Una chiave interpretativa unitaria della Storia
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Una chiave interpretativa unitaria della Storia
Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector SHORT NOTES SERIES Una chiave interpretativa unitaria della Storia economica Italiana Roberto Artoni Short note n. 1 July 2008 www.econpubblica.unibocconi.it 1 Una chiave interpretativa unitaria della Storia economica Italiana (Pubblicato in Bancaria 5/2008) In Ricchi per sempre? di Pierluigi Ciocca emerge immediatamente il carattere del tutto peculiare e probabilmente irripetibile di questo libro; vi sono sintetizzati, con eccellenti risultati, la lunga esperienza di importante banchiere centrale, che ha vissuto molte vicende descritte nel libro, e una solidissima cultura storica ed economica. Il libro è anche intellettualmente ambizioso: è proposta una chiave interpretativa unitaria della storia economica d’Italia, da Napoleone ad oggi. Nella ricostruzione di Ciocca l’Italia è stata caratterizzata nella sua storia da periodi oscuri, di arretramento o di stagnazione, e da periodi positivi di vigoroso sviluppo economico. Questi ultimi (il periodo giolittiano e quello successivo alla seconda guerra mondiale) sono stati contraddistinti dalla presenza di adeguati stimoli concorrenziali: è stato opportunamente valorizzato il ruolo del mercato, si legge nel libro. Nelle fasi di declino e o di stagnazione hanno invece operato in alcuni casi chiusure protezionistiche; in altri, le strutture economiche sono state incapaci di adattarsi all’evoluzione del contesto economico e sociale. In particolare, e venendo al periodo che inizia con gli anni ‘60, non sono state colte le occasioni implicite nel periodo di forte sviluppo post bellico. Ci siamo fatti trovare impreparati di fronte agli shock di varia natura che hanno investito le economie occidentali a partire dagli anni ’70. In estrema sintesi l’Italia è oggi un paese ricco, ma gli insoddisfacenti risultati degli ultimi 15 anni pongono in serio dubbio le prospettive di benessere a medio temine. L’interpretazione o la chiave di lettura è suggestiva ed è capace di dare ragione di molti importanti episodi della storia del nostro paese. Ma più che sottolineare i pregi dell’analisi di Ciocca, in queste note vorrei soffermarmi su due aspetti che, se opportunamente integrati, potrebbero rafforzare le tesi fondamentali di Ricchi per sempre?: l’inquadramento culturale delle prassi di politica economica seguite in Italia nel corso del tempo e la collocazione dell’economia italiana nel ciclo mondiale. Si tratta di due componenti che costituiscono in un certo senso lo sfondo dell’analisi puntuale di Ciocca; se opportunamente elaborate, potrebbero, a mio giudizio, dare ulteriore forza alle tesi di fondo del libro evitando qualsiasi pericolo di autoreferenzialità dell’argomentazione. Se portato agli estremi, infatti, il riferimento agli stimoli concorrenziali o alla 2 valorizzazione del mercato come fattore esplicativo dello sviluppo rischia di essere per certi versi tautologico. Si ha concorrenza quando c’è sviluppo; la stagnazione è al contrario conseguenza necessaria della mancanza di adeguata concorrenza. Possiamo quindi chiederci, in primo luogo, se il richiamo ai principi ispiratori della politica economica seguita nel nostro paese, nella loro evoluzione, può integrare, rafforzandoli, gli elementi di validità chiaramente riconoscibili nelle tesi di Ciocca. In estrema sintesi, e facendo riferimento ad un lavoro di Marcello de Cecco, la storia economica d’Italia deve essere giudicata come una storia di successo di industrializzazione guidata dall’alto. Qualsiasi lettura di storia economica deve quindi porre al centro dell’analisi l’importante trasformazione strutturale dell’economia italiana, a partire dalla fine del XIX secolo, e la sua collocazione fra i maggiori paesi industrializzati, pur essendo partito il nostro paese da una posizione svantaggiata sia sul piano politico sia su quello delle dotazioni di risorse naturali. Non dimentichiamo che all’inizio di questo decennio il prodotto interno lordo, corretto per le parità dei poteri d’acquisto, era allineato a quello dei maggiori paesi europei. Nell’interpretazione dello sviluppo di lungo periodo dell’economia italiana, letto nelle sue tendenze di fondo, ci chiediamo fondamentalmente se è individuabile, almeno fino ad un certo punto, una continuità di politica economica finalizzata all’industrializzazione guidata dall’alto. Conseguentemente ci chiediamo se la politica economica effettivamente seguita è riconducibile ad una generica ispirazione concorrenziale o anticoncorrenziale, a seconda dei periodi, come descritti da Ciocca. Credo che una struttura analitica portante nella storia economica del nostro paese esista e debba essere ricondotta, nella sua impostazione iniziale, al socialismo della cattedra tedesco. Anche se gli antecedenti sono importanti (Luzzatti per tutti), tutta la dirigenza economica del periodo giolittiano, a partire da Nitti, ebbe questa matrice culturale. La dirigenza che si formò allora continuò nel periodo fascista (Beneduce per tutti) e governò con un certo successo l’economia italiana nel periodo della grande depressione (con la creazione dell’IRI e il potenziamento degli istituti di sicurezza sociale, per citare due fatti salienti). Questo stesso filone dottrinale ispirò nel dopoguerra gli interventi più significativi, collegati al periodo d’oro delle partecipazioni statali. 3 Ritornando al libro di Ciocca, un primo problema interpretativo riguarda la possibilità di ricondurre questa linea di politica economica nei suoi momenti di successo ad un generico riferimento concorrenziale, con le implicazioni di tipo liberistico che sembrano emergere. Più che di scelte genericamente concorrenziali (o liberiste) potremmo, a mio giudizio, ragionevolmente parlare di meditato interventismo, dovendosi in particolare qualificare quella valorizzazione del mercato che Ciocca attribuisce al periodo giolittiano. E’ peraltro vero che la capacità d’indirizzo di questa linea di politica economica cessò di essere incisiva nel corso degli anni ’60 per poi degenerare nel corso degli anni ’70 per ragioni interne ed esterne. La perdita d’influenza degli eredi dei socialisti della cattedra è stata peraltro associata alla crisi della grande impresa e ad una serie di fallimenti, anche di origine privata, verificatisi in quegli anni in settori cruciali nel panorama economico moderno. A partire dalla crisi del modello di economia mista collocabile negli anni ‘70, sarebbe interessante fare una storia dottrinale dell’ultimo trentennio dal titolo “alla ricerca di un’egemonia culturale in tema di politica economica”. In una mia personale ricostruzione nei primi anni ’70 emerge un keynesismo abbastanza rozzo associato ad una cieca accettazione del modello di Mundell: in Italia, si argomenta, l’unico strumento efficace è la politica monetaria, la quale richiede a sua volta un regime di cambi flessibili per produrre i risultati desiderati. Le conseguenze furono fortemente inflazionistiche. Nel corso degli anni ’80, dopo aver ancora una volta seguite politiche espansionistiche in un contesto di recessione internazionale (continuando a ritenere che l’Italia fosse comunque in grado di isolarsi dal contesto economico mondiale), sono emerse componenti monetaristiche che hanno portato di fatto ad individuare come variabile indipendente il tasso di interesse sui titoli di Stato, in sostituzione del salario in auge nel decennio precedente. La conseguenza è stata una formidabile accumulazione di debito pubblico. Sia quella pseudokeynesiana, sia quella monetarista sono state egemonie temporanee esauritesi quando dopo la crisi valutaria del 1992 (non solo italiana) si è affermata una versione del Washington Consensus applicato non ai paesi in via di sviluppo, ma all’Italia (stabilizzare i conti pubblici, liberalizzare soprattutto il mercato del lavoro, privatizzare in particolare le 4 imprese di grandi dimensioni di fatto ancora legate all’esperienza dell’IRI). E’ questo il periodo più recente i cui esiti hanno portato all’introduzione del punto interrogativo nel titolo del libro. Torneremo su questo punto, ma in quanto detto è implicito l’invito a Ciocca a fare una storia, partendo dalla sua posizione privilegiata probabilmente non riscontrabile in altri studiosi, delle idee economiche dominanti nel nostro paese, in ossequio alla tesi keynesiana per la quale non sono tanto importanti gli interessi costituiti, quanto le analisi degli economisti (spesso, ma non sempre) defunti. Ciò permetterebbe di affrontare il problema centrale, per chi opera in ambito accademico, dei criteri di individuazione della teoria economica migliore. A questo riguardo Ciocca sembra plaudire, per andare all’inizio del secolo scorso, alle analisi del Giornale degli Economisti, in quanto particolarmente rigorose, contrapponendole a quelle dei pratici del mondo giolittiano. Non dimentichiamo che alcuni dei maggiori esponenti del gruppo che faceva capo al Giornale degli Economisti erano fieri sostenitori della vocazione agricola dell’Italia e ritenevano innaturale ogni ipotesi di industrializzazione. Alcuni schemi possono essere eleganti e suscettibili di manipolazioni matematiche, ma totalmente lontani dalla realtà e quindi inutili (quando non sono pericolosi, come testimoniano le vicende più recenti). Nel libro di Ciocca il secondo aspetto meritevole di commento problematico riguarda l’interpretazione dell’alternanza di periodi di espansione e di periodi di stagnazione che hanno caratterizzato in modo evidente l’economia italiana almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso. Sia l’ultimo decennio del XIX secolo, sia il periodo fascista sono stati anni di stagnazione e di chiusure protezionistiche. Ciocca parla di assenza di stimoli concorrenziali e di compromissione dei ceti produttivi con le élites politiche come elementi esplicativi fondamentali del cattivo andamento economico, senza particolare riferimento alla più generale congiuntura mondiale. Per queste fasi storiche, ma è un’impostazione presente in tutto il libro, esiste in altri termini una forse eccessiva sottovalutazione del ruolo che ha avuto la situazione economica mondiale nella determinazione delle vicende italiane. E’ peraltro facile dimostrare che l’economia italiana è sempre stata inserita nel ciclo internazionale. Si può anche dimostrare che le politiche seguite sono state molto omogenee in tutti i maggiori paesi 5 europei, comprese le scelte protezionistiche prima della seconda guerra mondiale. Non sembra in altri termini attribuibile, a mio giudizio, a una scarsa propensione al mercato e all’incapacità italiana di cogliere gli stimoli concorrenziali eventualmente presenti la causa preminente dei problemi italiani nel periodo precedente la seconda guerra mondiale. Anche nei decenni inflazionistici 70 e 80 i tassi di crescita reali sono stati soddisfacenti e in linea generale superiori a quelli di numerosi paesi importanti con differenze non particolarmente significative nella composizione della domanda. Se si vuole l’unica significativa eccezione è costituita dall’ultimo decennio in cui la performance dell’economia italiana si è discostata in misura significativa da quella dei maggiori paesi europei. Qui si pongono specifici problemi interpretativi, che lo stesso Ciocca ci aiuta ad impostare sia in questo libro sia nelle note sui problemi di crescita dell’economia italiana pubblicate nel Bollettino Economico della Banca d’Italia nel 2003. In questi ultimi anni l’Italia è stata caratterizzata da elevati profitti, da un costo del lavoro relativamente basso (caratterizzato, inoltre, da una modestissima dinamica), da un costo nominale del denaro allineato a quello mondiale, da un alto livello di risparmio famigliare e da una spesa sociale sensibilmente inferiore a quello dei principali paesi europei (e probabilmente anche a quello degli Stati Uniti se si considerano le cosiddette componenti private). A ciò si aggiunga che il livello e la composizione delle entrate e delle spese pubbliche sono tendenzialmente inferiori a quelli riscontrabili nei principali paesi europei (la spesa per interessi per ricordare l’elemento anomalo, si è collocata nel 2005 al 4,6 % contro il 2,8 della Germania e il 2,5 della Francia). Si ricordi infine che l’indice di Gini indica una forte concentrazione nella distribuzione dei redditi paragonabile solo a quella degli Stati Uniti. Nel quadro appena descritto si colloca un andamento dell’economia italiana del tutto insoddisfacente, se paragonato a quello dei paesi a noi assimilabili. Per interpretare il nostro stato basta il generico riferimento all’assenza o all’incapacità di cogliere gli stimoli concorrenziali o forse non sarebbe più opportuno rimeditare sulle implicazioni di quel Washington Consensus che in ultima analisi sembra aver guidato la politica economica italiana degli ultimi 15 anni? 6 Qui non si fa riferimento alla disinflazione degli anni ’90 che, come giustamente sottolinea Ciocca, non sembra aver avuto effetti reali, ma ha semplicemente spezzato una spirale inflazionistica autoperpetuantesi. Ma piuttosto si vuole dare rilievo alla progressiva destrutturazione del mercato del lavoro, che, sulla base di letture errate, è state sempre descritto come eccessivamente rigido, mentre era vero probabilmente il contrario. Si vogliono anche sottolineare gli effetti che da questa destrutturazione sono derivati in primo luogo sulla distribuzione del reddito e poi sulla dinamica dei consumi privati (il vero motore della crescita dei paesi occidentali nell’ultimo decennio). Si aggiunga che un sistema tributario difficilmente manovrabile e largamente sperequato ha poi impedito la fornitura di beni salario, in misura e secondo modalità adeguate, contribuendo alla formazione di un finora latente malcontento sociale. Come ulteriore conseguenza di quell’impostazione di politica economica, è ragionevole pensare che le politiche di privatizzazioni motivate da considerazioni essenzialmente finanziarie, lungi dal dare respiro al sistema produttivo, abbiano di fatto indebolito il sistema delle grandi imprese in settori cruciali. Sono state di fatto ignorate in questi anni le implicazioni di una moderna politica di industrializzazione o di modernizzazione, qualunque sia l’assetto proprietario, che altri paesi hanno seguito con più attenzione. Si può aggiungere anche che l’imprenditoria privata italiana sembra aver fallito in due circostanze cruciali negli ultimi quaranta anni, nella gestione degli indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica e negli interventi conseguenti alle non onerose, per l’acquirente, privatizzazioni. Mi sembra che le problematiche siano forse più sostanziali di quelle riconducibili all’assenza di un’atmosfera concorrenziale. Nella parte finale del libro Ciocca indica i campi di azione prioritari riguardanti finanza pubblica e pubbliche amministrazioni, infrastrutture fisiche e giuridiche, dimensioni e dinamica d’impresa e promozione della concorrenza. Non si può non essere d’accordo sull’importanza e sull’urgenza d’interventi in questi campi, anche se ho l’impressione che su ruolo e funzioni della finanza pubblica domini una rappresentazione piuttosto stereotipata del ruolo e degli effetti dell’intervento pubblico nel nostro paese. In particolare, sull’opportunità di riequilibrare il rapporto fra pubblico e privato nella fornitura dei servizi collettivi l’esperienza di molti 7 paesi dovrebbe indurre ad una grandissima cautela nella formulazione delle proposte. Si ha poi l’impressione che continui a prevalere l’opinione, da lungo tempo sostenuta dal mondo anglosassone, che l’unico debito pericoloso sia quello pubblico mentre si ritengono sostanzialmente irrilevanti o l’indebitamento delle famiglie o gli squilibri nei conti con l’estero. Una politica ragionevolmente seria, che non destabilizzi le aspettative e non produca effetti pro ciclici, è quanto si richiede per la gestione ordinata del debito pubblico anche se elevato in termini di prodotto; l’idea poi che il bilancio pubblico debba essere portato al pareggio complessivo è un’invenzione recente, scarsamente giustificabile sul piano della razionalità economica e mai concretamente perseguita. Ma forse il punto interrogativo che compare nel titolo si giustifica non tanto con l’analisi di specifici problemi, quanto con la lettura complessiva delle vicende italiana degli ultimi quarant’anni. Se posso trovare una caratterizzazione, al di fuori delle mie specifiche competenze, direi che il limite maggiore manifestatosi è stata l’assenza di una classe dirigente che, rappresentando larga parte della società, sia stata capace di proseguire nell’integrazione di ceti e gruppi sociali che richiedevano, per l’effetto stesso dello sviluppo economico, un’estensione dei diritti di cittadinanza o l’adesione ai canoni di una giustizia ralwsiana o la definizione di criteri di accesso ai beni posizionali o la realizzazione di appropriate sfere di giustizia, per richiamare implicitamente alcuni autori che hanno dato contributi importanti alla filosofia politica anglosassone più recente. Nella storia d’Italia questo sforzo di integrazione e di allargamento della democrazia sostanziale è riconoscibile solo nel primo decennio del XIX secolo, prima che riemergessero le pulsioni belliciste delle nostre élites. Venendo a tempi più vicini, Ciocca parla di occasioni perdute negli anni ’60. A mio giudizio, le occasioni perdute, in un contesto macroeconomicamente favorevole, si riferiscono essenzialmente all’incapacità di costruire un sistema di servizi e di infrastrutture sociali adeguato ai tempi: si noti che il modello non era necessariamente costituito dalle socialdemocrazie del nord Europa, ma più semplicemente dalle riforme di Johnson negli Stati Uniti. La trasformazione dell’Italia da società agricola a società industriale ha comunque imposto l’adattamento del nostro sistema di finanza pubblica realizzatosi pochi anni dopo in un momento di grandi turbolenze 8 finanziarie internazionali e dopo che in Italia, come in tutta Europa, si era innescato un fenomeno di fortissime rivendicazioni salariali, a carattere fondamentalmente risarcitorio dei mancati adeguamenti degli anni precedenti. In Italia i meccanismi di riequilibrio o di composizione del conflitto sociale furono peraltro aggravati da massicce fughe di capitali, che in un contesto di equilibrio delle partite correnti, portarono alla fluttuazione della lira e quindi a continue svalutazioni e a rilevanti accentuazioni del fenomeno inflazionistico (fino ai primi anni 70 allineato a quello dei maggiori paesi europei). Sotto questo punto di vista la vicenda italiana è unica in Europa: pur non determinandosi effetti sull’evoluzione reale, il fenomeno inflazionistico produsse rilevanti fenomeni di distribuzione del reddito fra i diversi gruppi sociali. Ex post si può ragionevolmente affermare che fu introdotto un meccanismo di scala mobile che salvaguardò la quota dei profitti, dando comunque spazio ad una crescita dei salari reali dell’industria in linea con la produttività (associata peraltro ad un forte aumento dell’imposizione diretta). L’inflazione punì invece pesantemente i dipendenti statali ponendo le basi del recupero manifestatosi nel decennio successivo. Al di là di tutte le valutazioni specifiche, e di alcuni errori tecnici già rilevati, è evidente in questo contesto l’assenza di una direzione politica e sociale capace di orientare i comportamenti e di trovare soluzioni meno destabilizzanti. Dopo il fallito tentativo di ridare stabilità al sistema alla fine degli anni ’70, il decennio successivo, pur in un contesto di passività generalizzata o di carenza di significative iniziative d’innovazione, si segnala essenzialmente per il tentativo perseguito con maggiore o minore coerenza, dato il contesto politico generale, di ristabilire gli equilibri antichi. Sul piano economico, al di là di specifici episodi che hanno avuto soprattutto un carattere simbolico, la manifestazione più evidente, come già osservato, è costituita dalla politica di finanziamento del disavanzo pubblico. All’inizio degli anni ’90 i tassi reali sull’indebitamento a breve erano vicini al 5%. Pur essendosi fortemente ridotto il disavanzo primario dopo il 1986 e in un contesto di buon andamento economico il debito pubblico in termini di prodotto interno è cresciuto, soprattutto per l’effetto tasso, da 83 del 1986 a 107 del 92. Anche in questo caso le scelte politicoeconomiche non furono espressione di capacità di integrazione, attraverso 9 l’individuazione dei necessari aggiustamenti che avrebbero riguardato tutte le parti sociali, ma di fatto si ricercò lo shock macroeconomico che avrebbe consentito di giustificare gli aggiustamenti successivi nella sfera socio-economica. L’ultima fase è quella che abbiamo definita del Washington Consensus, che nasce da una crisi valutaria non solo italiana, e che porta alle politiche economiche e ai risultati economici che abbiamo descritto. Le preoccupazioni in questo contesto sono di tipo culturale, nel senso che sembra dominare, ad oggi, un pensiero unico fondato sui canoni della supply side, che trova ampio spazio anche per l’assenza di ogni elaborazione anche vagamente alternativa. A questo riguardo continua ad essere illuminante un’osservazione di Caffè: “nella politica economica del nostro paese carenze antiche si sono perpetuate, accentuando contrasti e squilibri ed è oggi possibile rendersi conto con chiarezza delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla mancanza di una eredità intellettuale che, pur senza indulgere all’utopia, fosse tuttavia ispirata (come lo è quella dei Webb e di Pigou) al convincimento che lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale”. Sul piano economico, in un momento di rallentamento della congiuntura mondiale, preoccupano gli effetti della distribuzione del reddito realizzatasi negli ultimi anni, oltre che la modesta vitalità, in una prospettiva di medio periodo, dell’apparato produttivo. Molti fattori sembrano riportare alla fine degli anni ’60. Da questo punto di vista il punto interrogativo che appare nel titolo del libro di Ciocca è ampiamente giustificato.