Il pensiero della bellezza 8 La prima parola di Dio (il creatore) fu

Transcript

Il pensiero della bellezza 8 La prima parola di Dio (il creatore) fu
Il pensiero della bellezza 8
La prima parola di Dio (il creatore) fu “fiat lux” (Genesi). La luce è dunque il seme
originario della creazione. Lo stesso termine “dio” ha in comune la sua radice con “dies”
(dì, giorno) l’avvento della luce nella tenebra notturna.
“Ritengo che la forma prima corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce. La luce
infatti per sua natura si propaga in ogni direzione, così che dal punto luminoso si genera
istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti, a meno che non si frapponga un
corpo opaco (…) Ora io ho indicato nella luce ciò che ha per natura questa capacità, cioè di
moltiplicare se stessa e di propagarsi istantaneamente in ogni direzione. Quindi qualunque
cosa produce questo effetto o è la luce o oppure la produce in quanto partecipe della
natura della luce, la quale agisce in tal modo per propria virtù ” (Roberto Grossatesta “La
Luce” in “Metafisica della luce” Rusconi, Milano 1986 p. 113).
La luce è l’elemento generatore perché spontaneamente si sparge in ogni direzione e
questa moltiplicazione tendenzialmente infinita, che non incontra limite è il puro
generarsi.
“La luce, dunque, che è la prima forma nella materia prima creata, moltiplicandosi da se
stessa per ogni dove in un processo senza fine ed estendendosi in ugual misura in ogni
direzione, al principio del tempo si diffondeva traendo con sé la materia in una quantità
grande quanto la struttura dell’universo” (ivi. p. 114)
La luce è dunque la forma pura, qualità: l’espansione all’infinito dell’infinito. Ma come si
passa dalla qualità infinita alla quantità (ovvero dall’uno al molteplice)? Dopo che si
moltiplica infinite volte l’espansione infinita della luce - dice Grossatesta- si produce la
quantità, che sta alla pari con la semplicità perché infinita. Ma l’infinito della quantità
non può “oltrepassare” – cioè staccarsi - dall’infinito della qualità. Bisogna che passi per
la finitezza che diventi un “finito infinito” (quale è il numero):
“Ciò che è semplice non può essere oltrepassato a sua volta da ciò che è semplice (…)
infatti il “quanto” finito moltiplicato infinite volte oltrepassa infinitamente ciò che è
semplice” (Grossatesta, ibidem)
La semplicità (qualità) della luce nella sua infinità non può essere oltrepassata da
un’altra semplicità (qualità). La semplicità dell’espansione della luce non è
“oltrepassata” nemmeno se si ripete infinite volte. La quantità “supera” la qualità solo se
si è distinta da essa divenendo finita: finitezza infinita. Se una quantità finita è ripetuta
infinite volte. Perché solo come quantità finita d’infiniti la quantità è davvero differente
e non riassorbibile nella qualità infinita. La finitezza della quantità rene effettivo il suo
distacco dalla qualità, della materia dalla luce. La luce nella sua semplicità dinamica è il
principio di generazione:
“necessariamente, quindi, la luce, che in sé è semplice, mediante un processo di
moltiplicazione infinita, fa sì che la materia, a sua volta semplice, acquisti dimensioni di
una grandezza finita” (Grossatesta, ibidem)
La sua mirabile semplicità attiva è la sua claritas (“cl” - la radice che indica la forza
“richiamante l’attenzione” della cosa bella). La forza generatrice della semplicità (la
potenza) e la sua natura sorprendente – richiamante, è colta nell’immedesimazione con
essa dell’intuizione mistica, la quale però giungerà - per contrasto - fino all’intuizione
della tenebra originaria:
“l’anima ha un ingresso segreto nella natura divina, in cui tutte le cose non sono
più nulla per essa. Sulla terra, questo ingresso non è altro che il puro distacco: E
quando il distacco giunge al culmine, è reso dalla conoscenza non più conoscente,
dall’amore non amante, dalla luce tenebroso” (Meister Eckhart, n. 1260 – m. 1338:
“Dell’uomo nobile” Adelphi, Milano 1999 p. 143)
Alberto Madricardo – Il pensiero della bellezza 2016-2017
1di 1
Eckhart cita Dionigi: “Meglio parla di Dio chi può mantenere il più totale silenzio su di
lui, per l’abbondanza della ricchezza interiore”
La teologia negativa o mistica che toglie ogni possibilità di rappresentazione al divino,
per un contatto diretto, senza il velo di alcuna immagine, con esso. Se un’immagine ci
deve essere, p4rché lo richiede la nostra abitudine a rappresentarci le cose, questa va
ritrovata nella luce, nella sua semplicità – potenza, più ancora che nella contemplazione
del concerto (pluralità infinita, ordine), per esempio nell’ordine del firmamento.
I filosofi della Scolastica esprimono propensioni diverse, più inclini alla mistica o al
razionalismo. Per S. Tommaso d’Aquino bello è ciò che è dotato di perfezione (integritas
sive perfectio) - che corrisponde alla semplicità dei mistici - mentre l’armonia (debita
proportio sive consonantia) si richiama direttamene alla concezione razionalistica
classica del bello come ordine. La “luminosità che richiama” (claritas) è l’elemento
comune sia a ciò che è semplice, sia a quello che è ordinato: la potenza e l’armonia
(l’ordine), unità e pluralità.
Le cattedrali gotiche rompono con l’ideale di bellezza classica (e perciò il loro stile è
chiamato “gotico”, cioè barbaro), sono costruite in funzione delle infinite declinazioni
della luce e della sua scomposizione in colori e giochi prodotti dalle finestre e rosoni. Lo
stile gotico esprime l’impulso ascetico della mistica. Attraverso questa esperienza
millenaria di distacco dal mondo, la civiltà occidentale rinasce dal senso di vecchiaia e
decrepitezza che aveva oppresso la tarda antichità.
Accanto e a complemento dell’approccio mistico filosofico, la sensibilità popolare
medievale è attratta dal miracoloso, dal fantastico dal favoloso, dallo strano, dal
meraviglioso, dal chimerico e mostruoso. Si tratta di un mutamento della sensibilità che
era già in corso nell’antichità (vedi, per esempio, i “Racconti meravigliosi” attribuiti ad
Aristotele o le moltissime versioni del “Roman d'Alexandre”, i racconti, iniziati in epoca
ellenistica, delle avventure di Alessandro in Oriente) connesso almeno in parte con il
mutamento della percezione di uno spazio non più abitato dalla presenza di dei, quindi
più sensibile alla non presenza, alla lontananza. Una lontananza che si pare davanti
all’uomo ardito, ricercatore – esploratore (come l’Ulisse dantesco)e al suo agire, ma nel
quale, allo stesso tempo, il Dio metafisico può intervenire miracolosamente in ogni
momento.
Le narrazioni dei viaggiatori che si spingono lontano verso oriente sono piene di
sorprese, di esseri strani. Ma la sensibilità medievale è molto attratta anche dal brutto o
dal mostruoso, connesso in genere con il male. Gli stessi che spesso vengono
rappresentati nelle sculture delle cattedrali gotiche.
Come scrive Umberto Eco:
“Nella Summa attribuita ad Alessandro di Hales l’universo creato è un tutto che va
apprezzato nel suo insieme, dove le ombre contribuiscono a far risplendere meglio le luci,
e anche ciò che può essere considerato brutto di per sé appare bello nel quadro
dell’ordine generale. E’ l’ordine nel suo insieme che è bello, ma da questo punto di vista
viene redenta anche la
mostruosità che contribuisce all’equilibrio generale di
quell’ordine” “Storia della bellezza” , Bompiani, Milano 2004, p. 148).
Se il bello richiama – si può dire - il brutto, il deforme, il mostruoso provoca. Procura
emozioni. La vicenda del bello non può essere ripercorsa se non all’interno e come
segno dell’evolversi dell’intera civiltà, del suo modo di gestire la sfera emozionale.
Alberto Madricardo – Il pensiero della bellezza 2016-2017
1di 2