Sergio Motolese - La Libertà

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Sergio Motolese - La Libertà
COLLANA “I LUOGHI COMUNI”
Riflessioni e spunti per allenare il pensare
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LA MIA LIBERTA’ FINISCE
DOVE INIZIA LA TUA
Il primo luogo comune su cui vorrei riflettere concerne proprio la libertà.
Tutti conosciamo questa frase e nelle intenzioni di Voltaire, che per primo la pronunciò,
vi era una idea di tolleranza, che lui espresse forse meglio nell’altra frase, ancor più
famosa: “non sono d’accordo con quello che dite, ma mi batterò fino alla morte affinché
possiate dirlo”.
Martin Luther King riprese questa frase sulla libertà nei suoi discorsi, ed è a quest’ultimo
che mi riferirò, in quanto le sue necessità stringenti, la sua realtà più concreta, è per noi
più attuale.
Poiché tutti stimiamo sia Voltaire che M.L. King, questa frase è divenuta uno dei luoghi
comuni più difficili da superare.
Il termine superare (meglio ancora sarebbe ampliare) non è usato a sproposito; non si
tratta infatti di cancellare, abolire e neppure denigrare stigmatizzare o criticare per il
gusto di fare esercizio intellettuale, quanto di usare il pensare e il sentire del cuore per
comprendere che ogni volta che un qualunque concetto viene assolutizzato o usato
unilateralmente esso viene imbalsamato, diventa pensiero morto, dogma, non più in
grado di essere utile all’evoluzione umana.
La cultura dominante, che privilegia la materia, la quantità, il denaro, il potere, è
costruita in gran parte su pensieri morti, resi assoluti e definitivi, freddi, non più in
grado di comunicare all’anima umana aneliti e ideali, i quali vengono sostituiti da
“emozioni” artificiali, effimere, da fruire passivamente magari davanti ad un piccolo
schermo.
Il gran numero di persone che cadono in depressione mi sembra già sufficiente a
dimostrare che l’anima umana anela a qualcosa di più appagante.
Tutto è pensato e sentito come statico, non soggetto ad evoluzione viva, ed anche il
concetto di libertà non fa eccezione.
Non c’è uomo politico, economista, docente universitario, giornalista, intellettuale,
cardinale, che non faccia uso e abuso della parola libertà, dando per scontato che si
sappia cosa sia.
Fa allora comodo a tutti costoro fare riferimento alla frase di Martin Luther King,
pietrificarla, santificarla e renderla luogo comune, quasi dogma, assioma che non occorre
dimostrare.
Cominciamo col riflettere sul fatto che quello esposto è un pensiero sulla libertà di un
uomo che vive in un Paese, (che si autodefinisce il più libero del mondo), nel quale alcuni
uomini non sono liberi di usare i mezzi pubblici, i locali, le scuole usati da quelli con la
pelle chiara; un paese nel quale, a fronte delle risorse a disposizione (il Paese più ricco
del mondo) una parte di popolazione quella con la pelle nera, vive nell’indigenza,
discriminata e sfruttata; ed altro ancora che tutti conosciamo.
Ebbene, di fronte ad una situazione del genere è naturale che il primo pensiero che si
può fare sulla libertà sia quello di “parità di diritti e di doveri”; vivo in un mondo che mi
discrimina, mi batto per avere lo stesso trattamento riservato agli altri.
In quella situazione esso rappresenta un ideale, e la prova che fosse un ideale avanzato è
inscritta nella pallottola che uccide Martin Luther King.
E allora? Se era un grande ideale, si dirà, qual è il punto?
Proviamo a dare una prima risposta.
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La manipolazione non è insita nelle intenzioni di chi ha pronunciato la frase ma nelle
intenzioni di chi vuol rendere questo pensiero definitivo, statico, bloccato, non
suscettibile di ulteriori ampliamenti, ritenuti impossibili.
Ecco allora che una frase, pur mirabile e condivisibile in “quella” realtà, in “quel” Paese,
in “quegli” anni, diventa luogo comune.
Il pericolo soprattutto è quello di accettare il concetto di limite attribuito alla libertà;
dire che la mia libertà finisce dove inizia la tua presuppone che ci sia una autorità
esterna (Stato, Chiesa, ecc..) che si renda garante di far rispettare questo limite, che
ponga questa barriera tra la mia e la tua libertà, affermando una “giusta divisione” della
libertà stessa, quasi fosse una torta da spartire.
Ovvero, la mia e la tua libertà sono entrambe quantitativamente limitate da un
potere esterno, sia a me che a te.
E’ questo un concetto di libertà molto antico, possiamo dire proprio da “Antico
Testamento”, dove l’uomo, ancora fanciullo nella sua evoluzione, necessitava di regole
esterne in tutto e per tutto. Peraltro in quel tempo le autorità esterne erano realmente
ispirate dalla divinità, e l’ispirazione era sempre creativa ed efficace; basti pensare, ad
esempio, a come se la sbriga il re Salomone nel contenzioso tra le due madri che
reclamano il bambino.
Quelli che oggi possiamo definire “poteri esterni”, politici, ma anche economici ed
ecclesiastici, sono una pallida ombra, per usare un termine leggero e gentile, di quelli di
allora; più che “ispirati” diremmo “aspiranti” a dominare le coscienze.
Sono proprio questi poteri esterni, d’altronde, che avevano stabilito “quelle” leggi e
“quelle” limitazioni per i neri americani; anzi, paradossalmente, se interpellati avrebbero
potuto rispondere manipolando il pensiero di Martin Luther King. Ovvero: la tua libertà
di nero di andare a scuola, di prendere il mio stesso tram ecc., finisce dove inizia la mia
di uomo bianco di avere scuole e tram riservati.
Come si può constatare, si potrebbe andare avanti all’infinito senza risolvere il problema,
con richieste, proteste, lotte, rivendicazioni e repressioni.
Proviamo allora a dare una seconda risposta al quesito di dove risieda l’inganno.
Quello espresso da Martin Luther King è un concetto di libertà riferito a quelle che
possiamo definire le “condizioni necessarie” affinché la libertà stessa possa realmente
esplicarsi.
In altre parole, non si deve confondere “l’esercizio” della libertà usufruibile da ogni
individuo, con quelle che sono le condizioni sociali “necessarie” senza le quali non è
possibile esplicare questo esercizio.
Quindi la libertà di avere una vita dignitosa, di avere cibo, istruzione, assistenza, mezzi
di trasporto, ecc. è un primo concetto di libertà, che può essere più propriamente definito
“propedeutico” alla esplicazione della libertà individuale, primo concetto essenziale
perché senza i mezzi non posso realizzare il fine.
E’ pur vero che questo è il concetto più comune che abbiamo della libertà, più rivolto alla
materia, non per questo disprezzabile, anzi “necessario”, appunto e meno rivolto
all’individuo in quanto tale.
Soprattutto, non è l’unico concetto di libertà, poiché l’uomo non è solo materia.
Anche la libertà di parola, di esprimere opinioni, ecc. tutte molto importanti, prevedono
comunque una autorità esterna che detta le regole, e ricadiamo in quanto detto sopra.
Proviamo allora a fare una proposta di ampliamento del concetto di libertà, rispetto a
quello comunemente accettato, premettendo che anch’esso è da intendersi “in divenire”,
senza quindi che diventi luogo comune:
LA MIA LIBERTA’ E’ INFINITA
LA TUA LIBERTA’ E’ INFINITA
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E’ evidente che in questa frase il concetto di libertà è più ampio, non per il fatto di
intenderla infinita, non è una questione spaziale o temporale, ma cambia la qualità della
libertà.
Quella qui intesa è la libertà di creare, ed è una libertà che abbiamo tutti, una volta che
le condizioni “necessarie” , le condizioni che possiamo definire di natura, sociali, vengono
superate.
Cosa significa creare? Significa usare la propria capacità di pensare, andando al di là
dell’usuale, del consueto, del già conosciuto; significa un pensare vivo, che non si pone
limiti, un pensare anche staccato dalle necessità materiali, significa non confondere il
“pensare”, che è attività spirituale creativa, e come tale in continuo divenire, con
il “pensiero” prodotto dell’attività del pensare, e come tale già cadavere.
Il pensare è un processo continuo, l’unico che man mano che riesce a liberarsi dalla
“pesantezza” dei pensieri morti, anzitutto dei luoghi comuni, dalle mode, credenze, dalla
pubblicità, dai pensieri dei poteri esterni, dal “già pensato” insomma, è l’unico processo
in cui abbiamo la libertà di esprimerci creativamente.
Di questo hanno paura tutti i poteri costituiti poiché sanno che con l’aumentare della
capacità degli individui di usare un pensare vivo e creativo diminuisce la loro possibilità
di controllo e si delinea la loro progressiva scomparsa.
Creare non è e non può essere esclusiva degli “artisti”, i creatori “ufficiali”.
Creare sempre il nuovo è lo scopo dell’esistenza umana.
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Cerco ora di rispondere alle obiezioni più comuni che possono essere fatte al concetto di
“libertà infinita”, e così facendo implicitamente risponderò ad altri luoghi comuni.
Prima obiezione
E’ una utopia, irrealizzabile nel nostro mondo.
Col termine utopia definiamo in genere tutto ciò che riteniamo illusorio, impossibile da
realizzare nella vita pratica. Non intendo sostenere che la vita pratica non abbia valore,
anzi; dico che qualunque realizzazione della vita pratica è preceduta da una “idea”, la
quale è stata sovente considerata utopistica la prima volta che è stata espressa.
Restando sempre nell’ambito del mondo concreto, quanti pensavano che un aereo
potesse reggersi in volo prima di averlo visto? Oppure, quanti all’uscita della prima
scheda perforata potevano immaginare il nostro personal portatile?
I nostri pensieri sono limitati al fatto che ciò che ci sembra possibile e che constatiamo
poi realmente esserlo nella realtà materiale, ci sembra invece impossibile a livello di
concetto, di idea; siamo talmente immersi nel quotidiano che abbiamo perso proprio il
concetto stesso che l’idea è una realizzazione in potenza.
E dunque, come si può realizzare una idea come quella espressa sulla libertà infinita?
La risposta è: passo dopo passo. Ma prima, bisogna pensare che la sua realizzazione sia
possibile e che essa avverrà in parallelo alla coscienza umana che si evolve, man mano
che la moralità dell’individuo avrà sempre meno bisogno di autorità esterne sanzionanti.
E’ un processo, e il fatto che sia lento non ci può autorizzare a ritenerlo impossibile.
Il punto di svolta oggi è quello di liberare la capacità e la potenzialità del pensare,
dell’ideare, del creare il nuovo in tutti i campi della vita, a partire dai piccoli gesti
quotidiani.
Una buona quantità di pensieri morti, per fare un esempio, li ascoltiamo affermati e
riaffermati da parecchi mesi in ordine alla cosiddetta “crisi economica”. Le “ricette” per il
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suo superamento sono le stesse che l’hanno determinata, e sono proposte dalle stesse
persone, dagli stessi potentati economici che l’hanno causata.
Quali fondamenti, anche solo di logica comune, (altro che pensiero vivo e creativo...) ha
un pensiero che ritiene ancora possibile immaginare una crescita economica infinita in
un mondo “finito”? E sarebbe il pensiero di libertà infinita ad essere utopistico?
Ciò che è davvero infinita è la quantità di luoghi comuni accettati passivamente quelli
sbandierati dagli “esperti”: “se diminuisce il PIL aumenta la povertà”, “il prodotto più
conveniente è quello che costa meno”, “la concorrenza è utile” ecc. ecc. Analizzarli ora ci
porterebbe lontano.
Il lato positivo è che tutto ciò è una buona palestra in cui esercitare la “libertà infinita”,
anche solo di destinazione delle proprie spese.
Se pensiamo che un mondo senza leggi emanate da poteri esterni sia impossibile anche
in futuro significa che abbiamo poca fiducia nell’umano, ma soprattutto in noi stessi.
Se preferiamo la vita comoda, il già conosciuto, il già pensato abbiamo solo l’imbarazzo
della scelta; il mondo è pieno di venditori di certezze, dal Papa sino alla ragazza del call
center che ci disturba al telefono. Smettiamo però di lamentarci.
Nel nostro Paese si contano milioni di leggi e regolamenti, una proliferazione
schizofrenica, paragonabile proprio alle teorie economiche di cui sopra.
Se ad esempio oggi avvengono dieci stupri, si fa subito una legge per affrontare la
cosiddetta “emergenza stupri”, senza preoccuparsi di conoscere ed eliminare le cause che
li determinano; e così per l’emergenza caldo, freddo, influenza ecc. Schizofrenia poggiata
sull’illusione che basti reprimere per risolvere i problemi.
Si inventano (o si provocano...) continue emergenze, l’informazione “libera” si incarica di
drammatizzarle a sufficienza, e si sforna l’ennesima legge che non risolverà il problema,
come non l’hanno risolto le leggi precedenti, ma che ottiene il risultato di renderci più
controllabili.
In realtà potrebbero oggi bastare poche leggi.
Si dirà che questa è un’ulteriore utopia in quanto la vita è complessa e occorrono regole
sempre più specifiche e articolate.
Non si riflette sul fatto che proprio il proliferare stesso delle leggi, la loro contradditorietà,
la loro applicazione discrezionale da parte dei poteri esterni sono essi stessi causa in
larga misura del caos che pretenderebbero di risolvere; in maniera del tutto analoga si
agisce con il proliferare delle medicine chimiche, le quali a loro volta provocano malattie
per la cui soluzione occorrono medicine sempre più potenti, in una spirale senza fine.
Possiamo allora imparare a smettere di costruire armi anche se il mercato “tira”, a non
inquinare anche se non ci fosse una sanzione, a non uccidere anche senza la prigione.
Ma come fare? La risposta è ancora passo dopo passo, a condizione che la “presa” dei
poteri esterni diminuisca progressivamente, e l’unico modo per cui ciò possa avvenire è
che aumenti la nostra capacità di pensare e agire creativamente e moralmente.
Se riflettiamo su queste cose con una certa attenzione possiamo forse pensare che non è
utopistico immaginare un Parlamento che ogni giorno, anziché emanarne di nuove,
abolisca progressivamente le leggi esistenti, cominciando da quelle inutili e proseguendo
con quelle contraddittorie per giungere a quelle che creano privilegi di casta e che
dettano regole morali.
Alla fine rimarrebbero quelle poche che hanno davvero una utilità generale, quelle che
consentono le “condizioni necessarie” per l’esplicazione della libertà dell’individuo, di tutti
gli individui.
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Seconda obiezione:
Vivremmo in un perenne caos dove ognuno vorrebbe sopraffare gli altri.
Questa obiezione deriva dalla paura che il più forte prevarichi il più debole, paura più
che legittima. Ma se osserviamo il mondo attuale più attentamente scopriamo che sono
proprio i poteri esterni ad avere interesse a creare disuguaglianze, paradisi fiscali,
privilegi, ingiustizie sociali, proprio per mantenere le paure e giustificare la loro presenza.
Si pensi a quanti privilegi ha un parlamentare, un ministro, cioè proprio coloro che
dettano le regole.
E’ vero però che tutto ciò non sarebbe ancora sufficiente a sostenere la tesi, poiché
occorre dimostrare che con l’affermazione della libertà infinita il caos non solo non
aumenterebbe ma in prospettiva dovrebbe diminuire.
Pensiamo allora a cosa accade a noi dalla nascita all’età adulta.
Il neonato è totalmente dipendente dal mondo esterno, anzitutto per le necessità vitali;
man mano che cresce gli diamo regole, istruzioni, e divieti; poi sopraggiunge la pubertà e
il figlio comincia a reclamare spazi e autonomia propri, e sempre più se li guadagna man
mano che comprende e si assume la responsabilità delle proprie azioni e decisioni, sino
all’età adulta.
La domanda va allora formulata in altro modo: L’umanità attuale è bambina, adolescente
o adulta? Dalla risposta deriva il comportamento da tenere.
Credo si possa convenire sul fatto che l’umanità non è più bambina. Tutti reclamiamo
una generica libertà, ma non tutti siamo disposti ad assumerci la responsabilità morale
che ne consegue; siamo come l’adolescente che reclama e protesta ma continua volentieri
a dipendere dal genitore; ma anche il genitore continua ad imporre le stesse regole ad
una umanità che sta crescendo.
Se l’umanità non è adulta in senso pieno, certamente è sulla via di diventarlo ed i
poteri esterni, come molti genitori, temono che questo avvenga.
Affermare dunque che la libertà è potenzialmente infinita per tutti può ottenere almeno
due risultati: responsabilizza ciascuno e toglie al genitore-Stato-Chiesa-Poteri Economiciecc. sempre più potere di interferenza.
Se ci abituiamo a pensare a questo continuo divenire evolutivo, la paura del caos
comincia a diminuire. Tutti siamo stati neonati, adolescenti, adulti.
Terza obiezione
Ma che libertà è quella di pensare? Aria fritta, non aderente alla realtà vera
Per rispondere a questa obiezione dobbiamo anzitutto avere chiaro il concetto di realtà;
ma per fare ciò dobbiamo ricorrere al pensare stesso, e già questa semplice
constatazione ci comunica che è proprio il pensare alla base di ciò che definiamo realtà.
Se vedo una casa devo pensare che prima esisteva il progetto, e prima ancora l’idea, la
volontà di costruire quella casa; tutte cose “immateriali”.
La quantità di luoghi comuni e credenze entrate definitivamente nella nostra coscienza
ha reso la nostra capacità di pensare talmente povera da ridurci a credere che esista solo
ciò che si vede e si tocca, e che tutto il resto siano “solo” pensieri, illusioni.
E’ questo il dogma principale del materialismo, avere fede solo nella materia. Un
esempio.
La metropolitana di Torino corre “senza autista”, teleguidata da una centrale. Se i
viaggiatori perdessero nel corso del tempo il concetto stesso ed il ricordo della centrale
operativa potrebbero pensare che essa si muova motu proprio.
L’esempio è grossolano ma può dare una vaga idea di come oggi l’umanità considera la
realtà. Si pensa che la “causa” sia insita nella materia stessa e non che l’idea, dunque il
pensare vivo e creativo sia alla base; non si riflette sul fatto che la realtà materiale non è
altro che una quantità di pensieri cristallizzati. Senza il pensare non c’è realtà.
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Quarta obiezione
L’uomo è pur sempre un animale, seppure superiore, e se non ci fossero limiti
all’utilizzo della libertà prevarrebbe sempre il più forte, come nella jungla.
Con questa obiezione tocchiamo quella che possiamo definire “la madre” di tutti i luoghi
comuni. Nel bi-centenario della nascita di Darwin possiamo cominciare a rendergli
davvero onore facendo chiarezza sui concetti di animale e di uomo.
A Darwin va dato atto di aver operato, per così dire, “sul campo”, ovvero attraverso le
percezioni e osservazioni della natura, a differenza dei nostri attuali scienziati che si
illudono di trovare la spiegazione del mistero della vita chiusi nei laboratori, attorniati da
strumentazioni elettroniche.
Darwin ha tratto la sua teoria evoluzionistica osservando la natura, ma la domanda da
porsi prima è: l’uomo è un essere completamente di natura? Ovvero, l’uomo è soggetto
alle stesse leggi deterministiche che vigono in natura per i regni “inferiori”? O gli è anche
possibile andare al di là di esse, esercitando la sua libertà?
L’errore che si commette nel rispondere a queste domande è solitamente quello di
considerare solo ciò che l’uomo ha in comune col regno animale e non ciò che lui solo
ha.
Se osserviamo la natura, possiamo scoprire con una certa facilità che in essa vige il
determinismo più assoluto; ogni cosa è inscritta in regole e leggi che sono state “pensate”
(ancora il pensare....) per ottenere un risultato armonico. Se il leone sbrana il cerbiatto
non possiamo attribuire a questa azione qualità morali giudicandolo assassino, in
quanto non ha la “libertà” di scegliere.
Se l’uomo fosse assimilabile al regno animale sarebbe ben inferiore in quanto egli,
potendo scegliere, ha la responsabilità morale delle sue azioni e ogni volta che si
comporta, appunto, da animale non ha scusanti.
L’uomo ha in comune con l’animale la capacità di provare sensazioni, piacere, dolore,
brame, istinti, ma a differenza di esso può sempre scegliere come comportarsi nei singoli
casi, cosa che il leone non può fare.
L’uomo però si differenzia dall’animale per almeno tre importanti motivi:
la posizione eretta, che gli consente di alzare lo sguardo verso il sole, verso il cielo
(l’animale ha lo sguardo rivolto in basso)
la parola, che gli consente di esprimere le sensazioni e soprattutto di comunicare i
suoi pensieri
il pensare, appunto, che lo qualifica come unico essere autocosciente, in grado di
dire “io sono io”.
Possiamo aggiungere che l’uomo ha in comune molte cose anche con gli altri due regni
della natura; col regno vegetale condivide la vita, cioè si nutre, cresce e si riproduce;
inoltre incorpora i minerali che ne formano il corpo fisico.
Ma come non penseremmo di definirci vegetali o minerali “superiori”, non si comprende
perchè dovremmo continuare a definirci animali superiori; e del resto non definiremmo
neppure l’animale un vegetale superiore.
L’uomo, per certi versi, non è un essere completamente “di natura”, anzi si contrappone
ad essa, nel senso che quando la natura esterna entra nell’uomo si ha la malattia e
quando essa ottiene il sopravvento si ha la morte con la quale il corpo fisico (e solo
esso...) “torna” alla natura.
L’equilibrio sta proprio in questa pendolarità in cui vive l’uomo, tra natura, con le sue
leggi fisse e cicli ripetitivi, e “natura umana”, che può scegliere, che ha la libertà
potenziale di differenziarsi, di portare se stesso ed i regni “inferiori” ad un livello più alto.
Si può obiettare che l’uomo è attualmente ancora un distruttore della natura.
La risposta è: man mano che l’uomo acquista coscienza che la sua potenziale libertà è
illimitata ma inscindibilmente legata alla moralità delle sue azioni individuali, può
divenire ciò che è destinato ad essere. Un essere creatore.
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Quinta obiezione
Il concetto di infinito evoca l’angoscia che si prova rispetto al senso di “finitezza”
della vita nella materia, e la “libertà infinita” è dunque anch’essa
incommensurabile, non definibile nel nostro mondo
Questa obiezione, peraltro molto raffinata, mi è stata posta da una persona, a differenza
delle altre obiezioni che ho usato come escamotage per ampliare la tesi, oltre che per
cercare di interpretare le obiezioni più comuni alla tesi stessa.
Dovendo trovare un termine che superasse il concetto di “limite” della libertà ho scelto
l’infinito come immagine evocativa; potrei usare altri termini: illimitata, senza frontiere
ecc., tutti meno efficace per superare ciò che sempre ci è stato inculcato.
Pensare in chiave materialistica significa anche, tra le altre cose, limitarsi alla oggettiva
“finitezza” del mondo della materia e cercare le cause dei fenomeni al suo interno, anche
in campi in cui ciò non risulta essere adeguato o possibile.
Ad esempio, concepire l’amore, la compassione, la libertà come concetti “finiti” ha senso
solo se pensiamo che nulla esiste oltre e al di là della materia; il cervello non secerne idee
e pensieri come lo stomaco i succhi gastrici o la cistifellea la bile, ma li “riflette”,
appunto, (la lingua usa proprio riflettere nel senso di pensare!) come uno specchio, e
dunque da dove giungono?
Ma c’è di più.
Anche chi ammette che le cause dei fenomeni del mondo sensibile possano trovarsi al di
fuori di esso, cioè nel mondo spirituale, può nondimeno sentirsi limitato e rassegnarsi a
ritenere quest’ultimo “inconoscibile”, secondo il pensiero di Kant, il grande filosofo
tedesco.
Se dico che il mondo spirituale è “sconosciuto” ai nostri sensi può scaturire l’anelito a
conoscerlo; se dico che è “inconoscibile” mi destino a provare quell’angoscia descritta
sopra.
Ciò che non si conosce ancora può far scaturire l’anelito alla conoscenza, ciò che si
ritiene impossibile conoscere non può che generare rassegnazione o angoscia
esistenziale, perché oltre a non aver risposte alle domande più profonde sull’esistenza
umana, si perde la speranza di trovarle.
Il concetto di infinito, per come qui ho inteso usarlo, intende proprio stimolare il
desiderio di andare oltre il già conosciuto, per quanto ampio esso sia ritenuto.
Sia il materialista, che si ferma alla “finitezza” del mondo dei cinque sensi, sia l’agnostico
che pensa di risolvere il dilemma astenendosi da l formarsi una opinione, sia chi ha
semplicemente “fede” in un altro mondo, tutti costoro possono ritenersi esonerati dalla
ricerca.
A questo punto, il realista può obiettare che poiché viviamo in una società complessa la
libertà infinita, al di là di ogni ragionamento, è impraticabile.
IL “passo dopo passo” che ho più volte proposto indica un processo, non un punto di
arrivo, ed è questo l’importante.
E’ diverso il mio atteggiamento interiore ed è diversa la realtà che ne consegue con le mie
azioni, se penso sia possibile ampliare la mia libertà “verso” l’infinito, o se reputo la cosa
impossibile, inconoscibile.
Rischiamo persino di non vedere o di sottovalutare ciò in cui siamo realmente e
sicuramente liberi, già da ora, cioè nel nostro pensare.
Ognuno di noi ha la libertà di pensieri all’infinito e credo di aver già dimostrato in
precedenza che quella che definiamo “realtà” altro non è se non pensieri materializzati, a
cominciare dalla natura che ci circonda, che possiamo considerare i pensieri divini
materializzati.
Altrimenti non ci resta che accontentarci di pensare al “caso”, concetto ben più astratto
di quello di infinito.
Eppure la scienza spiega la nascita dell’Universo con una eccezionale “superstizione”; la
teoria del big bang, ovvero un attimo prima il nulla, poi l’universo che per caso contiene
tutte le sue leggi, pronte e impacchettate.
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Possiamo osservare e partire dalla materia per intuire l’esistenza di un mondo spirituale
e cercare di conoscerlo cominciando dall’ampliamento del pensare, senza porci limiti,
funzionali questi solo a chi ci vuole controllati e controllabili.
E’ questa la libertà infinita.
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In conclusione, la “costellazione” dei luoghi comuni è tale che si può cominciare a
sbrogliare la matassa da qualunque punto, e man mano che ci si avvicinerà al centro, la
nostra capacità di pensare creativamente sarà aumentata.
Si potrà obiettare che questo processo è talmente ambizioso che una vita sola non basta
per realizzarlo. E’ vero, ma chi pensa questo deve anche considerare che ”si vive una
volta sola” è un ennesimo luogo comune, forse impegnativo da superare, che
affronteremo nella seconda puntata di questa collana.
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