Dal catalogo della mostra l`introduzione di Sandro Parmiggiani

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Dal catalogo della mostra l`introduzione di Sandro Parmiggiani
«La vera casa dell'uomo non è una casa, è la strada.
La vita stessa è un viaggio da fare a piedi».
Bruce Chatwin
"Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini" dice Ibn Battuta, l'infaticabile girovago arabo che
andò da Tangeri alla Cina e ritorno per il gusto di viaggiare. Ma il viaggio non soltanto allarga la
mente: le dà forma. Le nostre prime esplorazioni sono la materia prima della nostra intelligenza.”
Bruce Chatwin, Anatomia dell'irrequietezza.
Per Swift “esilio era il nome segreto di viaggio”. (…) “La ‘terra straniera’ è una realtà oggettiva,
geografica, o piuttosto una costruzione mentale in continuo movimento?”
Roberto Bolaño, Frammenti di un ritorno al paese natale
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare”
Jack Kerouac, Sulla strada
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Oasi nella notte
Sandro Parmiggiani
Stephen Hawking – il grande matematico e astrofisico britannico, cosmologo assai autorevole
per i suoi studi sui buchi neri, sull’origine e sul destino dell’universo, titolare per trent’anni,
all’Università di Cambridge, della cattedra di matematica che fu di Isaac Newton – ha di
recente dichiarato che, con 100 bilioni di galassie nell’universo, sembra “perfettamente
razionale” che ci siano gli alieni. Secondo Hawking, “essi potrebbero esistere dentro grandi
astronavi, avendo consumato tutte le risorse del loro pianeta natale” e potrebbero finire per
“diventare nomadi, cercando di colonizzare tutti i pianeti che possono raggiungere.”
Mi è venuto spontaneo ricordare le considerazioni di Hawking, che hanno suscitato un certo
clamore, perché, davanti alle fotografie di stazioni di servizio, scattate nella notte da Marco
Menozzi, ho subito pensato che esse paiono astronavi scese sulla terra, o, alternativamente,
potrebbero essere i luoghi che gli alieni potrebbero prendere come punto di riferimento per i
loro primi, solitari atterraggi d’esplorazione. Menozzi s’avvicina con circospezione a queste
strutture, le isola, quasi le ritaglia, dentro il buio assoluto e invalicabile della notte. Le luci
sotto le tettoie illuminano e rivelano quello che se ne sta sotto: la porzione di terreno che così
viene rischiarata e la presenza delle pompe dei carburanti, degli oggetti che sono loro accanto
e delle costruzioni che vi sorgono accanto, fino a riflettersi e a propagarsi, talvolta, sugli
asfalti bagnati circostanti, oltre il perimetro sottostante le tettoie. In altri casi, non è la
struttura angolare delle stazioni di servizio a catturare lo sguardo di Menozzi, ma le
simmetrie e le geometrie che in alcuni dei loro angoli si sono venute a creare, con la presenza
isolata di una pompa e di due bidoni della spazzatura che la scortano, con gli apparecchi per
il lavaggio delle automobili, o con altre presenze che rimano tra di loro, quali alcune bandiere
issate su dei pali, qualche lampione, un segnale rosso e bianco utilizzato per indicare la
deviazione del traffico. Non ci sono presenze umane, a ravvivare questi luoghi e a sviare la
nostra attenzione da ciò che le stazioni di servizio ci offrono: una gradazione sapiente delle
luci che va dal tenue (nei casi in cui certe presenze, come gli alberi al margine di una strada, si
manifestano come larva di un’immagine) all’intenso (quando la luce s’arresta sull’orlo della
devastazione di ciò che dovrebbe rivelare), ma che mai riesce a scalfire la impenetrabile
cortina del buio che tutto cinge d’assedio. La scelta di Menozzi di scattare le sue fotografie nel
cuore della notte isola la struttura della stazione di servizio – non ci sono i dintorni o il cielo a
farle da cornice, e a distogliere la nostra attenzione –, ne accentua il mistero, come se ci
trovassimo di fronte all’apparizione di una sorta di fantasma della notte che viene incontro al
viandante. Sembra, in verità, essersi fermato il mondo, in queste situazioni di servizio, essersi
arrestato il respiro della terra, come se esse stesse fossero in vigile attesa, pronte ad accogliere
un visitatore che, avvicinandosi a loro, le vedrà come un’oasi nel deserto, qualcosa che appare
con la forza del miraggio dentro il buio di una notte senza stelle e senza luna.
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Le stazioni di servizio, sorte in necessaria simbiosi con la diffusione dell’automobile, hanno
suscitato lo sguardo e l’interesse della letteratura, della pittura, del cinema. Le fotografie di
Marco Menozzi ci ricordano, nel modo di inquadrare l’oggetto della sua ricerca e nella scelta
di fare vivere quel luogo speciale dentro il buio della notte, certi dipinti di Edward Hopper.
Non possiamo, qui, non ricordare il celeberrimo Night Hawks (I falchi della notte) del 1942: le
luci del bar moderno, una sorta di serra ermeticamente chiusa nel buio della notte, illuminano
e rischiarano gli edifici tradizionali che se ne stanno negli immediati dintorni – sono,
probabilmente, gli ultimi minuti prima della chiusura e quel dipinto, nell’aperto ignorarsi,
nella manifesta incomunicabilità della coppia e delle altre persone che vi si trovano, diventa
l’emblema della solitudine della grande città. Né possiamo dimenticare, per affinità tematica,
un altrettanto famoso dipinto di Hopper, Gas (Stazione di servizio) del 1940: mentre il sole al
tramonto sta dando l’addio al giorno e l’addetto alle pompe sembra intento a chiuderle, noi
percepiamo questo luogo come l’ultimo avamposto illuminato della civiltà prima del dominio
della natura – Hopper ha spesso dedicato nei suoi dipinti un’attenzione speciale alla
rappresentazione netta di un confine, tra la città, la parte urbanizzata del territorio, e la
wilderness, la campagna, ciò che ancora non si è arreso all’azione dell’uomo e che, in questo
quadro, si presenta come massa scura di un bosco inaccessibile sullo sfondo. Hopper accosta
sovente i segni della civiltà alle forme della natura, e Menozzi in un qualche modo replica
questa idea di ordini che si contrappongono e determinano una netta suddivisione dello
spazio: in queste sue fotografie, la stazione di servizio pare un lacerto di luce e di forma
sottratto alla informe profondità, insondabile e inconoscibile, del cielo. Del resto, sappiamo
che un grande scrittore come Peter Handke, l’autore di Breve lettera per un lungo addio, e un
regista straordinario come Wim Wenders sono innamorati di Hopper – e Menozzi ricorda di
avere guardato e riguardato un capolavoro come Paris, Texas.
Lungo la Route 66, che va da Chicago a Santa Monica, in California, si sono srotolate vicende
memorabili, a partire da quelle narrate da John Steinbeck in Furore e da John Ford
nell’omonimo film, tratto dal romanzo – su quelle strade viaggiò anche il giovane Woody
Guthrie, fermandosi in qualche stazione di servizio a dipingere insegne per guadagnarsi in
un qualche modo da vivere nel suo viaggio verso il Pacifico. Sulle strade dell’America si
svolge il viaggio senza sosta per tutti gli Stati Uniti che Jack Kerouac racconta in Sulla strada –
non invenzione pura, ma narrazione dei sette anni in cui lo scrittore viaggia, in compagnia di
amici, nel cuore dell’America. Uno dei grandi fotografi del Novecento, Walker Evans,
coinvolto assieme a Dorothea Lange nel programma rooseveltiano della Farm Security
Administration, inizia, nel 1936, a collaborare con lo scrittore James Agee: il loro viaggio nel
sud rurale degli Stati Uniti, segnato da una profonda e diffusa povertà, sarà documentato
nelle immagini di Evans e nei testi di Agee nel libro Let us now praise famous men (Sia lode ora a
uomini di fama), pubblicato nel 1941; le fotografie di Evans (tra cui alcune stazioni di servizio)
diventano uno degli emblemi più noti della Grande Depressione. Nel 1963, Ed Ruscha, artista
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pop tra i più importanti, pubblica un libro d’artista memorabile, in una prima edizione
numerata di 400 copie (1), Twentysix Gasoline Stations, che, come dice il titolo, contiene
ventisei fotografie di altrettante stazioni di servizio che Ruscha fotografa nel suo viaggio,
sulla Route 66, da Los Angeles, dove vive, a Oklahoma City, dove era cresciuto e dove ancora
abitava la madre. Al di là dei significati che si sono voluti attribuire all’opera di Ruscha –
molti critici hanno intravisto una correlazione tra le stazioni di servizio e le quattordici
stazioni della Via Crucis, e lo stesso Ruscha ha ammesso il rapporto tra la sua opera e la sua
esperienza esistenziale con la religione e le sue icone –, e al di là del fatto che proprio in
quegli anni Ruscha si afferma come uno dei maggiori pittori pop, proprio con dipinti delle
stazioni di servizio – basterebbe citare una sua opera del 1963, Standard Station. Amarillo,
Texas, che ormai figura in tutte le grandi mostre dedicate alla Pop Art –, dobbiamo constatare
come la stazione di servizio, e i suoi componenti, siano, dal dipinto di Hopper (1940) in poi,
entrati a far parte dell’immaginario della pittura e dell’arte, e della fotografia – tra i tanti, lo
stesso Robert Rauschenberg ha, nelle sue fotografie, dedicato la propria attenzione alle
stazioni di servizio. Pittura e fotografia hanno dunque preso le stazioni di servizio come
soggetti: la pop-art ha saccheggiato le immagini e i singoli elementi che le costituiscono, con
lo stesso fervore con cui Fernand Léger aveva introiettato ciò che gli rivelavano le “icone del
moderno” del suo tempo, quali le insegne pubblicitarie e le vetrine della nascente metropoli.
Secondo alcune ricerche, sono attive, nel mondo, centinaia di migliaia di stazioni di servizio,
che ormai fanno dunque parte del nostro paesaggio quotidiano e sono entrate nel nostro
immaginario – secondo l’accurato Censimento americano, ne esistevano, solo negli USA,
121.446 nel 2002. Ci sono, ovunque, musei che ne hanno raccolto i cimeli, e anche in Italia, a
Palazzolo Milanese, ne fu fondato uno, il Museo Bisogni, nel 1966, che attualmente conta
7.500 pezzi tra distributori di carburante, lattine dell’olio, attrezzi vari. Se scorriamo le
fotografie che, nel secolo scorso e fino a oggi, ci hanno restituito il volto delle stazioni di
servizio e delle pompe di benzina, ci rendiamo conto che esse si sono nel tempo impregnate
di valori funzionali e estetici, come è avvenuto nella storia dei prodotti industriali e del
design. Del resto, basterebbe ricordare quanto, in molti paesi, celebri architetti abbiano
contribuito alla progettazione delle stazioni di servizio e al design dei loro componenti. Per
citare solo un’esperienza italiana, ricordo che le stazioni di servizio dell’Agip furono
sottoposte, all’inizio degli anni Settanta, a un deciso e innovativo restyling, per mano di un
celebre artista, Walter Valentini, e di un grafico di valore, Bob Norda. Del resto, mai
dovremmo, francamente, dimenticare che c’è molta più dignità estetica in certi prodotti del
design che in lavori che si fregiano dell’attribuzione di “opere d’arte”.
Si è molto discusso, negli ultimi anni, di una celebre e fortunata definizione, quella di “nonluoghi”, che in un qualche modo ha finito per imprimere un generalizzato marchio negativo
su certi luoghi fisici sorti nei tempi moderni, senza cogliere quanto quegli stessi luoghi siano
segnati, nella fase di progettazione, da una certa idea, che non necessariamente può e deve
essere solo quella, del vivere, confermata poi da certe modalità, da un certo senso comune
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dell’esistere collettivo. Insomma, non si tratta solo di una tipologia di costruzioni (spesso
francamente squallide, come del resto lo sono anche certe abitazioni civili o certi edifici
pubblici) che inevitabilmente corrompono e degradano un supposto modo “diverso e felice”,
alternativo, di vivere dentro il moderno da parte delle persone, ma, piuttosto, di
manifestazioni combinate del concepire le cose, del vivere e dell’agire, che non si esplicano
solo in quei luoghi, ma in molti altri, legati al carattere della cultura prevalente della
esperienza umana oggi. Se la definizione di “non-luogo” coglie indubbiamente alcuni aspetti
delle creazioni umane, è altrettanto vero che, se deponiamo gli occhiali dell’ideologia e se
guardiamo con uno sguardo sgombro, dobbiamo ammettere che non sono quei luoghi a
determinare, meccanicamente, certi comportamenti, né sono, quei luoghi, solo orrori da
dimenticare e da abbattere. Forse, se è vero che la bellezza è negli occhi di chi guarda – come
ci ha insegnato un fotografo della nostra terra, uno dei grandi artisti del Novecento, Luigi
Ghirri –, ci dobbiamo interrogare quanta bellezza e quale idea e sentimento dell’umano ci
siano oggi negli occhi, nelle menti e nei cuori di chi guarda e di chi conduce la propria
esistenza terrena. Forse, le fotografie di Marco Menozzi ci aiutano a capire che non tutto è
perduto, che la deriva può essere arrestata, che occorre andare a cercare, con uno sguardo
nuovo, i frammenti di bellezza e di poesia che danno senso alla vita; non sono, questi lacerti,
tutti, alle nostre spalle.
(1) Il libro di Ruscha veniva all’epoca venduto a 3.50 $; ora uno di quegli esemplari vale circa 35.000 $.
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