Testo Esposito - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`
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Testo Esposito - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`
Anna Esposito Donne e fama tra normativa statutaria e realtà sociale Nel commentario alle Consuetudini di Catania, pubblicato a Palermo nel 1594, il giurista Cosimo Nepita nell’illustrare - con ampio ricorso alle auctoritates del diritto - il titolo 68°: quod vilis mulier manere non debeat in convicinio honestarum mulierum, tra i numerosi motivi elencati per definire una donna disonesta, comprendeva non solo quelli più evidenti, come la donna sposata que aliquem cognovit oppure quella trovata cum manibus amasii ad mamillas positis, ma si presumeva la disonestà anche per la donna che modo unam domum et modo aliam ingreditur o della maritata che viveva luxuriose, comprendendo con questa espressione anche soltanto il sorridere ad un uomo estraneo all’ambiente familiare. Questa casistica, certamente severa nel considerare la fragilità dell’onore femminile, mi è utile per introdurre il tema della “fama delle donne”, tema per il quale vorrei da una parte riprendere e sviluppare alcune osservazioni proposte dalla storiografia negli ultimi decenni, soprattutto dal punto di vista giuridico, dall’altra fare qualche breve riflessione sugli elementi ricavati dalla prassi processuale proprio su questo delicato tema. Però, prima di entrare in medias res, vale la pena di ricordare come nel medioevo fosse dominante la concezione di un’innata debolezza della donna, tanto fisica che morale, che rendeva conveniente esercitare un controllo permanente su di lei e le sue azioni, in particolare per quanto atteneva alla sfera sessuale. Come efficacemente espresso da Guido Ruggero, “l’onore sessuale di una donna non era soltanto suo (…): era legato ad un calcolo dell’onore più complesso che coinvolgeva anche la sua famiglia e gli uomini che la dominavano”. Era naturale quindi che tale controllo spettasse ad un uomo: il marito per la donna sposata, un altro uomo della sua famiglia o di quella del marito, se fosse stata rispettivamente nubile o vedova. Tale esigenza era determinata da una parte dal desiderio per l’uomo della certezza di una successione legittima, dall’altra dalle strategie che la famiglia della donna (sulla base del proprio status e delle proprie possibilità economiche) poteva voler attuare in campo matrimoniale e che per essere le migliori possibili dovevano offrire una donna con precise caratteristiche, determinate dai valori condivisi da tutta la società del tempo: la verginità per la fanciulla da marito, la continenza per la vedova, la castità fuori dal matrimonio. Non stupisce quindi ritrovare negli statuti norme che, nel disciplinare la vita sessuale dei cittadini, cercavano di tutelare questi valori e che, nel punire i comportamenti illeciti, avevano come riferimento i diversi ceti sociali e i relativi privilegi presenti nel diritto medievale. In particolare, fondamentale era la bona fama di un individuo presso la comunità d’appartenenza, che lo considerava “in rapporto al giudizio che su di esso emettevano gli altri, in quanto tutta la collettività rispettava le medesime norme”. Fama e infamia influivano infatti sia sul sistema di controllo sociale, sia sulla capacità giuridica delle persone; per l’infame, oltre alla riprovazione e all’emarginazione dal corpo sociale, vi era anche l’esclusione da ogni tipo di protezione e difesa da parte delle autorità cittadine: ogni violazione delle regole era quindi esasperata e aggravata dalla sua cattiva reputazione. Ciò valeva particolarmente per le donne, per le quali la buona o cattiva fama rappresentava una discriminante giuridica di primaria importanza. Ad esempio per quanto riguarda i delitti sessuali, la donna pienamente tutelata dal diritto statutario, che in questo caso recepiva in pieno le norme del diritto civile, era quella definita “onesta” ovvero di buona fama e che in linea di massima apparteneva al ceto abbiente, mentre per le donne che non potevano essere ricondotte a questa condizione, quelle definite negli statuti inhoneste et male fame, o “di lieve vita” oppure minoris conditionis, per non parlare delle pubbliche meretrici che erano poste al fondo della scala sociale, lo ius proprium non offriva adeguate tutele. Resta da chiarire che cosa s’intendesse nell’età medievale per “onestà”. Nel medioevo “l’onestà viene ad indicare il decoro interiore ed esteriore di una persona” e per una donna significava soprattutto “capacità di stare al proprio posto, di seguire le regole, ma soprattutto si fondava sui concetti di pudore e verecondia”. Era però fondamentale il riconoscimento pubblico di tali virtù, come indica la definizione di donna onesta contenuta negli statuti trecenteschi di Roma: “et intelligatur mulier esse honesta si pro honesta communiter habita et reputata fuerit, maxime in vicinìa in qua habitat”, ovvero nel contesto spaziale e umano in cui svolgeva gran parte della sua vita e che di fatto era l’arbitro della sua reputazione. Per questo motivo nella società medievale l’ingiuria, e particolarmente quella che colpiva un individuo nell’onore, “assumeva … una forte carica di violenza e di suggestione emotiva perché era una pubblica valutazione, una riprovazione, vera o falsa che fosse, rivolta alla dignità dell’offeso”. Non stupisce quindi che per offendere una donna – secondo le ricerche di Anna Maria Nada Patrone - l’epiteto più comune in Italia fosse meretrix o puttana, (ma nel Lazio non manca la forma più dialettale “malafemmina” e sono anche presenti, fedelmente riportate negli statuti, frasi ingiuriose più o meno articolate come: “tu iacisti cum tali homine”, “tua madre fa puttana o la tua sorella, tua figliola o tu sei stata femmina del tale” oppure “ti si iaciuta con lo tale”), mentre per l’uomo l’ingiuria di carattere sessuale più frequente è certamente “cornuto”, e sempre le corna sono tra gli oggetti di dileggio posti di solito sull’uscio di casa di colui che si voleva offendere.Un po’ ovunque, quindi, “il modo preferito (ed efficace) di intaccare l’onore di un altro uomo era deriderlo come cornuto” e ugualmente per screditare in primo luogo il pater familie, il capo di casa si usava diffamarne la moglie o la figlia come puttana. E’ indispensabile, a questo punto, analizzare com’era definita dai legislatori cittadini la donna “di lieve vita” o “di mala fama”, oppure la meretrice e in quali situazioni questo status incideva in modo significativo a marcare la differenza con la donna onesta, che in molti casi – almeno è quanto emerge dalla normativa esaminata – si identificava con la donna “de bona conditione per parte de li parenti”. La maggior parte degli statuti che ho consultato (relativi a città e borghi dell’Italia centrale e in particolare dell’area laziale) cerca di dare dei parametri di riferimento più o meno precisi, ma tutti per lo più attinenti alla sfera sessuale: quello di Ascoli Piceno del 1377 dichiarava la donna “dissonesta, infamata et bructa vita, la quale comunamente serrà stata et notoriamente infamata, de più et più persone se reputasse et havesse essere cognoscuta”. “Et a provare che sia meretrice overo sia lavatrice de capi [cioè dei capelli, un mestiere che in diverse località era considerato infamante e avvicinato a quello di prostituta] overo sia dissonesta femina, baste la prova de cinque testimoni de fama”. Anche per Viterbo la publica fama della disonestà di una donna doveva essere provata per quinque testes fide dignos, e così pure nello statuto di Bagnoregio nel quale, dopo aver specificato che “mulier male fame intelligatur si fuerit cognita a tribus hominibus et ab inde supra, exceptis maritis”, si ribadisce che ciò possa essere provato publica voce et fame da cinque testi “de contrada mulieris”; mentre a Rignano Flaminio dovevano essere dodici i testimoni della cattiva fama della donna, i quali dovevano provare “che con più uomini abbia commesso alcuno degli acti et delicti carnali”; in altri casi, come a Terni o a Rieti, erano sufficienti quattuor testes fide digni, vel – prosegue la rubrica reatina - evidentia facti, habitus, conditio et qualitas mulieris, de quo stetur arbitrio et provisioni potestatis et capitanei. Solo qualche cenno in più – vista l’attenzione storiografica sul tema della prostituzione in questi ultimi decenni - per definire la meretrice ovvero la donna che quaestum sui corporis facit, la quale apertamente faceva con chiunque commercio del proprio corpo e che per questo aveva uno statuto particolare, era – per ricordare quanto ha scritto Francesco Migliorino – infame ipso iure. Dal mio dossier statutario in primo luogo emerge, non diversamente da molte località italiane dal Piemonte alla Sicilia, il desiderio dei legislatori ad emarginare le prostitute dallo spazio cittadino, almeno da quello ritenuto il cuore della città, per relegarle in quartieri marginali. Illuminante, anche per questo aspetto, lo statuto ascolano: “ordenemo che nesiuna meretrice, né lavatrice de capo, né altra dissonesta femmina ardisca overo presuma stare, habitare overo havere residentia overo stare appresso la piaza de sopra [Arrengo] per 25 canne et da li lati del palazo overo appresso alicuno loco de frati per 25 canne. Et quella che serrà trovata fare contra sia frustata”. La stessa pena infamante della fustigazione - dal valore altamente simbolico, tanto più che doveva avvenire, come prescrivono molti statuti, in un luogo pubblico e generalmente in un giorno festivo - era prevista per chi, uomo o donna, praticava il lenocinio, un mestiere ancora più spregevole della stessa prostituzione, perché – per citare ancora Migliorino – mentre la meretrice “in se delinquit”, il ruffiano usava, mercificandola, un’altra persona e quindi era da considerarsi ancora più colpevole. Secondariamente dalla normativa si delinea il tentativo di rendere le prostitute in qualche modo identificabili, non tanto tramite l’imposizione di appositi segni di riconoscimento, che diventano maggiormente diffusi in Italia dal tardo Quattrocento (peraltro, in nessuno degli statuti da me esaminati vi è questo provvedimento), ma attraverso la proibizione di indossare capi d’abbigliamento di particolare valore venale, di solito presenti nei corredi delle domine: così, ad esempio, nello statuto viterbese del 1469 si dispone che “nulla mulier … publice diffamata possit portare mantellum cum tacaglia [fibbia] de argento nec foderatum zendado aut pellibus, nec tunicam aut mantellum de panno novo”, né panni con ornamenti d’oro e d’argento (…). Et predicta locum habeant in publicis meretricibus”. Ugualmente in una riforma quattrocentesca dello statuto reatino si stabilisce che “nulla mulier male fame audeat nec presumat per civitate Reate deferre trochium [probabilmente un’acconciatura per capelli con largo uso di nastri, come a Milano] nec pannos coloratos nec scagiale [cintura di stoffa preziosa]”. Particolarmente significativo il divieto per le prostitute di Roma di indossare “vesti alle quali si annetteva una grande importanza sociale” e simbolica, quali il maccagnano e il bianco lenzuolo ad ammantandum, ovvero l’abito tradizionale delle honestae dominae, oltre che delle nobili matrone romane. Divieti dello stesso genere sono imposti alle pubbliche concubine, soprattutto dalla seconda metà del secolo XV, periodo in cui la concubina – anche quella che conviveva con un uomo non sposato - comincia ad essere equiparata sia alla donna male fame sia alla meretrice, con un significativo scadimento di status: ad esempio a Viterbo la rubrica prima citata - che vietava alle donne diffamate di indossare determinate pellicce e vesti -, comprendeva nel divieto anche la mulier concubina; a Ferentino le veniva espressamente vietato di portare su di sè aurum vel perlas. Ed è superfluo insistere sulla pessima considerazione che ovunque si aveva della concubina sacerdotis publica, che – come si può leggere negli statuti viterbesi – pro muliere diffamata habeatur. Naturalmente se dalla normativa si passa a considerare la prassi, così come viene delineata da altra tipologia di documentazione, il discorso sulla “fama delle donne” si articola notevolmente, soprattutto se si considerano i diversi livelli socioeconomici della società. Non posso ora soffermarmi su questa questione come sarebbe opportuno; per il momento credo sia sufficiente accennare alla grande considerazione che ebbero le amanti degli uomini di potere, sia laici che ecclesiastici, soprattutto nell’età del Rinascimento. Ricordo tra le prime, tanto per fare un solo esempio, Lucia Marliani, l’ultima amante di Galeazzo Maria Sforza, che fu lo strumento per l’affermazione della sua famiglia; riguardo alle donne degli ecclesiastici - vescovi, cardinali e a volte gli stessi pontefici - per non riproporre il notissimo caso di Vannozza Catanei, per lungo tempo concubina del cardinale Rodrigo Borgia (poi papa Alessandro VI) e madre dei suoi quattro figli, accenno soltanto alla meno nota domina romana Girolama Tosti, la quale – mentre era ancora sposata con il discretus vir Battista Goioli - iniziò una lunga relazione con il potente cardinale Guillaume d’Estouteville, camerlengo di S.R.E. nel pontificato di Sisto IV. Ebbene anche Girolama - come la coetanea Vannozza – sarà onorata in vita e in morte, non solo nell’ambito delle sue relazioni familiari ma anche dagli stessi ambienti ecclesiastici a cui si rapportava, in particolare la chiesa di S. Agostino e l’Ordine agostiniano, di cui l’Estouteville era stato protettore per più di 40 anni, chiesa che era anche la sua parrocchia e il luogo di sepoltura della sua famiglia d’origine. Se passiamo ora ad esaminare i reati dove la fama della donna giocava un ruolo fondamentale – soprattutto nella punizione del reo – si deve certamente partire dallo stupro violento. Nello stupro cum vi, dove – com’è evidente - era essenziale che non vi fosse il consenso della donna, la mulier bone fame doveva dimostrare la sua opposizione alla violenza sessuale – quindi la sua onestà – in modo palese, come ad esempio a Supino, dove “statim vociferare debeat et notificare”, altrimenti era considerata correa e incorreva nella stessa pena dell’uomo. Inoltre in molti statuti si precisano i termini entro cui bisognava denunciare alla pubblica autorità la violenza subita, altrimenti il reato non veniva più perseguito: a Campagnano “illo die vel illa nocte “ da parte della stessa donna che è tenuta al giuramento, a Supino entro tre giorni, a Frascati entro quindici giorni, per quanto riguarda la donna vergine, la quale avrebbe dovuto presentarsi alla corte “con li capelli sciolti, scapigliandosi et pelandosi et col capo della gonna stesa et aperta fino al petto”. Per quanto riguarda il violentatore, gli erano comminate pene pecuniarie diversificate a secondo diverse varianti: se la violenza carnale fosse effettivamente avvenuta o fosse stata solo tentata ma non andata a compimento; se la donna fosse stata soggetta ad una tutela maschile oppure fosse soluta ovvero libera, cioè non vincolata ad alcun uomo (marito, padre, fratello etc.): in questo secondo caso non aveva diritto alle stesse protezioni di una donna, i cui familiari di sesso maschile avrebbero potuto sentirsi offesi nell’onore; secondo la qualità morale della donna, cioè se fosse ritenuta donna onesta, oppure donna “di lieve vita” o “di mala fama”, o ancora meretrice e infine se fosse maritata, vedova o nubile. Si veda, tanto per fare un esempio tra tanti, la rubrica 17 dello statuto trecentesco di Rieti “de violentiis illatis mulieribus”, dove all’uomo che fosse riuscito a violentare una donna sposata di buona fama era inflitta una multa di ben 100 libbre; se si trattava di una vedova di buona fama la pena era di 60 libbre, mentre se la vittima fosse stata una vergine, il seduttore era tenuto non solo a pagare 100 libbre ma anche a dotare la ragazza secundum facultatem et qualitatem patrimonii, a meno che non la prendesse in moglie, de communi concordia et voluntate, perché in quel caso non si sarebbe potuto condannarlo pro dicta violentia. E lo stesso valeva per la vedova di buona fama. Invece a Roma, dove la società era molto più articolata, la normativa statutaria trecentesca – di forte impronta antimagnatizia – comminava ammende di entità diversa in relazione sia alla posizione sociale del reo (pedes, cavallaroctus seu miles, baro vel de genere baronis) sia alla condizione della donna violentata (honesta, vilis conditionis et inhonesta non tamen meretrix publica, e infine meretrix publica). Se la donna era “onesta”, un pedes era multato in 300 libbre di provesini, un cavallaroctus sive miles in 500, mentre un baro vel de genere baronis in 1000. L’ “adulterio” con una pubblica meretrice non dava corso a nessuna pena. Questo caso era contemplato anche negli statuti di Viterbo del 1469, dove però si disponeva che se qualcuno avesse fatto ingiuria di qualunque tipo a una meretrice oppure a una donna diffamata o inhoneste fame sarebbe stato punito in quarta pene … que alias imponitur per statutum de tali iniuria vel offensa. Negli statuti di Ascoli si è più precisi: se con la violenza, “alicuno conoscerà alicuna donpna, la quale sia … notoriamente dissonesta, infamata et de bructa vita” e che fosse noto che “de più et più persone havesse da essere conosciuta”, sia in arbitrio del podestà se punire l’uomo oppure no. Per quanto riguarda invece le donne di buona fama, nel valutare la qualità della donna oltraggiata dai legislatori ascolani viene usato un criterio che definirei socioeconomico, dove – cosa non certo nuova – viene stabilita una precisa correlazione tra livello sociale della famiglia d’appartenenza / onestà / e quindi fama. Si stabilisce infatti che “se alicuno carnalmente conoscerà contro sua volontà alicuna donpna … vedua overo maritata de bona conditione per parte de li parenti, sia punito omne volta in libre cento de dinari”, ma se la donna fosse invece “femmina pactuale overo serva de piccola conditione”, il seduttore avrebbe avuto una pena dimezzata per lo stesso delitto, ed era lasciato alla discrezione del podestà stabilire “quale sia la femmina overo donna de bona conditione …e quale de piccola”. Dunque una esplicita presunzione di disonestà per le donne dei ceti inferiori, che dovevano lavorare al di fuori del contesto familiare e spesso lontano dal controllo maritale, perciò di fatto donne “non custodite” e quindi più esposte ai pericoli della concupiscenza maschile, in particolare le serve domestiche, che sappiamo essere con facilità vittime sessuali dei loro padroni. Non è un caso che di solito le confraternite che erogavano sussidi dotali, come ad esempio la SS. Annunziata alla Minerva di Roma, escludessero le serve dalla tipologia di fanciulle assistite dal sodalizio. Per non parlare poi delle serve di taverna, che erano equiparate alle prostitute proprio per la negativa considerazione legata a quel promiscuo e spesso degradato ambiente di lavoro. Inoltre – riprendendo un’osservazione della Klapish Zuber - “in una società dove dominano i valori dell’onore, il lavoro delle donne è considerato socialmente degradante, segno di debolezza, povertà o decadenza”, quindi un presupposto della possibile disonestà nei loro comportamenti. Anche la donna sposata che aveva rapporti sessuali con un uomo diverso dal marito diveniva infame ipso iure. Infatti l’adulterio della donna coniugata appariva ai legislatori di estrema gravità perché metteva in pericolo non solo l’integrità del nucleo familiare ma soprattutto la certezza della legittimità della prole. La fedeltà della donna ne era l’unica garanzia, e il “controllo che il marito esercitava sul corpo della moglie l’unico strumento in grado di rassicurarlo sulla paternità”: su questo convincimento si trovano concordi non solo i trattati d’ispirazione aristotelica e la letteratura teologico-morale, con in testa le opere di san Tommaso e di Egidio Romano - dove la fedeltà insieme alla pudicizia e alla castità, virtù considerate squisitamente femminili, sono valutate proprio in “funzione di offrire al maschio quelle garanzie di paternità legittima che la natura non può dargli”-, ma anche la letteratura canonistica e penitenziale, in cui dominano “le discussioni sul comportamento da tenere nei confronti della moglie adultera”. A questo proposito particolarmente interessante quanto contenuto nello statuto di Civitavecchia, in cui si distingue tra la prima volta e la reiterazione del crimine da parte della donna “consueta ponere cornua marito” e dove si definisce anche cosa s’intenda per consenso: “Et presumesi la femmina haver consentito in commettere tali cose si la femmina voluntariamente aprarà l’uscio all’omo o vero lei andarà ad l’omo et che l’omo più che una fiata habia hauto ad fare con lei o vero che lei habia hauto più fiate con altri ad fare carnalmente, de le quali cose tutte sia publica voce et fama nel vicinato de la decta femina, la quale se provi per dui testimoni contra li quali non se possa fare exceptione”. Un’ulteriore testimonianza di quanto fosse importante l’onore per una donna è possibile ricavarla dalla raccolta dei miracoli del santuario viterbese di S. Maria della Quercia. In questo contesto – tra le numerose grazie invocate ed ottenute dalle donne dell’intera Tuscia per i pericoli del parto e di altre malattie ginecologiche etc. -, sono registrati anche miracoli riferibili alla sfera dell’onore femminile. Tra questi compaiono prodigi relativi sia alla difesa della verginità delle fanciulle sia alla risoluzione di situazioni familiari degenerate a causa della gelosia dei mariti, che – sobillati da voci malevole di vicini e parenti - avevano dubitato dell’onestà delle loro consorti fino ad usare la violenza proprio per difendere il proprio onore. Se dalla normativa si passa alla realtà processuale, alle testimonianze concrete, alla ‘voce’ di imputati, testimoni, giudici, il quadro finora delineato acquista un maggior spessore, anche se si riduce l’ambito sociale di riferimento. Infatti le donne che a vario titolo compaiono nei processi esaminati (relativi a Roma, Rieti, Viterbo, Magliano Sabina, Casperia) appartengono tutte a strati sociali medio-bassi, e una discreta percentuale è costituita da forenses, un elemento questo già messo in luce dalla storiografia relativa ad altre regioni italiane. Le domine, esponenti della società aristocratica, per le quali è scontata la buona fama in quanto ‘de bona conditione et conversatione’, non compaiono quasi mai in queste fonti, sia perché vivevano una vita più ritirata e protetta, sia perché le loro famiglie facevano evidentemente da filtro in modo da risolvere in privato le situazioni ‘devianti’ che le vedessero coinvolte per preservare così lo stesso onore familiare. Un elemento appare con evidenza nei verbali processuali: in maniera più marcata rispetto al campione maschile, la condizione di straniera è affiancata con frequenza ad una cattiva reputazione e spesso anche alla pratica del meretricio. Forensis inhonesta et male fame è un ritornello che ha un’unica variante nell’espressione della nazionalità o della città d’origine. Vorrei ricordare inoltre che vi sono specifiche nazionalità connotate da una generalizzata mala fama: tra queste gli slavi, gli albanesi e, soprattutto nelle regioni tirreniche, i corsi. Non è un caso quindi che in una lite tra due donne a Viterbo, una insulti l’altra definendola di mala fama perché ha sposato un corso! In un processo contro la “fogliarara” Caterina, costei da ben cinque testimoni ‘a carico’ viene definita “sclava et vilis et inhonesta” ovvero donna di cattiva fama. E, come abbiamo visto, non vi è dubbio che l’ambiente in cui si è inseriti sia un’importante discriminante per definire la qualità di una persona. Non è questa la sede per ripercorre i casi – ben documentati nei processi - in cui compaiono donne per le quali la cattiva fama è insita o nello stile di vita segnato da pratiche sospette, come per le donne definite “incantatrici, streghe, fattucchiere”, oppure nella professione di una fede religiosa diversa da quella cristiana, come le donne ebree, a volte accusate di pratiche illecite e malefiche. Proprio nei processi che vedono implicate queste ultime, emerge un ulteriore elemento, che mi sembra interessante sottolineare. Non solo le donne ebree, ma anche le donne cristiane che per vari motivi hanno con loro rapporti di assidua frequentazione, di quotidiana conversatio, risultano – dalla concorde testimonianza delle deposizioni processuali – essere contraddistinte dalla stessa “mala fama” delle ebree e forse da una reputazione ancora più negativa proprio per intrattenere rapporti di familiarità con chi – come l’ebreo – era considerato disonorato per definizione e di fatto posto al di fuori della cittadinanza. L’esempio di Fiorimanda, moglie di Malapezza di Magliano Sabina è, a questo proposito, particolarmente significativo. Accusata nel 1422 di aver ucciso Gemma vedova di Mosè da Roma, l’ebreo feneratore de terra Malleani, sottoposta ad estenuanti interrogatori e più volte alla tortura della corda per estirparle la confessione - cosa che la donna non farà mai tanto da essere poi assolta dall’accusa – Fiorimanda è messa in cattiva luce soprattutto dalle dettagliate testimonianze che il podestà e giudice, il romano Giuliano Boccamazza, riceve dalla decina di donne che spontaneamente vanno a testimoniare contro di lei. La grande familiarità che la donna aveva con l’ebrea rappresenta, oltre a un grave indizio di colpevolezza, anche una conferma della cattiva fama di Fiorimanda, che – a detta di tutte le testimoni – multum fuit solita conversari cum dicta Gemma defunta ac uti et praticare in domo predicta, cioè la casa dell’ebrea, dove aveva sede anche il banco di prestito. Dalle deposizioni si raccolgono molte informazioni sul ruolo di intermediazione svolto da Fiorimanda tra gli ebrei prestatori e i clienti cristiani, che si vergognavano a frequentare apertamente il banco ebraico, come l’inquisita non manca di ricordare mentre è sottoposta a tortura. Queste le parole di Fiorimanda al giudice: “quello che me dicete [l’accusa dell’omicidio di Gemma], me sse appone indebitamente e quello che me sse appone, me sse appone per lo molto usare che agio facto colla dicta Gemma et in casa sua; menne so’ gita in casa sua venti volte per li facti de Paolo de domino Paolo et per li facti de molte altre persone che me pregavano che io li faci prestare denari dalla dicta Gemma sopra li pegni et per questa cascione sono usata con essa et in casa sua”. Per concludere, resta una domanda a cui cercare di rispondere, seppure sinteticamente: che mezzi aveva una donna per preservare/custodire la sua buona fama? Per la donna coniugata o la filia familie i comportamenti a cui conformarsi erano quelli che, come abbiamo prima indicato, si fondavano sui concetti di pudore e verecondia pubblicamente riconosciuti, sull’obbedienza al padre o al marito, sul rispetto delle regole. Diverso era il problema per le donne non sorrette da una adeguata protezione familiare, meno controllate e quindi molto più esposte alle chiacchiere del vicinato e ai pericoli di aggressione e violenza sessuale, specialmente se povere e costrette - per sopravvivere - a ricorrere al lavoro manuale. Spesso per donne isolate, ancora nubili, donne separate o abbandonate, vedove da tempo «e quindi – in una società in cui la morale dominante è quella matrimoniale - sospette o méprièes», non era facile difendere la propria onorabilità. Una soluzione dignitosa - per chi non voleva (o non poteva per motivi economici) entrare in convento - era la scelta religiosa della Terza regola o del bizzocaggio. Isabelle Chabot, dall’analisi del Catasto fiorentino del 1427 e da altre fonti, ha evidenziato come questo stile di vita fosse una risorsa non solo per “donne senza uomini”, ma anche per donne nubili rimaste presso le loro famiglie, spesso perché portatrici di handicap o perché di nascita illegittima e quindi più difficili da maritare: pur senza minimizzare la sincerità di una vera propensione religiosa, l’“abito di religione” appare a volte come un mezzo per tutelare «l’immagine pubblica della casa – garante di quest’onore femminile così fragile, conferendo, non senza riserve, una forma di legittimazione sociale alla loro solitudine vissuta nel mondo». Ugualmente, la vita bizzocale poteva costituire una risorsa anche per molte donne prive di protezione o con gravi problemi di convivenza nell’ambiente familiare: vivere in comunità anche molto piccole, come penitenti o recluse, ma soprattutto far parte di un bizzocaggio o di una domus di terziarie di più ampie dimensioni diviene – come ha scritto Anna Benvenuti - una valida alternativa di vita, “uno strumento di salvezza religiosa .., ma anche una valvola di sopravvivenza esistenziale”, che conferiva a queste donne una specifica identità sociale e consentiva loro di preservare la propria buona fama.