Comunicare in modo efficace in ambito educativo

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Comunicare in modo efficace in ambito educativo
Comunicare in modo efficace in ambito educativo:
una sfida possibile?
Dott. Luigi Gramegna
CON LE PAROLE ED OLTRE LA PAROLA
“Le nostre parole sono spesso prive di significato.
Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso
eccessivo e soprattutto inconsapevole.
Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare dobbiamo rigenerare le nostre
parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore.
E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle.
Nei nostri seminari chiamiamo ‘manomissione’ questa operazione di rottura e
ricostruzione.
La parola manomissione ha due significati in apparenza molto diversi.
Nel primo caso essa è sinonimo di alterazione, violazione, danneggiamento.
Nel secondo, che discende direttamente dall’antico diritto romano
(manomissione era la cerimonia con cui uno schiavo veniva liberato), essa è
sinonimo di liberazione, riscatto, emancipazione.”
Lucchini
Entrare in comunicazione con l’altro da sé rappresenta una delle
condizioni irrinunciabili della competenza educativa.
Ma cosa possiamo intendere per comunicare; non si tratta forse di una
moda verbale? Sembrerebbe a volte che se ne parli più di quanto la si
favorisca, in un processo in cui teoria e nominalismi sembrano voler
sanare le carenze pratiche.
Propongo di indagare la parola comunicazione e coglierne i suoi aspetti
peculiari oltre la e le parole, indagandone anche gli aspetti non verbali:
suoni, rumori, odori, distanze e movimenti fisici ed emotivi.
I DUE VERSANTI DELLA COMUNICAZIONE
“L’inconscio (le molte menti che non parlano dell’emisfero destro) decodifica
immancabilmente ogni comunicazione non verbale.
E’ la nostra coscienza che, a volte, rimane al buio”.
Baiocchi – Toneguzzi
“Dietro le parole c’era una volta un gesto”.
Andrè Leroi-Gourban
Possiamo sicuramente cogliere due aspetti insiti nella comunicazione
umana:
-un momento di interazione e scambio con l’altro
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-un momento di contatto e vicinanza con l’altro.
Dunque sono compresenti nella comunicazione due macro-concetti:
1) Il concetto di scambio:
-attenzione sull’oggetto
-che cosa si scambia.
Definiamo questo versante della comunicazione, tecnico funzionale.
2)Il concetto di contatto:
-attenzione sul processo di incontro
-chi si contatta e come
-fattore umano.
Scambio e contatto sono compresenti ma risulta spesso difficile una
gestione contemporanea dei due aspetti.
E, ancor più spesso, si tende a dare meno attenzione al secondo aspetto
relativo al contatto.
IL GIUDIZIO COME MASCHERA DEL SENTIRE
“Per insegnare non basta conoscere solo la disciplina che si insegna ma anche
il soggetto che l’apprende. Il soggetto appare a volte incomprensibile,
indecifrabile, misterioso. La tentazione, a questo punto, è di far ricorso al
giudizio, alla condanna morale delle nuove generazioni. E’ così che l’insegnante
finisce per mettersi fuori gioco da se stesso”.
F. Montuschi
Comprendere e soprattutto sentire al posto di giudicare, acquista così il
significato di conservare il proprio ruolo professionale, anche quando si
incontrano difficoltà comportamentali e sociali da parte dei propri utenti.
Ogni volta che giudichiamo qualcuno, fermandoci a pensare come sia,
stoppiamo la relazione con lui per entrare soltanto dentro di noi.
Stare in relazione significa invece andare oltre il giudizio. Accettare l’altro
significa in sostanza non piegarlo ai nostri modelli, ritenendo che debba o
che possa essere quello che noi vorremmo fosse.
E’ chiaro tuttavia che di fronte a comportamenti dell’altro che
percepiamo scorretti è sano e naturale provare emozioni spiacevoli.
E’ tuttavia onesto e produttivo riconoscere tali emozioni come nostre e
come tali rispettarle.
Il riconoscimento di bisogni ed emozioni come propri è uno dei primi
passi dalla fusione relazionale, più diffusamente chiamata simbiosi,
verso l’individuazione e dunque verso l’autonomia oltre il dato
puramente funzionale.
Una relazione simbiotica è invece assai diffusa nelle professioni educative
non solo tra gli utenti ma anche tra gli educatori.
LA RELAZIONE SIMBIOTICA
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“E’ attraverso la sintonizzazione corporea che noi tutti abbiamo imparato che le
altre persone possiedono differenti stati interiori e modi diversi di comunicare
che esiste un vissuto interno e uno esterno, che la comunicazione è resa
possibile dal delicato lavoro sulla distanza da porre fra noi e gli altri senza che
si smarrisca la relazione”.
Ivano Gamelli
L’indagine sulla relazione simbiotica consente di individuare:
-disfunzioni del rapporto educativo;
-carenze di funzionalità in entrambi gli interlocutori.
Tale forma relazionale contraffatta è spesso rilevabile nella
comunicazione educativa disfunzionale, allorquando chi ha bisogno di
aiuto non lo chiede esplicitamente e chi offre aiuto non chiarisce e
concorda la propria offerta.
Tutto resta alluso e inteso secondo un bisogno personale e non secondo
il reale bisogno altrui.
Allenarsi a capire il reale bisogno dell’altro ed il proprio prima di
adoperarsi, aiutare gli utenti ad individuare i propri bisogni, facilitarli
nell’apprendere a chiedere senza ricatti o atteggiamenti di passività,
possono essere
alcune premesse iniziali per tenersi lontani dalla
relazione simbiotica.
I più frequenti tranelli nella relazione educativa
che coinvolgono
educatori e docenti, si riferiscono all’assunzione del ruolo del Salvatore.
IL RUOLO DEL SALVATORE
“Avere un dittatore da compiacere è un vero guaio. Poco male se si trattasse
solo di ballare a testa in giù. Con un po’ di pratica chiunque ci può riuscire. Il
vero problema è che non c’è modo di sapere da un giorno all’altro, da un
minuto a quello seguente, qual è l’alto e quale il basso”.
Chinua Achebe
Secondo la psicologia umanistica, la nevrosi non è da intendersi come
una malattia ma come una condizione umana di partenza.
In questo senso propongo di indagare alcuni ruoli comunicazionali
nevrotici.
Salvare qualcuno che non sa nuotare non è certo inquadrabile come
comportamento da salvatore in senso nevrotico, diverso è il caso di
portare puntualmente lo zainetto al proprio figlio o fare i compiti al posto
suo oppure aiutare uno “splendido quarantenne” ad attraversare la
strada.
Parliamo insomma di quei comportamenti sostitutivi che impediscono al
nostro interlocutore di vivere quelle occasioni di crescita che la vita ed i
contesti gli propongono, secondo una legge che già Freud aveva definito
principio di realtà.
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Il ruolo del Salvatore si contraddistingue per un’apparente, smodata
generosità, per un aiuto sproporzionato che, proprio perché tale, risulta
ingannevole ed insidioso per gli effetti su entrambi gli interlocutori ed il
contesto.
L’istanza di aiutare l’altro, è spesso latente in chi sceglie professioni
educative.
Tale istanza va però educata attraverso un processo di consapevolezza
dei ruoli giocati nella relazione educativa.
L’aiuto
di cui il comportamento del salvatore è oggetto, pur
manifestandosi in superficie come atto di generosità a tratti eroica, si
rivela invece a più attento esame di segno contrario.
L’aiuto dato dal Salvatore è individuabile per l’assenza di un vero bisogno
da parte dell’interlocutore soccorso.
Si tratta dunque di una particolare forma di aiuto che, anziché basarsi su
una responsabilità ed un potere reciproco, svaluta di fatto le capacità del
proprio interlocutore sul piano funzionale e le sue intenzioni e
motivazioni sul piano affettivo.
La persona incautamente soccorsa, può dunque convincersi di essere
realmente incapace o, nel miglior dei casi, con il tempo rinuncerà
all’esercizio della propria responsabilità ed autodeterminazione.
Il Salvatore, non prende in carico il reale bisogno del proprio
interlocutore perché è preoccupato di se stesso: necessita di curare la
propria considerazione di fronte a se stesso e di fronte agli altri.
L’aiuto “donato”si costituisce così come occasione di guadagno
personale, di profitto morale e sociale; la ratio di questo soccorso,
generoso e fraudolento, non è centrata sul bisogno altrui ma sul proprio.
Il profitto personale, cui si allude, può naturalmente essere di diversa
matrice: zittire i propri sensi di colpa (magari di colpe mai commesse),
farsi amare dagli altri; percepirsi efficaci nel proprio ruolo di educatore,
genitore, insegnante oppure trovare motivi di stima nei propri confronti.
Un aiuto calibrato sul bisogno dell’altro è possibile attraverso un contatto
contemporaneo con l’altro e con se stesso.
L’aiuto del salvatore, viceversa, si fonda su una relazione definibile io-me
piuttosto che io-te.
DAL SALVATORE AL PERSECUTORE
“E’ la teoria a decidere cosa possiamo osservare”.
Albert Einstein
“Noi siamo ben oltre le parole”.
Friedrich Nietzsche
La truffa comunicativa, per cui si aiuta l’altro per aiutare se stessi, è
apertamente svelata da un repentino cambio di ruoli.
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Il Salvatore che fallisce nei suoi tentativi di soccorso per la mancata
collaborazione del suo interlocutore o per il suo esplicito rifiuto, assume
all’improvviso il ruolo di Persecutore.
La stessa persona che era oggetto di solerti cure e di premurose
attenzioni diviene inaspettatamente oggetto di accuse gravose e di
rabbiose critiche.
Chi non accetta l’aiuto viene così giudicato e imputato motivo del proprio
“fallimento educativo”.
L’aiuto rifiutato diventa così ragione di frustrazione e di fallimento per il
Salvatore che non ritiene di poter tollerare tanta “ingratitudine” del suo
interlocutore.
Ci sono allora tutte le ragioni per incolpare, punire e “far giustizia”: per
incarnare quindi il ruolo del Persecutore.
Il repentino cambiamento disorienta entrambi gli interlocutori.
Il Salvatore fallito, a seguito dell’inutile assunzione del ruolo del
Persecutore, può così assumere i panni di Vittima e soffrire nuovamente
per l’ingratitudine degli “altri” siano essi i colleghi, giovani, gli studenti, i
genitori…
IL TRIANGOLO NO
“La natura contagiosa della nevrosi si basa su un complicato processo
psicologico nel quale giocano una parte i sentimenti di colpa e di paura di
essere esclusi, così come il desiderio di stabilire contatto, anche se si tratta di
uno pseudo contatto”.
Frederick Perls
“In ogni presa di coscienza vi è una crescita d’essere”
Gaston Bachelard
Questo circuito triangolare, descritto da S. Karpman, prevede una
risposta speculare: al ruolo di Salvatore fa riscontro il ruolo di Vittima
dell'altro; al ruolo di Vittima fa riscontro quello di Persecutore o di
Salvatore, e così via.
Il continuo scambio ed avvicendamento delle parti porta a esperire
comunicazioni nevrotiche e continui fraintendimenti, piuttosto che
relazioni basate sulla responsabilità reciproca e la conseguente possibilità
di scelta e autodeterminazione.
L’inganno è insito nel ritenere di poter pensare ed agire per l’altro
mentre in realtà e inconsapevolmente l’interlocutore sta pensando a se
stesso.
Si tratta appunto di una comunicazione che prende spesso l’accento di
una pseudo relazione (io-me piuttosto che io-te) e tuttavia, il proprio
benessere diventa così soggetto e dipendente dalla risposta dell’altro.
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Una pratica basilare consiste nel chiedere prima di intervenire nel dare
aiuto.
I ruoli nevrotici o “drammatici” , secondo S. Karpman, fanno da copione
a una trama di relazioni disfunzionali ricorrenti nella vita e dunque
anche nell’esperienza educativa e scolastica.
Ogni persona gioca un ruolo “privilegiato” che assume con maggiore
facilità in presenza di interlocutori che giocano ruoli complementari.
Chi agisce con facilità il ruolo del Salvatore sarà più chiaramente attratto
da una persona che interpreta il ruolo della Vittima.
Chi ha dimestichezza con il ruolo della Vittima entrerà nella relazione
triangolare allorquando incontra chi gioca prevalentemente il ruolo del
Salvatore che gli darà l’illusione di essere soccorso; oppure sarà
parimenti attirata dal ruolo del Persecutore che, facendola soffrire, potrà
riconfermarle di essere effettivamente una Vittima.
Ciascun ruolo si nutre di una carenza emotiva: il Salvatore cerca credito
preoccupandosi degli altri non avendo la capacità e la forza di occuparsi
di sé.
Il Persecutore punisce in nome della giustizia e per sentirsi utile, ma così
facendo vuole alleviare la propria solitudine e la sua remota rabbia nei
confronti degli altri.
La Vittima depone il suo destino al lamento, nella speranza di avere
comprensione dagli altri oppure confidando di ricevere una condanna che
giustificherà effettivamente la sua continua rimostranza.
Svelare tali inganni, acquisendo consapevolezza, è quindi il primo passo
per tenerli lontani.
Un ulteriore passo può fondarsi nello sperimentare il contatto, una
pratica relazionale capace di cambiare radicalmente il rapporto con se
stessi e con gli altri.
SENSO E SIGNIFICATO: SENTIRE OLTRE CHE CAPIRE
Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle:
“ Come spiegherebbe a un bambino cos’è la felicità?”
“Non glielo spiegherei”, rispose,
“gli darei un pallone per farlo giocare”.
Galeano
Una relazione educativa per il ben-essere non può trascurare il concetto
del contatto.
Ma anche a tale proposito è opportuno operare un’ulteriore
“manomissione di parole” ormai consunte e probabilmente un vero e
proprio cambio di paradigma.
Come la felicità, il contatto ha più a che fare con il senso che con il
significato, con il sentire piuttosto che con il pensare.
Ognuno di noi lo ha probabilmente sperimentato.
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Il contatto ed il nutrimento psicologico che ne deriva, si possono
sperimentare ma
tradurre questa esperienza con le sole parole, risulta complicato perché
la comunicazione va oltre le parole e si avvale di sguardi, movimenti,
prossemia, ritmi e toni di voce, pause e silenzi.
La comunicazione non è il solo linguaggio dell’emisfero sinistro, non è il
solo linguaggio di segni arbitrari, ma linguaggio ancestrale e culturale del
corpo.
La comunicazione in genere ma soprattutto quella di contatto in quanto
espressione di sensi, prima ancora che di significati, è difficile da
esprimere avvalendosi delle sole parole.
Il contatto lo sperimenta l’infante che non sa parlare se non con il suo
corpo ed è sempre il contatto ad alleviare le sofferenze del morente. Così
il contatto accompagna l’essere umano nei suoi contesti di vita come
l’elemento psicologicamente più nutriente.
“La comunicazione è il solo modo mediante il quale impariamo chi siamo:
il nostro senso di identità si basa su come interagiamo e sui messaggi e
le definizioni che, fin dall’infanzia, gli altri significativi (genitori, familiari,
adulti per noi importanti, amici), ci inviano”. (Zani ‘94).
La rete che questi affetti tramano ci sostiene o ci intrappola, di modo che
“agiti” più che attori, rischiamo di riprodurre modelli comunicativi e
relazionali intrappolanti.
Esiste però una chiara differenza tra una formazione che si fa
implicitamente, perché dimensione immanente alla vita, ed una che,
viceversa, si organizza in base ad un preciso mandato.
Nell’esercizio della pratica professionale in contesti psicopedagogici, è
necessaria una relazione calda ma intenzionale.
Affinare la propria capacità comunicativa è necessario per passare da
una volenterosa disponibilità alla relazione di aiuto ad una consapevole
comunicazione educativa/terapeutica in grado di supportare verso il
potenziamento dell’autonomia, dell’autostima e della capacità di
instaurare e mantenere relazioni d’intimità con gli altri, astenendosi dal
proporre a tutti i costi, dal giudicare e dalla tendenza a sostituirsi ai
normali compiti e percorsi evolutivi.
Tuttavia spiegare la comunicazione in quanto congruente equilibrio tra
aspetti funzionali (di scambio) ed affettivi (di contatto) è un po’ come
cercare di dare forma all’acqua.
CONTESTI DIFFICILI
“La maggior parte di coloro che vedono più chiaramente, sentono più
intensamente e agiscono più coraggiosamente, spesso sprecano se stessi e
soffrono, poiché è impossibile per chiunque essere felice, finché in generale
non siamo tutti un po’ più felici.
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Se tuttavia riusciamo a prendere contatto con questa terribile realtà, vi è
anche una possibilità creativa”.
Perls, Hefferline e Goodman.
“Lo schema delle aule si perpetua invariato, la campanella continua a strillare
ossessivamente a ogni ora, mentre persiste la convinzione che si possa
insegnare solo attraverso la parola.”
Ivano Gamelli
Al pari di un recipiente con l’acqua, il contesto fisico e relazionale entro
cui una comunicazione avviene è in grado spesso di dare forma ma
anche colore finanche agli aspetti di scambio.
Farsi chiamare Napoleone ha un significato diverso all’interno di una
rappresentazione teatrale ed all’interno di in una struttura psichiatrica.
Ma non è solo questo il modo in cui il contesto, dà senso all’interazione
che avviene al suo interno.
Riferendoci per esempio all’ambiente scolastico, è assai imbarazzante e
laborioso, insegnare il rispetto per cose e persone all’interno di un
ambiente trascurato, come talvolta capita.
Difficile è anche parlare di comunicazione in un ambiente in cui di fatto
spesso gli alunni si danno effettivamente le spalle per una disposizione
dei banchi più funzionale al controllo che all’apprendimento.
L'ambiente, il contesto, è formato naturalmente di persone oltre che di
oggetti.
I concetti basilari del contestualismo, come quello di zone di sviluppo
prossimali, benché ormai oggetto culturale di “modernariato”, non sono
tuttavia realmente penetrati nell’esercizio della quotidiana pratica
didattica.
Secondo il concetto di zona di sviluppo prossimale del russo Vjgotskj ,
sono le persone che ci circondano a metterci in contatto con il mondo,
per mezzo di processi che proprio attraverso l'interpsichico, la relazione
con gli altri, vanno a strutturare l'intrapsichico.
Tuttavia una comunicazione centrata su modelli verticistici piuttosto che
sommariamente definibili come circolari, non appartiene diffusamente
solo al micro contesto classe ma anche alla scuola nel suo più generale
apparato organizzativo e decisionale.
Appare spesso infatti retorico parlare di democraticità degli organi
collegiali di una scuola in presenza di una struttura comunicativa, tipica
delle assemblee scolastiche, i collegi docenti, che finanche da un punto
di vista fisico risponde a stili decisionali non distribuiti.
E’ oltretutto senza dubbio usurante, sentire il bisogno di impostare una
comunicazione in classe, centrata sull’ascolto e che risponda a criteri di
contatto e scontrarsi invece con alcuni limiti di tipo strutturale, tra cui:
-mancanza di spazi progettati ad hoc
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-mancanza di un training iniziale o in servizio alla competenza
relazionale
-rapporto demografico tra insegnanti ed alunni sempre più oneroso con
classi sempre più affollate.
Tuttavia prendere contatto con questa realtà, andare oltre una condanna
ed un lamento non propositivo, ma aumentare piuttosto il livello di
consapevolezza circa le dinamiche comunicative sottese alla relazione
con alunni, genitori, colleghi, staff dirigenziale e struttura scolastica, può
generare una sostanziale azione più congruente ai propri bisogni
percepiti e quelli dei propri utenti, pur entro un realistico principio di
realtà.
Un training alla competenza relazionale è da intendersi non tanto come
allenamento alla persuasione quanto piuttosto all’ascolto inteso come un
contemporaneo contatto con se stessi, con l’altro e l’ambiente.
In cinese il verbo “ascoltare” è formato dai caratteri: orecchio, occhi,
mente e cuore.
Propongo dunque di intendere per competenza relazionale la capacità di
una comunicazione congruente.
Per congruenza comunicativa si intende la congruenza tra i propri bisogni
e stati d’animo e la propria comunicazione in relazione al contesto.
Ciò presuppone un ascolto attivo, tanto interno quanto esterno, che
richiede una forte attenzione percettiva ed emotiva.
LA CONGRUENZA COMUNICATIVA
“In ogni gesto c’è la mia relazione col mondo, il mio modo di vederlo, sentirlo,
la mia educazione, il mio ambiente, la mia costituzione psicologia, il mio modo
di offrirmi, tutta la mia biografia.”
Umberto Galimberti
“Coloro che vogliono andare sotto l’epidermide lo fanno a proprio rischio”.
Oscar Wilde
E’ possibile rilevare quattro aspetti insiti in ogni messaggio
comunicativo:
l’aspetto fattuale, l’autorivelazione, l’appello e la relazione.
In sostanza, in ogni comunicazione è possibile cogliere un aspetto
fattuale ossia il contenuto della comunicazione, un aspetto di
autorivelazione cosa l’altro sta dicendo di sé, un appello che corrisponde
a cosa il nostro interlocutore ci sta chiedendo implicitamente o
esplicitamente, un aspetto di relazione che attiene appunto al tipo di
relazione tra gli interlocutori.
E’ possibile allenarsi ad individuare nelle nostre ed altrui comunicazioni
questi aspetti che consentono di familiarizzare più palesemente con i
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nostri ed altrui bisogni e con gli effetti della nostra comunicazione ovvero
con la pragmatica della comunicazione.
Tale settore è stato attentamente indagato dalla così detta scuola di Palo
Alto ed in particolare da Watzlawich, Jackson e Beavin, che, negli anni
’60, nel libro “Pragmatica della comunicazione umana”, hanno
identificato 5 assiomi che regolano la comunicazione:
1. E’ impossibile non comunicare;
2. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed un aspetto di
relazione, di modo che il secondo giustifica il primo;
3. La natura della relazione dipende dalla punteggiatura delle
sequenze di comunicazione tra i comunicanti;
4. Gli esseri umani comunicano sia con il modulo digitale che con
quello analogico;
5. Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari
a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.
Propongo di analizzare più in dettaglio tali assiomi.
1)E’ impossibile non comunicare. Tutto comunica non solo le parole ma
anche suoni, colori, odori, forme distanze e movimenti.
Lo studio e la conoscenza della comunicazione non verbale appaiono
strumenti assai utili per educatori ed insegnanti e per quanti svolgano
professioni a più marcata centratura relazionale. Questo settore di studi,
rappresenta un vasto campo di interesse che non è analizzabile in questa
sede.
E’ tuttavia opportuno facilitare qualche interrogativo sui risvolti di tale
assioma.
Conosciamo le nostre modalità comunicative?
E’ possibile, e soprattutto fruttuoso, preoccuparsi della propria
comunicazione esclusivamente relativamente agli aspetti squisitamente
didattici?
Quanto e come utilizziamo e facciamo utilizzare il silenzio come una una
delle modalità comunicative attive che è possibile investire in classe ed
in altri contesti educativi?
Neruda scriveva “il silenzio è l’ala della parola”.
“Noi siamo indubbiamente esseri di parola. Paradossalmente solo una
formazione che non abbia paura della sospensione e del silenzio,
disponibile ad esplorare concretamente linguaggi eterogenei, a
esercitarsi nel gioco delle loro possibili combinazioni-sovrapposizionitransizioni, può mostrarci un accesso completo al pensiero e alle sue
parole”. (I. Gamelli ‘92).
Il secondo assioma individua due aspetti insiti nella comunicazione.
2)Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed aspetto di relazione
di modo che il secondo giustifica il primo.
Pensiamo ad una richiesta del tipo “Potreste prestarmi attenzione?” e
postuliamo adesso le molteplici modalità con cui tale richiesta può essere
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avanzata. Sorridendo o piangendo, con voce neutrale o pronta alla
stizza, lamentosa o perentoria, ironica o sfrontata.
Saranno appunto gli aspetti di relazione, toni, pause, ritmi della voce,
prossemica e movimenti del corpo, oltre naturalmente al contesto, a
qualificare l’aspetto di contenuto espresso nella comunicazione.
Nella comunicazione congruente contenuto e relazione vanno nella
stessa direzione.
Diverso è il caso del così detto doppio legame studiato in particolare da
Bateson.
Si tratta di un messaggio paradossale al quale è impossibile sia obbedire
che disobbedire.
Questa particolare forma di comunicazione è particolarmente
disorientante e dannosa per chi ne è esposto, avendo come effetto sul
comportamento una paralisi.
Facciamo alcuni esempi tratti dalle lezioni di Watzlawich.
Secondo un’antica storia il diavolo una volta mise in dubbio l’onnipotenza
di Dio chiedendogli di creare una roccia tanto enorme che neppure Dio
stesso avrebbe potuto sollevarla.
Cosa doveva fare il Signore? Se non riusciva a sollevare la roccia, non
era onnipotente; se riusciva a sollevarla, era incapace di crearla
abbastanza grande.
Tale comunicazione del diavolo conteneva appunto un doppio legame.
Chiariamo con un ulteriore esempio.
Si racconta che Karl Popper mandò scherzosamente una lettera ad un
suo amico con il seguente messaggio:
Caro M.G.,
ti prego di rispedirmi questa cartolina, abbi però cura di scrivere “si”, o
qualunque altro segno di tua scelta, nel rettangolo vuoto a sinistra della
mia firma se, e soltanto se, ritieni di poter legittimamente predire che io,
quando riceverò la cartolina di ritorno, troverò questo spazio ancora
vuoto.
Cordialmente K. Popper
Immagino il disagio e il disorientamento del lettore che avrà forse letto
per due volte il messaggio per poi smascherarne il paradosso e
l’impossibilità di azione.
Ma tale operazione di smascheramento non è sempre così facile e
tuttavia il doppio legame esercita su di noi e sugli altri il proprio ruolo
paralizzante e disorientante in special modo quando non codificato come
tale.
Si tratta di un paradosso e di una paralisi simile a quella dell’insegnante
che è chiamato a svolgere compiti educativi ma è spesso invitato
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contemporaneamente, da genitori o dirigenti scolastici ad attenersi ai
“soli” aspetti didattici.
Nella stessa situazione sclerotizzante si trova l’alunno al quale è detto
che per imparare è normale sbagliare ma la cui relazione con
l’insegnante gli dovesse testimoniare puntualmente il contrario.
Veniamo al terzo assioma.
3)La natura della relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di
comunicazione tra i comunicanti.
Ovverosia la natura della relazione dipende dal punto di vista dal quale la
guardo.
Anche per spiegare tale assioma sarà utile il ricorso a qualche aneddoto.
Una barzelletta in voga tra gli studenti di psicologia racconta di alcuni
scienziati che a cena si complimentano tra loro per la competenza con
cui sono riusciti ad indurre in ratti di laboratorio alcuni comportamenti
condizionati dalla ricompensa.
Dal canto loro anche i topini a cena raccontano ad altri colleghi topi:
“Avete visto come abbiamo addestrato bene gli scienziati? Noi premiamo
la leva e loro ci danno da mangiare”.
Chi ha ragione se non entrambi gli interlocutori coinvolti nella storiella.
A ben vedere si tratta di una barzelletta talvolta purtroppo esportabile ad
alcune relazioni disfunzionali del contesto scolastico.
Non certo tuttavia a quelle che prevedono un potere reciproco ed una
autodeterminazione attraverso un progressivo allargamento dello spazio
d’azione degli alunni piuttosto che un loro restringimento.
Ciò non è di poco conto. In una relazione centrata sul contatto il
problema non è come motivare gli alunni ma come trovare la loro
motivazione.
Come in sostanza far sì che l’apprendimento sia centrato sullo schema di
sé dell’interlocutore ed abbia pertanto un significato personale.
Gli studi sull’apprendimento evidenziano come una delle forme più
potenti di rappresentazione delle conoscenze è il sé.
Tale dato, noto ormai fin dall’inizio degli anni settanta, è stato
riconfermato in numerose ricerche anche in tempi recenti.
Ciò che questi studi hanno dimostrato è che la stessa informazione viene
appresa, conservata in memoria e poi recuperata in modo più profondo
ed accurato (e quindi più efficacemente) quando chi apprende associa
l’informazione a sé.
Il quarto assioma individua due macro modalità comunicative.
4)Gli esseri umani comunicano sia con il modulo digitale che con quello
analogico.
Per modulo digitale o numerico, intendiamo un sistema di segni
arbitrario, come parole e numeri, per modulo analogico facciamo
riferimento alla comunicazione non verbale la cui codifica ed espressione
ha sede principalmente nell’emisfero destro.
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L’ascolto ed una migliore padronanza della comunicazione non verbale,
la conoscenza dei segnali di attivazione emozionale piacevoli e
spiacevoli, possono essere ulteriori potenziali mezzi di avvicinamento e
contatto dell’educatore con gli utenti.
Per comunicazione non verbale intendiamo sia quella statica (scultura
corporea) che quella dinamica: mimica facciale, gesti e movimenti,
prossemica, extralinguistica (toni, pause, ritmi, ecc.).
Tuttavia un’approfondita disamina dei singoli aspetti non è possibile in
questa sede.
L’ultimo assioma esplicita alcune posizioni che possono caratterizzare la
relazione comunicativa.
5)Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a
seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza
Perché ci sia una buona comunicazione si deve essere alternativamente
trasmettitori o riceventi. Una posizione di questo tipo è definita
complementare. Si pensi invece ad una discussione in cui ciascun
interlocutore vuol convincere l’altro di avere ragione; in questa caso
avremo evidentemente due posizioni simmetriche.
Sono altresì simmetriche le posizioni di quei genitori, educatori od
insegnanti che si propongono di essere “amici” di figli o allievi piuttosto
che accompagnarli in una progressiva assunzione di responsabilità
guidata da un contatto con se stessi, il proprio ruolo ed il proprio
interlocutore.
Gli studi sulla pragmatica della comunicazione, cui si è qui accennato,
possono costituire dunque una sorta di falsa riga entro cui approfondire
la relazione educativa.
Possedere una dimestichezza al contatto con se stessi e con gli altri,
entro uno spazio di vicinanza e non di simbiosi, consente all’educatore di
ascoltare l’energia
corporea,
emotiva,
spirituale e cognitiva,
dell’interlocutore in quanto altro da sé; sarà quest’ultimo a poter così
trovare la sua “forma”, la propria gestalt.
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Riferimenti bibliografici
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