il pensiero razzista nella prima meta` del novecento
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il pensiero razzista nella prima meta` del novecento
Anna Maria Lazzarino Del Grosso IL PENSIERO RAZZISTA NELLA PRIMA META’ DEL NOVECENTO All’alba del secolo XX il veleno del razzismo, anche se questa parola non era ancora in auge, era ampiamente in circolo tanto nelle menti e negli atteggiamenti degli esponenti della cultura “alta” o medio-alta, quanto negli umori popolari di buona parte dell’Europa, e aveva già conosciuto, nella seconda metà, e soprattutto nell’ultimo ventennio del XIX scolo, le sue elaborazioni teoriche o letterarie più significative e influenti. Ciò era accaduto soprattutto nei paesi che si disputavano la scena continentale in veste di grandi Potenze: l’Inghilterra, la Francia, la Germania, ormai rivaleggianti anche sul piano delle conquiste coloniali, sia pure con significative differenze, connesse alla diversa tradizione culturale e alla diversa congiuntura politico-sociale di ciascuno di questi paesi. Differenze che si manterranno lungo la prima metà del Novecento, quando il pensiero razzista si diffonde geograficamente e si rafforza ulteriormente, toccando e coinvolgendo pesantemente anche il nostro Paese. Le ragioni del suo successo, spesso non solo presso gli ambienti conservatori o della destra radicale, sono molteplici: la volontà di potenza connessa all’affermarsi delle ideologie nazionaliste e imperialiste che impone una propaganda incentrata sul mito della superiorità nazionale, non di rado collegato all’idea di una superiore missione civilizzatrice nell’Europa e nel mondo, il credito assicurato all’affermazione di una gerarchia di valore delle razze e dell’ereditarietà dei caratteri razziali dagli ambienti universitari e da scienze quali l’antropologia e la biologia umana, una reazione irrazionale generalizzata alla serie di crisi grandi e piccole che si succedono nel continente o nei singoli paesi, per le quali si va alla ricerca di un capro espiatorio, i timori suscitati dalla rivoluzione bolscevica, ma soprattutto, dagli anni ’20 in avanti, l’effetto della propaganda 1 del nazionalsocialismo hitleriano, che contagia fortemente i paesi che, come l’Austria, l’Italia, e da ultimo la Francia di Vichy, entrano nella sua orbita. Naturalmente non mancano gli oppositori radicali del pensiero razzista, fedeli ai valori dell’illuminismo e della rivoluzione francese e a quel principio di uguaglianza e fratellanza di tutti gli esseri umani che, propugnato dal cristianesimo delle origini, ma da sempre messo in pratica con una certa difficoltà dal cattolicesimo e dalle altre Chiese cristiane, era stato fatto proprio dalla massoneria, non a caso bersaglio accanito dei razzisti otto-novecenteschi: essa aveva molti adepti nelle fila dei democratici e della sinistra radicale, dove allignava, con forza diversa a seconda del paese considerato, il maggior nucleo di oppositori, sia al razzismo in generale, sia al suo sempre più stretto e sempre più doloroso intreccio con l’antisemitismo. Per affrontare dunque, sia pure nel modo impressionistico imposto dal poco tempo a disposizione, un discorso sul pensiero razzista della prima metà del Novecento è necessario fare prima un passo indietro, e fare cenno a scrittori, libri e movimenti di pensiero che, con grande fortuna e influenza avviano le linee di sviluppo successive, che sono molteplici. Nella seconda metà del XIX secolo si consolida e acquista sempre più credibilità il nesso, anche se non necessario e non da tutti accettato, tra la convinzione - accreditata come asserzione scientifica, fin dalla seconda metà del Settecento dell’esistenza di razze umane differenziate, definite secondo affinità biologiche di carattere ereditario, e l’affermazione dell’esistenza di una gerarchia di merito delle stesse, ovvero di valore fisico (bellezza, intelligenza, forza, salute,) e spesso anche intellettuale e morale (attitudini congenite alle virtù, o abilità positive, oppure insufficienze, incapacità, vizi). La pubblicazione, nel 1859, dell’Origine della specie di Charles Darwin, con la teoria dell’evoluzione naturale delle specie e della lotta per l’esistenza in cui si misuravano forze e debolezze di ognuna, (teoria in seguito applicata, dai cosiddetti darwinisti sociali, anche alle “razze”), veniva in qualche modo a sanzionare l’idea indubbiamente anche 2 “ideologica”, della gerarchia delle razze e a darle una plausibile spiegazione scientifica. Ho detto “idea ideologica” della gerarchia delle razze per sottolineare che pur nella sua pretesa scientificità, essa era anche più o meno consapevolmente finalizzata a sostenere o legittimare un progetto politico di dominio dell’una sulle altre, in particolare dei bianchi sui neri, rispondendo alle esigenze di legittimazione del dominio coloniale e, come vedremo meglio fra poco, degli Ariani sugli Ebrei nel continente Europeo. D’altra parte, prima ancora della pubblicazione del fortunato libro darwiniano, il falso aristocratico Arthur de Gobineau, considerato uno dei padri del razzismo, nel suo Essai sur ì’inégalité des races humaines, uscito nel 1853, aveva, sia pure in termini più di filosofia della storia che scientifico-empirici, fatto ricorso alla tradizionale distinzione dell’umanità in tre razze: bianchi, gialli e neri, che riteneva differenziate anche per qualità dello spirito, non solo per riconfermarne nell’ordine la gerarchia di valore, che vedeva rispettivamente riflessa nei comportamenti dell’aristocrazia, della borghesia e della plebe di Francia, ma anche per affermare, all’interno della razza bianca, la supremazia degli Ariani teutonici, da lui posti alla guida della civiltà occidentale e preconizzati quali dominatori del mondo. Egli condannava pertanto gli incroci fra le razze quale fattore degenerativo, e affermava, per senza accenti palesi di antisemitismo, che proprio un passato di incroci con i neri era all’origine della degenerazione degli Ebrei, in origine appartenenti alla razza bianca. Molti degli ingredienti-tipo del pensiero razzista successivo e anche di quello del Novecento erano già presenti in queste prese di posizione, che partivano del resto con molta precocità da tematiche che saranno motivo conduttore delle riflessioni sulle razze e più in generale sulla presenza di stranieri nelle società nazionali, che affioreranno numerose nella Francia di fine Ottocento e del primo Novecento, dominate dal problema della decadenza e della degenerazione. Tornando alla Francia post-quarantottesca, dove gli Ebrei godevano della piena uguaglianza conquistata con la 3 Rivoluzione francese, dobbiamo ricordare, perché anch’esso non ininfluente sui futuri sviluppi dell’argomentazione razzista antisemita, l’accesa avversione di Proudhon agli ebrei, che identificava, come del resto faceva anche Marx, secondo il secolare stereotipo che li collegava al denaro e nella fattispecie otto-novecentesca al capitalismo finanziario. Dà i brividi leggere che il celebrato padre del pensiero anarchico e di un socialismo federativo fondato sulla cogestione era sinistramente giunto ad auspicarne lo sterminio, qualora non fosse stata possibile la loro integrale espulsione dall’Europa. Fortunatamente gli scritti di Proudhon non erano così diffusi e popolari da lasciare un segno immediato, anche se purtroppo il suo provocatorio desiderio, trovò eco e attuazione del diabolico piano hitleriano. Ma torniamo a Gobineau, il cui Essai era stato stampato in 500 copie da distribuire in Francia e altrettante da dividersi tra Svizzera, Russia e Germania. Poca cosa, dunque. Come poteva essere prevedibile l’accoglienza migliore al libro venne dalla Germania, per la cui “razza” nazionale, identificata con gli Ariani, prevedeva e auspicava il dominio sul mondo. Determinante per la circolazione dei suoi scritti fu la sua amicizia con Wagner e con la moglie Cosima, presso i quali Gobineau trascorse gli ultimi due anni della sua vita (1880-1882), accolto e ammirato presso il famoso Circolo di Bayreuth, dove erano e dove saranno a lungo coltivati le mitologie del Volk germanico, i sogni di grandeur teutonica e il violento antisemitismo del Maestro. Grazie alla devozione e ammirazione di uno de membri del Circolo, Ludwig Schemann, cui si dovette anche la creazione di una “Società Gobineau” tedesca (1894), le opere del conte francese sono tradotte in tedesco, e ripetutamente pubblicate a partire dagli ultimi anni del secolo. La traduzione le riadatta però agli umori dei tedeschi, così che i difetti che Gobineau addebitava ai Gialli, poco interessanti perché pressoché inesistenti in Germania, erano direttamente imputati agli Ebrei. Poiché grande fu il successo di questi libri presso i membri della Lega Pan-germanica e poiché molti di essi erano insegnanti, il 4 pensiero di Gobineau venne largamente diffuso tra le giovani generazioni. Presso il Circolo di Beyreuth avrà anche grande fortuna, e siamo proprio alle soglie del Novecento. il pensiero razzista dell’inglese Houston Steward Chamberlain, divenuto genero postumo di Wagner. Chamberlain nel 1899 pubblica I fondamenti del XX secolo, dove afferma l’arianesimo di Cristo, (essendo un Galileo non era ebreo, ma ariano), espresso nei valori da lui incarnati di amore, pietà, onore, valori che a suo dire caratterizzano specificamente anche gli Ariani.Chamberlain attribuisce quindi alla razza germanica, ariana per eccellenza, il merito di avere con la riforma protestante rigenerato il cristianesimo delle origini, che era stato corrotto dall’ebreo San Paolo e in questa versione corrotta fatto proprio dal cattolicesimo; le attribuisce anche la missione di salvare l’umanità dal pericolo rappresentato dall’ebraismo. Come si vede abbiamo nell’opera di Chamberlain un esempio tipico di quel razzismo spirituale o mistico che tanta parte avrà nell’ideologia razzista del nazionalsocialismo e che, sebbene con altri accenti e con altri motivi dominanti, si ritroverà anche nel razzismo italiano dei tardi anni ’30. Chamberlain non dà infatti tanta importanza ai caratteri fisici delle razze, quanto all’”anima razziale”, tanto più alta e dominatrice quanto più lontana dal materialismo. A instillare pregiudizi e odio razziale negli ambienti piccoloborghesi e nella gioventù, sempre a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, era intervenuto in Germania anche lo straordinario successo di pubblico di un accattivante saggio anonimo, di facile lettura e pedagogico già nel suo titolo: Rembrandt come educatore, uscito nel 1890. Opera di uno stravagante e vagabondo personaggio, Julius Langbehn, convertitosi nel 1900 al cattolicesimo, questo libro, che faceva di Rembrandt il modello delle virtù e della superiorità proprio dell’”anima del popolo tedesco” (fedeltà a se stessi, alla piccola patria e al Volksgeist, profondità e lucidità di pensiero, onestà, innocenza, autonomia, amore per la musica) ebbe per decenni una straordinaria diffusione (nel 1930 era alla ottantesima edizione) e, essendo divenuta l’autore un 5 cattolico fervente, veniva di solito regalato ai giovanissimi in occasione di cresime e prima comunione. Colpisce nell’opera la presenza forte del “mito del sangue” che sarà uno dei motivi ricorrenti del razzismo mistico nazista. Riprendendo le vecchie tesi che sostenevano l’ideologia nobiliare, Langbehn affermava l’ereditarietà della qualità intellettuali e morali, attraverso il sangue, che è ciò che fa l’identità dell’uomo, che se di natura superiore, deve restare fedele alle sue origini: “Aus dem Blut kommt die Blüte” (dal sangue viene la fioritura) è uno dei suoi slogan. Dunque il tedesco, per restare fedele al proprio sangue, non deve inquinarlo: non deve contrarre matrimoni o relazioni sessuali con stranieri. Anche Langbehn tracciava una discendenza diretta dei Tedeschi-Ariani da Cristo: sosteneva che il sangue di Cristo è l’anima dei Tedeschi, e per questo profetizzava loro un destino di dominio europeo e mondiale. E’ per difendere la purezza del proprio sangue che essi si battono e versano il loro sangue: la guerra del sangue ariano naturalmente dominatore contro il sangue straniero è vista come giusta e ineluttabile. Anche per Langbehn i nemici principali degli Ariani sono gli Ebrei, definiti un veleno per la Germania, intesi solo a sfruttarla, “democratici” (il che è per lui perversione del giusto ordine!) e intenzionati a “prenderci la nostra anima”. Lo slogan che Langbehn diffonde con maggior successo è “La Germania ai Tedeschi”, dando vita a un modello di pensiero escludente purtroppo non di rado imitato. La gioventù tedesca, l’infanzia stessa di Cristo sono contrapposti alla “vecchiaia” ebraica (un altro slogan sinistro è:”Die Jungend gegen di Juden!” ovvero “La gioventù contro gli Ebrei!”) e Cristo è richiamato anche come il più grande antisemita. Se pensiamo che simili letture era pane quotidiano della gioventù tedesca, raccomandate dalle famiglie e non contrastate dalla Chiesa, comprendiamo almeno in qualche misura come sia stato possibile alla società tedesca non reagire o addirittura accogliere con una certa connivenza le follie hitleriane. Del resto si sa che lo stesso Hitler in gioventù fu lettore di quest’opera, così come di quelle di Gobineau e di 6 Chamberlain, così come fu lettore a della rivista “Ostara. Zeitschrift fur die Blonde (rivista per i biondi)” fondata nel 1905 a Vienna da un altro fanatico profeta dell’arianesimo e fustigatore degli Ebrei, Jorg Lanz Liebenfels. Parallelamente a questo filone di razzismo visionario e,Gobineau a parte - accesamente antisemitico, se ne preparava un altro, in tutta l’Europa più progredita, ancora più subdolo e pericoloso, perché apparentemente incontrovertibile e, per così dire, in camice bianco: quello cioè che scaturiva dalla ricerca scientifica, e che nel corso del ‘900 era destinato al maggiore sviluppo teorico-pratico e, anche, al maggior coinvolgimento quando con le leggi razziali naziste e, successivamente, fasciste, si passò dalla teoria della razza superiore alla pratica politica della sua difesa. Protagonisti di questa linea di pensiero sono soprattutto esponenti del mondo medico: già nel 1850 l’anatomista scozzese John Knox nel libro The races of Men aveva distinto fondamentalmente due razze superiori, poste sostanzialmente alla pari, i Sassoni e gli Slavi ed una infima, i neri, naturalmente destinata alla schiavitù, ma pur ponendoli al di sopra di questi, aveva soprattutto infierito, riprendendo i soliti secolari stereotipi antigiudaici, contro quella degli Ebrei, definiti di straordinaria bruttezza, privi di qualità positive e dotati solo di furbizia. Nel 1869 un altro inglese, Francis Galton ne Il genio ereditario, (ma non era antisemita e considerava positivamente gli Ebrei), aveva posto il problema del miglioramento della razza attraverso matrimoni oculati e aveva inaugurato il movimento eugenetico, che ebbe subito successo con la fondazione di appositi laboratori e società scientifiche (una fondata dallo stesso Galton e altre nel suo nome) istituiti in Germania e altrove già ai primi del Novecento (particolarmente attvo in Germania l’Archiv fü Rassen- ung Gesellschaftsbiologie” sorto nel 1904), dai quali si svilupperà un’altra nuova disciplina: l’igiene razziale. Nel 1907 si preoccupa del miglioramento della razza ariana il darwinista Willibald Hentschel nel suo libro Varuna (1901) che, dopo la prima Guerra Mondiale, sarà anche un obiettivo del movimento giovanile degli Artamanen, di cui farà parte il 7 giovane Himmler. Anche l’antropologia concentra la sua attenzione sulle caratteristiche razziali, effettuando misurazioni e rilievi empirici su vasti campioni di soggetti, e in particolare mettendo a confronto in Germania, tedeschi ed ebrei, raccomandando, salvo eccezioni duramente contestate (è il caso di Rudolf Virchow, fondatore della Società di antropologia tedesca, il quale aveva concluso che non esistevano differenze tra tedeschi ed ebrei), di evitare ogni incrocio tra le due razze. Influenti furono al riguardo anche le teorie dell’ebreo italiano Cesare Lombroso, non razzista, ma interessato ai fenomeni di degenerazione fisica e morale a suo dire chiaramente riscontrabili in caratteristiche somatiche degli individui, che lo avevano portato a individuare i segni esteriori dei delinquenti incorreggibili, per i quali nel 1863, in Genio e follia, era giunto ad auspicare l’eutanasia.Le idee di Lombroso erano state riprese e diffuse, a fine secolo, dal suo allievo sionista ungherese Max Nordau, autore del volume Degenerazione (1892). Ma spostiamoci ora in Francia, dove antisemitismo e razzismo si sviluppano e si fanno virulenti, durante la Terza repubblica, nel clima di frustrazione seguito alla disfatta di Sédan (1870) e all’occupazione tedesca, che era costata la perdita dell’Alsazia e della Lorena e di preoccupazione per la crisi demografica che stava colpendo la Francia, mentre era andata grandemente crescendo, nella seconda metà del secolo, la presenza di immigrazione straniera sul suo territorio. Durante gli anni ’80 si era aggiunto un consistente flusso migratorio di ebrei provenienti dall’est europeo, che sfuggivano le discriminazioni e persecuzioni poste in essere nei rispettivi paesi. Nel momento in cui il Paese stava soffrendo le conseguenze negative sul piano economico e demografico della guerra perduta si scatenano perciò delle reazioni xenofobe e antisemite specie negli ambienti in cui prende vita un nazionalismo conservatore e revanchista. Reazioni che troveranno nuovo alimento qualche decennio 8 dopo in concomitanza con la difficile situazione economica conseguente alla crisi mondiale del ’29. Abbiamo così nell’ultimo ventennio del secolo XIX una fioritura di scritti sul tema della decadenza del primato francese, da taluni concepita come una degenerazione della razza francese: essi si interrogano sulle ragioni del fenomeno e sui modi per porvi rimedio. Non fa meraviglia che, mentre si diffondono per il paese episodi di violenza xenofoba, soprattutto ai danni di lavoratori belgi e italiani, accusati di rubare il pane ai francesi, si veda negli stranieri e in particolare negli Ebrei i principali colpevoli della decadenza, ovvero il capro espiatorio contro cui dirigere il malcontento della popolazione. Nel 1886 il pubblicista Édouard Drumont, con la pubblicazione del libro La France juive, inaugura la prima grande ondata di letteratura e sentimenti antisemiti conosciuta dalla Francia moderna. L’opera, in due volumi di complessive 1200 pagine, ha uno straordinario successo. Nel 1887 è alla 145° edizione! E avrebbe goduto di un rinnovato successo dieci anni dopo al tempo dell’affaire Dreyfus. Nel 1914 è alla 200esima edizione. Questi dato sono oltremodo indicativi del diffondersi di sentimenti antisemiti e razzisti in larga parte dell’opinione nazionale. L’opera, morto Drumont nel 1917, è ampiamente ripresa dalla stampa negli anni ’30 e l’ultima riedizione è del 1941, quando, come scrive Gérard Noiriel, il pensiero di Druomnt è praticamente al potere. Quali sono le tesi di Drumont, nazionalsocialista ante litteram, che fonderà nel 1892 e dirigerà il quotidiano “La libre parole”, dal sottotitolo “La Francia ai Francesi”, il cui slogan era quanto mai indicativo del vero bersaglio di questa invocazione: “Il giudaismo. Ecco il nemico!”? Dopo aver ripreso contro gli Ebrei, che considera razza inferiore, tutte le vecchie accuse dell’antigiudaismo cristiano (deicidio, profanazioni varie, omicidi rituali ecc), e aver tratto lombrosianamente le prove della loro malvagità dai loro stereotipati tratti fisici, imputa all’ebreo contemporaneo il delitto di essersi impadronito dell’anima dei bambini sostenendo la laicità dell’insegnamento (il riferimento è alle 9 leggi sull’istruzione laica e obbligatoria di Jules Ferry) e, in quanto sono arrivati, con i loro capitali, a dominare la stampa e a piegare alla loro volontà le leggi del paese, di essere la causa principe della degenerazione dei francesi. La conclusione non può che portare alla richiesta di espellerli dal paese e di confiscare i loro beni. Come fa notare Gérard Noiriel nell’ottimo volume Immigration, antisémitisme et racisme en France (XIXe-XXe siècles), 2007), il suo successo si deve alla sua capacità di fondere insieme in prospettiva storica, sociale, religiosa e politica le tre fonti principali delle passioni antiebraiche: 1) l’antigiudaismo cristiano 2) l’anticapitalismo popolare 3) il razzismo moderno. Infatti Drumond fa propria anche la tesi della storia universale come lotta fra le due razze semita ed indo-europea. Si erano intanto già diffuse le accuse agli ebrei di far parte di logge massoniche per meglio realizzare i loro disegni di dominio: nel 1885 la neonata rivista mensile cattolica “La Franc-maçonnerie démasquée” (1884-1924) scriveva che l’Ebreo è l’uomo della loggia, considerata un mezzo per raggiungere i propri scopi di successo. Comincia così a circolare la calunnia (e il timore) della congiura giudaicomassonica, che di lì a qualche anno verrà amplificata e riattualizzata con il falso, redatto al tempo dell’ “affaire Dreyfus”, dei Protocolli dei savi “anziani” di Sion, con la collaborazione di agenti russi, prospettanti la minaccia di una terribile congiura ebraica mondiale. Noiriel esclude che Drumont possa essere definito un prenazista, ma riconosce che egli pone il mito negativo dell’ebreo all’altezza di un’ideologia e di un metodo politico. In ogni caso le sue idee furono anch’esse una fonte utilizzata dal nazionalsocialismo. Nel gennaio 1895 viene presentato, sia pure senza successo, un progetto di legge per escludere i non francesi (ma nella sostanza gli ebrei) dalle funzioni pubbliche e lo stesso giorno un altro progetto simile, per escludere da impieghi civili e cariche elettive tutti i naturalizzati francesi e i loro discendenti per quattro generazioni. 10 Drumont sarà riscoperto negli anni ’30 dai giovani della destra vicini all’”Action Française” di Charles Maurras e al giornale “Je suis partout”. Sul fronte di un certo visionarismo scientista intanto anche George Vacher de Lapouge affronta nel 1899, nell’opera L’ariano e il suo ruolo sociale, il tema delle degenerazione in termini propriamente razziali, distinguendo due razze superiori, l’homo europeus, ariano dolicocefalo, che sta al vertice della scala gerarchica, e in secondo luogo, l’homo alpinus, brachicefalo, da quelle inferiori, fatalmente nemiche delle prime due: gialli, neri ed ebrei. Tre anni prima nello scritto del 1896 intitolato Les sélections sociales aveva raccomandato al fine del miglioramento delle razze superiori: -l’eliminazione dei soggetti inutili, perversi o degenerati, ipotizzando un po’ utopicamente di concentrarli in città dove fossero loro disponibili ogni sorta di piaceri dannosi (alcool eccessi sessuali, gioco d’azzardo ecc) così che si autoeliminassero “tute, cito et jocunde”. L’estinzione della loro race, aveva scritto, è solo questione di denaro. -la separazione dei lavoratori manuali e intellettuali in due caste chiuse, da selezionare attraverso interventi sulla procreazione in modo da diminuire le capacità intellettive dei lavoratori manuali potenziando invece quelli degli intellettuali. -il ricorso regolare alla fecondazione artificiale, più nobile e scientifica dell’atto sessuale. Obiettivo di tutte queste misure è creare una nuova razza dominante, unica e perfetta, da sostituire all’umanità attuale, affiancandola da caste specializzate. A parte queste farneticazioni peraltro precorritrici di esperimenti e pratiche che sarebbero state davvero tentate e messe in opera dal nazismo, la biologia razziale si afferma come cosa seria, richiamando l’autorità di Darwin, e un suo esponente di rilievo, l’inglese Karl Pearson, allievo di Galton e rinomato statistico, nel 1934 esalterà la politica razziale di Hitler proprio come un tentativo di rigenerare il popolo tedesco. E anche l’eliminazione per eutanasia dei malati e dei soggetti deboli prima di diventare l’espediente con il quale 11 mettere in atto il piano hitleriano di sterminio è proposta dal biologo Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1899, nel libro Gli enigmi dell’universo. Da notare che egli accusando gli Ebrei di avere contraffatto gli insegnamenti di Cristo esalta il cristianesimo come religione dell’amore. Si potrebbero citare molti altri autori, istituzioni e movimenti volti a dar voce al razzismo scientifico in questo primissimo scorcio del Novecento, ma il tempo non lo consente. Voci simili si levano anche in Austria, e soprattutto - specialmente in Germania - si moltiplicano le pubblicazioni divulgative della mistica o della scienza della razza. Ma, come rileva George Mosse nella sua opera magistrale su questa tematica, non c’è più molto da aggiungere sul piano della teorizzazione. Né nulla di nuovo aggiunge il Mein Kampf di Hitler (scritto nel 1924. mentre è in carcere dopo il fallito putsch del 9 novembre 1923, e pubblicato in due volumi rispettivamente nel 1925 e 1927), salvo la proclamazione della propria divina missione “razzista” e la definizione concreta del proprio piano di salvaguardia e potenziamento della razza ariana, destinata alla civilizzazione e al dominio del mondo. In questo senso il dichiarato obiettivo di Hitler è la costruzione di uno Stato razzista, i cui strumenti devono essere l’eugenetica, la propaganda e l’educazione razziale. Un termine dunque, “razzista”, che se oggi fa orrore in primo luogo pensando al significato e alla declinazione pratica mostruosi che ha assunto sotto il regime nazista e nell’ultima fase del fascismo (e in troppi altri casi antichi e moderni..) si era invece diffuso e imposto, come abbiamo visto, nel vocabolario politico del Novecento con segno assolutamente positivo. C’è ancora da dire qualcosa sull’Italia, dove il razzismo, sia per le ragioni storiche connesse alla lotta risorgimentale, sia per la riuscita assimilazione degli ebrei italiani, si è impiantato tardivamente soprattutto per il tramite degli ambienti accademici e della scienza. C’è, fra gli altri, un documentatissimo volume di Giorgio Israel e Pietro Nastasi in argomento, Scienza e razza nell’Italia fascista, del 1998 di 12 cui non posso che raccomandare la lettura. Vi si mostra come l’adesione ufficiale al razzismo antisemita fu alquanto tardiva, da collocarsi nel nuovo clima dell’Impero mussoliniano, anche se il primo colpo alla posizione degli ebrei nello Stato fascista venne dal Concordato del 1929, che incominciò a differenziarli e a predisporre gli strumenti per una loro “schedatura”. Ma il processo di giustificazione di quelle che poi furono le tragiche leggi razziali del 1938 iniziò, se si esclude un piccolo gruppo di estremisti “scalmanati” che aderivano in toto alle tesi violente del razzismo tedesco (Interlandi, Evola, Preziosi, Farinacci e le loro riviste “La difesa della razza” “La vita italiana”), fra i demografi e gli antropologi, gli eugenetisti e igienisti sociali verso la fine degli anni ’30, con l’intento di trovare una via italiana alla dottrina della razza, capace di differenziarsi dalla via tedesca brutalmente biologista e deterministica, inaccettabile dal mondo cattolico, e riscuotere così il più ampio consenso nel paese. Terreno di coltura e di preparazione all’accoglienza dell’antisemitismo di Stato erano in ogni caso l’antigiudaismo della Chiesa (molto radicato ed esplicito ad esempio in padre Gemelli, che nel 1924, in occasione del suicidio di Felice Momigliano era arrivato ad augurarsi in uno scritto su “Vita e pensiero” la morte di tutti i Giudei) e il nazionalismo avverso al cosmopolitismo ebraico e massonico, tendenzialmente democratico e internazionalista. Protagonisti della nuova visione eugenetica che sosterrà la politica razziale mussoliniana, che voleva essere “italiana” e quindi con una propria originalità rispetto a quella tedesca, sono Nicola Pende, fondatore della scuola di medicina costituzionalistica e dell’ortogenetica e il fisiologo Sabato Visco, che furono tra i firmatari del cosiddetto “Manifesto degli scienziati razzisti” uscito sul “Giornale d’Italia” il 14 luglio 1938 (in realtà era un articolo dal titolo Il fascismo e i problemi della razza). Era il primo documento ufficiale del razzismo fascista e, recependo il modello hitleriano, accoglieva un concetto di razza puramente biologico, affermava l’arianesimo e la purezza di sangue della razza italiana, escludendo che gli ebrei ne facessero parte. Per impulso però proprio di Pende e Visco e 13 dello stesso Mussolini, che voleva stabilire una versione più italica del razzismo e più collegata alla romanità, e anche più accettabile dalla Chiesa cattolica, negli anni successivi questa visione viene corretta adottando un approccio più spiritualistico e meno centrato sull’antisemitismo quale fine precipuo della politica razziale fascista: come obiettivo è fissato quello di mantenere puro il sangue italiano, ma anche di creare, evitando matrimoni misti con elementi delle razze di colore o della razza ebraica, che differiscono dal “tipo spirituale” romano, una nuova e sempre più eletta razza unitaria italiana. Pende, sempre più onorato, nel 1941 è nominato Rettore dell’Accademia della Gioventù italiana del Littorio e Visco già nel 1939 diventa Direttore dell’Ufficio Razza. Pende, Visco e il ministro del Minculpop Pavolini sono gli affossatori del razzismo estremista filo germanico. Si è così formulata una versione orginalmente italica del razzismo, come voleva Mussolini. Il manifesto del 1938 è corretto e nel 1941-42 si elabora un nuovo testo che ammette l’influenza di fattori endogeni ed esogeni sui caratteri ereditari, sfuggendo a un rigido determinismo biologico, nega che la razza italiana sia di origine ariana e sia pura, come non lo è nessuna razza e afferma l’origine mediterranea e preariana della razza italiana, artefice della civiltà romana, superiore a ogni altra e caratterizzata anche da qualità spirituali. La compagine etnica dell’Italia è rimasta la stessa dei tempi di Augusto e gli ebrei, infima minoranza, non sono riusciti a intaccarne la grandezza e l’unità biologica. Ciò non toglie naturalmente che dall’estate del ’38 inizi la serie dei provvedimenti amministrativi e legislativi antiebraici con tutte le tragedie che ne conseguono, per gli ebrei e per il paese. Quanto all’eugenetica, che per Pende fa parte della biologia politica, anche qui c’è una presa di distanza dello scienziato dalle posizioni naziste, espressa nel rifiuto dell’eugenetica negativa, rivolta alla sterilizzazione coatta degli individui con malattie congenite ed ereditarie e c’è l’impegno nella bonifica costituzionale dopo la nascita. Ed è sottolineato come in Italia a differenza di quanto avviene in altri paesi stranieri, ci si prenda cura con amore delle debolezze e predisposizioni 14 morbose, occupandosi anche della sfera morale e intellettuale. Anche qui si vuole evidenziare uno specifico carattere italico dell’eugenetica razziale. Anche nell’antisemitismo Mussolini vorrebbe segnare una differenza: nel febbraio 1938 un articolo apparso sull’ “Informazione diplomatica” affermato che il fascismo non voleva perseguitare gli ebrei che non fossero ostili al regime, ma semplicemente vigilare che il loro peso nella vita nazionale non fosse sproporzionato al loro numero. Le leggi razziali varate di lì a pochi mesi, dovevano semplicemente dare agli italiani, con la separazione dalle altre razze, una “coscienza della propria superiorità di razza”. Come scrivono Israel e Nastasi, la parola d’ordine del razzismo italiano era “discriminare, non perseguitare” Ma questa versione edulcorata del razzismo doveva servire soprattutto a tranquillizzare la Chiesa e l’opinione pubblica, che non era in maggioranza antisemita, e contribuì forse ad alimentare quell’acquiescenza e quell’indifferenza generalizzata per la sorte degli ebrei italiani che tanto male ha aggiunto alla sofferenza delle vittime e che ha gettato un’ulteriore ombra di vergogna sul colore già fosco di quegli anni tragici. 15