il pensiero razzista nella prima meta` del novecento

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il pensiero razzista nella prima meta` del novecento
Anna Maria Lazzarino Del Grosso
IL PENSIERO RAZZISTA NELLA PRIMA META’ DEL NOVECENTO
All’alba del secolo XX il veleno del razzismo, anche se
questa parola non era ancora in auge, era ampiamente in
circolo tanto nelle menti e negli atteggiamenti degli esponenti
della cultura “alta” o medio-alta, quanto negli umori popolari
di buona parte dell’Europa, e aveva già conosciuto, nella
seconda metà, e soprattutto nell’ultimo ventennio del XIX
scolo, le sue elaborazioni teoriche o letterarie più significative
e influenti.
Ciò era accaduto soprattutto nei paesi che si disputavano la
scena continentale in veste di grandi Potenze: l’Inghilterra, la
Francia, la Germania, ormai rivaleggianti anche sul piano
delle conquiste coloniali, sia pure con significative differenze,
connesse alla diversa tradizione culturale e alla diversa
congiuntura politico-sociale di ciascuno di questi paesi.
Differenze che si manterranno lungo la prima metà del
Novecento, quando il pensiero razzista si diffonde
geograficamente e si rafforza ulteriormente, toccando e
coinvolgendo pesantemente anche il nostro Paese. Le ragioni
del suo successo, spesso non solo presso gli ambienti
conservatori o della destra radicale, sono molteplici: la
volontà di potenza connessa all’affermarsi delle ideologie
nazionaliste e imperialiste che impone una propaganda
incentrata sul mito della superiorità nazionale, non di rado
collegato all’idea di una superiore missione civilizzatrice
nell’Europa e nel mondo, il credito assicurato
all’affermazione di una gerarchia di valore delle razze e
dell’ereditarietà dei caratteri razziali dagli ambienti
universitari e da scienze quali l’antropologia e la biologia
umana, una reazione irrazionale generalizzata alla serie di
crisi grandi e piccole che si succedono nel continente o nei
singoli paesi, per le quali si va alla ricerca di un capro
espiatorio, i timori suscitati dalla rivoluzione bolscevica, ma
soprattutto, dagli anni ’20 in avanti, l’effetto della propaganda
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del nazionalsocialismo hitleriano, che contagia fortemente i
paesi che, come l’Austria, l’Italia, e da ultimo la Francia di
Vichy, entrano nella sua orbita.
Naturalmente non mancano gli oppositori radicali del
pensiero razzista, fedeli ai valori dell’illuminismo e della
rivoluzione francese e a quel principio di uguaglianza e
fratellanza di tutti gli esseri umani che, propugnato dal
cristianesimo delle origini, ma da sempre messo in pratica con
una certa difficoltà dal cattolicesimo e dalle altre Chiese
cristiane, era stato fatto proprio dalla massoneria, non a caso
bersaglio accanito dei razzisti otto-novecenteschi: essa aveva
molti adepti nelle fila dei democratici e della sinistra radicale,
dove allignava, con forza diversa a seconda del paese
considerato, il maggior nucleo di oppositori, sia al razzismo in
generale, sia al suo sempre più stretto e sempre più doloroso
intreccio con l’antisemitismo.
Per affrontare dunque, sia pure nel modo impressionistico
imposto dal poco tempo a disposizione, un discorso sul
pensiero razzista della prima metà del Novecento è necessario
fare prima un passo indietro, e fare cenno a scrittori, libri e
movimenti di pensiero che, con grande fortuna e influenza
avviano le linee di sviluppo successive, che sono molteplici.
Nella seconda metà del XIX secolo si consolida e acquista
sempre più credibilità il nesso, anche se non necessario e non
da tutti accettato, tra la convinzione - accreditata come
asserzione scientifica, fin dalla seconda metà del Settecento dell’esistenza di razze umane differenziate, definite secondo
affinità biologiche di carattere ereditario, e l’affermazione
dell’esistenza di una gerarchia di merito delle stesse, ovvero
di valore fisico (bellezza, intelligenza, forza, salute,) e spesso
anche intellettuale e morale (attitudini congenite alle virtù, o
abilità positive, oppure insufficienze, incapacità, vizi). La
pubblicazione, nel 1859, dell’Origine della specie di Charles
Darwin, con la teoria dell’evoluzione naturale delle specie e
della lotta per l’esistenza in cui si misuravano forze e
debolezze di ognuna, (teoria in seguito applicata, dai
cosiddetti darwinisti sociali, anche alle “razze”), veniva in
qualche modo a sanzionare l’idea indubbiamente anche
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“ideologica”,
della gerarchia delle razze e a darle una
plausibile spiegazione scientifica.
Ho detto “idea ideologica” della gerarchia delle razze per
sottolineare che pur nella sua pretesa scientificità, essa era
anche più o meno consapevolmente finalizzata a sostenere o
legittimare un progetto politico di dominio dell’una sulle altre,
in particolare dei bianchi sui neri, rispondendo alle esigenze di
legittimazione del dominio coloniale e, come vedremo meglio
fra poco, degli Ariani sugli Ebrei nel continente Europeo.
D’altra parte, prima ancora della pubblicazione del
fortunato libro darwiniano, il falso aristocratico Arthur de
Gobineau, considerato uno dei padri del razzismo, nel suo
Essai sur ì’inégalité des races humaines, uscito nel 1853,
aveva, sia pure in termini più di filosofia della storia che
scientifico-empirici, fatto ricorso alla tradizionale distinzione
dell’umanità in tre razze: bianchi, gialli e neri, che riteneva
differenziate anche per qualità dello spirito, non solo per
riconfermarne nell’ordine la gerarchia di valore, che vedeva
rispettivamente riflessa nei comportamenti dell’aristocrazia,
della borghesia e della plebe di Francia, ma anche per
affermare, all’interno della razza bianca, la supremazia degli
Ariani teutonici, da lui posti alla guida della civiltà
occidentale e preconizzati quali dominatori del mondo. Egli
condannava pertanto gli incroci fra le razze quale fattore
degenerativo, e affermava, per senza accenti palesi di
antisemitismo, che proprio un passato di incroci con i neri era
all’origine della degenerazione degli Ebrei, in origine
appartenenti alla razza bianca. Molti degli ingredienti-tipo del
pensiero razzista successivo e anche di quello del Novecento
erano già presenti in queste prese di posizione, che partivano
del resto con molta precocità da tematiche che saranno
motivo conduttore delle riflessioni sulle razze e più in
generale sulla presenza di stranieri nelle società nazionali, che
affioreranno numerose nella Francia di fine Ottocento e del
primo Novecento, dominate dal problema della decadenza e
della degenerazione.
Tornando alla Francia post-quarantottesca, dove gli Ebrei
godevano della piena uguaglianza conquistata con la
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Rivoluzione francese, dobbiamo ricordare, perché anch’esso
non ininfluente sui futuri sviluppi dell’argomentazione
razzista antisemita, l’accesa avversione di Proudhon agli
ebrei, che identificava, come del resto faceva anche Marx,
secondo il secolare stereotipo che li collegava al denaro e
nella fattispecie otto-novecentesca al capitalismo finanziario.
Dà i brividi leggere che il celebrato padre del pensiero
anarchico e di un socialismo federativo fondato sulla
cogestione era
sinistramente giunto ad auspicarne lo
sterminio, qualora non fosse stata possibile la loro integrale
espulsione dall’Europa.
Fortunatamente gli scritti di
Proudhon non erano così diffusi e popolari da lasciare un
segno immediato, anche se purtroppo il suo provocatorio
desiderio, trovò eco e attuazione del diabolico piano
hitleriano.
Ma torniamo a Gobineau, il cui Essai era stato stampato in
500 copie da distribuire in Francia e altrettante da dividersi tra
Svizzera, Russia e Germania. Poca cosa, dunque. Come
poteva essere prevedibile l’accoglienza migliore al libro
venne dalla Germania, per la cui “razza” nazionale,
identificata con gli Ariani, prevedeva e auspicava il dominio
sul mondo. Determinante per la circolazione dei suoi scritti fu
la sua amicizia con Wagner e con la moglie Cosima, presso i
quali Gobineau trascorse gli ultimi due anni della sua vita
(1880-1882), accolto e ammirato presso il famoso Circolo di
Bayreuth, dove erano e dove saranno a lungo coltivati le
mitologie del Volk germanico, i sogni di grandeur teutonica e
il violento antisemitismo del Maestro. Grazie alla devozione e
ammirazione di uno de membri del Circolo, Ludwig
Schemann, cui si dovette anche la creazione di una “Società
Gobineau” tedesca (1894), le opere del conte francese sono
tradotte in tedesco, e ripetutamente pubblicate a partire dagli
ultimi anni del secolo. La traduzione le riadatta però agli
umori dei tedeschi, così che i difetti che Gobineau addebitava
ai Gialli, poco interessanti perché pressoché inesistenti in
Germania, erano direttamente imputati agli Ebrei. Poiché
grande fu il successo di questi libri presso i membri della
Lega Pan-germanica e poiché molti di essi erano insegnanti, il
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pensiero di Gobineau venne largamente diffuso tra le giovani
generazioni.
Presso il Circolo di Beyreuth avrà anche grande fortuna, e
siamo proprio alle soglie del Novecento. il pensiero razzista
dell’inglese Houston Steward Chamberlain, divenuto genero
postumo di Wagner. Chamberlain nel 1899 pubblica I
fondamenti del XX secolo, dove afferma l’arianesimo di
Cristo, (essendo un Galileo non era ebreo, ma ariano),
espresso nei valori da lui incarnati di amore, pietà, onore,
valori che a suo dire caratterizzano specificamente anche gli
Ariani.Chamberlain attribuisce quindi alla razza germanica,
ariana per eccellenza, il merito di avere con la riforma
protestante rigenerato il cristianesimo delle origini, che era
stato corrotto dall’ebreo San Paolo e in questa versione
corrotta fatto proprio dal cattolicesimo; le attribuisce anche la
missione di salvare l’umanità dal pericolo rappresentato
dall’ebraismo. Come si vede abbiamo nell’opera di
Chamberlain un esempio tipico di quel razzismo spirituale o
mistico che tanta parte avrà nell’ideologia razzista del
nazionalsocialismo e che, sebbene con altri accenti e con altri
motivi dominanti, si ritroverà anche nel razzismo italiano dei
tardi anni ’30. Chamberlain non dà infatti tanta importanza ai
caratteri fisici delle razze, quanto all’”anima razziale”, tanto
più alta e dominatrice quanto più lontana dal materialismo.
A instillare pregiudizi e odio razziale negli ambienti piccoloborghesi e nella gioventù, sempre a partire dall’ultimo
decennio del XX secolo, era intervenuto in Germania anche lo
straordinario successo di pubblico di un accattivante saggio
anonimo, di facile lettura e pedagogico già nel suo titolo:
Rembrandt come educatore, uscito nel 1890. Opera di uno
stravagante e vagabondo personaggio, Julius Langbehn,
convertitosi nel 1900 al cattolicesimo, questo libro, che faceva
di Rembrandt il modello delle virtù e della superiorità proprio
dell’”anima del popolo tedesco” (fedeltà a se stessi, alla
piccola patria e al Volksgeist, profondità e lucidità di
pensiero, onestà, innocenza, autonomia, amore per la musica)
ebbe per decenni una straordinaria diffusione (nel 1930 era
alla ottantesima edizione) e, essendo divenuta l’autore un
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cattolico fervente, veniva di solito regalato ai giovanissimi in
occasione di cresime e prima comunione. Colpisce nell’opera
la presenza forte del “mito del sangue” che sarà uno dei
motivi ricorrenti del razzismo mistico nazista. Riprendendo le
vecchie tesi che sostenevano l’ideologia nobiliare, Langbehn
affermava l’ereditarietà della qualità intellettuali e morali,
attraverso il sangue, che è ciò che fa l’identità dell’uomo, che
se di natura superiore, deve restare fedele alle sue origini:
“Aus dem Blut kommt die Blüte” (dal sangue viene la
fioritura) è uno dei suoi slogan. Dunque il tedesco, per restare
fedele al proprio sangue, non deve inquinarlo: non deve
contrarre matrimoni o relazioni sessuali con stranieri.
Anche Langbehn tracciava una discendenza diretta dei
Tedeschi-Ariani da Cristo: sosteneva che il sangue di Cristo è
l’anima dei Tedeschi, e per questo profetizzava loro un
destino di dominio europeo e mondiale. E’ per difendere la
purezza del proprio sangue che essi si battono e versano il
loro sangue: la guerra del sangue ariano naturalmente
dominatore contro il sangue straniero è vista come giusta e
ineluttabile.
Anche per Langbehn i nemici principali degli Ariani sono
gli Ebrei, definiti un veleno per la Germania, intesi solo a
sfruttarla, “democratici” (il che è per lui perversione del
giusto ordine!) e intenzionati a “prenderci la nostra anima”.
Lo slogan che Langbehn diffonde con maggior successo è “La
Germania ai Tedeschi”, dando vita a un modello di pensiero
escludente purtroppo non di rado imitato. La gioventù
tedesca, l’infanzia stessa di Cristo sono contrapposti alla
“vecchiaia” ebraica (un altro slogan sinistro è:”Die Jungend
gegen di Juden!” ovvero “La gioventù contro gli Ebrei!”) e
Cristo è richiamato anche come il più grande antisemita.
Se pensiamo che simili letture era pane quotidiano della
gioventù tedesca, raccomandate dalle famiglie e non
contrastate dalla Chiesa, comprendiamo almeno in qualche
misura come sia stato possibile alla società tedesca non
reagire o addirittura accogliere con una certa connivenza le
follie hitleriane. Del resto si sa che lo stesso Hitler in gioventù
fu lettore di quest’opera, così come di quelle di Gobineau e di
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Chamberlain, così come fu lettore a della rivista “Ostara.
Zeitschrift fur die Blonde (rivista per i biondi)” fondata nel
1905 a Vienna da un altro fanatico profeta dell’arianesimo e
fustigatore degli Ebrei, Jorg Lanz Liebenfels.
Parallelamente a questo filone di razzismo visionario e,Gobineau a parte - accesamente antisemitico, se ne preparava
un altro, in tutta l’Europa più progredita, ancora più subdolo
e pericoloso, perché apparentemente incontrovertibile e, per
così dire, in camice bianco: quello cioè che scaturiva dalla
ricerca scientifica, e che nel corso del ‘900 era destinato al
maggiore sviluppo teorico-pratico e, anche, al maggior
coinvolgimento quando con le leggi razziali naziste e,
successivamente, fasciste, si passò dalla teoria della razza
superiore alla pratica politica della sua difesa.
Protagonisti di questa linea di pensiero sono soprattutto
esponenti del mondo medico: già nel 1850 l’anatomista
scozzese John Knox nel libro The races of Men aveva distinto
fondamentalmente due razze superiori, poste sostanzialmente
alla pari, i Sassoni e gli Slavi ed una infima, i neri,
naturalmente destinata alla schiavitù, ma pur ponendoli al di
sopra di questi, aveva soprattutto infierito, riprendendo i soliti
secolari stereotipi antigiudaici, contro quella degli Ebrei,
definiti di straordinaria bruttezza, privi di qualità positive e
dotati solo di furbizia. Nel 1869 un altro inglese, Francis
Galton ne Il genio ereditario, (ma non era antisemita e
considerava positivamente gli Ebrei), aveva posto il problema
del miglioramento della razza attraverso matrimoni oculati e
aveva inaugurato il movimento eugenetico, che ebbe subito
successo con la fondazione di appositi laboratori e società
scientifiche (una fondata dallo stesso Galton e altre nel suo
nome) istituiti in Germania e altrove già ai primi del
Novecento (particolarmente attvo in Germania l’Archiv fü
Rassen- ung Gesellschaftsbiologie” sorto nel 1904), dai quali
si svilupperà un’altra nuova disciplina: l’igiene razziale. Nel
1907 si preoccupa del miglioramento della razza ariana il
darwinista Willibald Hentschel nel suo libro Varuna (1901)
che, dopo la prima Guerra Mondiale, sarà anche un obiettivo
del movimento giovanile degli Artamanen, di cui farà parte il
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giovane Himmler. Anche l’antropologia concentra la sua
attenzione sulle caratteristiche razziali, effettuando
misurazioni e rilievi empirici su vasti campioni di soggetti, e
in particolare mettendo a confronto in Germania, tedeschi ed
ebrei, raccomandando, salvo eccezioni duramente contestate
(è il caso di Rudolf Virchow, fondatore della Società di
antropologia tedesca, il quale aveva concluso che non
esistevano differenze tra tedeschi ed ebrei), di evitare ogni
incrocio tra le due razze.
Influenti furono al riguardo anche le teorie dell’ebreo
italiano Cesare Lombroso, non razzista, ma interessato ai
fenomeni di degenerazione fisica e morale a suo dire
chiaramente riscontrabili in caratteristiche somatiche degli
individui, che lo avevano portato a individuare i segni
esteriori dei delinquenti incorreggibili, per i quali nel 1863, in
Genio e follia, era giunto ad auspicare l’eutanasia.Le idee di
Lombroso erano state riprese e diffuse, a fine secolo, dal suo
allievo sionista ungherese Max Nordau, autore del volume
Degenerazione (1892).
Ma spostiamoci ora in Francia, dove antisemitismo e
razzismo si sviluppano e si fanno virulenti, durante la Terza
repubblica, nel clima di frustrazione seguito alla disfatta di
Sédan (1870) e all’occupazione tedesca, che era costata la
perdita dell’Alsazia e della Lorena e di preoccupazione per la
crisi demografica che stava colpendo la Francia, mentre era
andata grandemente crescendo, nella seconda metà del secolo,
la presenza di immigrazione straniera sul suo territorio.
Durante gli anni ’80 si era aggiunto un consistente flusso
migratorio di ebrei provenienti dall’est europeo, che
sfuggivano le discriminazioni e persecuzioni poste in essere
nei rispettivi paesi. Nel momento in cui il Paese stava
soffrendo le conseguenze negative sul piano economico e
demografico della guerra perduta si scatenano perciò delle
reazioni xenofobe e antisemite specie negli ambienti in cui
prende vita un nazionalismo conservatore e revanchista.
Reazioni che troveranno nuovo alimento qualche decennio
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dopo in concomitanza con la difficile situazione economica
conseguente alla crisi mondiale del ’29.
Abbiamo così nell’ultimo ventennio del secolo XIX una
fioritura di scritti sul tema della decadenza del primato
francese, da taluni concepita come una degenerazione della
razza francese: essi si interrogano sulle ragioni del fenomeno
e sui modi per porvi rimedio. Non fa meraviglia che, mentre si
diffondono per il paese episodi di violenza xenofoba,
soprattutto ai danni di lavoratori belgi e italiani, accusati di
rubare il pane ai francesi, si veda negli stranieri e in
particolare negli Ebrei i principali colpevoli della decadenza,
ovvero il capro espiatorio contro cui dirigere il malcontento
della popolazione.
Nel 1886 il pubblicista Édouard Drumont, con la
pubblicazione del libro La France juive, inaugura la prima
grande ondata di letteratura e sentimenti antisemiti conosciuta
dalla Francia moderna. L’opera, in due volumi di complessive
1200 pagine, ha uno straordinario successo. Nel 1887 è alla
145° edizione! E avrebbe goduto di un rinnovato successo
dieci anni dopo al tempo dell’affaire Dreyfus. Nel 1914 è alla
200esima edizione. Questi dato sono oltremodo indicativi del
diffondersi di sentimenti antisemiti e razzisti in larga parte
dell’opinione nazionale. L’opera, morto Drumont nel 1917, è
ampiamente ripresa dalla stampa negli anni ’30 e l’ultima
riedizione è del 1941, quando, come scrive Gérard Noiriel, il
pensiero di Druomnt è praticamente al potere.
Quali sono le tesi di Drumont, nazionalsocialista ante
litteram, che fonderà nel 1892 e dirigerà il quotidiano “La
libre parole”, dal sottotitolo “La Francia ai Francesi”, il cui
slogan era quanto mai indicativo del vero bersaglio di questa
invocazione: “Il giudaismo. Ecco il nemico!”?
Dopo aver ripreso contro gli Ebrei, che considera razza
inferiore, tutte le vecchie accuse dell’antigiudaismo cristiano
(deicidio, profanazioni varie, omicidi rituali ecc), e aver tratto
lombrosianamente le prove della loro malvagità dai loro
stereotipati tratti fisici, imputa all’ebreo contemporaneo il
delitto di essersi impadronito dell’anima dei bambini
sostenendo la laicità dell’insegnamento (il riferimento è alle
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leggi sull’istruzione laica e obbligatoria di Jules Ferry) e, in
quanto sono arrivati, con i loro capitali, a dominare la stampa
e a piegare alla loro volontà le leggi del paese, di essere la
causa principe della degenerazione dei francesi. La
conclusione non può che portare alla richiesta di espellerli dal
paese e di confiscare i loro beni.
Come fa notare Gérard Noiriel nell’ottimo volume
Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIXe-XXe
siècles), 2007), il suo successo si deve alla sua capacità di
fondere insieme in prospettiva storica, sociale, religiosa e
politica le tre fonti principali delle passioni antiebraiche: 1)
l’antigiudaismo cristiano 2) l’anticapitalismo popolare 3) il
razzismo moderno. Infatti Drumond fa propria anche la tesi
della storia universale come lotta fra le due razze semita ed
indo-europea.
Si erano intanto già diffuse le accuse agli ebrei di far parte di
logge massoniche per meglio realizzare i loro disegni di
dominio: nel 1885 la neonata rivista mensile cattolica “La
Franc-maçonnerie démasquée” (1884-1924) scriveva che
l’Ebreo è l’uomo della loggia, considerata un mezzo per
raggiungere i propri scopi di successo. Comincia così a
circolare la calunnia (e il timore) della congiura giudaicomassonica, che di lì a qualche anno verrà amplificata e
riattualizzata con il falso, redatto al tempo dell’ “affaire
Dreyfus”, dei Protocolli dei savi “anziani” di Sion, con la
collaborazione di agenti russi, prospettanti la minaccia di una
terribile congiura ebraica mondiale.
Noiriel esclude che Drumont possa essere definito un
prenazista, ma riconosce che egli pone il mito negativo
dell’ebreo all’altezza di un’ideologia e di un metodo politico.
In ogni caso le sue idee furono anch’esse una fonte utilizzata
dal nazionalsocialismo.
Nel gennaio 1895 viene presentato, sia pure senza successo,
un progetto di legge per escludere i non francesi (ma nella
sostanza gli ebrei) dalle funzioni pubbliche e lo stesso giorno
un altro progetto simile, per escludere da impieghi civili e
cariche elettive tutti i naturalizzati francesi e i loro discendenti
per quattro generazioni.
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Drumont sarà riscoperto negli anni ’30 dai giovani della
destra vicini all’”Action Française” di Charles Maurras e al
giornale “Je suis partout”.
Sul fronte di un certo visionarismo scientista intanto anche
George Vacher de Lapouge affronta nel 1899, nell’opera
L’ariano e il suo ruolo sociale, il tema delle degenerazione in
termini propriamente razziali, distinguendo due razze
superiori, l’homo europeus, ariano dolicocefalo, che sta al
vertice della scala gerarchica, e in secondo luogo, l’homo
alpinus, brachicefalo, da quelle inferiori, fatalmente nemiche
delle prime due: gialli, neri ed ebrei. Tre anni prima nello
scritto del 1896 intitolato Les sélections sociales aveva
raccomandato al fine del miglioramento delle razze superiori:
-l’eliminazione dei soggetti inutili, perversi o degenerati,
ipotizzando un po’ utopicamente di concentrarli in città dove
fossero loro disponibili ogni sorta di piaceri dannosi (alcool
eccessi sessuali, gioco d’azzardo ecc) così che si
autoeliminassero “tute, cito et jocunde”. L’estinzione della
loro race, aveva scritto, è solo questione di denaro.
-la separazione dei lavoratori manuali e intellettuali in due
caste chiuse, da selezionare attraverso interventi sulla
procreazione in modo da diminuire le capacità intellettive dei
lavoratori manuali potenziando invece quelli degli
intellettuali.
-il ricorso regolare alla fecondazione artificiale, più nobile e
scientifica dell’atto sessuale.
Obiettivo di tutte queste misure è creare una nuova razza
dominante, unica e perfetta, da sostituire all’umanità attuale,
affiancandola da caste specializzate.
A parte queste farneticazioni peraltro precorritrici di
esperimenti e pratiche che sarebbero state davvero tentate e
messe in opera dal nazismo, la biologia razziale si afferma
come cosa seria, richiamando l’autorità di Darwin, e un suo
esponente di rilievo, l’inglese Karl Pearson, allievo di Galton
e rinomato statistico, nel 1934 esalterà la politica razziale di
Hitler proprio come un tentativo di rigenerare il popolo
tedesco. E anche l’eliminazione per eutanasia dei malati e dei
soggetti deboli prima di diventare l’espediente con il quale
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mettere in atto il piano hitleriano di sterminio è proposta dal
biologo Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1899, nel libro Gli
enigmi dell’universo. Da notare che egli accusando gli Ebrei
di avere contraffatto gli insegnamenti di Cristo esalta il
cristianesimo come religione dell’amore. Si potrebbero citare
molti altri autori, istituzioni e movimenti volti a dar voce al
razzismo scientifico in questo primissimo scorcio del
Novecento, ma il tempo non lo consente. Voci simili si levano
anche in Austria, e soprattutto - specialmente in Germania - si
moltiplicano le pubblicazioni divulgative della mistica o della
scienza della razza.
Ma, come rileva George Mosse nella sua opera magistrale
su questa tematica, non c’è più molto da aggiungere sul piano
della teorizzazione. Né nulla di nuovo aggiunge il Mein
Kampf di Hitler (scritto nel 1924. mentre è in carcere dopo il
fallito putsch del 9 novembre 1923, e pubblicato in due
volumi rispettivamente nel 1925 e 1927), salvo la
proclamazione della propria divina missione “razzista” e la
definizione concreta del proprio piano di salvaguardia e
potenziamento della razza ariana, destinata alla civilizzazione
e al dominio del mondo. In questo senso il dichiarato obiettivo
di Hitler è la costruzione di uno Stato razzista, i cui strumenti
devono essere l’eugenetica, la propaganda e l’educazione
razziale. Un termine dunque, “razzista”, che se oggi fa orrore
in primo luogo pensando al significato e alla declinazione
pratica mostruosi che ha assunto sotto il regime nazista e
nell’ultima fase del fascismo (e in troppi altri casi antichi e
moderni..) si era invece diffuso e imposto, come abbiamo
visto, nel vocabolario politico del Novecento con segno
assolutamente positivo.
C’è ancora da dire qualcosa sull’Italia, dove il razzismo, sia
per le ragioni storiche connesse alla lotta risorgimentale, sia
per la riuscita assimilazione degli ebrei italiani, si è impiantato
tardivamente soprattutto per il tramite degli ambienti
accademici e della scienza. C’è, fra gli altri, un
documentatissimo volume di Giorgio Israel e Pietro Nastasi in
argomento, Scienza e razza nell’Italia fascista, del 1998 di
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cui non posso che raccomandare la lettura. Vi si mostra come
l’adesione ufficiale al razzismo antisemita fu alquanto tardiva,
da collocarsi nel nuovo clima dell’Impero mussoliniano,
anche se il primo colpo alla posizione degli ebrei nello Stato
fascista venne dal Concordato del 1929, che incominciò a
differenziarli e a predisporre gli strumenti per una loro
“schedatura”. Ma il processo di giustificazione di quelle che
poi furono le tragiche leggi razziali del 1938 iniziò, se si
esclude un piccolo gruppo di estremisti “scalmanati” che
aderivano in toto alle tesi violente del razzismo tedesco
(Interlandi, Evola, Preziosi, Farinacci e le loro riviste “La
difesa della razza” “La vita italiana”), fra i demografi e gli
antropologi, gli eugenetisti e igienisti sociali verso la fine
degli anni ’30, con l’intento di trovare una via italiana alla
dottrina della razza, capace di differenziarsi dalla via tedesca
brutalmente biologista e deterministica, inaccettabile dal
mondo cattolico, e riscuotere così il più ampio consenso nel
paese. Terreno di coltura e di preparazione all’accoglienza
dell’antisemitismo di Stato erano in ogni caso l’antigiudaismo
della Chiesa (molto radicato ed esplicito ad esempio in padre
Gemelli, che nel 1924, in occasione del suicidio di Felice
Momigliano era arrivato ad augurarsi in uno scritto su “Vita e
pensiero” la morte di tutti i Giudei) e il nazionalismo avverso
al cosmopolitismo ebraico e massonico, tendenzialmente
democratico e internazionalista. Protagonisti della nuova
visione eugenetica che sosterrà la politica razziale
mussoliniana, che voleva essere “italiana” e quindi con una
propria originalità rispetto a quella tedesca, sono Nicola
Pende, fondatore della scuola di medicina costituzionalistica e
dell’ortogenetica e il fisiologo Sabato Visco, che furono tra i
firmatari del cosiddetto “Manifesto degli scienziati razzisti”
uscito sul “Giornale d’Italia” il 14 luglio 1938 (in realtà era un
articolo dal titolo Il fascismo e i problemi della razza). Era il
primo documento ufficiale del razzismo fascista e, recependo
il modello hitleriano, accoglieva un concetto di razza
puramente biologico, affermava l’arianesimo e la purezza di
sangue della razza italiana, escludendo che gli ebrei ne
facessero parte. Per impulso però proprio di Pende e Visco e
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dello stesso Mussolini, che voleva stabilire una versione più
italica del razzismo e più collegata alla romanità, e anche più
accettabile dalla Chiesa cattolica, negli anni successivi questa
visione viene corretta adottando un approccio più
spiritualistico e meno centrato sull’antisemitismo quale fine
precipuo della politica razziale fascista: come obiettivo è
fissato quello di mantenere puro il sangue italiano, ma anche
di creare, evitando matrimoni misti con elementi delle razze di
colore o della razza ebraica, che differiscono dal “tipo
spirituale” romano, una nuova e sempre più eletta razza
unitaria italiana. Pende, sempre più onorato, nel 1941 è
nominato Rettore dell’Accademia della Gioventù italiana del
Littorio e Visco già nel 1939 diventa Direttore dell’Ufficio
Razza. Pende, Visco e il ministro del Minculpop Pavolini
sono gli affossatori del razzismo estremista filo germanico. Si
è così formulata una versione orginalmente italica del
razzismo, come voleva Mussolini. Il manifesto del 1938 è
corretto e nel 1941-42 si elabora un nuovo testo che ammette
l’influenza di fattori endogeni ed esogeni sui caratteri
ereditari, sfuggendo a un rigido determinismo biologico, nega
che la razza italiana sia di origine ariana e sia pura, come non
lo è nessuna razza e afferma l’origine mediterranea e preariana della razza italiana, artefice della civiltà romana,
superiore a ogni altra e caratterizzata anche da qualità
spirituali. La compagine etnica dell’Italia è rimasta la stessa
dei tempi di Augusto e gli ebrei, infima minoranza, non sono
riusciti a intaccarne la grandezza e l’unità biologica. Ciò non
toglie naturalmente che dall’estate del ’38 inizi la serie dei
provvedimenti amministrativi e legislativi antiebraici con tutte
le tragedie che ne conseguono, per gli ebrei e per il paese.
Quanto all’eugenetica, che per Pende fa parte della biologia
politica, anche qui c’è una presa di distanza dello scienziato
dalle posizioni naziste, espressa nel rifiuto dell’eugenetica
negativa, rivolta alla sterilizzazione coatta degli individui con
malattie congenite ed ereditarie e c’è l’impegno nella bonifica
costituzionale dopo la nascita. Ed è sottolineato come in
Italia a differenza di quanto avviene in altri paesi stranieri, ci
si prenda cura con amore delle debolezze e predisposizioni
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morbose, occupandosi anche della sfera morale e intellettuale.
Anche qui si vuole evidenziare uno specifico carattere italico
dell’eugenetica razziale.
Anche nell’antisemitismo Mussolini vorrebbe segnare una
differenza: nel febbraio 1938 un articolo apparso sull’
“Informazione diplomatica” affermato che il fascismo non
voleva perseguitare gli ebrei che non fossero ostili al regime,
ma semplicemente vigilare che il loro peso nella vita
nazionale non fosse sproporzionato al loro numero. Le leggi
razziali varate di lì a pochi mesi, dovevano semplicemente
dare agli italiani, con la separazione dalle altre razze, una
“coscienza della propria superiorità di razza”. Come scrivono
Israel e Nastasi, la parola d’ordine del razzismo italiano era
“discriminare, non perseguitare” Ma questa versione
edulcorata del razzismo doveva servire soprattutto a
tranquillizzare la Chiesa e l’opinione pubblica, che non era in
maggioranza antisemita, e contribuì forse ad alimentare
quell’acquiescenza e quell’indifferenza generalizzata per la
sorte degli ebrei italiani che tanto male ha aggiunto alla
sofferenza delle vittime e che ha gettato un’ulteriore ombra di
vergogna sul colore già fosco di quegli anni tragici.
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