arte, e poi ancora
letteratura, dialetto, memorialistica
minore… questi gli argomenti
affrontati su «Menta e Rosmarino»
con la convinzione che questo
patrimonio culturale sia da difendere,
ora più che mai.
Tanti gli articoli interessanti su
questo numero, fra cui: Il mercato di
Gavirate di Federica Lucchini, Tornei,
sfide e duelli di Michele Presbitero e
Pellegrinaggi e pellegrine di Maria
Grazia De Vecchi.
SCOPRI SU BELLISSIMA.COM IL NUOVO MONDO DI
54
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
55
Investigazioni letterarie
Poe e l’invenzione
della detective story
Il primo investigatore e il metodo indiziario
PIERO MELDINI
I
l 7 ottobre del 1849 moriva
a Baltimora Edgar Allan
Poe. Lo avevano trovato in
fin di vita in una taverna. Trasportato in ospedale, era stato
sopraffatto da un terribile attacco di delirium tremens. Si concludeva così, a soli quarant’anni, un’esistenza disordinata,
travagliata e infelice.
Figlio di due attori girovaghi, Poe non conobbe il padre e
perse la madre, tubercolotica,
all’età di tre anni. Separato dal
fratello maggiore e dalla sorellina di quattordici mesi, fu adottato da un ricco commerciante
scozzese, autoritario e manesco,
con cui avrà continui conflitti e
che alla fine lo diserederà.
Probabilmente impotente,
nutrì passioni brevi e turbolente
Nella pagina accanto: Edgar Allan Poe,
ritratto in una scatto fotografico del
1849, pochi mesi prima della morte.
Sopra: Poe, in una incisione americana
della seconda metà dell’Ottocento
racconto del 1839 trasparentemente autobiografico, si descrisse come il peggiore degli
uomini: un uomo «sfrenato,
schiavo dei capricci più selvaggi
e preda delle passioni più incontrollate» e denunciò il proprio
progressivo abbrutimento.
per donne nevrasteniche e malate, perlopiù - e certo non per caso - di tubercolosi. Nel 1836
sposò la cugina Virginia, una
bambina di tredici anni tisica e
mentalmente ritardata, che gli
premorirà. Mentre la giovane
moglie stava morendo, si invaghì di una mediocre poetessa,
Frances Osgood, anch’essa tubercolotica. Fu un giocatore incallito, un alcolizzato e un oppiomane. In William Wilson, un
Ma questa è solo una delle
facce di Poe, quella enfatizzata e
trasformata quasi in stereotipo
dal suo primo traduttore, biografo e divulgatore, Charles
Baudelaire. Perché Poe fu anche un poeta e uno scrittore famoso già in vita, un brillante
conferenziere, un giornalista
apprezzato e ben pagato, che diresse giornali e riviste di successo. Questi tratti opposti della
sua personalità si riflettono anche nella sua opera, dove l’ipersensibilità e l’immaginazione
allucinata, delirante e spesso sadica convivono con la lucidità
intellettuale, una mente raziocinante e una singolare attitudine
56
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
A sinistra: illustrazione di Aubrey
Beardsley (1872-1898), tratta da
I delitti della rue Morgue
(Philadelphia, Henry Coates, 1894).
A destra: illustrazione da La lettera
rubata (vignetta della seconda metà
dell’Ottocento)
all’analisi. Prendiamo Il corvo, la
più celebre (ma non la migliore)
delle sue poesie. A una prima, ingenua lettura, potremmo considerarla la traduzione di un sogno
in versi scritti di getto; ma se si
esaminano le sottili e puntigliose
note tecniche che Poe dettò a
commento della poesia, ci si rende conto della sua totale consapevolezza critica: quella stessa
consapevolezza che gli permise
di coltivare e innovare i più disparati generi letterari - dal rac-
conto ‘gotico’ a quello grottesco, a quello di viaggio - e di inventare un genere nuovo di zecca: il racconto di detection.
Si è discusso a lungo se il
creatore della detective story sia
davvero Poe, o se invece tracce
più o meno evidenti e consapevoli del racconto di investigazione siano presenti nella letteratura universale fin dai suoi albori.
Si sono menzionati Voltaire (Zadig) e Walpole. La questione, oltre che poco entusiasmante, è di
lana caprina. Tra Poe e i suoi
pretesi precursori corre un abisso incolmabile. Già il primo dei
suoi tre racconti di detection, I delitti della rue Morgue (1841), contiene tutto quel che occorre per
un ‘giallo’ classico: un omicidio
brutale e incomprensibile; un
investigatore che raccoglie gli
indizi e che, collegandoli fra loro, riesce a ricostruire la dinamica del delitto e a individuare
‘l’assassino’ (chi ha letto il racconto sa perché metto la parola
tra virgolette, e gli altri… beh,
gli altri si vergognino e provvedano a colmare la lacuna!); c’è
addirittura un enigma, apparentemente insolubile, che divente-
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
rà una specie di banco di prova, o
di esame di laurea, per gli scrittori di romanzi e racconti polizieschi: parlo del cosiddetto ‘mistero della camera chiusa’, ossia
del corpo della vittima rinvenuto dentro una stanza chiusa a
chiave dall’interno.
Protagonista dei tre racconti di detection di Poe, tutt’e tre
ambientati a Parigi, è una singolare figura di investigatore dilettante: il ‘cavaliere’ August Dupin. Questo personaggio malinconico, taciturno e nottambulo
sarà il primo di una lunga serie di
detectives letterari, da Sherlock
Holmes a Hercule Poirot, da
Miss Marple a Philo Vance, da
Nero Wolf a Perry Mason, fino
al padre Brown di Chesterton, al
Max Carrados di Ernest Bramah, all’Isidro Parodi di Borges
& Bioy Casares e al Guglielmo
di Baskerville di Umberto Eco:
detectives sedentari che non scorrazzano per la città, non inseguono i sospetti, non fanno a
cazzotti e non usano la pistola,
ma arrivano al colpevole solo
con l’arma del ragionamento.
Dupin risolve i casi, anche i
più intricati e disperanti, prima
attraverso l’osservazione della
scena del delitto e la raccolta degli indizi, poi grazie a un ragionamento rigorosamente consequenziale, di cui proprio le prime pagine dei Delitti della rue
Morgue ci forniscono un elo-
quente e anzi virtuosistico esempio. Sia in questo racconto che
negli altri due della serie (Il mistero di Marie Roget, del 18421843, e La lettera rubata, del
1845) Dupin dissemina preziose
indicazioni sul suo metodo di lavoro: l’investigatore deve accoppiare al rigore del matematico
l’immaginazione del poeta; alcuni indizi possono sfuggire perché troppo evidenti: non bisogna essere perciò superficiali,
ma neppure eccessivamente
profondi; nessun dettaglio, per
quanto irrilevante, va trascurato
(«Dio si nasconde nei particolari» affermerà lo storico dell’arte
Aby Warburg, il padre della moderna iconologia).
Questo modello di ragionamento, già lucidamente enun-
57
ciato da Dupin-Poe, è stato definito dallo storico Carlo Ginzburg in Spie, un brillante saggio
del 1979, ‘paradigma indiziario’.
Il ‘metodo indiziario’, che si afferma alla fine del XIX secolo, ha
altrettanta dignità scientifica di
quello sperimentale. Se il metodo galileiano si applica alle
scienze matematiche e fisiche,
quello indiziario ha per campi la
medicina, le scienze umane, la filologia, la storia dell’arte: discipline, tutte, che si occupano di
casi individuali, non riproducibili in laboratorio. Estensione
del famoso ‘occhio clinico’ della
medicina, il ‘metodo indiziario’
è legato strettamente alle doti
personali di chi lo pratica. Un
Murri, un Freud, un Wilamowitz, un Pasquali, uno Zeri pos-
58
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Edgar Allan Poe, in una fotografia
ritoccata a pennello (1848 ca.)
‘paradigma indiziario’ (e fa meraviglia che Ginzburg, che cita
largamente Conan Doyle, si dimentichi di Poe) e precorso metodi d’indagine poliziesca che
saranno praticati effettivamente
alcuni decenni dopo, e su larga
scala.
sono certamente suggerire strategie e fornire indicazioni metodologiche preziose, ma i risultati
più o meno convincenti dipenderanno soprattutto dal talento
individuale di chi è chiamato ad
applicarle. Allo stesso modo, il
grande investigatore, reale o letterario che sia, non può essere
prodotto in serie.
Occorre ricordare che negli anni ’40 dell’Ottocento la criminologia e la medicina forense
erano ancora discipline di là da
venire. Lo scrittore, dunque,
non ha solo inventato la detective
story e la figura dell’investigatore, ma ha applicato per primo il
Poe - va detto - era del tutto
consapevole della novità del suo
metodo. In Eureka (1848), che
l’autore chiamava ‘poema in
prosa’ e che andrebbe piuttosto
definito ‘brevi cenni sull’universo’, lo scrittore ha straordinarie
intuizioni in campo cosmologico, molte delle quali confermate
dalla scienza futura: la teoria del
‘big bang’, l’universo pulsante,
gli universi paralleli, il superuniverso... Paul Valery vi scorge
addirittura una premonizione
della teoria della relatività. Bene: in questo testo, che deriva da
una conferenza, Poe parla dell’intuizione e ne dà la seguente
definizione: «quella convinzione che nasce da induzioni e deduzioni i cui processi sono tanto
oscuri da sfidare la nostra capacità di comprensione». Il logico
americano Charles Peirce, che
ben conosceva Poe, userà altri
termini - ‘abduzione’, ‘retroduzione’, ‘inferenza’ - ma la sostanza non cambia.
La qualità delle migliori nocciole e il cacao più buono
danno vita ad una consistenza
e ad un bouquet di sapori inimitabile.
Ferrero Rocher è quel dolce invito
che ti regala un momento prezioso,
perfetto da condividere
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
61
Bibliomania
Il conte Alberti e il suo falso
Torquato Tasso
Un documento sconosciuto emerge sul caso
ANTONIO CASTRONUOVO
A
differenza del bibliofilo,
il bibliomane gode di un
influente riconoscimento tassonomico, anche se di tenore ostile: se infatti la voce “Bibliofilia” manca nell’Encyclopédie
di Diderot e D’Alembert, è possibile invece leggervi “Bibliomania”, quel «fureur d’avoir des livres, & d’en ramasser» che,
«quand il n’est pas guidé par la
Philosophie & par un esprit
éclairé, est une des passions les
plus ridicules» (quel «furore
d’aver libri e di radunarne» che,
«quando non è guidato dalla Filosofia e da uno spirito illuminato, è una delle più ridicole passioni»). E dall’apparizione di quel
lemma - se anche il fenomeno
destava già interesse nell’antichità con un Luciano che redigeva la
sarcastica invettiva Contro un bibliomane ignorante - la bibliomania è diventata motivo di studio e
ha suscitato un’enorme letteratura, che tra i suoi prodotti vede
anche il grande tomo The Anatomy of Bibliomania di George Holbrook Jackson, noto bibliofilo
Una delle tante edizioni di Holbrook
Jackson, The Anatomy of Bibliomania
inglese (Londra, The Soncino
Press, 1930; volume che poi ha
goduto di una sontuosa biografia
editoriale). Distesa analisi del fenomeno mediante fonti storiche
e letterarie, The Anatomy of Bibliomania infine concorda con la
visione ‘patologica’ della bibliomania come forma compulsiva
che trascina all’accumulazione di
libri - tanto da compromettere la
vita di società del soggetto e spesso anche la sua salute - e conclude
con un tentativo di ‘terapia’.
Resta il fatto che la figura del
bibliomane è di assoluta seduzione, tanto che ogni amante del libro ne insegue le tracce come orso il miele. Di bibliomani la storia
ne produce ogni tanto e li dissemina dove capita, figure che per il
loro vizio così materiale (accumulare pesanti libri) non riescono a passare inosservate, vengono scoperte e restano nella memoria. Ogni qualvolta si scopre la
figura di uno di loro è festa, perché ogni vero bibliofilo è un po’
bibliomane nel fondo di se stesso,
e comprende - forse anche giustifica - le furbizie e le azioni ingannevoli che il bibliomane compie
pur di procurarsi la materia del
proprio vizio.
Di comportamenti astuti,
furbeschi si narra in questo bozzetto, scoperto tra pagine dimenticate: ne emerge la figura del romano Mariano Alberti affetto
dalla «infermità del cervello detta bibliomania». Il pezzo giaceva
62
seppellito in una collezione di
bozzetti popolari romaneschi del
1885 di Padre Zappata, al secolo
Girolamo Amati. Bibliografo e
scrittore prolifico, egli visse tra
1820 e 1905 e scelse lo pseudonimo che rammenta il famoso personaggio del frate che predicava
bene e razzolava male. Nel 1885
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Zappata pubblicò la collezione di
memorie La Roma che se ne va
presso il tipografo-editore Perino di Roma, e in questa dimenticata collezione ecco emergere alle pagine 95-100 il bozzetto Un
bibliomane, che qui riportiamo in
luce. Sul ricordo della singolare
figura dell’Alberti possiamo fare
relativo affidamento storico; e
tuttavia l’intera collezione di Padre Zappata sbozza bene dei caratteri i cui colori sono sedimentati nel ricordo popolare, e hanno
dunque un fondo di verità, per
quanto aneddotica.
La figura del bibliomane Alberti non è ignota, essendo egli
l’autore di un noto falso di scritti
del Tasso. Ne ha parlato Hans
Tuzzi nell’articolo Il falso Tasso del
conte Alberti (ne L’oggetto libro ’96,
Milano, Sylvestre Bonnard, 1996,
pp. 28-31), riprendendo poi il
soggetto in Collezionare libri (Milano, Sylvestre Bonnard, 2005, p.
62). In pratica, l’Alberti compose
e raccolse falsi autografi di Tasso,
lanciò nel 1835 a Roma una sottoscrizione e li pubblicò infine in
volume a Lucca, da Giusti, nel
1837 col titolo Manoscritti inediti
di Torquato Tasso (per inciso, volume assai ricercato dai bibliofili:
Tuzzi accenna a una copia valutata nel 1995 un milione di lire; temo che oggi valga assai di più).
Vale soffermarsi su due particolari del volumetto di Padre
Zappata che possono interessare
il bibliofilo e lo studioso di storia
del libro. In primo luogo il titolo
La Roma che se ne va appare sul
frontespizio dell’edizione, ma su
copertina e dorso suona diversamente: Roma se ne va. Questo contrasto profila un fenomeno che a
tratti appare nel mondo del libro:
la diversità del titolo tra frontespizio e copertina. Fenomeno da
studiare.
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
63
L’altra questione è la relativa
rarità del libro di Zappata. Il catalogo del Servizio Bibliotecario
Nazionale lo individua presso nove biblioteche: la Biblioteca nazionale Sagarriga Visconti-Volpi
di Bari; la Comunale Manfrediana di Faenza; la Nazionale centrale di Firenze; l’Universitaria di
Genova; la Comunale Augusta di
Perugia e quattro copie infine a
Roma, nella Biblioteca della Fondazione Marco Besso, in quella
della Società romana di storia patria, alla Casanatense e alla Comunale Rispoli.
Un’ultima curiosità: La Roma che se ne va è titolo omonimo
anche di un’altra opera: la pubblicò Francesco Nobili Vitelleschi a
Torino nel 1899, presso Roux
Frassati & Co.
UN BIBLIOMANE,
DI PADRE ZAPPATA
Racconta G.B. Vermiglioli non mi state a domandare qui su
due piedi in quale de’ suoi scritti
io l’abbia letto - che un Perugino
fu tanto voglioso del possedere libri, da rimetterci non solo vigne e
poderi, ma anche da lasciare in
pegno ai librai orologio ed anello;
e, se l’avessero accettata, perfino
la parrucca.
Infermità del cervello, che
oggi con buon garbo, chiamiamo
bibliomania. Il bibliomane, poi,
di rado legge i suoi libri. Sembra
abbia paura di sciuparli; salvo pe-
rò alcune eccezioni che posso citare, e sono: l’avvocato Carpi, di
Modena, il quale per ogni autore
che possedé faceva indagini storiche bibliografiche, lasciandone
traccia nei volumi rispettivi; Don
Raffaellino Pagliari, che la massima parte del suo tempo spende attorno agli esemplari dei classici
nostri e dei poemi di cavalleria, da
esso copiosamente radunati nelle
stanzuccie del palazzo Gabrielli, e
li studia, li netta, li forbisce, li ringiovanisce coll’amore di una balia; e Mariano Alberti, che pur esso con assiduità studiava i suoi,
come appare dalle note di sua mano scritte nel risguardo di ciascun
64
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
Il foglio del 1835 con cui fu lanciata la sottoscrizione dei presunti inediti di
Tasso posseduti dall’Alberti
volume e dalle tante aggiunte che
fece alla bibliografia delle città e
paesi dello Stato pontificio.
La bibliomania, poi, dell’Alberti era complicata, come direbbe un fisiologo, dalla idolatria.
Aveva preso a santo protettore
Torquato Tasso e, naturalmente,
a comprotettori tutta quella brava
e non brava gente che visse ed ebbe a fare con essolui. L’Alberti era
divenuto contemporaneo di Torquato Tasso, anzi addirittura il
suo erede. Ne possedeva i ritratti
autentici, le cose più intime regalategli da Eleonora, i carteggi, i li-
bri da esso postillati, masserizie,
stoviglie.
Figuratevi com’era invidiato
l’Alberti!
– In quale maniera si sarà
procacciata tanta bella roba?
– Quando nell’inverno del
1832 l’archivio Aldobrandini fu
mandato ai pizzicagnoli – rispondevano.
Un giorno alfine, nel 1837,
si risolvette di comunicare al pubblico le tante sue ricchezze col
mezzo delle stampe.
Il Giusti di Lucca annunziò
che per cura ed a spese di Romualdo Gentilucci - il fondatore, in seguito, della sala Dante, così detta
per avervi messa una esposizione
permanente di quadri tolti dalla
Divina Commedia - avrebbe dato
in luce i manoscritti di Torquato
Tasso ed altri pregevoli documenti per servire alla biografia del
medesimo, posseduti ed illustrati
dal conte Mariano Alberti, con
incisioni e fac-simili, ecc. ecc.
Ne accettò la dedica niente
di meno che Sua Maestà Maria
Isabella di Spagna, madre di Ferdinando II, re delle Due Sicilie.
Perfino lo stile e l’ortografia
della dedica si risentono dell’epoca cortigianesca di Torquato. Mariano Alberti dice alla regina madre essere predicato in tutto il
mondo «l’animo eccelso della
Maestà Vostra ornato di ogni altro pregio singolarissimo, ed io
medesimo ebbi la gloria di ravvisarli in tutto il loro splendore, allorché presso le salutifere Aque
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
Lucensi Vi degnaste ammettermi
alla Vostra Reale presenza, per osservare gli Scritti meravigliosi di
quell’altissimo Poeta, che nella
sua Divina Gerusalemme, se non
superò, certamente emulò la gloria del Cantore d’Achille e del
profugo Troiano».
Gli autografi poi posseduti
dall’Alberti erano stati già esaminati e gabellati per sacrosanti da
Gabriello Laureani della Vaticana, Niccolini dell’Accademia di
belle arti in Firenze, Sebastiano
Ciampi, Rezzi della Corsiniana,
Follini della Magliabechiana,
Gelli della medesima e della Crusca e altri non meno sicuri conoscitori.
Piovvero giù a bocca di barile i sottoscrittori per l’acquisto del
volume, e che sottoscrittori! il re
ed il principe Enrico di Prussia, il
re e la regina di Napoli, Isabella
infante di Spagna, il re di Sardegna, il principe e la principessa
reale di Prussia, il granduca di Toscana, Bunsen, Bucheron, Alfredo di Reumont, Kestner incaricato dell’Hannover, Liedeckerker,
Beaufort ministro dei Paesi Bassi,
Ludolf diplomatico di Napoli,
Lützow d’Austria, Pandolfini
console di Toscana, Promis conservatore del medagliere di Torino, Cesare Saluzzo governatore
dei reali principi di Savoia, Federico Sclopis, parecchi cardinali
col Gamberini segretario di Stato, moltissimi prelati ed anche
Domenico Antonio Nardini notaro dell’alta polizia di Roma, ed il
colonnello Nardoni, successore
dell’antico barigello di Roma.
Vi erano adunque rappresentate tutte le condizioni sociali,
si direbbe oggi.
Il volume in foglio elegante,
maestoso, era già venuto in luce
quando un Mazzarini di Ancona
salta in mezzo con un opuscoletto
brioso, nel quale mette in burletta
tanti personaggi per essersi lasciati ingannare dal conte di Culagna.
Fu giocoforza che se ne occupassero i tribunali. Allora i periti fiscali si accorsero che gli autografi del Tasso erano stati scritti
con bistro e seppia, che il famoso
quadro allegorico ricamato in seta da Donna Lucrezia d’Este era
merce da rigattieri, che le composizioni peccavano del romanesco,
e che i famosi bibliotecari erano
un monte d’asini.
II processo durò a lungo
malgrado tutto ciò, ed Alberti vi
rimase condannato per sette anni
di carcere in Castel Sant’Angelo.
Proprio quanti il grande Torquato, consolavasi l’Alberti.
In sostanza, però, questi fu
più fortunato dell’altro. Il governo pontificio gli usò molte larghezze. Durante la sua condanna,
l’Alberti aveva una decente stanza
nel cortile dell’Oglio in castello,
al numero 14, diciasette baiocchi
al giorno, un veterano per domestico, e la libertà di andarsene per
Roma dalle sette del mattino al
cadere del giorno.
Ne approfittò l’Alberti per
65
soddisfare alla sua passione favorita. Tutto il santo giorno lo passava da un libraio all’altro; era
presente ad ogni asta pubblica e
rincarava anch’esso i libri rari che
poi, quando gli rimanevano, non
aveva danari per portarseli via.
Poco importava. Alberti era soddisfatto ed il libraio rimetteva il libro, comprato in fantasia dall’Alberti, all’asta del giorno seguente.
I sette anni passarono e l’Alberti convenne lasciasse Castel
Sant’Angelo, i diciassette baiocchi quotidiani ed il veterano domestico. L’accolsero allora i padri
celestini di Santo Stefano del
Cacco, entro alcune celle ove Alberti muovevasi a stento di mezzo
ai mucchi dei suoi volumi.
Qui visse parecchio tempo
tra lo studio ed il mestiere di rattoppare libri e di rilegarli, al quale
uso aveva adattato una seggiola ed
un deschetto da ciabattino. Mi
pare vedervelo proprio adesso;
piuttosto basso di statura, con
grande naso sempre tabaccoso,
un solideo (zucchetto) in testa che
gli cuopriva le orecchie, ed i baffi
tagliati a misura del regolamento
fatto dal generale Resta per i soldati di fanteria.
Perché, me n’era scordato,
l’Alberti oltre essere conte e patrizio di Orte era stato anche capitano nell’esercito pontificio.
Qui, contento fra i suoi libri,
aveva dimenticato tutto e perfino
i sette anni della carcere che lo
rendevano qualche poco simile al
suo Torquato Tasso.
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
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In Appendice - Feuilleton
L.E.X.
Le biblioteche profonde
V capitolo
ERRICO PASSARO
RIASSUNTO DELLE
PUNTATE PRECEDENTI
“Lupo” è il guardiano di una
biblioteca clandestina nel Deep
Web. Contatta Victor Stasi,
agente di LEX, la branca
dei servizi segreti italiani
di cui è informatore, ma finisce
ugualmente nelle mani
del misterioso Abel Kane,
uomo dell’organizzazione
antagonista di LEX, la Loggia.
Bonera, il capo di LEX, affida a
Stasi il compito di trovare “Lupo”
e Kane, a qualsiasi costo.
U
na mano picchiettava il
bordo della scrivania in
un tic di impazienza.
Una sigaretta lasciava salire un
filo di fumo fra le dita affusolate
dell’altra mano.
- Allora? - disse Abel Kane,
A sinistra Abel Kane e in alto Victor
Stasi (illustrazioni di Anna Emilia
Falcone, espressamente realizzate
per «la Biblioteca di via Senato»)
spazientito. Era al terzo giorno
di interrogatorio duro. Indossava quello che sarebbe apparso
un regolamentare completo da
uomo di affari, se non fosse stato
per gli schizzi di sangue sulle
maniche e sui reverse.
- Ho detto tutto-to quel
che sapevo... - piagnucolò “Lupo”, sputando rosso.
Un sorriso maligno andava e veniva dalla bocca dell’aguzzino.
- Non fare quella faccia. È
vero, mi hai accompagnato nella
“stanza” di una biblioteca clandestina, dove erano conservati
libri accusati di incitazione al
terrorismo. Se in strada fossi
stato perquisito e ti avessero
trovato addosso libri come quelli, i miei mandanti ti avrebbero
arrestato seduta stante...
- Ora potete liberarmi... farfugliò il prigioniero tra i denti rotti. - Vi ho dato quel che vovolevate... c’era un patto!
Disgraziatamente, non ci
poteva essere un patto tra un uomo legato a una sedia e un uomo
con un bastone elettrificato a
portata di mano. Lo sapevano
tutti e due.
- L’idea era quella. Ma non
basta - s’innervosì Kane. Spense
la sigaretta sul braccio della sua
vittima, cavandone un urlo stridulo.
I picchiatori al soldo di Kane erano rocce immobili agli angoli della stanza semibuia. Sembravano far parte delle pareti in-
68
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
A lato: Lupo (illustrazione di Anna
Emilia Falcone, espressamente
realizzata per «la Biblioteca di via
Senato»)
sonorizzate.
- Sono scontento di te, “Lupo” senza zanne. Volevamo i nomi degli altri componenti del
club di lettura, e non li abbiamo.
- Ci so-no i com-menti in
chat... - si assolse il disgraziato. Le tracce dello... scarico dei libri...
- Download molto ben pro-
tetti, a quanto pare. Siamo riusciti
a risalire alle postazioni fisiche da
cui avvenivano le operazioni, ma
erano tutte protette da sistemi di
sicurezza stand alone. I tuoi amici
hanno avuto cura di cancellare
hard-disk e registrazioni video.
Non prima di aver succhiato i dati
dal disco fisso e averli scaricati in
qualche flash-drive.
- Vi ho dato le password - si
difese l’altro.
- Confermate, ne convengo. Ma qualcuno ha clonato il
club di lettura, compromettendolo. Siamo al punto di inizio.
- Ho fatto quel che-che potevo...
Il torturatore se ne uscì fuori con una risata catarrosa.
- Oh, sì. Non so che farci.
Immagino che, in un ambiente
come il vostro, un informatore
screditato sia un uomo morto. Se
non ti ammazzo io, ci penseranno i tuoi amici... pardon, ex-amici. Mi risulta che, nel vostro giro,
ci sia un servizio d’ordine molto... efficiente.
Gente capace di prendersi
gioco degli infiltrati della polizia
postale. Criminali che usavano il
paravento delle biblioteche
clandestine per smerciare armi e
droga. Latitanti della realtà virtuale. Fabbricatori di menzogne. E assassini comuni, capaci
di uccidere per un pugno di bitcoin.
- N-non è giusto... - furono
le parole smozzicate che pronunciò “Lupo”, fra lacrime di
dolore e frustrazione.
Kane ritrovò il suo tono
ironico.
- Lasciamelo dire, vecchio
febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano
mio: il mondo è un luogo pericoloso, ma è l’unico che abbiamo.
Di norma, non avresti superato
la notte; ma noi abbiamo ancora
bisogno di te. Come esca.
Mise una mano sulla spalla
lussata di “Lupo”, strappandogli
un gemito di dolore. I bisonti
che facevano da guardie del corpo a Kane ridacchiarono.
- Qualcosa si sta muovendo. Mi risulta che un tuo amico
sta venendo a salvarti. Muoio
dalla voglia di scoprire come ha
fatto a sapere di me...
Stasi aveva dragato la Rete
alla ricerca di “Lupo”, senza successo.
- Io non c’entro.
- Ci sei dentro fino al collo,
caro il mio “Lupo” - lo canzonò
Kane. - Comunque, sappi che
noi aspettiamo il tuo amico a
braccia aperte. Ma tu non sarai
qui a salutarlo.
- Fottiti, Kane! - si rianimò
il prigioniero. Un filo di saliva
insanguinata colava da un angolo della sua bocca. - Con lui te la
vedrai brut-ta!
- Signore e signori, Victor
Stasi - fece Kane, con voce sopratono. Indicò la foto, scattata
con un teleobiettivo, che aveva
fatto comparire sullo schermo
del computer con un colpo di ta-
69
sto. - L’eroe solitario. Il cavaliere
senza macchia e senza paura. È
in gamba, ma non abbastanza.
- Ti farà a pezzi - improvvisò
“Lupo” con le ultime energie in
corpo. I suoi occhi erano occupati
da una luce di rabbia impotente. LEX non fa prigionieri.
Un sorriso obliquo s’intagliò sul viso di Abel Kane.
- È qui che ti sbagli. Molti
nemici mi hanno ucciso. A parole. Ma io sono ancora in circolazione.
Prese il bastone elettrificato e lo infilò nella bocca di “Lupo”. L’infame non avrebbe più
parlato.
70
la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
BvS: il ristoro del buon lettore
Quella zanzara, di casa
sull’isola di Porticino
L’Elevazione di Baudelaire: in volo verso la grande cucina
«I
n alto, sugli stagni, sulle
valli» di questa terra
piatta
attraversata
dall’acqua volteggia la zanzara.
Abita una casa su un’isola, nella valle di Porticino, nel delta del Po. Ci
arriva - certo - in volo: lei che può
volare «sopra i boschi, oltre i monti, sulle nubi e sui mari, oltre il sole e
oltre l’etere». Gli altri, coloro che
non possono librarsi nell’aria, per
giungere alla Zanzara devono invece attraversare un minuscolo ponticello di legno che lega, come un ormeggio, la piccola isola alla terraferma. Lì, una dimora sempre attende, da quasi duecento anni. Un
po’ rifugio di caccia. Un po’ casone
di pesca. E da tempo oramai raffinato ristorante dei fratelli Bison.
Ma del passato di questa Zanzara
tanto ancora rimane: le scure e pesanti travi in legno, il vetusto camino sempre acceso e ingombro di cenere e tizzoni ardenti, le piccole finestre che affacciano sull’acqua.
Qui, alla Zanzara, «mio spirito», potrai finalmente godere. Qui
«mio spirito» - tu che puoi volare certo raggiungerai, come nell’Elevazione di Charles Baudelaire
(componimento poetico contenu-
GIANLUCA MONTINARO
Ristorante La Zanzara
Oasi di Porticino
Via per Volano, 52
Volano di Codigoro (Fe)
Tel. 0533/355236
to nella raccolta Les fleurs du mal, libro che la Biblioteca di via Senato
conserva nella prima, rarissima,
edizione - con tanto di dedica -,
stampata a Parigi, presso PouletMalassis et De Broise, nel 1857)
«l’indicibile piacere».
Sarà Sauro, padrone di casa e
maestro di cucina, a raccontare,
con sorriso gentile e tono pacato, le
tradizioni di queste terre. I suoi
piatti ne sono epitome e celebrazione. L’insalata di pesce con verdure, crostacei e molluschi al vapore è un inno al sabbioso mondo sottomarino. La frittura di pescato del
giorno un leggero ricamo di Fiandra, aereo e solenne. La pasta fresca all’uovo con le canocchie uno
svolazzo di gusto. «Fuggi lontano»
e «vola» sin qui «a purificarti, o
mio spirito»!
Così, mentre Samuele, fratello di Sauro, farà giungere in tavola
un vino dall’ampia carta, la mente
«lascia andare i suoi pensieri». Come «con ala vigorosa» si perderà a
fantasticare ancora di acqua, terra e
isole… Intanto la bottiglia sarà a
fianco al desco. Un Franciacorta o
uno Champagne? Comunque una
grande bolla d’annata, «un liquido
divino e puro» chiamato ad accompagnare altri due eccelsi piatti di laguna: prima la composizione di
granchio al vapore con maionese
all’aceto di Lambrusco e quindi la
magistrale, soave e succulenta anguilla cotta sulle braci di legna.
Fuori, il vento muove i cannicci fra
l’acqua, come «segreta lingua di
cose mute». La zanzara che abita
questa casa «intende» le arcane parole, da sempre e per sempre. Spirito fortunato colui che può indovinare questo indicibile segreto.
«Fortunato colui che può abbandonare i vasti affanni e i dolori».
Fortunato «colui che sulla vita plana» e che può far sosta, lieto e leggero come una zanzara, su quest’isolotto della valle di Porticino.
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la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016
LORENZO BARBIERI
Lorenzo
Barbieri
(1992) si interessa particolarmente di Storia moderna e contemporanea e
di Storia della società e dei
rapporti sociali.
Ha pubblicato interventi nei volumi: La grande guerra futurista (2014)
e Il coraggio dell'indicibile
2.0 (2015).
MASSIMO GATTA
Massimo
Gatta
(1959) ricopre l’incarico,
dal 2001, di bibliotecario
presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli
Studi del Molise dove ha
organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali
del libro (ex libris).
Collabora alla pagina
domenicale de «Il Sole 24
Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale
della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri”
(books about books), e fa
parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri».
Numerose sono le sue
pubblicazioni e i suoi articoli.
PIERO MELDINI
Piero Meldini è nato
e vive a Rimini.
Già direttore della
biblioteca riminese intitolata ad Alessandro
Gambalunga e autore di
numerosi saggi di storia
contemporanea e storia
dell’alimentazione e della cucina, ha scritto cinque romanzi, i primi tre
pubblicati da Adelphi e
gli altri da Mondadori:
L’avvocata delle vertigini
(1994), L’antidoto della
malinconia (1996), Lune
(1999), La falce dell’ultimo quarto (2004) e Italia.
Una storia d’amore
(2012).
I romanzi sono stati
tradotti in francese, spagnolo, tedesco, polacco,
greco e turco.
LUCA PIETRO NICOLETTI
Luca Pietro Nicoletti,
storico dell’arte, si interessa di arte e critica del
Secondo Novecento in
Italia e in Francia.
Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti
e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata
2013).
ERRICO PASSARO
Errico Passaro (1966)
è ufficiale dell’Aeronautica Militare esperto in
materie giuridiche. Giornalista e scrittore, ha
pubblicato oltre millesettecento articoli, dieci romanzi, centoventi racconti, fra cui il “triplete”
per le collane da edicola
Mondadori: la bianca
(Zodiac, Urania n. 1557;
La Guerra delle Maschere, Millemondi Urania n.
58), la gialla (Necropolis,
Supergiallo n. 39), la nera
(L.E.X. - Law Enforcement
X, Segretissimo, n. 1591;
L.E.X. - Operazione Spider, Segretissimo n.
1610; L.E.X. - Inverno arabo, Segretissimo n. 1611).
GIANCARLO PETRELLA
Giancarlo Petrella
(1974) è docente a contratto di discipline del libro
presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel
2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di
insegnamento di Scienze
del libro e del documento.
È autore di numerose
monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini,
torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di
Johannes Lichtenberger;
Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010);
L’oro di Dongo ovvero per
una storia del patrimonio
librario del convento dei
Frati Minori di Santa Maria del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale di
Brescia» e la «Domenica
del Sole24ore».
LUCA PIVA
Luca Piva (Piove di
Sacco, 1960), saggista e
illustratore, si interessa a
temi e spunti della tradizione figurativa e letteraria italiana, in particolare
nelle sue espressioni di
ambito veneto, per lo più
di periodo tardo. Nella
sua bibliografia figurano
due saggi pubblicati in
«Padova e il suo Territorio» (Invito allo studio del
Cristo di Arzerello, 2010;
Una triste visita di Giovanni Comisso a Piove di
Sacco, 2011). Sta lavorando ora a una raccolta
di storie narrate da architetture.
È in procinto di pubblicare un saggio su alcuni aspetti poco divulgati del rapporto fra
D'Annunzio, Venezia, e il
culto della Serenissima.
GIANLUCA
MONTINARO
Gianluca Montinaro
(Milano, 1979) è docente a
contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai
rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno.
Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il
Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della
Rovere (2000); Il carteggio
di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani
(2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006);
Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere
(2009); Ludovico Agostini,
lettere inedite (2012);
Martin Lutero (2013);
L’utopia di Polifilo (2015).
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