VEDERE CON MANO Neumann, Moore, la scultura
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VEDERE CON MANO Neumann, Moore, la scultura
VEDERE CON MANO Neumann, Moore, la scultura Diverse le terre percorse, diversi gli attrezzi che le segnano: eppure le tracce che Henry Moore ed Erich Neumann hanno lasciato rivelano vicinanze e analogie sorprendenti, che configurano linee convergenti di ricerca cresciute negli anni intorno a un potente nucleo ispiratore, in una spirale di rivisitazioni assidue e pazienti, in un concentrico e imperioso riformularsi. Tanto vicine e affini, le loro strade non potevano non incontrarsi: frutto esplicito dell’incontro, il libro che Neumann scrisse poco prima di morire e che, pubblicato nel 1961, venne con singolare rapidità tradotto in italiano già nel 1962: Il mondo archetipico di Henry Moore. Il titolo è esplicito: la chiave di lettura che l’autore adopera per inoltrarsi nella produzione artistica dello scultore inglese è quella derivante dalla sua lunga e profonda attenzione per quei processi e quelle immagini “capaci di conferire ordine e senso alla conoscenza della realtà interna ed esterna”,1 sulla scia della concezione junghiana degli archetipi. Non è qui il caso di addentrarsi nel backgound teorico della ricerca di Neumann, o di seguire gli influssi che essa ha avuto nello sviluppo della metapsicologia di scuola junghiana: qui ci interessa piuttosto seguire come – partendo da quel ‘corpo’ di pensiero che, pur vasto e articolato, manteneva l’atteggiamento di diffidenza nei confronti di gran parte dell’arte novecentesca già espresso da Jung – egli riesca ad accostarlo proprio a questa, all’arte del tempo della modernità che si prolunga sino alle forma a noi contemporanee. Corpo quanto mai sfuggente, tanto seducente quanto impervio, sirena e naufragio per l’Erklärung entusiasta di molte ‘tecniche delle luci’, antiche e recenti, segnatamente di quella psicoanalitica. Ma il rischio non lo corre soltanto la psicoanalisi, che anzi sembra ormai fin troppo cauta: è il rischio/avventura che si corre ogni volta che due regni, due lingue, due fedi si sfiorano, si sfidano, trovano/provano uno scambio… Infatti qui abbiamo a che fare con quanto avviene in punti di frontiera tra Lingua/parola e Lingua/mano, territori che la teoresi in fondo può solo sfiorare. Neumann questo lo sa, e ci avverte: “Contro il criterio psicologico applicato all’esame di un’opera d’arte o di un artista ricorre di continuo l’obiezione essere tale metodo idoneo a cogliere tutt’al più i valori di contenuto, ma sostanzialmente inadeguato ad approfondire i criteri della forma, principi essenziali dell’arte e dell’opera d’arte”. E’ noto che coincidenza di forma e contenuto - come tensione asintotica della forma artistica - sia principio informativo di gran parte dell’estetica, non solo novecentesca; ma è anche noto come essa sia servita spesso a coprire pigrizie e carenze di strumenti critici; e va detto che anche il nostro autore sembra a volte dimenticare tale obiezione, quando si lascia prendere dal suo daimon geneticoevolutivo, che lo attira più verso il disegno tematico di fondo che verso lo specifico generativo formale. Del resto lo stesso Moore è molto esplicito sull’incessante riconfigurarsi nella propria opera di pochi temi dominanti, quando scrive: “Nelle mie sculture (…) ho utilizzato in permanenza due particolari motivi o soggetti: la ‘figura sdraiata’ (Reclinig Figure Idea) e la ‘madre con bambino’ (Mother and Child Idea). Tra le due, il tema ‘madre con bambino ‘ è stato la mia ossessione più profonda”. C’è da sottolineare che quando usa il termine “ossessione”, egli ne fa un uso ben preciso, a dire di una vera e propria ‘presenza’ che incombe e incalza con forza, e insieme di una tensione generatrice che continuamente eccede e consuma le forme che la rappresentano, in un lavoro di deformazione e di rinvenimento che ‘obbliga’ l’artista, prima e oltre ogni cosciente articolazione del suo fare. Ma ciò che la peculiare ‘ossessione’ di Moore sembra esprimere è, secondo Neumann, proprio la particolarità del rapporto che si instaura “tra processo creatore e figura creata”: piuttosto che basarsi sul ‘trasferimento’ di qualcosa di interno-soggettivo (dell’artista) in qualcosa di esterno-oggettivo (della pietra, del legno, ecc.), “… l’opera nasce dal rapporto permanente di identità tra l’oggetto da configurare e il creatore … è l’oggetto non configurato che feconda il modellatore, così come il modellatore porta a termine, plasma e genera l’oggetto da configurare. In questo processo la stessa natura creatrice crea nell’uomo creatore, si manifesta in lui e attraverso di lui, così come essa fa in genere allorquando nella qualità di scultrice naturale dà origine alla creatura. Questo elemento materno- naturale è è il soggetto dell’opera di Moore.”2 Sono termini analoghi a quelli che il filosofo boemo Jan Mukarovsky usa quando individua la dominanza dell’elemento “inintenzionale” attivo nel processo creativo, processo che per lui si estende fino a comprendere l’intero circuito creazione-fruizione dell’opera, che riguarda sia l’artista come primo fruitore, sia il pubblico come complemento necessario. La consapevolezza di tale dimensione, mai del tutto assente nella storia dell’arte, è andata acquistando rilevanza sempre maggiore in quella moderna occidentale, segnando, e segnalando, un mutamento profondo (solo profondo?) nei modi e nel senso del ‘fare’ artistico. In particolare per la scultura, è ormai presenza diffusa: così lo coglie, da par suo, René Char: “Sculpteur, bien que subordonnée et nonchalante, la nature traite d’égal a égal avec le sculpteur. Il n’obtient les fruits sublimés de ses puvoirs qu’après s’être tardivement rendu maître du coeur invisible de la pierre, du bois volage e du metal taciturne (…) A ce point le sculpteur observera que le couvert est mis pour des convives perpétuels dont il deviendra l’hôte.”3 Non basta scorrere le immagini delle numerosissime ‘variazioni sul tema’ che Moore ha realizzato e di cui, con scrupolo documentario, Neumann ha giustamente corredato il testo: soltanto un ‘contatto’ diretto e ravvicinato con l’opera e la sua tridimensionalità può instradarci adeguatamente, farci cogliere la potenza dell’elemento materno-naturale che anima le sculture di Moore, la loro vocazione a ‘incarnare’ la terra, a ‘farsi corpo di luoghi’ (secondo l’espressione di Heidegger). Ricordo come, alla mostra tenutasi a Firenze molti anni fa nello spazio del Forte del Belvedere, le grandi sculture di Moore attirassero bambini e adulti a un contatto fisico, in un invito a essere toccate e percorse nelle cavità e negli scoscendimenti, in un corpo a corpo sorpreso e riconoscente. Era la risposta a un richiamo vitale, un riconoscersi abitanti legittimi di uno spazio consonante. “Per una conoscenza approfondita della scultura di Moore non è efficace soltanto la percezione ottica superiore e quella che riassume nella visione, ma andando al di là o meglio verso il basso, Moore ci conduce in uno strato ontogenetico e filogenetico più antico, nel quale l’esperienza tattile dell’elemento materiale ha una parte eminente.”4 Il fatto che dei bambini – che ‘toccano tutto’ sì, ma solo quel ‘tutto’ suscettibile di orizzonte relazionale – volessero entrare in un corpo a corpo con le sculture, ci dice di come quei blocchi di materia ‘inerte’ fossero carichi di un materno percepito non solo con gli occhi, organi dell’idea, ma ancora più sottilmente e intimamente trasfuso attraverso il gesto del toccare, come in rimbalzo e continuazione di un precedente toccare, quello dell’artista, insistito, martellante, prolungato fino alle ultime carezze della levigatura o della pàtina… Si dirà: tutta la scultura è un infinito percorso della mano, di gesti che hanno toccato e lasciare un segno… Certo è così: ma qui si tratta di una diversa sostanza di tocco, che il bambino avverte: la diversità tra un toccare che risponde a istanze dell’occhio, del controllo - che trasporta ‘a bacchetta’ il comando di questo sopra un materiale servile, al servizio dell’occhio, dell’idea, della intenzione cosciente - e un altro toccare, che è risposta a un richiamo proveniente dalla materia in quanto sorgente fattiva e alleata. “Formatrice” (Plàsteira) è detta la Phisis negli Inni Orfici: con questa antica rivale l’artista ritenta un’intesa da pari a pari, in un’alternanza di guida, di scambio di posto tra artefice e strumento, tra disegno e disegnatore. E’ una tregua: cessa, o cambia di valore, la ‘violenza’ di una lotta disperante che al un caos immobile, al gelido sorriso di una materia/natura indifferente rispondeva con l’illusione grandiosa del perfetto dominio… La lotta di Michelangelo, che forse in nome dei suoi ‘prigioni’ prende a martellate il ginocchio del Mosè, come vuole la leggenda… o quella di Arturo Martini, che nel penultimo anno di vita gli fa scrivere le pagine di resa e di svolta di Scultura lingua morta… Forse tutto ciò allude a qualcosa che il nostro tempo sta oscuramente partorendo: il lento esaurirsi della contesa con la Terra, ingaggiata per questioni vitali di controllo e di dominio da una umanità-bambina autoproclamatasi vertice di una scala da lei stessa costruita e brevettata; esaurimento e trasformazione che Neumann aveva già colto, parlando a ‘Eranos’ nel 1953 del Significato dell’archetipo della Terra nell’era moderna. Focolai di tregua si sono accesi in luoghi segreti e appartati, spesso di angelico squallore come l’atélier di Giacometti visto da J. Genet; o in quello più aperto e luminoso di Moore, fervido di grande alchimia e di pazienza artigiana. Tregua operosa, quella di Moore, che rende possibile il realizzarsi di una vera e propria riorganizzazione ‘estetica’, attraverso un ribilanciamento sensoriale che investe il costituirsi stesso dell’esperienza; la quale per essere davvero tale non può amputarsi del proprio costituirsi ‘in sensu’ (aisthesis), nel qui-e-ora della condizione materiale, oggettiva. Tregua operosa per radicare ogni oriente, ogni visione nuova del mondo; apertura per un gioco di valori più consapevole della propria complessità e mutevolezza; gioco legato e affidato al divenire dei canoni, alla sorpresa dell’accordo inedito e al cristallizzarsi inevitabile in armonici che segnano i modi nel tempo, nella storia. Neumann coglie queste migrazioni del canone con acutezza e precisione quando afferma che “il vecchio metodo plastico della scultura (…) mira a un’esperienza ottica della totalità, che è opera unicamente dell’occhio, simbolo della coscienza, e presuppone ed esige un riscontro, un vis-à-vis a distanza. In codesto riscontro dell’elemento ottico si attua in pieno la scissione soggetto-ogetto, che è proprio ciò che Moore, scientemente o inconsciamente, vuole evitare.”11 Questa riorganizzazione percettiva a favore della componente “aptica” (= tàttile) della scultura comporta, con il venir meno della distanza, una sorta di volontario accecamento, che permette di entrare per avvicinamento empatico nel campo di valori plastici affidati alla ostensione di una intenzionalità dell’opera intrinsecamente compos sui, causa e fine di se stessa. Pèrdono così di rilevanza – se non di significato – i valori più “statuari”, incentrati sulla linea, sul contorno, sul disegno, che agiscono nei confronti della materia come applicando o ricostituendo una seconda pelle, quasi una chirurgia plastica o una tassidermia. Qualcosa di analogo a quanto per la pittura accade in quello che è stato definito come uso ‘timbrico’ (o ‘araldico’) del colore, in contrapposizione a un uso ‘tonale’ – con esplicito riferimento a termini musicologici. Questi accostamenti accennano a confronti con movimenti artistici ben noti, come ad es. l’impressionismo (in pittura e in musica) per l’uso tonale, o il fauvisme, l’informale, la musica atonale e infratonale (uso timbrico). Correnti artistiche che segnano mutamenti percettivi che, oltre l’artista, coinvolgono chiunque senta questo richiamo in profondità; e qui profondità sta paradossalmente – è stato detto da altri!’- per superficie, per pelle. “Colui che vive queste sculture diventa – come nel romanzo di Gulliver o nelle fiabe – un essere minuscolo che si muove sulla terra”6: vengono in mente le riflessioni di Heidegger, a commento dell’opera di un altro scultore, Erhart Kästner, contenute nel breve scritto L’arte e lo spazio, del 1969, densissima meditazione sugli interrogativi e le proposte che il fare artistico suscita e alimenta su quell’a priori esperienziale che è la spazialità: “Il gioco dei rapporti tra arte e spazio dovrebbe essere pensato a partire dall’esperienza di luogo e di contrada”, e questo in quanto lo spazio può darsi nel “fare - e lasciare – spazio”, cioè nel preparare “per le cose la possibilità di appartenere a un luogo (…)”, dove è possibile quel “custodire che rende libere le cose nella loro contrada”, nella loro”libera vastità”, condizione per cui l’Aperto può “lasciare sorgere ogni cosa nel suo riposare in se stessa”.7 Nella scultura, nell’arte come scultura, anche per Heidegger non si tratta di di dominare, di prendere possesso di uno spazio: “La scultura sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada o custodendola, tengono raccolto intorno sé un che di libero che accorda (gewährt) una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo alle cose”.8 Sembra qui di ravvisare - al di là delle peculiarità espressive dei due autori – indubbie analogie con quanto Neumann ci ha appena detto riguardo all’esperienza di chi, trasformandosi in abitante minuscolo di sculture diventate ‘paesaggio’, ritrova le cose nella loro primitiva e primaria presenza, attraverso la primitività e primarietà del (proprio) corpo che empaticamente accorda il suo essere ‘cosa tra cose’, in un oscillante immedesimarsi tra il dentro e il fuori che proiezione del Medesimo, ma anche alterazione dell’Identico. Del resto lo stesso Moore aveva fornito espliciti ragguagli su ciò che succede in quelle vicende di fecondazione e maieutica reciproche (opera-artefice, materia-progetto, dentro-fuori…) che fanno il processo creativo, dove il ‘fare’ è teso tra coppie polari in continue permutazioni: “E’ come se egli (l’artista) concepisse la forma compatta nell’interno della sua testa… Egli osserva una forma complessa torno torno, da ogni parte; mentre egli considera un lato, sa quale aspetto abbia l’altro. L’artista si identifica con il centro di gravità, la massa e il peso di questa forma. Ne considera il volume come lo spazio soppiantato nell’aria dalla forma.”9 Qui il processo creativo viene descritto come sorretto e guidato da una modalità che Neumann definisce “abbracciante”, come “atto per natura comprensivo”, espressione del “femmininomaterno”, caratterizzante ciò che altrove e in più riprese egli chiama “coscienza matriarcale”. Atto questo che trova in Henry Moore un interprete dalla eccezionale modulazione espressiva, tanto che la sua opera può essere letta come una grande rappresentazione del processo creativo stesso: una grandiosa autorappresentazione… Auto-rappresentazione che ha consumato ogni residuo di compiacimento estetizzante, ogni enfasi celebrativa della singolarità del proprio destino - trappola frequente per l’artista/persona (o Persona)-: nel percorrere la tappe dell’opera di Moore, con Neumann come guida, si è condotti dentro un’esperienza di autentica descensio ad inferos, di una vera e propria humiliatio: sprofondamento senza garanzie, bocca che accetta di riempirsi di terra senza sapere se avrà abbastanza saliva per impastarla; e poi, ancora, pasta che non lega, pasta che si spezza, si disfa, tra le urgenze del dentro e gli assalti del fuori (o viceversa)… Humiliatio (da humus) dove soccorre solo la pazienza di un ego patiens, in grado di bruciarsi e di giocare con la cenere, con “ciò che resta del fuoco”10: con le ombre, le immagini, con le anime degli eroi assiepate nella Valle degli Asfodeli, oltre lo Stige… Asphodelos - secondo Graves – significa ‘ciò che non è stato ridotto in cenere’,11 e ciò che attende di essere incenerito è il corpo dell’eroe, la sua ascendente giovinezza. Questa è la lettura classica, che congedava per sempre l’invitato dall’ospite; ma l’opera di Moore e le indicazioni di Neumann, la loro avventura creativa, hanno ancora questo da dire: che a morire qui non è già il corpo dell’eroe, ma più precisamente l’eroe-del-corpo, il sogno di signoria e di controllo, di altezza e lontananza. Corpo dominatore, in una terra da dominare, come vuole la tradizione biblica e la statuaria funebre. E se a morire è tale eroe, morire non è morire: è il tragitto sacrificale dell’io-corpo, il suo riconoscersi nella consegna al farsi luogo,al suo destino di abitante-abitato: come carne della Terra, la grande necessaria. Che gli dovrà riconoscenza per il canto, il grido, il silenzio che le danno parola, dove il Qui e l’Altrove, per un lungo attimo vicinissimi, si toccano. NOTE 1) Vitolo A., Erich Neumann e la prospettiva mitica, in Trombetta C., (ed.), Psicologia analitica contemporanea, Bompiani, Milano, 1989, p. 469 2) Neumann E., Il mondo archetipico di Henry Moore, trad. it. A cura di R. Raho, Boringhieri, Torino, 1961, p. 32 3) Char R., Sculpteur, (in Fênetres dormants et porte sur le toit - 1979), in Oeuvres complete, Gallimard, Paris, 1983, p.590 4) Neumann E., op. cit., p.60 5) Neumann E., op. cit., p.60 6) Neumann E., op. cit., p.60 7) Heidegger M., L’arte e lo spazio (1969), trad. it. A cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova, 1979, p. 21, 17, 21 8) Heidegger M., L’arte e lo spazio (1969), trad. it. A cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova, 1979, p. 23 9) Neumann E., (in) op. cit., p.30 10) Derrida J., Ciò che resta del fuoco, trad. it. A cura di S. Agosti, Sansoni, Firenze, 1984 11) Graves R., Miti greci (1955), trad. it. a cura di E. Morpurgo, Longanesi, Milano, 1983, p. 109, nota 10 Pubblicato in Immediati dintorni- 1992, rivista annuale di psicologia analitica e scienze umane (Moretti & Vitali editori, Bergamo) Revisione maggio 2014