1 Dal racconto di sé alla costruzione del senso con gli adolescenti

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1 Dal racconto di sé alla costruzione del senso con gli adolescenti
PAROLE NUOVE, STORIE VISSUTE
Dal racconto di sé alla costruzione del senso con gli adolescenti: riflessioni e pratiche
sull’approccio autobiografico nel mondo della scuola.
Prof. Massimo De Bortoli, docente di filosofia e storia presso il Liceo Le Filandiere di San
Vito al Tagliamento (PN), collaboratore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia
di Anghiari.
Lavorare con le storie
Credo che per lavorare con la narrazione e la scrittura di sé a scuola, si debba
essere innanzitutto appassionati di storie. Intendo le storie non solo come “storie di
vita” ma come testo, tessuto di fabula e intreccio. C’è una particolare corrispondenza
analogica tra la mente narrativa e la mente aperta all’evoluzione e al cambiamento.
Non è un caso che le menti più aperte e disponibili all’apprendimento, quelle dei
bambini di 3 - 4 anni, siano affamate continuamente di storie. Ritengo, sulla scorta di
autori come Walter Benjamin ed Ernst Bloch, nonché di studiosi delle forme di
apprendimento come Jerome Bruner, che la struttura narrativa delle storie contenga
un alcunché di misterioso che induce alla domanda e proprio per questo esse siano
particolarmente adatte ai contesti di apprendimento. Le narrazioni non solo hanno il
potere di affascinare e coinvolgere, ma invitano a chiedersi il perché, non lasciando
indifferenti rispetto alla cosa stessa che è in questione.
Scrivere di sé a scuola
L’applicazione degli strumenti narrativi nel lavoro educativo e formativo con gli
adolescenti all’interno del contesto scolastico ha conosciuto negli ultimi quindici anni
una certa fortuna e una sperimentazione crescente. La costruzione dello scenario
teorico di fondo è dovuta principalmente ad autori come Jerome Bruner, Duccio
Demetrio, Franco Cambi, Luigina Mortari e, più di recente, Federico Batini1.
Un elemento comune a queste diverse impostazioni sull’uso degli strumenti
narrativi per il successo formativo può essere individuato nella concezione delle
competenze, in particolare dei soggetti in età evolutiva, come strettamente
correlate
all’esperienza
degli
individui.
Per
conoscere
e
testimoniare
le
competenze “le persone devono muoversi nello spazio e nel tempo, devono agire, fare
scelte e adottare dei comportamenti”2.
1
2
Si rinvia per indicazioni più puntuali alla bibliografia generale in calce.
Batini F. e Giusti S., L’orientamento narrativo a scuola, Erickson, 2008, pag. 14
1
In questo contesto intendiamo per competenza un costrutto integrato fra il
modello cosiddetto universale elaborato soprattutto a partire dagli studi di R.
Boyatzis dei primi anni Ottanta sui manager competenti che lega la competenza a una
serie di fattori della personalità dell’individuo (motivazioni, tratti della personalità,
capacità cognitive) che ne influenzano il comportamento in un determinato contesto, e
il modello cosiddetto situazionale che lega le competenza alle pratiche acquisite
nel corso dell’esperienza e alla riflessione sulle situazioni concrete che prendono forma
in una serie di programmi che, una volta interiorizzati, servono ad orientare il
comportamento. I due modelli, se presi nella loro forma pura, presentano alcuni limiti.
Il modello universale consente di operare sulla trasferibilità di competenze in contesti
differenti ma non trova sempre riscontri adeguati nell’osservazione empirica e
accentua in modo eccessivo la dimensione psicologica. Il modello situazionale limita la
complessità dei contesti in cui è applicabile, in quanto l’adattamento dei programmi
organizzativi a nuove situazioni è lento e non sempre possibile. Dunque un approccio
integrato fra i due modelli, senza stressare l’accento sull’individuo piuttosto che sul
contesto, può fornire un utile orientamento nella definizione del modello per
competenze applicato all’ambiente scolastico.
Si
può
a
questo
punto
individuare
nell’obiettivo
di
aumentare
la
consapevolezza delle proprie competenze il campo di applicazione specifico
dell’approccio
narrativo
e
autobiografico
nell’insegnamento
scolastico.
Questa
congruenza tra obiettivi formativi e obiettivi didattici ha favorito negli ultimi anni una
feconda contaminazione di saperi e pratiche tra il lavoro sociale ed educativo in
contesti extra-scolastici, le pratiche formative applicate all’esperienza lavorativa e
organizzativa degli adulti
e le pratiche dell’insegnamento scolastico. Si tratta in
sostanza di definire il sé in costruzione sotto l’aspetto narrativo.
Secondo Bruner3 il sé narrativo riguarda il processo di costruzione del sé come
produzione dell’attività discorsiva di tipo narrativo e metanarrativo modellata
sulla cultura. La mediazione tra il sé e l’oggetto specifico della conoscenza può
dunque essere rappresentata come un racconto, in cui personaggi, azioni, eventi si
dipanano lungo un arco di sviluppo temporale, secondo un intreccio e una fabula.
Se, come sostiene Edgar Morin, non si può comunicare conoscenze senza
chiedersi cosa è la conoscenza, ciò significa interrogarsi sulla natura stessa di ciò che
l’insegnante intende trasmettere, comunicare e suscitare. La definizione di conoscenza
3
J. Bruner, Autobiografia. Alla ricerca della mente. Armando, 1984.
2
come
possesso
stabile,
dell’insegnamento
che
per
dimostrando
lungo
anche
tempo
aspetti
ha
caratterizzato
profondamente
il
mondo
positivi
come
l’educazione allo studio sistematico e la stabilizzazione di alcuni processi cognitivi, ha
ormai largamente lasciato il campo sia in letteratura che nella pratica più avanzata a
una concezione della conoscenza come processo. Ciò significa che imparare è
sempre meno un atto cumulativo di informazioni e sempre più un’attitudine
organizzativa di informazioni e conoscenze. Ciò non significa, si badi, abdicare ai
contenuti disciplinari, alla sistematicità dello studio ma piuttosto riguarda la capacità
di organizzare le proprie conoscenze in contesti differenti, sapere dove trovare le
informazioni che servono, saper porsi le domande giuste anziché conoscere solo
alcune risposte.
Questa
idea,
dinamica,
flessibile
e
sfuggente
a
definizioni
stabili
della
conoscenza, assume tanto maggiore importanza in un contesto sociale come quello
attuale e che si profila come dominante secondo alcune tendenze già ravvisabili oggi.
Un contesto caratterizzato da legami deboli, da necessità di saper organizzare,
destrutturare e riorganizzare i propri saperi in base a situazioni di vita sempre meno
stabili e sempre più soggette al cambiamento e alla trasformazione, da scelte di studio
e professionali che devono essere in grado di misurarsi con il successo e le sconfitte,
con la stabilità temporanea e la flessibilità, da dimensioni esistenziali in cui sarà
sempre più necessario sapere sostare nelle contraddizioni senza sviluppare
risposte di tipo patologico, piuttosto che affrontare o risolvere situazioni di
tipo lineare.
La scuola e le istituzioni educative in generale possono svolgere un ruolo
fondamentale per modificare le strutture organizzative di base del sapere e adattarle a
un mondo che ancora non conosciamo nella sua mappa completa ma che sappiamo
non essere più quello di ieri e neppure quello di oggi.
L’attenzione come preghiera dell’anima
Molti studiosi di questo tema sottolineano correttamente la diversità della
narrazione a scuola da quella del mondo adulto. Se per il mondo adulto emerge in
qualche preziosa occasione l’istinto autobiografico che si rivolge ai momenti topici e di
svolta
del
proprio
percorso
esistenziale,
delineando
una
mappa
che
muove
dall’inquietudine verso possibili momenti di attribuzione di senso, per quanto riguarda
adolescenti e giovani in formazione appare più forte l’importanza della micrologia del
3
quotidiano4, del racconto di fatti apparentemente insignificanti, della ricostruzione di
frammenti incompiuti di vita che esercitano però all’attenzione dello sguardo. W.
Benjamin nella sua analisi dello stile narrativo di Kafka sottolineava l’importanza
dell’attenzione, definendola “la preghiera naturale dell’anima”5.
Chiunque operi con adolescenti e giovani in formazione conosce come
l’attenzione sia soggetta ad una curva sempre più breve e come essa richieda sforzo
individuale e misurata scansione dei tempi. Ebbene l’approccio narrativo, specie quello
autobiografico, attiva meccanismi di attenzione anche minimali a eventi,
pensieri, letture, incontri che normalmente si definiscono superficiali, insignificanti e
pertanto destinati all’oblio della distrazione. La riluttanza con cui alcuni giovani
affrontano il compito della scrittura - l’osservazione d’esperienza ha mostrato come
ciò riguardi specialmente i maschi adolescenti - è segno non tanto e non solo della
difficoltà ad eseguire una consegna impegnativa e oscura nei suoi presupposti e
obiettivi, quanto della fatica a mantenere un’attenzione durevole su un tema che ci
riguarda e implica in modo diretto. Nelle scritture di sé degli adolescenti, infatti, non
mancano i temi e gli argomenti a causa di un deficit esistenziale che deve ancora
essere colmato nel processo di maturazione, tuttavia è piuttosto rara e preziosa
l’attenzione che permette di superare il frammento (sms, messaggio di Twitter o
Facebook, post-it) verso una ricomposizione più ampia e distesa, propriamente
narrativa, dell’esperienza. Un approccio narrativo e autobiografico nel contesto
disciplinare scolastico potrebbe utilmente porsi l’obiettivo di lavorare su questi aspetti.
Il linguaggio dei giovani
In un recente intervento pubblico Pietro Citati ha definito la lingua italiana degli
adolescenti come una sotto-lingua che “non ha sintassi, non ha punteggiatura, detesta
la precisione e l’esattezza, sostituisce i segni alle parole, pullula di forme gergali, non
riesce a esprimere i concetti e i sentimenti più semplici, non possiede colore, balza da
un errore di ortografia a un altro errore di ortografia” (La Repubblica, 26 febbraio
2010). Ha ragione Citati, che peraltro ammette di non conoscere gli adolescenti e si
affida per le sue analisi ad alcuni conoscitori del mondo giovanile e scolastico? Da
insegnante risponderei che la trasformazione della lingua italiana ad opera dei giovani
4
Mi riferisco qui alla nozione di micrologia come attenzione alle piccole cose sviluppata da W. Benjamin in particolare
nella sua Infanzia berlinese.
5 Il passo di Benjamin, che ha un’aura quasi sapienziale, suona così: “Se Kafka non ha pregato – ciò che non sappiamo gli era propria, in altissima misura, ciò che Malebranche definisce «la preghiera naturale dell’anima»: l’attenzione. E in
essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura” (W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. di R.
Solmi, Einaudi, Torino, 1962 e 1995, p. 299).
4
è un fenomeno senz’altro in atto e in piena evoluzione, del resto è noto che le
università italiane organizzano test e corsi di cultura generale e sintassi italiana per le
aspiranti matricole.
Credo però che abbiamo bisogno di una chiave di lettura in più rispetto alla
semplice descrizione fenomenologica della decadenza delle parole, cui Citati pone ad
argine un impegno nella lettura, e dà agli adulti il compito di stimolare la passione
della lettura nei giovani, compito questo quanto mai proprio di una comunità educante
e non solo della scuola.
Credo che nel panorama attuale in modo più pervasivo e più subdolo rispetto ad
altre epoche storiche anche illiberali (si pensi ad esempio alla scuola fascista) molti
giovani siano abitati da un linguaggio estraneo. E’ il linguaggio che parla loro,
attraverso il “si dice”, non sono loro a dominare il linguaggio. Non è solamente la
dittatura del senso comune che fa accogliere per buone le opinioni della
maggioranza o i refrain della vulgata mediatica, mi riferisco a un processo in piena
evoluzione e che va oltre la standardizzazione del linguaggio. Quando chiedo ai miei
studenti se i cori di scherno verso il giocatore di calcio Balotelli siano o no un segnale
di razzismo mascherato dalle regole del tifo, ricevo risposte evasive e giustificatorie,
magari anche problematiche, ma che non mettono in discussione il dato di fatto della
parola di scherno, la sua esistenza. Le parole che descrivono il mondo ci sono già, non
sono suscettibili di interventi creativi ed espressivi, a meno di rifugiarsi nello slang o
nel linguaggio esoterico che segnano più la volontà di appartenenza a un gruppo che
non un rapporto di significazione della realtà. Finché quelle parole non diventano le
mie parole, non acquistano un senso per me, io utilizzerò quelle parole con il senso
generale che viene loro attribuito. Don Milani consegnava le parole a chi non le aveva,
oggi le parole sono nella disponibilità di molti giovani e sono molto potenti,
costituiscono una ragnatela invisibile che imbriglia i pensieri e costruisce delle
maschere. Una pista di lavoro educativo può essere quella di operare per liberarci
dalle parole della chiacchiera e lasciare lo spazio a parole nuove, come invitava a fare
Carlo Michelstaedter, un giovane poeta e filosofo di cui quest’anno si celebra il
centenario delle morte, che alla superficialità del conformismo (la rettorica) e alla
bassezza del “volo delle cornacchie” opponeva la via profonda e incerta della
persuasione. Si tratta di forme espressive e di atteggiamenti comportamentali
caratterizzati dalla presenza sullo sfondo di pacchetti informativi, alcuni dei quali
richiedono anche competenze di un certo livello, con i quali il lavoro educativo e
culturale deve fare i conti. Una volta si insegnavano unità didattiche come Manzoni o i
5
diversi tipi di rocce a persone in crescita che non ne sapevano nulla come uno stilo su
una tavoletta di cera. Oggi quelle informazioni devono fare i conti con parole,
competenze, comportamenti linguistici che pre-esistono e con cui entrano in conflitto
in un meccanismo di scenari variabili: qualcosa entra in scena, nella scena della
mente, dopo qualcos’altro e prima di un’altra cosa ancora allo stesso livello anche se
parliamo di azioni e gesti pre-culturali che hanno comunque un significato linguistico.
Può essere utile riprendere una distinzione proposta dal filosofo francese Maurice
Merleau-Ponty tra linguaggio parlato e linguaggio parlante, in cui il primo rinvia al
nostro corredo di segni linguistici che abbiamo ricevuto in eredità da altri, mentre il
secondo è il linguaggio capace di dire il senso e di metterlo in atto6.
Agire sui costituenti del linguaggio, non solo attraverso la lettura come
suggerisce Citati e migliaia di insegnanti ogni giorno, ma anche attraverso una
scrittura riconquistata, dotata di senso per me, sottratta ai meccanismi del gioco delle
parti della prestazione e della valutazione. A questo può servire un approccio
educativo di tipo autobiografico.
Ma che cos’è il senso? Di cosa andiamo alla ricerca quando nel lavoro educativo
intendiamo confrontarci con questo oggetto?
Esso ha a che fare con la vita, non solo degli uomini ma anche delle cose, è il modo
con cui ci accostiamo ad esse e anche la capacità di risvegliare in altri le esperienze
che gli permettono di coglierle. L’esperienza del senso, che è ciò che autenticamente
interessa i giovani cioè che pone il loro essere nel mezzo di questa relazione, è un
modo di rapportarsi con le cose e con gli altri che non è immediatamente codificabile
ma è senz’altro riconoscibile. Non è identificabile necessariamente con una presenza
polarizzante e trascendente ma è piuttosto la capacità di collocare se stessi nel giusto
rapporto con l’altro. Il poter vedere dall’esterno questo rapporto – e la scrittura di sé
favorisce senza dubbio il processo di straniamento – favorisce la comprensione del
gioco delle distanze e la manutenzione degli equilibri. Per poter accedere a questa
esperienza il linguaggio non può essere quello frammentario e superficiale che
troviamo disponibile nel mondo che abitiamo, ma deve essere ricercato e trovato con
cura, attenzione e buona sorte. L’atteggiamento educativo narrativo autobiografico
intende facilitare l’allestimento di spazi e contesti che permettano questa operazione.
“Retrospettivamente” – dice Merleau-Ponty in Senso e non senso – “potremo sempre
trovare nel nostro passato l’annuncio di quel che siamo divenuti”7.
6
7
M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, Editori Riuniti, Roma, 1984.
M. Merleau Ponty, Il dubbio di Cézanne, p. 40.
6
L’esperienza di un’esercitazione abbastanza classica come la scrittura
sulla meraviglia, rispondendo alla sollecitazione “Racconta di quella volta che hai
provato stupore…”, ha dato alcuni risultati interessanti con un gruppo di ragazzi
adolescenti di 16 anni. I motivi biografici dominanti (quelli che Demetrio chiama i
biotemi) che sono emersi come occasione dello stupore sono:
- i cambiamenti nelle persone;
- la nascita di una persona o di un animale;
- gli eventi naturali catastrofici e contemplativi (mare, foresta, visione dall’alto);
- la meraviglia delle piccole cose della vita quotidiana (stormo di uccelli);
- la conoscenza di sentimenti nuovi;
- gli eventi traumatici o inspiegabili dell’esperienza di vita;
- la domanda sull’origine dell’universo (infinito);
- la mancanza di ordine.
Si tratta di temi in molti casi frequentati e di esperienza comune, in altri insoliti
ma ciò che si intende sottolineare è il modo con il quale sono emersi. Non attraverso
una riflessione astratta sulla meraviglia o un racconto preliminare di ciò che in altri ha
prodotto stupore, ma attraverso la produzione libera di narrazioni esperienziali che
sono autentiche quando sono particolari e definite, come il profumo delle castagne
cotte, nella scrittura di Lorenzo, la cui assenza rinvia ad una mancanza ineluttabile.
Ancora più evidente risulta l’esercitazione sulla scrittura dell’apprendimento in cui
l’obiettivo dichiarato è quello di contribuire ad apprendere dall’esperienza e dal
pensiero dell’esperienza, attraverso l’esercizio della scrittura. Rispetto alla
sollecitazione “Racconta di quella volta che hai imparato”, gli scritti sono stati
sottoposti a un duplice schema di analisi: i temi emergenti e gli stili di scrittura.
I principali temi emersi come fonte di apprendimento sono stati:
- l’esperienza del lavoro estivo;
- la conoscenza di argomenti nuovi e ignoti anche di carattere scientifico (ad es.
universo);
- le esperienze di lutto e di perdite affettive;
- le esperienze di relazioni affettive o amicali;
- le notizie tratte dall’attualità;
- le letture di classici;
- gli incontri significativi.
Gli stili utilizzati sono stati invece prevalentemente di tipo deduttivo, con
attenzione alla gradualità dei passaggi, enumerativo-fenomenologico, introspettivo
7
(con
prevalenza
del
genere
femminile),
riflessivo-meditativo
e,
in
un
caso,
parresiastico-confessorio.
Rilevo inoltre che il contesto scolastico non è stato fra i più segnalati in qualità
di occasione di apprendimento nell’esercitazione di scrittura. Ciò meriterebbe una
riflessione più approfondita circa il setting della scrittura e i rimandi semantici
attribuiti all’apprendimento come tipico di un contesto esperienziale, separato dallo
studio formale.
Che cosa sta succedendo
L’operazione da compiere assomiglia a quella che Raymond Carver proponeva
ai suoi studenti di scrittura creativa riflettendo su un distico di Santa Teresa d’Avila,
oppure Frank Mc Court quando invitava a riflettere su cosa sta succedendo mentre
leggiamo un testo. La domanda da porsi è proprio questa: cosa sta succedendo in
seguito all’incontro con quelle parole? Che è ben diverso da: cosa hai capito? Il potere
di fissazione e di ordinamento del pensiero da parte della scrittura può aiutare a
svolgere questi tipi di esperienze, che avvicinano gli adolescenti alle domande sul
senso dell’esistenza. Non importa che noi collochiamo questo senso a priori
dentro o fuori l’esistenza, è l’atto della ricerca che conta.
Luigina Mortari nel suo recente e intenso Aver cura di sé (Bruno Mondadori, 2009)
scrive: “Anche per descrivere la conformazione più semplice del fluire dei nostri vissuti
è necessario un grande sforzo per lottare contro la tendenza a usare il linguaggio così
come ne disponiamo per il mondo esterno, per cercare invece di reinventare la lingua
in modo da renderla capace di dire la nostra parte più sfuggente” (p. 150). E ancora:
“le parole non hanno la semplice funzione di dire ciò che già si è percepito, ma il loro
potere si spinge più in là: consentono di vedere meglio i contorni delle cose”. Per
Mortari questa ricerca è “attività spirituale essenziale” e parla addirittura di un’etica
della parola nel cercare quelle parole che siano in grado di dire il senso
dell’esperienza, parole vivificanti.
Vi è un altro importante aspetto per cui la prospettiva autobiografica può essere
d’aiuto nel lavoro dell’insegnante in aula. Il funzionamento del meccanismo narrativo,
come hanno evidenziato moltissimi autori che si sono occupati di questo tema,
favorisce l’esercizio del sapere e del linguaggio analogico-metaforico. La scrittura
di sé presenta tuttavia una particolarità significativa. Essa infatti coinvolge il sé in una
8
dimensione diacronica che mette in relazione inevitabilmente il passato con il
presente. Colui che racconta è sempre situato in un contesto spazio-temporale che
può essere modificato dall’atto stesso della narrazione. Se a raccontare è un giovane
studente può accadere che il suo guadagno sia una piccola trasformazione gestuale
del suo presente, una forma parziale e transitoria di consapevolezza che spinge avanti
sulla via dell’identità. Attraverso il racconto di sé, l’io si ricontestualizza e si
ritesse8. Questo ha a che fare con quello che M. Foucault, sulla scorta degli antichi
Greci, chiamava parresia, cioè il fatto di dire la verità e la problematizzazione della
verità. Ancora una volta siamo ritornati alle origini del discorso filosofico, e del suo
senso originario, socratico e platonico, in quanto arte della vita (tèchne toù bìou)9. Il
presupposto è infatti che vi sia sincerità e autenticità nella narrazione di sé,
indipendentemente dal fatto che tale narrazione parli d’altro o si rivolga a figure ed
eventi riconfigurati nel racconto.
Il patto educativo e l’effetto spiazzamento
Le forme organizzate in contesti formativi delle scritture di sé non possono
prescindere da un patto educativo autobiografico. Le produzioni narrative devono
essere sollecitate e realizzate in momenti slegati dalla valutazione di profitto, pena la
produzione di testi artificiosi e non autentici. Lo studente non deve avere l’impressione
che il suo scritto possa essere utilizzato per una valutazione della propria preparazione
o della qualità della performance. Ciò non significa d’altra parte che l’autobiografia
debba essere semplicemente confinata nel tempo e nella programmazione extracurricolare o rappresentare una sorta di ricreazione dello spirito che può implicare
anche il momento ludico. Dire che lo scritto autobiografico è invalutabile secondo i
canoni
diffusi
nella
didattica
italiana,
non
significa
dire
che
esso,
laddove
opportunamente collegato a elementi del programma particolarmente favorevoli, non
possa utilmente integrare la valutazione di completezza e correttezza, la capacità di
utilizzare un corretto registro lessicale e le competenze di approfondimento e
rielaborazione personale. Ciò che è importante è che i due momenti siano separati o,
nel caso ad esempio di prove contestuali, che gli studenti siano ben informati della
differenza dei compiti richiesti. Questo costituisce il fondamento del patto educativo
autobiografico, che il docente deve rispettare per primo astenendosi da commenti
8
Oltre al libro di Demetrio già citato, Raccontarsi, qui il riferimento va al testo autobiografico e filosofico di A. G.
Gargani, Il testo del tempo, Laterza, 1992.
9 Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma, 1996 con introduzione di R. Bodei.
Il testo è la traduzione delle lezioni tenute all’Università di Berkeley nel 1983.
9
valutativi, interpretazioni, letture pubbliche alla classe di scritti senza il consenso degli
autori,
impegnandosi
alla
segretezza
se
esplicitamente
richiesta.
Il
patto
autobiografico, che nel caso in questione costituisce una specificazione del patto
formativo generale tra il docente e il gruppo-classe, va esplicitato all’inizio di qualsiasi
proposta di scrittura in aula o differita e costituisce, laddove venga ovviamente
rispettato con scrupolo e responsabilità, un elemento notevole di rafforzamento della
fiducia tra docente e discenti.
Può naturalmente verificare che nel caso di alcune sollecitazioni di scrittura, le
quali tuttavia il docente selezionerà in modo da non favorire rivelazioni problematiche,
si producano testi indicativi di situazioni difficili e delicate o che stimolano vissuti
emotivi nei ragazzi, difficili da gestire all’interno dell’aula. In tali casi la funzione del
docente dovrebbe essere di carattere contenitivo e rassicurante, rinviando ad altri
luoghi e contesti eventualmente utili per affrontare la questione emersa (colloqui
individuali, scelta comune di riferire alla direzione, ad altri colleghi o al consiglio di
classe ecc.).
In una prospettiva educativa e formativa di carattere autobiografico la scrittura
non tende di per sé a favorire immediatamente momenti di rivelazione intima con
funzione catartica (ciò si può guadagnare al termine del processo ma non mettere
come ostacolo all’inizio). Anzi, come dice Maria Zambrano, “scrivere aiuta a trattenere
le parole, il colloquio aiuta a liberarsene”10. È in questo gioco di trattenimento che si
spende l’apporto della prospettiva autobiografica, nella fiducia che esso sia d’aiuto
nella difficile opera della costruzione del senso, possibile via d’uscita dal nichilismo
“ospite inquietante” delle vite dei giovani e dal dominio ineluttabile delle “passioni
tristi”,
espressioni-chiave
sulle
quali
è
stato
tracciato
il
ritratto
di
un’intera
generazione11.
Bibliografia di riferimento
Anfossi R., Paolini A., Sciarretta F., Vidotto P., Strumenti narrativi per il successo formativo,
Erickson, Trento, 2008.
10
Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, 1996.
Ci si riferisce qui all’ampio dibattito portato sulla scena recente in Italia da U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il
nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007, che presuppone le ricerche di M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle
passioni tristi, Feltrinelli, 2004.
11
10
Batini Federico e Giusti Simone, L’orientamento narrativo a scuola, Erickson, 2008.
Boella Laura, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano, 2006.
Cambi Franco, L’autobiografia come metodo formativo, Laterza, 2002.
Demetrio Duccio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996.
Demetrio Duccio ( a cura di) L’educatore autobiografo, Edizioni Unicopli, Milano, 1999
Demetrio Duccio, L’educazione non è finita. Idee per difenderla, Raffaello Cortina, Milano,
2009.
Laneve Cosimo, Scrittura e pratica educativa. Un contributo al sapere dell’insegnamento,
Erickson, Trento, 2009.
Mortari Luigina, Aver cura della vita della mente, La Nuova Italia, 2002.
Formenti L., Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione,
Raffaello Cortina, 1998.
Safina Rossella, Narrare di sé in classe, in Maestri non si nasce. Progetto “Dalle radici” per la
prevenzione delle dipendenze nell’ambito della scuola primaria, pp. 267-292, ULSS 1 Belluno,
Regione Veneto, 2008.
Sini Carlo, Filosofia e scrittura, Laterza, 1994.
11