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IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
1
Le idee, le opinioni e i giudizi che appaiono in questa Rivista
sono da ascrivere solamente ai loro autori
e non rispecchiano necessariamente quelle dell’associazione «Il Furore dei Libri»
Il Furore dei Libri
rivista quadrimestrale
dell’Associazione culturale
di promozione sociale
“Il Furore dei Libri”
n. 12-13
settembre-dicembre 2014
Sommario
La Rivista del Furore è aperta al contributo di tutti gli appassionati del libro e della lettura.
Per riceverla, gratis, è sufficiente fare o rinnovare l’iscrizione annuale alla nostra Associazione.
Gli iscritti possono collaborare con articoli e rubriche, potendo proporre, in quest'ultime, anche opere di non
soci, purché tutti gli articoli e i servizi presentati abbiano sempre il libro e la lettura come tema principale.
∏
I testi pervenuti, solo in forma elettronica, saranno utilizzati nei tempi e nei modi stabiliti dalla Redazione
Rubriche
Articoli
Non è previsto alcun compenso per le collaborazioni.
3
editoriale
hanno scritto
DOMANDA DI ISCRIZIONE - 2015
ringraziamenti
Cassa Rurale di Rovereto
per il sostegno alla Rivista
e a tutte le persone
citate in questa pagina
per aver prestato la loro opera del tutto
volontariamente e gratuitamente.
Direttore responsabile
Giuseppe Gottardi
Responsabile redazione
Fabio Casna
Redazione
Marcello Curci
Chiara Ribaga
impaginazione
Marianna Vettori
Copertina
Bruno Zaffoni
Gregory Alegi
Carlo Andreatta
Livio Bauer
Vladimir Beşleagă
Italo Bonassi
Alessandra Bonassi Vivaldi
Barbara Bottazzi
Fabio Casna
David Cerri
Diego Cescotti
Liliana De Venuto
Giacomo Di Marco
Anna Maria Ercilli
Federica Fortunato
Renzo Galli
Francesca Garello
Ginevra G. Gottardi
Giuseppe Gottardi
Maria Grazia Masciadri
Maria Luisa Mora
Chiara Ribaga
Mario Rolfini
Silvio Sega
Catia Simone
Stefano Tonietto
Marta Villa
Nicola Zoller
Io sottoscritt_ ______________________________________________________
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residente a____________________ via__________________________________
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Tribunale di Rovereto del
12/05/2010
Iscrizione ROC n. 19725
Il Furore dei Libri Editore
38068 Rovereto
Corso Bettini 43
Redazione:
[email protected]
Tipografia:
Grafiche Stile s.n.c.
38068 Rovereto (TN)
via Roggia, 1
www.ilfuroredeilibri.org
50
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77
Rovereto, ______________________
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
94
Stefano Tonietto
Firma _____________________
101
sensi dell’art. 13 del D.lgs.
196/2003
L’Associazione culturale “Il furore dei libri”, in qualità di titolare del trattamento,
PolemicheAidiaboliche
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Giacomo
Di Marco
Diego Cescotti
La nobile arte della
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all’Associazione in qualità
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potreteau
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La cui
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corps
Gregory Alegi
per l’esercizio dei diritti previsti dall’art. 7 D.lgs. 196/2003 (relativi alle facoltà di cancellazione integrazione o modifica
Federica
Fortunato
dei dati, etc.) è il Presidente pro tempore dell’Associazione culturale “Il furore dei libri” ai recapiti della sede.
26
Il rogo dei libri
∑
Mario
Rolfini
data ______________________
36
questo numero - composto nei caratteri adobe minion pro, myriad pro, arno pro e ITC edwardian script
è stato stampato su carta fabriano palatina in 300 copie delle quali
10 firmate e numerate da i a x — 40 numerate da xi a l — 250 non numerate
questa è la copia numero
2
6
chiede di essere ammesso a far parte in qualità di socio dell’Associazione Culturale “Il Furore dei Libri”
e allo scopo dichiara di aver versato sul Conto Corrente intestato a IL FURORE DEI LIBRI
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la quota pari a Euro ___ ,conversazioni
corrispondente bibliofile
alla quota annua di:
“Cos’è dunque questa ☐ € Il
Arce
Rovereti”
sostenitore
10“Pro
- Socio
studente
☐ € 30 - Socio ordinario ☐ € 50 o più - SocioRinvenimenti
Conga letteraria
di Panfilo
Sassi
magia dell’etnografo?”
Pinocchiata
Dichiara di essere consapevole che
l’adesione
potrà dirsi perfezionata
solo a seguito di accettazione
della domanda
Giuseppe
Maria
Gottardi
da
parte
del
Consiglio
Direttivo.
Nel
caso
di
non
accettazione
della
Ginevra G. Gottardi
Marta Villa
Un carteggio
domanda la somma versata verrà integralmente restituita.
Treves et alii (1890-97)
80
105
Firma per accettazione __________________________________
Narrare la storia
Carlotta Perini.
La figura storica
Liliana De Venuto
lo scaffale
Wislawa Szymborska
Italo Bonassi
RICORDATI IL 5 per 1000
La biblioteca
indicando
il
codice
fiscale
dell’
associazione culturale di promozione sociale
“virtuale” di Dante
il Furore dei Libri
Fabio Casna
c.f. 94030270220
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
3
Editoriale
C
113
127
il furore del rock
Jim Thompson Green On Red, The
Killer inside me
libro chiama libro
Full Fathom Five
(Thy father lies)
Livio Bauer
129
120
il furore del cinema
Capote, A sangue freddo
David Cerri
parlando di libri...
Tolstoj, il ricordo
nei diari
Catia Simone
Anna Maria Ercilli
122
132
Marginalia
Un mondo in una lacrima
Vladimir Beşleagă
124
parlando di libri...
La banalità del male
di Hannah Arendt
Alessandra Bonassi Vivaldi
139
La Biblioteca di...
... Livio Caffieri
Silvio Sega
142
Gli Amanti dei Libri
Calvino e le Lezioni
Americane (parte I)
Barbara Bottazzi
145
on il numero 12-13 la rivista cambia, non il suo contenuto
o la sua forma, ma cambiano le persone che dietro le fila
tessono i rapporti con gli autori, brigano attorno agli articoli e con doverosa pazienza e con chirurgica competenza impaginano il tutto. Le persone infatti creano mirabilmente questa rivista, che da questo numero si è dotata di una direzione e di una redazione tutta nuova. Dopo il pregevole lavoro di Renzo Galli, che
ha diretto magistralmente e condotto in porto sana e sicura la rivista dalla sua fondazione fino al numero 11, ora il timone è stato
raccolto da Giuseppe M. Gottardi, direttore responsabile, e dal
sottoscritto, con il compito di coordinare i lavori, con l’aiuto insostituibile di Marcello Curci, Chiara Ribaga e Marianna Vettori.
La rivista procede spedita, e questo numero – poderoso – presenta
qualche lieve novità e qualche sorpresa sparsa qui e là. Sta al lettore attento il ritrovare queste briciole disseminate fra le pagine!
Gli articoli, che vantano la collaborazione di due esponenti culturali importanti, Marta Villa e Mario Rolfini, sono pregevoli ed interessanti, mentre le rubriche, spaziando fra diverse materie, incuriosiscono il lettore e forniscono diversi spunti per nuove letture.
Non voglio svelare altro del suo contenuto, poiché è giusto che il
lettore sfogliando più e più volte le pagine veda con i suoi occhi e
legga ciò che più gli interessa. A chiusura voglio ringraziare tutti
quanti hanno collaborato ed aiutato nella gestione e preparazione
di questo numero. Numerose sono state le persone che hanno sostenuto il nostro lavoro anche con un semplice gesto e con una parola di incoraggiamento. Ringrazio ancora una volta Renzo per il
lavoro fatto in questi anni e mi auguro che i prossimi numeri pos-
146
Parole per strada
Lasciamo andare le parole
Maria Luisa Mora
151
notizie dal furore
159
l’ ultima pagina
Gabriel Garcìa Màrquez
Carlo Andreatta
Recensione
Aiace, I’eroe che
ci aiuta a vivere
(e a perdere) con dignità
Nicola Zoller
E
Tra libro e gioco,
un arrivederci
Francesca Garello
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2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
5
editoriale
editoriale
sano in qualche modo procedere seguendo la strada già tracciata.
Questo numero non avrebbe potuto uscire senza la lungimiranza
del Presidente della Cassa Rurale di Rovereto, Paolo Marega, che
ha generosamente contribuito per la stampa della rivista.
Chiudo con le parole che Graf, Novati e Renier scrissero nel programma inaugurale del “Giornale storico della letteratura italiana” nel lontano 1883 circa il significato culturale di una rivista,
che come la loro vuole rappresentare la nostra. Il giornale è “lo
strumento vivo e incessantemente operoso della critica, è una creazione di quello spirito critico ond’è animata la scienza moderna.
In esso si cimentano le opinioni, in esso si elaborano i materiali, in
esso si compie tutto quel lavoro preparatorio, minuto e paziente,
ond’esce poi la verità scientifica, costruita e provata: lavoro di
molti, che non può aver luogo nel libro, ma richiede un campo libero e neutro. Non altro, insomma, è il giornale, se non l’organo
per cui il contributo continuo del sapere e dell’opera di molti passa
mano mano in corpo di dottrina” (GSLI, 1 [1883], p. 2).
nostri amati Soci e Lettori, la verità, il bello, il giusto e il bene.
Ho scritto ‘sana’ e questo è suffragato dalla risposta associativa.
Nuovi Soci sono entrati a far parte del nostro sodalizio, mostrando grande interesse per la nostra attività.
Nel periodo storico attuale, caratterizzato da gravi difficoltà economiche, con un sistema pubblico boccheggiante per quanto riguarda i contributi alla Cultura, la forza della nostra proposta,
amplificata dalle recenti conquiste che il nostro fiore all’occhiello,
l’importante Concorso Nazionale Parole per Strada, ha riportato
in Moldavia e a seguire in Serbia, ci permette di trovare nuove
strade che speriamo possano continuare nel tempo.
Questo Aprile vedrà il decollo della nuova Mostra di Parole per
Strada dal titolo Lasciami andare, che ha avuto un riscontro di
scrittori quasi unico nel panorama culturale nazionale: 138 autori tra cui diversi stranieri.
A tutti costoro offriremo la ormai tanto ricercata Antologia. Ma
non solo: 99 di essi oltre ai 10 vincitori saranno esposti per ben sei
mesi, da Aprile a Settembre, in tante attività economiche della nostra città.
Tutto questo senza dimenticare che abbiamo ripreso in mano tutti
i nostri mercoledì alla Biblioteca Civica di Rovereto grazie all’impegno costante di alcuni Soci. Il terzo mercoledì del mese, che abbiamo deciso di concludere in pizzeria, si è rivelato decisamente
vincente.
Questo è anche l’anno che ha visto finalmente sorgere un’efficiente
Segreteria che ha liberato il Direttivo da pesanti incombenze.
La nostra Rivista gode di grande salute e i nuovi autori fanno ben
sperare per il suo futuro.
C’è e ci sarà sempre tanto da fare ma non sarà mai un problema
perché Il Furore dei Libri è il nostro piacere.
Fabio Casna
C
arissimi Soci,
vengo a Voi con questa mia per illustrarVi l’operosa attività
che il nuovo Direttivo ha sviluppato nell’anno testé
trascorso.
Lungi dal tediarVi con semplici elenchi, mi preme soprattutto ribadire che se qualcuno auspicava un rinnovamento culturale questo si è sviluppato solo nella continuità.
E non poteva essere altrimenti. L’undicesimo anno della nostra sana e forte Associazione Il Furore dei Libri ci vede tutti uniti, con
nuove giovanili forze, nella perenne battaglia di far assaporare ai
6
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Giuseppe Maria Gottardi
Presidente
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
7
cos’È dunque questa magia dell’etnografo?
L’audacia di un procedimento simile è, tuttavia, compensata dall’umiltà,
potremmo quasi dire dalla servilità, dell’osservazione così come la pratica
l’antropologo. Abbandonando il suo paese, il suo focolare, per periodi
prolungati; esponendosi alla fame, alla malattia, talvolta anche al pericolo;
esponendo le sue abitudini, le sue credenze, e le sue convinzioni a una
profanazione di cui si rende complice, quando assume, senza restrizioni
mentali né secondo fini, le forme di vita di una società straniera, l’antropologo
pratica l’osservazione integrale, quella dopo cui non esiste più nulla,
se non l’assorbimento definitivo – ed è un rischio – dell’osservatore,
da parte dell’oggetto osservato.
Claude Lévi-Strauss1
Cos’è dunque
questa magia
dell’etnografo?
La narrazione etnografica
da Bronislaw Malinowski a Marcel Griaule
C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, pp. 62-63.
a scrittura, in antropologia, è essenziale
quanto andare sul campo ad osservare la cultura che si intende studiare o di cui si vuole
dare una interpretazione: dopo aver calcato le strade,
vissuto a contatto con l’umanità oggetto della ricerca, si
deve mettere nero su bianco la propria esperienza etnografica. In questo modo nasce una vera e propria
narrazione dell’altro e della nostra relazione con esso e
con la sua parola. Proprio Michel de Certeau, gesuita e
professore di antropologia, etnologia e scienze delle religioni all’Università di Parigi VIII e all’Ecole des Hautes Études en Sciences Sociales in diversi suoi saggi ha
analizzato questa componente fondativa delle scienze
etnologiche. La stessa parola etnografia rivela la sua
origine: scrittura riguardo i popoli, o meglio le culture,
o ancora più approfonditamente scrittura dell’altro.
Proprio all’interno del dibattito scaturito dal ripensamento riguardo questa modalità di scrittura, si situa
Michel de Certeau: egli “insiste sul carattere scritturale
della storia qualificando quest’ultima, in maniera originale e un po’ provocatoria, come una pratica sociale
in grado di assolvere a una specie di rito funebre, mediante il quale una società (un’epoca) sarebbe in grado
di esorcizzare la morte grazie all’adozione di un linguaggio capace di conferire un senso al passato in rapporto al presente”2. Proprio nei suoi testi assistiamo al
tentativo di interrogare la concezione della scrittura in
1 - C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi,
Torino 1967, pp. 62-63.
2 - U. Fabietti, Introduzione, in M. de Certeau, La scrittura dell’altro,
Cortina Milano 2005, p. XXII.
di Marta Villa
8
L
1-
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
quegli autori conosciuti come precursori delle moderne scienze antropologiche e quindi “fondatori di discorsi su una alterità la cui comprensione poteva avvenire solo all’interno di una visione cristiana e occidentale della storia del mondo”3.
Possiamo qui ricordare ad esempio Jean de Léry
(1534-1611), prete riformato, e Joseph-Francois Lafitau
(1681-1746), gesuita, che attraverso la scrittura hanno
dato voce a popoli che ne erano completamente privi:
l’alterità selvaggia veniva così resa disponibile muovendo da presupposti altamente innovativi per le epoche
di riferimento dei due religiosi. Proprio questa mancanza di scrittura presso l’Altro diventa una scrittura
dell’Altro: scrivere significa portare alla luce, come fa
l’archeologia scavando, il mondo culturale nascosto
che diviene manifesto solo grazie all’operazione narrativa non più orale. Proprio i Voyage au Brésil di Léry
sono il primo prototesto etnografico, dove è evidente
“il passaggio dall’esotico all’etnologico, al ruolo dell’etnografo come disvelatore della parola dell’Altro e della
sua domesticazione”4. Lo stesso dicasi, sempre nella riflessione decerteauiana, per l’opera di Lafitau che utilizza la scrittura con funzione pratica per conoscere e
far conoscere l’alterità inserendola all’interno della globale storia umana.
Per Certeau ci sono quattro elementi fondativi e delimitativi della narrazione etnografica: l’oralità, la spazialità, l’alterità e l’incoscienza, definiti da lui stesso come quadrilatero etnologico; “grazie a questi l’etnologia
3 - U. Fabietti, Introduzione, op. cit., p. XXIII.
4 - U. Fabietti, Introduzione, op. cit., p. XXIV.
9
marta villa
cos’È dunque questa magia dell’etnografo?
ha assunto lo statuto di un sapere: il carattere eminentemente orale (in absentia scripture) dell’Altro; la sua
natura eterotopica (un altrove senza tempo), la sua alterità radicale (esotica) e infine il carattere inconscio
(inconsapevole) di gran parte dei fenomeni che l’etnologia considera come tipici della vita dell’Altro”5.
Il fatto che solo l’etnografo possieda la scrittura mette
l’accento anche sulla dimensione del potere: l’Altro, di
fatto, resta in balia di chi sa scrivere e la sua parola orale viene interpretata da altri. Certeau pone un paragone con il Fedro platonico: “il destino delle parole, e precisamente il loro trasformarsi, mediante la scrittura,
nella memoria6 sbiadita di ciò che esse dovrebbero invece ricordare agli uomini”7.
Alla fine del XVIII secolo, la disciplina vede una netta
distinzione tra raccoglitori-osservatori ed esperti teorizzatori: la parte sistematica era appannaggio di studiosi, definiti armchair, ossia da poltrona o salotto, che
non si recavano di persona presso le popolazioni oggetto di studio e componevano le loro relazioni e teorie basandosi su questionari o osservazioni raccolte da missionari, commercianti, colonizzatori, viaggiatori ed
esploratori che venivano consultate per avere un quadro oggettivo della realtà indagata. Evans-Pritchard così scrive di questa prima fase degli studi antropologici:
Con Malinowski, invece, abbiamo una prima rivoluzione anche nella tecnica narrativa che ha condizionato tutta l’antropologia successiva.
“È tuttavia sorprendente che nessun antropologo abbia
svolto ricerche sul campo fino alla fine dell’Ottocento.
Ancora più notevole è il fatto che sembra non sia venuto
loro in mente che uno scrittore di fatti antropologici potesse dare uno sguardo, magari di sfuggita, a uno o due
esempi di ciò che aveva passato la vita a descrivere. William James ci racconta che quando chiese a Sir James
Frazer notizie sugli indigeni che avesse direttamente conosciuto, Frazer esclamò «Dio me ne guardi!»”8.
Bronislaw Kasper Malinowski nasce in Polonia il 7
aprile 1884; suo padre era un importante linguista, fondatore della dialettologia polacca e docente di filologia
slava a Cracovia, allora territorio appartenente all’impero austro-ungarico. La famiglia Malinowski apparteneva alla raffinata ed intellettuale aristocrazia polacca
di fine XIX secolo. Il giovane Bronislaw soffre di disturbi polmonari, che lo costringono a viaggiare in località
calde (come le Canarie, il Nord Africa e diversi paesi
del Mediterraneo europeo) o in montagna (vive l’ultima parte della sua vita proprio in Südtirol a Uberbozen
dove ancora oggi è visitabile la sua casa). In Polonia
studia fisica e matematica, raggiungendo il titolo di
dottore di ricerca con una tesi in economia. Si reca poi
a Leipzig per formarsi in psicologia, avvicinandosi an-
5 - U. Fabietti, Introduzione, op. cit., p. XXVI.
6 - “Fidandosi della scrittura gli uomini si abitueranno a ricordare dal di
fuori mediante sogni estranei, non dal di dentro e da sé medesimi”, Platone,
Fedro, Rusconi, Milano 1993, 275 a.
7 - U. Fabietti, Introduzione, op. cit., p. XXVII.
8 - E.E. Evans-Pritchard, Introduzione all’antropologia sociale, Laterza,
Bari 1975, p. 90.
10
che alla filosofia della scienza. Nel 1910 studia antropologia alla London School of Economics entrando in relazione con la scuola antropologica di Cambridge di
Haddon e Rivers.
Nelle Trobriand, isole dell’arcipelago della Papua
Nuova Guinea, lo studioso riuscì a mettere in pratica
ciò che aveva teorizzato dopo le prime insoddisfacenti
esperienze: l’antropologo deve vivere il più vicino possibile agli indigeni che sta studiando, deve conoscerne
la lingua per entrare in contatto diretto e non tramite
dei traduttori, deve osservare partecipando della cultura dei nativi. Il suo lavoro sul campo durò dal giugno
del 1915 al maggio del 1916 e dal 1917 al 1918: questa sua
esperienza è stata vista da tutta l’antropologia successiva come un’esperienza archetipica e in base ad essa Malinowski è diventato il prototipo dell’antropologo. Sarà
Clifford Geertz, antropologo americano attivo negli
anni Sessanta, a definirlo in modo ironico in questo
modo:
“Malinowski inaugurò il mito dello studioso sul campo,
simile al camaleonte, perfettamente in sintonia con
l’ambiente esotico che lo circonda, un miracolo vivente
di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo”9.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Nell’introduzione alla sua monografia etnografica,
Argonauti del Pacifico Occidentale, Malinowski spiega
il metodo che lo ha portato poi a comporre la narrazione:
“I principi metodologici possono essere riuniti in tre categorie principali: innanzitutto, naturalmente lo studioso deve possedere reali obiettivi scientifici e conoscere i
valori e i criteri della moderna etnografia; in secondo
luogo deve mettersi in condizioni buone per lavorare,
cioè, soprattutto, vivere senza altri uomini bianchi, proprio in mezzo agli indigeni; infine deve applicare un
certo numero di metodi particolari per raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze”10.
9 - C. Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988, p. 71.
10 - B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Bollati Boringhieri,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Dobbiamo pensare al nostro studioso in continua
osservazione, in dialogo con i nativi alla ricerca di risposte, intento a riportare su quaderni e diari i propri
dati e le proprie riflessioni: il fine ultimo della sua ricerca è afferrare il punto di vista del nativo e poi con la
scrittura trasmetterlo alla comunità scientifica. Il suo
metodo fu rivoluzionario non tanto per il contenuto,
quanto invece per lo stile da adottare sul campo, per
l’habitus mentale che l’antropologo deve avere quando
incontra l’altro da sé.
“Cos’è dunque questa magia dell’etnografo, con la quale
egli può evocare lo spirito autentico degli indigeni, la
vera immagine della vita tribale? Come sempre, il successo può essere ottenuto solo mediante l’applicazione
paziente e sistematica di un certo numero di regole del
buon senso e di principi scientifici ben noti…”11.
Argonauti ci presenta infatti una cultura olisticamente intesa: viene data infatti una immagine completa di
una modalità di vivere osservata da vicino e i cui diversi elementi sono non solo enumerati ma interrelati e
correlati tra loro per farne scaturire un grande mosaico.
Torino 1973, p. 33.
11 - B. Malinowski, Argonauti, op. cit., p. 33.
11
marta villa
“Una delle prime condizioni di un lavoro etnografico
accettabile è certamente che esso tratti dell’insieme di
tutti gli aspetti – sociali, culturali, psicologici – della comunità, poiché questi sono così strettamente collegati
che nessuno di essi può essere compreso senza prendere
in considerazione tutti gli altri. Il lettore di questa monografia vedrà che, sebbene il suo argomento principale
sia economico12, in quanto tratta di imprese commerciali, di scambio e di commercio, si devono fare costanti riferimenti, oltre all’aspetto economico, che è il principale, anche all’organizzazione sociale, al potere della magia, alla mitologia, al folklore e a tutti gli altri aspetti”13.
Ma che cos’è questa osservazione partecipante? Un
periodo di tempo abbastanza lungo, almeno due anni,
che l’antropologo trascorre presso la popolazione di
cui vuole studiare la cultura, conoscendo bene la lingua, lavorando ogni giorno con loro per arrivare a conoscere nel miglior modo possibile le strutture e le ripartizioni sociali e i diversi significati culturali. L’antropologo deve mettere in evidenza il vero punto di vista
del nativo e per fare ciò deve spogliarsi delle proprie
convinzioni, dei propri pregiudizi e soprattutto non
deve essere motivo di disturbo all’interno della vita del
villaggio. Ancora Malinowski racconta:
“Va ricordato che gli indigeni, a forza di vedermi tutti i
giorni, smisero di essere interessati, allarmati o anche
imbarazzati dalla mia presenza, e io smisi di essere un
elemento di disturbo nella vita tribale che dovevo studiare che la alterava per il fatto stesso di accostarvisi, come accade sempre con un nuovo arrivato in qualunque
comunità di selvaggi. Infatti quando si resero conto che
volevo ficcare il naso dappertutto, anche dove un indi12 - Malinowski negli Argonauti analizza essenzialmente il commercio
definito kula degli indigeni delle Trobriand. “Il kula coinvolge un certo numero di comunità entro un cerchio di isole, secondo modalità e tempi determinati. In questo contesto di scambi personali fondati sul rango e sulla
posizione sociale, circolano, sullo sfondo di scambi di oggetti di uso quotidiano, principalmente due tipi di oggetti: soulawa (collane di conchiglie
rosse di spondilo) e mwali (bracciali di conchiglie bianche)” da U.
Fabietti-R. Malighetti-V. Matera, Dal tribale al globale, Mondadori,
Milano 2002, p. 65.
13 - B. Malinowski, Argonauti, op. cit., p. 24.
12
cos’È dunque questa magia dell’etnografo?
geno ben educato non si sarebbe mai sognato di impicciarsi, essi finirono per considerarmi come parte e porzione della loro vita, un male necessario o una seccatura, mitigata da elargizioni di tabacco”14.
Proprio questo metodo di ricerca fa scaturire anche
una specifica narrazione: la monografia etnografica
basata sui colloqui con i nativi, sui dati raccolti personalmente e trascritti attraverso uno stile ben preciso.
“La monografia etnografica designa una particolare forma di produzione testuale consistente nella ricostruzione
di un intero modo di vita nella sua globalità, scomposto e
analizzato secondo un formato standard e attraverso una
serie di astrazioni teoriche che ne coprono molteplici
aspetti. Fondata sull’induzione e sull’osservazione diretta
e prolungata, la monografia etnografica è organizzata
formalmente attorno a peculiari convenzioni stilistiche e
retoriche, finalizzate all’elaborazione di un genere scientifico e protocollare di scrittura. Animata dal realismo o
naturalismo etnografico, in essa predominano il registro
descrittivo osservativo visuale. La forma discorsiva per lo
più impersonale, legata ad una obietta neutralità dell’autore e mirante alla produzione oggettiva, attraverso la registrazione di dati puri, incontaminati da riferimenti alle
concrete relazioni sul campo e alla situazione storico-politica generale in cui la ricerca si svolge”15.
Per fare questo l’autore utilizza l’artificio narrativo del
presente etnografico, che cristallizza l’osservazione e la
scrittura successiva in una dimensione atemporale, immobilizza lo sguardo dell’osservatore e basa la narrazione su un passato solo ipotetico perché basato sulla
memoria collettiva o individuale degli informatori.
Zelda Franceschi, parlando dell’etnografia malinowskiana, mette in risalto come gli elementi chiave
del narrare dello studioso polacco siano sapientemente
armonizzati:
14 - B. Malinowski, Argonauti, op. cit., p. 35.
15 - U. Fabietti-R. Malighetti-V. Matera, Dal tribale al globale, op.
cit., p. 69.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
“Vi è una corrispondenza quasi perfetta tra umanità
(l’umanità nel condividere le difficoltà del lavoro sul
campo), scienza (la scientificità da raggiungere attraverso la disciplina, lo studio e l’elaborazione teorica) e arte
(l’arte da esprimersi attraverso il piacere per la forma,
l’attenzione per la scrittura e la mimesi con la letteratura) negli scritti malinowskiani”16.
Il suo stile narrativo è intrigante ed accattivante: voleva infatti raggiungere un vasto pubblico e non solo
gli specialisti:
“Il suo intento era di persuasione: si poteva lavorare sul
campo, certamente si poteva farlo bene e soprattutto si
era in grado di tramandare questo sapere, di renderlo
istituzionale una volta resolo accessibile attraverso una
sua calibrata presentazione”17.
Quest’ultimo intento, ovvero lo scrivere per un vasto
pubblico, sarà la caratteristica anche dell’opera etnografica di Marcel Griaule come racconta la figlia dello
studioso francese, Geneviève:
“La sua veste volutamente non scientifica e il suo stile
volutamente letterario rispondevano al desiderio di mio
padre di riportare a conoscenza del pubblico non specializzato e senza l’abituale apparato scientifico un’opera
che l’uso riserva ai soli eruditi. Di qui l’assenza di riscontri e di testi originali dogon, che avrebbero dato all’opera
un carattere tutto diverso. Mio padre era rimasto tanto
colpito dalla ricchezza e dall’ordinata complessità delle
concezioni che gli erano appena state rivelate, che avrebbe voluto dar loro una diffusione paragonabile a quella
dei miti dell’antichità”18.
16 - Z.A. Franceschi, Storie di vita, Clueb, Bologna 2006, p. 146.
17 - Z.A. Franceschi, Storia di vita, op. cit., p. 153.
18 - G. Calame-Griaule, “Avvertenza”, in Dio d’acqua, Bollati Boringhieri,
Torino 2002, p. 27.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Marcel Griaule, nato nel 1898 a Ainsy sur Armencon,
è stato un importante etnografo ed etnologo francese
ed ha lavorato in Africa dal 1926 al 1956: nel 1931 si reca
nell’allora Sudan francese, che oggi è lo stato del Mali,
entrando in relazione con la popolazione e cultura Dogon. I suoi padri spirituali sono Marcel Cohen e Marcel
Mauss e prima di essere affascinato dall’antropologia
aveva studiato matematica. Nel 1943 fu il titolare della
prima cattedra di etnologia all’Università Sorbonne di
Parigi. Prima della sua partenza per l’Africa collabora
con i surrealisti scrivendo sulla loro più importante rivista: l’interazione con questa scuola estetica e letteraria, condizionerà la sua percezione nel continente nero.
Presso i Dogon, Griaule entra in contatto con Ogotemmeli che diventa il protagonista della sua narrazione etnografica. L’incontro con questo uomo avviene in
modo singolare: c’è una specie di investitura da parte
dell’informatore, Griaule è il suo prescelto. Ogotemmeli è un anziano cacciatore, che ha perso la vista durante una battuta di caccia, è divenuto anche un guaritore e per questo motivo è un iniziato: il suo percorso
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marta villa
sapienziale parte da molto lontano, da bambino viene
scelto da suo nonno e da suo padre per essere edotto
riguardo tutti i segreti della cosmogonia e mitologia
dogon, la sua cultura di appartenenza, e da allora diviene un olubaru, un impuro a cui è permesso praticare i riti ed entrare in contatto con lo spazio olu, ossia il
luogo geografico e mentale della foresta, la brousse, che
inizia dove terminano il villaggio e i campi.
Il 27 ottobre 1946 Griaule annota in una scheda scrit19
ta a matita che porta in cima a lettere maiuscole l’argomento a cui è dedicata (l’iniziazione) e il luogo (Sanga) questa breve considerazione su un fatto appena avvenuto: “Il vecchio Ogotemmeli, facendomi proporre
da Gana una camicia garantita contro le pallottole, voleva entrare in contatto con me. La storia imbrogliata
che Gana ha raccontato non aveva senso”20. Griaule si
trova a Sanga, sulle falesie di Bandiagara nel Sudan
francese: tutta la narrazione si svolge nella piccola casa
di Ogotemmeli, nel suo cortile a Ogol donu, Ogol Basso, uno dei piccoli villaggi che compongono l’insediamento Dogon.
“«Un cacciatore vuole vedervi»
«È malato?»
Di solito, fra i Negri, sono i malati a fare queste richieste.
In ogni altro caso, vedere un Bianco non presenta alcun
interesse.
«No! Vuole vendervi un amuleto»
«Quale?»
«Un amuleto che gli avevate chiesto dieci anni fa in
cambio delle cartucce»
«Non mi ricordo di questo…»
Il Bianco si morse le labbra. Aveva, ad un tratto, compreso la singolarità di quel modo di procedere”21.
19 - Tutti gli archivi etnografici di Griaule sono conservati alla biblioteca
del Laboratoire d’ethnologie di Paris-Nanterre. Comprendono tutte le note prese dall’etnografo dal 1926, inizio della sua prima inchiesta in Africa,
al 1956. Sono 12.000 schede redatte da lui stesso e dai suoi collaboratori
che lo accompagnarono in Etiopia, presso i Dogon in Sudan e in Chad. Le
schede riguardanti Ogotemmeli vanno dall’ottobre al dicembre 1946.
20 - Cfr. da M. Griaule, Dio d’acqua, op. cit., p. 9.
21 - M. Griaule, Dio d’acqua, op. cit., p. 41.
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cos’È dunque questa magia dell’etnografo?
In questo modo ha inizio l’avventura tra questi due
uomini, Griaule e Ogotemmeli, che porterà alla stesura
di Dio d’acqua, una delle opere etnografiche più controverse e che suscitò enorme scalpore quando nel 1948
venne pubblicata. Fu sensazionale perché fino ad allora
nessun bianco o occidentale era stato iniziato alle conoscenze esoteriche di una cultura africana. Griaule è
cosciente di quanto sta avvenendo e lo sottolinea con
uno stile narrativo preciso. Anche lui lavora come tutti
gli antropologi operanti dopo Malinowski: ha un’agenda su cui trascrive giorno per giorno cosa accade, compila delle schede di rilevazione, fa fotografie, interroga
le persone, utilizza molti informatori… ma il testo etnografico che ne scaturisce è diverso.
Il filosofo Emanuele Trevi utilizza l’avventura di
Griaule per parlarci del viaggio iniziatico e problematizza la letterarietà del testo in modo molto interessante; la sua lettura ci risulta chiave per la comprensione in
questo senso di tutta la narrazione etnografica:
“Questo slittamento nella letteratura potrà anche pagare
il suo scotto in termini di affidabilità… ma che importa?
A Griaule non interessa solamente la registrazione e la
salvaguardia di una sapienza ancestrale. Dopo aver speso tanta parte della sua vita ad ascoltare, vuole dare forma a questa straordinaria esperienza – la possibilità che
le parole di un altro ci tocchino in profondo, fino a quello strato dell’essere nel quale si generano le trasforma2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
zioni più profonde e benefiche. Ma questa è una materia
così delicata e impalpabile, che non c’è un linguaggio
scientifico capace di renderne conto. È per questo motivo che diciamo che Griaule, in Dio d’acqua, si è trasformato in scrittore, in grande scrittore: non perché intenda abbellire genericamente il suo argomento con una
struccata di stile, con qualche elegante analogia, o usando qualche altra risorsa di un trito e risaputo repertorio.
No: la letteratura che a questo livello entra in gioco è un
criterio di conoscenza, uno scandaglio che può arrivare
dove altri linguaggi non arrivano. Ciò non vuol dire assolutamente che la letteratura può vantare una superiorità rispetto a quegli altri linguaggi. È una sciocchezza
solo pensarlo. Alla letteratura, si possono imputare infinite forme di ottusità ed approssimazione. Ma c’è un tipo di esperienza che solo lei sa esprimere, ed è quella
della trasformazione umana, della nascita di una nuova
identità dalle ceneri della vecchia, in rapporto a determinati tempi, spazi, occasioni. Scavando più a fondo, si
può arrivare ad affermare che, nella sua essenza, la letteratura non è un discorso sul mondo, ma sul rapporto
dei singoli individui con il mondo”22.
studioso si alza e camminando verso il suo accampamento riflette su quanto appreso. Questo schema si ripete per 33 volte: numero simbolico ed estremamente
emblematico, non sfugge infatti la somiglianza con le
33 cantiche dantesche, è la base di tutta la scrittura di
Griaule.
La scelta dell’informatore è un problema chiave per
l’etnologo, che però non appare dal testo etnografico
bensì dal libro postumo Méthode de l’ethnographie
pubblicato nel 1957. Dio d’acqua si presenta come la
narrazione in un flusso ininterrotto di un’unica voce,
quella di Ogotemmeli; in realtà è un assemblaggio frutto di un meticoloso lavoro di selezione delle interviste
concesse a lui e ai suoi collaboratori da un gruppo di
informatori per comodità narrativa fusi in una sola figura. Il testo si apre come fosse la sceneggiatura di un
film o di una pièce teatrale: lo spettatore-lettore è introdotto nell’ambiente narrativo partendo da una situazione quasi onirica: la scena è precisa, le luci si accendono sulla piccola corte di un campement, ossia il luogo di accoglienza e di alloggio, dove soggiornano i
Bianchi. Nessun rumore o suono interrompe la nascita
del sole: siamo all’alba e il paesaggio si illumina a poco
a poco. Solo dopo l’avvento del giorno appaiono le prime comparse: alcuni dogon e la voce dei bianchi che
parlottano tra loro da dietro le zanzariere.
“Tutto il libro appare un grandioso artificio, messo insieme da un narratore che aveva frequentato gli artisti
parigini e che per 15 anni aveva messo a fuoco il suo
sguardo sul luogo della rappresentazione”23.
La narrazione procede per giornate, tutte sono uguali tra loro: il bianco, o Nazareno, arriva, siede di fronte
a Ogotemmeli su di una pietra e ascolta in silenzio un
tassello della cosmogonia; al termine del racconto interrotto solo da brevissime e sporadiche domande, lo
Il testo è estremamente lucido e denso: la cosmogonia dogon procede sistematicamente e in alcuni punti
risulta anche poco comprensibile alla lettura occidentale. Come Griaule, il lettore deve lasciarsi trasportare,
non deve pensare secondo categorie proprie, ma cercare di attendere che il mistero a poco a poco si sveli: lo
stesso studioso suggerisce l’unico possibile atteggiamento che si deve mantenere per poter apprendere nel
22 - E. Trevi, Il viaggio iniziatico, Laterza, Bari 2013, pp. 15-16.
23 - M. Griaule, Dio d’acqua, op. cit., p. 20.
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marta villa
cos’È dunque questa magia dell’etnografo?
profondo questo insegnamento. Mentre Ogotemmeli
stava parlando, un giorno, un pulcino si era addormentato sulla scarpa di corda di Marcel costringendolo a rimanere assolutamente immobile per tutta la durata del racconto. Questo è un particolare minimo
all’interno di tutta la narrazione, ma può svelarci di
più: Griaule ci sta suggerendo di ascoltare la storia dogon con la stessa postura fisica e lo stesso atteggiamento mentale, con cautela ed attenzione massime, come
se un pulcino ci stesse dormendo su un piede, amplificando così la nostra concentrazione all’estremo.
La conclusione di questa breve introduzione nel
mondo della scrittura etnografica può essere affidata al
racconto dell’omaggio che il popolo dogon fece al suo
più grande difensore, affidandone la diffusione ancora
una volta a Geneviève, la figlia di Marcel.
“A colui che aveva ben capito la loro cultura, i Dogon hanno voluto rendere un ultimo omaggio celebrando i suoi funerali e la fine del lutto secondo il loro rito. L’effige che lo
rappresenta riposa in una caverna nei pressi della piccola diga che aveva fatto costruire e che ha portato prosperità nella
zona di Sanga. Alla fine delle cerimonie, nel commovente
momento in cui viene spezzata la zappa del contadino per
mostrare la fine del suo lavoro sulla terra, i celebranti, facendo passare in questo semplice gesto il loro senso spontaneo
del simbolo, hanno spezzato lo strumento che avevano sempre visto in mano a colui che aveva ascoltato le parole dei loro anziani: una matita”.❧
Marta Villa
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abdelmalek smari
polemiche diaboliche
L
Polemiche
diaboliche
Oscillazioni tra razionale e irrazionale:
Tartarotti, Maffei e la «polemica diabolica››
del XVIII secolo
di Giacomo Di Marco
a comparsa (1749) dell’opera di Tartarotti Del
Congresso notturno delle lammie1 (dedicata
ad un nobile veronese, il Conte Ottolino Ottolini) suscitò un vivo e vasto interesse. La distinzione,
operata da Tartarotti, tra stregoneria (che egli ritiene
irreale) e magia (che ritiene reale) fu il punto di partenza per la «diabolica polemica», che «infiammò i letterati per alcuni anni, fino a quando la stanchezza consigliò il silenzio»2. Il suo spegnersi sembra concludere l’epoca ufficiale della demonologia.
Dico sembra, perche l’interesse per il diavolo non è
scomparso affatto dal mondo moderno.
Sul «Corriere della Sera» del 13 aprile 19933 si leggeva
un’intervista allo storico ed etnologo Gérald Messadie,
autore di una Histoire générale du diable in cui critica
l’esistenza del diavolo nel nuovo catechismo varato dalla Chiesa di Giovanni Paolo II. La stessa pagina ospitava un articolo di Sergio Quinzio4 il cui titolo emblematico era Ma il demonio è una persona seria, in cui lo storico delle religioni sottolinea come il ritorno del diavolo nel mondo moderno derivi da esigenze che, nella loro diversità, tradiscono tuttavia una necessità di irrazionalismo.
Ma al di là di una sua possibile attualità, la polemica
diabolica rappresenta in maniera efficace il clima culturale che, a metà Settecento, si poteva respirare a Verona e a Rovereto, essendone principali protagonisti
l’abate roveretano Girolamo Tartarotti ed il Marchese
veronese Scipione Maffei.
Del Congresso notturno delle lammie consta di tre libri.
1 - G. Tartarotti, Del Congresso notturno delle lammie, Rovereto, 1749
(ristampa anastatica, Sala Bolognese, Forni Editore, 1988).
2 - S. Abbiati-A. Agnoletto-M.R. Lazzati, La stregoneria, Milano,
Mondadori, 1984.
3 - W. Munzi, La scoperta del diavolo, «Corriere della Sera», 13 aprile 1993.
4 - S. Quinzio, Ma il demonio è una persona seria, «Corriere della Sera»,
13 aprile 1993.
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IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Il primo contiene una dotta ed esauriente rassegna
della storia della stregoneria dalle origini sino all’epoca
dell’autore.
Tartarotti vi sottolinea una continuità tra i riti pagani
della «compagnia di Diana» e la stregoneria ed opera la
distinzione tra magia e stregoneria, che sarebbe stata
contestata da Maffei.
Nel secondo libro Tartarotti delinea quella che potremo definire la psicologia della strega. È una parte interessante dal punto di vista psichiatrico in quanto dalla
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GIACOMO DI MARCO
discussione emerge quella equazione strega = malata di
mente, tanto, e variamente, utilizzata dalla storiografia
psichiatrica. Nel descrivere la strega Tartarotti analizza il
valore ed il ruolo della fantasia e dell’immaginazione,
avendo ben presente le considerazioni sull’argomento di
Muratori, suo importante punto di riferimento culturale. Tuttavia, come osserva Venturi, «l’originalità di Tartarotti consiste nel tentativo di dare, se pure con molta incertezza, una risposta non psicologica o medica, ma
piuttosto storica e sociale alla questione stregoneria»5.
Infatti le considerazioni sociologiche delineate nel
secondo libro (ruolo della cultura contadina e montana, isolamento geografico, povertà) sono avallate anche attualmente dalla storiografia demonologica.
Con il terzo libro, di significato più apertamente politico, Tartarotti si scaglia contro la pratica dei processi
alle streghe e l’uso della tortura ed attacca, senza esclusione di colpi, il gesuita Martino Del Rio che, con le
sue Disquisitiones magicae era l’autorità indiscussa a
cui facevano riferimento gli inquisitori per condannare le streghe.
Prima ancora della pubblicazione di questa opera il
conte veneziano Gian Rinaldo Carli indirizzava a Tartarotti una lettera in cui lodava l’opera per il suo carattere, noi diremmo, «moderno» contro la barbarie della
caccia alle streghe, ma ne sottolineava una palese incoerenza nella distinzione tra stregoneria e magia diabolica: «Ma quando (permettetemi la libertà datami) veniamo a trattare della magia, tutto il vostro così ben
travagliato lavoro ruina. La magia diabolica è tutta
opera del diavolo, che supera la forza della natura particolare, dite voi: ma se così facilmente concedete darsi
negli uomini famigliarità con gli spiriti cattivi, come
potete indi convincere che non succede ancor lo stesso
con le streghe?»6. L’interrogativo retorico di Carli non
solo viene ribadito da Maffei ma diventa una drastica
condanna dell’incoerenza di Tartarotti.
5 - F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1969.
6 - G. Carli, Lettera del signor Conte Gianrinaldo Carli al Signor Girolamo
Tartarotti intorno all’origine e falsità della dottrina de’ Maghi, e delle Streghe
(1749), in G. Tartarotti, Del Congresso notturno delle lammie, ristampa
anastatica.
20
polemiche diaboliche
I titoli delle opere con cui Maffei interviene nella polemica sono di per sé sufficientemente eloquenti: Arte
magica dileguata7, Arte magica distrutta8, Arte magica
annichilata9. Maffei sostiene vigorosamente che le distinzioni di Tartarotti non reggevano né teologicamente né filosoficamente e neppure moralmente.
Lo scontro, secondo lo stile dell’epoca, avviene attraverso serrate ed erudite confutazioni che offrono una
visione diretta di un clima culturale diviso tra «razionalismo ed illuminismo, tra logica cartesiana e volontà
di dominare la religione e l’umana società»10.
7 - S. Maffei, Arte magica dileguata, Verona, 1749.
8 - S. Maffei, Arte magica distrutta, Verona, 1750.
9 - S. Maffei, Arte magica annichilata, Verona, 1754.
10 - Op. cit., alla nota 5.
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La «querelle» non aveva nulla di provinciale ed era in
sintonia con lo spirito dell’epoca, quello che pervadeva
l’Enciclopedia di D’Alembert e Diderot (1751); né nella
sua essenza sarebbe stata limitata al Settecento.
La questione diabolica ha continuato a stimolare gli
studiosi della cultura. Infatti con il progredire degli
studi il fenomeno della stregoneria è apparso più complesso e di conseguenza più difficile da spiegare sulla
base di un singolo elemento di quanto si potesse supporre. È ormai chiaro che la sua comprensione soddisfacente presuppone il contributo di discipline quali il
folclore, l’etnologia, la sociologia, la psicologia e la storia della religione.
L’interesse di Tartarotti, come dicevamo, è prevalentemente storico-politico, ma nel considerare la strega
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
come malata di mente si rifà alle concezioni mediche
dell’epoca, appoggiandosi soprattutto sull’autorità medica del Weyer che aveva, già nel XVI secolo, ammonito contro la facilità con cui la malattia poteva essere
scambiata per stregoneria. Per Weyer «il diavolo esiste
e può interferire con il comportamento umano, ma è
limitato da Dio, per cui egli sceglie i melancolici e coloro che sono predisposti ai disturbi dell’immaginazione». Più significativo è certamente l’influsso dell’antropologia e della psicopatologia di Ludovico Antonio
Muratori. Sarà la forza della fantasia umana a rendere
conto del sabba e del volo delle streghe. Le confessioni
delle streghe saranno imputabili all’immaginazione
femminile.
«Quanto alle donne è nota la loro indole ed i loro
costumi. Quantunque agli assalti della melancolia non
21
GIACOMO DI MARCO
siano forse tanto soggette quanto gli uomini, pure
allorché quell’atro umore le attacca, e con soverchio
feccioso liquor di cui il loro temperamento abbonda, si
accoppia, le tratta assai peggio dei maschi, e strani e
prodigiosi effetti in esse produce. Sono trasportate da
gagliarde passioni come ira, amore, invidia che con
molte difficoltà raffrenano, onde per cui con tutta
facilità pigliano per cose vere e reali i più modi di
quelle. Sono avvezze a far poco uso della ragione, e molto della fantasia; da che nasce che le cose sensibili hanno sopra loro grandissima forza. Sono timide, maliziose, instabili, pieghevoli e credule, e in conseguenza facili ad essere ingannate».
Ed appunto perché le persone sensibili non cadano
più facilmente vittime dell’immaginazione, Tartarotti
22
polemiche diaboliche
invita le autorità a vigilare sulla pratica dell’esorcista:
«obbligare gli esorcisti ad essere men vaghi della pubblicità, a risparmiare molti precetti e ragionamenti col
demonio, dalla cui scuola nulla di buono si apprese
giammai; e quanti poi abbian talento da sbizzarrirsi in
somiglianti esercizi, non diano l’accesso ad ogni genere
di persone ma prima di accingersi all’opera, si consiglino
ben bene con qualche valente medico, il quale per conto
di distinguere il male naturale dal soprannaturale possa supplire alla loro ignoranza»11.
Vediamo dunque Tartarotti far appello alle autorità
della medicina come scienza più idonea della teologia
ad occuparsi di stregoneria.
Le sue argomentazioni per sostenere l’ipotesi della
stregoneria come malattia, nel corso della sua opera,
sono quelle dell’uomo colto dell’epoca, del filosofo più
che quelle di un uomo di medicina.
E la malincolia era il paradigma scientifico, da tempo
disponibile, in cui far confluire il fenomeno della possessione diabolica.
«Melancolia dicitur balneum Diaboli». Con Tartarotti
assistiamo per così dire ad uno dei primi passi della
progressiva medicalizzazione del fenomeno stregoneria.
Già alla fine del secolo Chiarugi nel suo trattato Della pazzia scrive che «la maggior parte delle Demonomanie sono malattie simulate col fine ordinariamente di
cavar denaro dalle mani dei creduli, o dei fanatici. Si
danno peraltro certe pazze, alle quali si dà il nome di
streghe, che si immaginano per patto convenuto col
demonio di poter operare cose meravigliose, e soprannaturali, e particolarmente di intervenire agli impuri
congressi dei medesimi Demoni; di poter indurre l’impotenza coniugale; di far ammalare, e risanare i bambini, e altre simili sciocchezze. Si incontrano anche tra gli
uomini, e specialmente tra i pastori più idioti, dei componitori di filtri, e di fascini, coi quali persuadono d’arrivare ad ottenere ciò che non è consueto all’ordine naturale delle cose: bisogna stimarsi affetti da una melancolia spuria; cosicché la Demonomania sagarum, e for11 - Op. cit., alla nota 1.
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se anche il Vampirismus di Sauvages, ne sono una varietà di cause»12.
Successivamente Pinel nel suo Trattato (1801) affermerà «in una parola, indemoniati di qualsiasi tipo sono
da classificarsi o con i maniaci o con gli ipocondriaci»13.
Con Esquirol – la psichiatria è ormai costituita come
disciplina scientifica – non sembrano più esistere dubbi sulla natura psicopatologica della stregoneria: «Dov’è
il giudice oggi che condannerebbe al rogo un alienato
o uno zingaro accusato di magia o stregoneria? È da
molto tempo, ormai, che i magistrati mandano i maghi
negli ospedali psichiatrici tanto che non li accusano
più di truffa»14.
Nell’Ottocento ancora Charcot rintraccerà la psicologia dell’isterica nella strega, anche attraverso una appassionata ricerca iconografica15.
E Sigmund Freud, nel suo saggio (1923) Una nevrosi
demonologica del XVII secolo16, affermerà «non ci si deve sorprendere di trovare che, laddove le nevrosi dei
nostri tempi assumano un aspetto ipocondriaco ed appaiono travestite da malattie organiche, le nevrosi dei
tempi andati emergono in vesti demonologiche».
Zilboorg17 è stato lo storico della psichiatria che ha
maggiormente sostenuto e diffuso la tesi che la maggioranza delle streghe erano malate di mente. Questa
tesi, tuttavia, oltre ad essere tacciata di riduttivismo dagli antropologi, che sottolineano come il fenomeno
della stregoneria sia molto più di un semplice episodio
della storia della psichiatria, è stata molto contestata
negli anni Settanta dalla antipsichiatria.
Szasz non solo sottolinea la miopia di Zilboorg nei
confronti della psicopatologia dei cacciatori di streghe,
ma utilizza l’analogia strega = malata di mente, individuando una continuità per entrambi di capri espiatori,
12 - V. Chiarugi, Della pazzia, in genere e in specie. Trattato medico analitico, Firenze, 1793, ristampa a cura di L. Bonuzzi-V. Andreoli, Roma, CIC
Edizioni Internazionali, 1991.
13 - Ph. Pinel, Traité medico-philosophique sur l’aliénation mentale ou la
manie, Paris, 1801.
14 - D.E. Esquirol, Delle malattie mentali, Firenze, Edizioni Italia, 1846.
15 - J.M. Charcot-P. Richer, Lex demoniaques dans l’art, Paris, 1887.
16 - S. Freud, Una nevrosi demoniaca del XVII secolo, in Opere, IX, Torino,
Boringhieri, 1977.
17 - G. Zilboorg-G. Henry, Storia della psichiatria, Feltrinelli, 1963.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
di vittime dell’etica dominante, in un’ottica di negazione della malattia mentale18.
Parimenti Foucault nella sua Storia della follia19 ha
stigmatizzato, con la nascita della psichiatria come disciplina, l’eclissi di ogni dimensione umana nell’esperienza della follia.
Una discussione sul valore e significato della nascita
della nosografia psichiatrica esula dal nostro intento,
tuttavia è utile ricordare come «il discorso psichiatrico
continua a collocarsi, fin dai suoi primi balbettii, in
uno spazio logico di forma pressoché triangolare, che
da un lato guarda verso la scienza, dall’altro verso la filosofia e si affaccia col terzo versante sulla politica». Ed
è questa posizione che rende ogni discorso sulla psichiatria necessariamente non conclusivo ma sempre
aperto, «perché la psichiatria tende a straripare – in
senso molto più forte di quello prescritto dalle rituali
cautele storico-metodologiche – da tutti gli argini specialistici in cui si può tentare di contenerla»20.
La lettura psichiatrica dell’opera di Tartarotti e della
polemica che essa suscitò ci offre la possibilità di scorgere quasi direttamente, al suo primo apparire, quel
movimento teso a guadagnare al discorso psichiatrico
territori appartenenti alla religione ed alle tradizioni
folcloristiche, indipendentemente dalla valutazione
ideologica che si può dare al costituirsi della psichiatria
come disciplina scientifica.
Ma l’aspetto che maggiormente ha suscitato il mio
interesse di psichiatra è stato la difesa che Tartarotti fa
della magia diabolica.
Non solo al conte Carli o al marchese Maffei ma anche allo studioso contemporaneo può apparire evidente l’incoerenza e la contraddizione della posizione di
Tartarotti quando sostiene che la stregoneria è frutto di
fantasia e immaginazione malata mentre la magia è reale opera del demonio.
La posizione di Tartarotti appare come illogica e co18 - T. Szasz, Il mito della malattia mentale, Milano, Il Saggiatore, 1966;
Id., I manipolatori della follia, Milano, Feltrinelli, 1972.
19 - M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1963.
20 - F. Marrone-A. D’Errico, Storia della psichiatria, in Trattato Italiano
di Psichiatria, Milano, Masson, 1993.
23
GIACOMO DI MARCO
me dettata dall’incapacità di emanciparsi del tutto dalla ortodossia cattolica, specie se si tiene conto che egli
si era con passione immerso in quella cultura illuministica che indicava come ultimo sforzo della filosofia
quello di riscattare l’umanità dalle umilianti chimere
della superstizione e della stessa teologia.
Consapevole dei limiti inevitabili del mio punto di
vista non di storico ma di psichiatra mi sono spinto a
leggere nella posizione di Tartarotti, al di là delle sue
argomentazioni e confutazioni da erudito, una rivendicazione dell’esistenza dell’irrazionale come inevitabile orizzonte con cui lo sguardo dell’uomo deve confrontarsi.
Mi è sembrato di poter leggere riconoscimento e rispetto per una dimensione sconosciuta ed inconoscibile: «veramente i filosofi naturali pare che poco siano
inclini a credere ciò che non veggono e non toccano.
L’assidua contemplazione delle cose sensibili, nelle
quali osservano un prodigioso ordine, regola e misura,
gli immerge per così dire nella materia, colle vive figure, nodi e combinazioni delle quali si lusingano poi di
poter spiegare tutti i fenomeni che nel gran teatro
dell’universo appariscono, non eccettuano neppure il
più mirabile e sorprendente di tutti, qual’è la cogitazione dell’uomo»21.
21 - Op. cit., alla nota 1.
24
polemiche diaboliche
Anche altri studiosi intervenuti a suo favore nella polemica sottolineano come sia «pericoloso attribuire
tutte le cose strane e meravigliose al diavolo, ma per
l’opposto è imprudente voler spiegare tutto per mezzo
delle scienze fisiche».
Queste considerazioni sembrano anticipare la critica
alla concezione settecentesca de «l’homme machine».
La difesa della magia può sicuramente apparire una
posizione retrograda e di codardia intellettuale, ma
credo che si possa anche pensare ad una posizione saggia contro quello che poteva divenire il fanatismo della
ragione o, come sottolinea Parinetto con molta arbitrarietà22, in Tartarotti ci sarebbe stata una scelta ben precisa di carattere strategico-tattico nell’operare la distinzione tra stregoneria e magia «per preparare il terreno
dell’opinione pubblica allo sbocco pratico della riforma
del modo di considerare le streghe e delle procedure
giudiziarie sinora usate nei loro confronti»23.
La mia impressione è che Tartarotti, nonostante il
suo accanimento nel difendere la tesi della magia diabolica, oscilli tormentosamente tra due posizioni, che
mi piace individuare non tanto fra tradizione e rinnovamento, in una logica illuministica di progresso, ma
22 - L. Parinetto, Magia e ragione, Firenze, 1974.
23 - G. Borelli, La magia in Tartarotti e in Maffei, in Il Trentino nel
Settecento fra Sacro Romano Impero e antichi stati italiani, a cura di C.
Mazzarelli-G. Olmi, Bologna, Il Mulino, 1985.
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tra polo razionale e polo irrazionale, in un difficile
equilibrio che riesce a cogliere maggiormente la dimensione antropologica.
Le espressioni utilizzate da Tartarotti, per descrivere
il conflitto dell’uomo dabbene nei confronti della stregoneria, sono significative: «mille ombre, mille dubbi
gli vanno per la testa», «così ondeggiando tra mille
pensieri prova un intenso amarissimo conflitto che lo
rode e lo contrasta». In queste stesse espressioni mi pare si possa leggere la proiezione del suo conflitto rispetto alla fiducia nella magia diabolica.
La difesa esasperata della sua posizione nella polemica tradisce il suo doloroso ondeggiare: «si sono trovati
in ogni tempo degli ingegni bizzarri i quali hanno mostrato d’essere persuasi che questi effetti potessero anche procedere da cagioni naturali; ma non sono però
mancati nello stesso tempo uomini savi e di miglior discernimento forniti, i quali esaminando meglio le forze
della natura, hanno potuto vedere che tali meraviglie
non potevano spiegarsi fisicamente»24.
La fiducia nel lume della ragione non sembra, quindi, accecare Tartarotti ed il suo credere all’azione diabolica della magia possiede anche il significato di una
consapevolezza dei limiti della ragione stessa e di un riconoscimento e forse attrazione verso l’esistenza dell’irrazionale.
Nel corso della storia non è infrequente ritrovare, in
studiosi che cercano di bandirla dalle loro concezioni,
l’attrazione per l’irrazionale. L’oscillazione tra razionale
e irrazionale riscontrata in Tartarotti mi richiama per
analogia due esempi che riporto, noncurante degli avvertimenti degli storici contro il comparativismo retrospettivo.
A partire dal 1901 a Genova presso il Circolo scientifico “La Minerva” si riunivano studiosi di varie discipline in sedute spiritiche per studiare i fenomeni occulti. Sorprende scoprire tra i partecipanti Cesare
Lombroso ed Enrico Morselli, padri fondatori della
giovane psichiatria positivistica.
Se i poteri della pitonessa biblica di Endor avevano
24 - Op. cit., alla nota 1.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
fatto disputare Carli e Tartarotti sulla natura delle apparizioni, se da attribuire a Dio o al Diavolo, la moderna pitonessa Eusapia Paladino «figlia dello spavento»,
medium famosa all’epoca in tutta Europa, metterà a
dura prova il granitico pensiero positivista.
In Enrico Morselli da una parte c’è la cautela e la diffidenza del positivista che vuole «sfrondare con mano
vigorosa e con tagli decisi l’albero miracoloso dello spiritismo da tutte le escrescenze ed efflorescenze che vi
hanno applicato o fatto artificiosamente spuntare l’ingenuità e l’inganno, la buona fede e la finzione, ricominciare l’opera di accumulo delle prove, né dalla più
alta né dalla più complessa, ma dalla più bassa e dalla
più semplice».
Dall’altra la perplessità e la curiosità: «Potrà accadere
che da queste sedute con Eusapia io esca spiritista e
perché no? Dubitare dei propri sensi è sempre atto prudente; diffidare del proprio ragionamento è pure un segno di riflessione matura; arrestarsi davanti ad ogni
fatto straordinario ed esigere maggiori cautele nell’osservarlo è indizio di equilibrio, di sano criterio. Ma
persistere nel dubbio quando la prova si è effettuata
nelle condizioni volute, enunciare supposizioni indefinite che nulla spiegano e mirano solo ad accentuare le
incertezze, non è più prudenza né metodo: è impermeabilità mentale bella e buona».
Morselli avvertiva pubblicamente che al circolo “La
Minerva” «non c’erano né burloni né burlati», ma scriverà che nel corso di una seduta con Eusapia era stato
sfiorato da un’ala di uccello, e resterà molto scosso
dall’apparizione dello spettro della madre25. Merita
d’essere ricordata per l’analogia con le congetture di
Tartarotti sul movimento delle streghe, la teoria scientifica del fluidismo come spiegazione delle apparizioni
di presenze attraverso i medium: dai cadaveri in putrefazione si sosteneva provenissero speciali emanazioni
che riproducevano qualche carattere dei defunti. Il fatto che una simile teoria fosse avallata da Lombroso
amareggia Morselli che non riesce a capire come uno
25 - P. Guarneri, Psichiatra con medium, in «Kos», n. 11, Milano, Franco
Maria Ricci, 1985.
25
GIACOMO DI MARCO
scienziato di quella statura «abituato a difendere le sue
grandi teorie craniologiche con indagini obiettive e
con fatti sperimentali si adattasse a tante contraddizioni pur di sostenere una fede».
L’atteggiamento di Morselli rivela l’ambivalenza verso i fenomeni dell’occultismo che rappresentavano un
limite alla ragione positivista.
L’interesse per l’occultismo sarà ancora molto diffuso nell’Europa del primo Novecento.
Il 24 luglio 1921, Freud scrive a Carrington, uno dei
grandi sostenitori dell’occultismo. In questa lettera
chiede a Carrington di non fare il suo nome perché lui
stesso è un profano, perché vuole differenziare la psicanalisi da quanto è occulto e perché non può sbarazzarsi dei pregiudizi del materialismo scettico. Queste
frasi mostrano chiaramente le oscillazioni di Freud rispetto all’argomento: «simultaneamente vuole e non
vuole procedere al di là della scienza verso conoscenze
proibite». Così scrive la psicanalista Luisa de Urtubey.
Nel suo Freud ed il demonio attraverso gli scritti e la
corrispondenza di Freud evidenzia come per tutta la
vita egli oscillò, appunto, tra il desiderio di conformarsi alla scienza sperimentale e alla ragione ed il desiderio faustiano di superarla. Il diavolo sarà progressivamente la metafora della controvolontà, poi dell’inconscio, più tardi delle pulsioni rimosse ed infine della pulsione di morte.
Un’altra linea di pensiero portava Freud a vedere
nella figura del diavolo il padre seduttore.
La de Urtubey mostra come ancora una volta la posizione di Freud è ambigua ed oscilla tra la posizione
del sedotto-indemoniato e quella del seduttore-diavolo, anzi a volte sembra riuscire ad essere simultaneamente il seduttore ed il sedotto, il diavolo e la sua creatura, il diavolo e l’indemoniato.
«Da questo punto di vista, l’analisi è una pratica
magica e l’analista, figlio di Freud, diventa stregone»26.
L’oscillazione razionale/irrazionale individuata in
Tartarotti non è quindi legata ad un’epoca storica, ma
è qualcosa di costitutivo del comportamento umano e
26 - L. de Urtubey, Freud e il diavolo, Roma, Astrolabio, 1984.
26
polemiche diaboliche
ci rimanda ad una controversia secolare nella storia
della cultura di cui il diavolo rappresenta una figura
emblematica con «significato universale, non storico
ed autonomo. È improbabile che il diavolo sparisca
dalla vita umana, nonostante i travestimenti ed i temporanei declini sembra essere una componente duratura della cultura umana. Se la religione è sempre stata
un tentativo di fornire un significato a tutta la vita degli
uomini – compito questo che la scienza non potrà mai
adempiere – è probabile che il diavolo sia un elemento
inalienabile del mondo»27.
Nella «diabolica polemica» possiamo cogliere, al di
là della puntigliosa discettazione tra eruditi, che andrebbe sicuramente maggiormente colta nella sua specificazione storica, una dimensione antropologica che
vede la complementarietà e la non disgiunzione tra razionale ed irrazionale.
Carlo Ginzburg nel suo Storia notturna – una decifrazione del sabba chiarisce proprio in una dimensione
antropologica il significato del diavolo e del congresso
delle streghe; riesce ad individuare infatti all’interno di
un intreccio fitto di miti, folclore, riti religiosi e storia
un tema comune, una costante: il desiderio di andare al
di là e di tornare dall’al di là.
A questo desiderio riconduce la radice comune di
ogni umano raccontare, riconoscendo nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei morti, alla sfera
del visibile e a quella dell’invisibile, un tratto distintivo
della specie umana28. ❧
Giacomo Di Marco
27 - L. Kolakowski, Enciclopedia, vol. n. 4, Torino, Einaudi, 1978.
28 - C. Ginzburg, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1989.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
27
Il rogo dei libri
il rogo dei libri
«Sono almeno 8.000 i libri dati alle fiamme dai jihadisti nello Stato islamico (Isis) a Mosul, tra cui figurano anche rari manoscritti. È quanto ha denunciato il ministero della Cultura iracheno, bollando l’azione come “un crimine contro l’umanità e contro l’identità irachena”. Secondo il racconto reso all’agenzia di stampa turca Anadolu da un attivista iracheno, che ha
dichiarato di aver ottenuto le informazioni da un testimone oculare, i jihadisti hanno ridotto in cenere la biblioteca centrale della città irachena conquistata lo scorso giugno. Le fiamme sarebbero state appiccate nonostante il tentativo delle tribù locali di convincere l’Isis a non distruggere una delle biblioteche più vecchie del Paese, contenente rarità della cultura araba».
[askanews – Roma, 25 febbraio 2015]
Questi nuovi “delinquenti libreschi” rappresentano l’ultimo tassello dell’insipienza che, virulenta, appare in ogni periodo della Storia.
Tra i diversi strumenti dell’uomo
il più stupefacente è, senza dubbio, il libro.
Gli altri sono estensioni del suo corpo.
Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vista;
il telefono, è l’estensione della sua voce;
poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio.
Ma il libro è un’altra cosa:
il libro è una estensione della memoria e
della immaginazione.
(J.L. Borges)
I
l presente lavoro1 prende spunto e occasione
dalla lettura di Hugo Schanowsky, Diesen Tag,
Sarajevo (Steyr, Austria, 1995; trad. it. di P.E. De
Zordo) e, in particolare, da quella poesia, che mi sembra la gemma lirica della raccolta, e che è una sorta di
epicedio o canto funebre per l’incendio della Biblioteca
Nazionale di Sarajevo.
Sarajevo – qui un tempo tu avevi
un’anima, la tua Biblioteca Nazionale,
un edificio pieno di saggezza e di sogni,
rami fioriti dell’albero del sapere
ne ornavano le sale,
voci rivolgevano la parola a chi leggeva,
qui riviveva il passato
e l’amore per la tua terra
andava vieppiù crescendo
di giorno in giorno.
Centenario voleva diventare quel palazzo.
1 - Apparso in prima edizione sul Quaderno dell’Istituto di Cultura
“Antica Diocesi di Comacchio”, Ferrara, n. 10-11 del giugno 2012, pp.
69-80.
di Mario Rolfini
28
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Finì a novantotto anni,
vittima di un volgare incendio doloso.
Non è esatto, schernirono gli assedianti,
mazzi di fiori ardenti noi gli mandammo
per il compleanno.
Come gridarono di dolore
allora i libri colpiti,
come gemettero umanamente essi allora
cercando di salvarsi dal fuoco,
ma le lingue bramose di questo li lambirono
e li divorarono,
e gli scaffali andarono in pezzi
per le detonazioni delle granate,
acciaio contro carta,
violenza contro soavità,
che impari lotta!
Sarajevo, tu l’hai veduta bruciare
la storia di Bosnia,
hai veduto le delicate poesie soffocare nel fumo acre,
hai veduto ridurre in cenere le antiche vedute,
29
mario rolfini
il rogo dei libri
fondere i preziosi incunaboli, amorosamente custoditi,
hai udito mandare sospiri
i pensieri irrorati
dal sudore di generazioni,
ammutolire per sempre
le innocenti lettere alfabetiche
ed i segni di scrittura arabi.
1
– La furia omicida degli uomini, la “criminale follia
della guerra”2, non si esercita soltanto sulle persone,
ma anche, e in misura non meno evidente, sulle cose: sulle dimore, povere o adorne, degli uomini, sui
pubblici monumenti, sui luoghi destinati al culto religioso, sulle strade, sul paesaggio: che soffrono, anch’essi, di un muto strazio, forse più inascoltato o meno
compianto di quello umano, ma non meno doloroso o
visibile. Il gemito delle creature simili a noi ci apre più
immediatamente e più largamente a fraterna pietà; ma
anche il gemito fioco delle cose piagate dalla stessa mano violenta che piaga le carni dell’uomo, anche le brecce e gli squarci prodotti dalle granate nelle case e nei
pubblici edifici, anche la natura o l’arte offesa dalla barbara insensibilità dell’uomo, dovrebbero commuoverci
o non lasciarci, per lo meno, indifferenti, perché anche
le case, i monumenti, le opere d’arte o della laboriosità
umana, il paesaggio naturale, sono, come i vecchi e i
bambini, creature indifese; e meritano, anch’esse, la nostra pietà.
Ora, se c’è tra le cose – e le cose, poi, sono, pur nella
loro materiale consistenza, brandelli della nostra vita
spirituale, in quanto recano, più o meno visibili, i segni
del nostro essere; l’oggetto cessa di essere un mero oggetto, se c’è dentro un ricordo, un affetto, che ce lo rende nostro, e caro, quasi umanizzandolo: come siamo
“affezionati” alla nostra casa, ai nostri arredi, anche se
semplici e rozzi, ai vecchi e polverosi ritratti di famiglia! –, se c’è tra le cose un oggetto che, per l’utilità o il
piacere che ci offre, per la compagnia e il conforto che
2 - Scelerata insania belli (Virgilio Eneide 7, 461); “la più feroce delle
sciocchezze umane” è definita la guerra da M. Yourcenar, L’opera al nero, trad. it., Milano 1988, p. 215; malo delirio da Th. Mann, La montagna
incantata, trad. it., Milano 1985, Il, p. 412.
30
generosamente ci prodiga nelle ore più meste della nostra solitudine, e nel contempo per la sua fragilità così
esposta a pericoli di ogni sorta, merita il nostro rispetto e, quando è ferito a morte, la nostra pietà, è il libro.
2
– Il libro, manoscritto o stampato che sia, capace,
nella sua piccola o voluminosa mole, di attraversare millenni, è pur sempre insidiato, ogni giorno, ogni ora, da innumerevoli nemici, palesi od occulti:
dagli opici mures (rozzi sorci3), che nella loro beffarda
ignoranza rodono i divini poemi, tramandati da secoli,
alle tineæ inertes4, alle tignole cioè che, con sordo e in3 - Giovenale Satire 3, 207: divina opici rodebant carmina mures (rozzi
sorci rodevano i divini poemi); cfr. U. Eco, Il nome della rosa, Milano
1986, p. 46: “il libro è una creatura fragile, soffre l’usura del tempo, teme
i roditori, le intemperie, le mani inabili…”.
4 - Orazio Epistole 1, 20, 12, tineas pasces… inertis (il poeta si rivolge al
suo libro, che smania d’uscire nel mondo): “splendida espressione, piena
del senso di un logorio tenace e sordido nel silenzio sepolcrale di scaffali
abbandonati… le tignole sono inertes, non s’intendono di poesia…: la parola che meglio può tradurre il geniale epiteto è forse ‘torpide’, che indica
insieme la lentezza del lavorio e la rozzezza mentale…” (F.M. Pontani,
Messina/Firenze 1961, p. 167).
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
cessante lavorio, trapanano, nel silenzio notturno, le
carte, producendo vuote caverne là dove un tempo
scorreva libero il fiume di amate parole; dai terremoti
che seppelliscono sotto un cumulo di fumanti macerie
il tesoro, gelosamente custodito e amorevolmente accarezzato, di private o pubbliche biblioteche, al diluvio
delle acque impazzite di fiumi o torrenti, che non portano via con sé, nei loro vorticosi mulinelli, soltanto alberi o stalle ed armenti, ma anche hanno gravemente,
e spesso irreparabilmente, danneggiato il patrimonio
librario di intere, ed illustri, biblioteche, come è avvenuto, nel 1966, per la Biblioteca Nazionale di Firenze e,
in anni più recenti, per le carte e i libri del “Centro Studi C. Pavese” a S. Stefano Belbo, nelle Langhe. E il fuoco? Anche “fratello fuoco” – qui meno francescano del
solito – opera talvolta sinistramente a danno del libro:
l’acqua, anzi, ed il fuoco sono i nemici più antichi e ricorrenti e temibili di quel solido, e insieme così fragile,
oggetto che è il libro5.
È appena il caso, qui, di ricordare l’incendio, famoso
negli annali delle sventure apocalittiche toccate nel
corso della sua storia all’umanità (fu un rogo immane,
che ridusse in cenere opere preziose dell’antichità, molte delle quali andarono per sempre perdute), della Biblioteca di Alessandria, sia durante il cosiddetto bellum
Alexandrinum del 48/47 a.C.6 sia per volere del califfo
5 - “Per il libro antico l’acqua era, insieme al fuoco, l’elemento distruttore per eccellenza, in quanto ne cancellava l’inchiostro” (M. Citroni,
Marziale Epigrammi 1, 5, 2, Firenze 1975, p. 34); costituiscono motivo di
amara meditazione le parole di C. Carena su “La Stampa” del 31/12/1986
(a proposito dell’incendio della Biblioteca di Alessandria): “rimane… l’idea, il simbolo di questo rogo: la fragilità della cultura, argilla tra il bronzo della barbarie, e del suo sforzo assurdo di accumularsi e conservarsi per
sempre… C’incombe la profezia di Galeno…, secondo cui il destino di
ciò che è scritto sono le fiamme e i terremoti…” (cfr. Galeno Opere, XV,
p. 24 Kühn).
6 - Dei 700.000 rotoli (cfr. Gellio Notti attiche 7, 17, 3) che vi erano contenuti, ne perirono tra le fiamme, secondo Seneca (La tranquillità dell’animo 9, 5), 40.000, tutti (ea omnia) secondo Gellio. Ora, la consistenza libraria del Museo si aggirava probabilmente sui 700.000 rotoli, ma quelli
che bruciarono nel 47 a.C., non furono né tutti i 700.000 rotoli e nemmeno i 40.000 del Museo, sì i “rotoli-merci per caso coinvolti nell’incendio
del porto e relative adiacenze” (cfr. L. Canfora, La biblioteca scomparsa,
Palermo 1998, p. 143).
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Omar nel 6107. Durante il breve regno del “buon Tito”8,
oltre alla terribile eruzione del Vesuvio (che, nel 79
d.C., seppellì Pompei, Ercolano e Stabia), si ebbe,
nell’‘80’, l’incendio che distrusse la biblioteca del portico di Ottavia9. Nella seconda metà del Cinquecento
bruciarono il convento benedettino di Blandigny
(presso Gand, nelle Fiandre) e la biblioteca che v’era
annessa: in quella occasione perì tra le fiamme il celebre Blandinius vetustissimus, un codice tra i più autorevoli delle opere di Orazio, forse anteriore al secolo IX10.
Accanto a questi incendi reali, si può, anche, ricordare
la narrazione, drammatica, dell’incendio, immaginario, di una ricca biblioteca conventuale nel romanzo Il
nome della rosa di Umberto Eco11.
È singolare come proprio il fuoco e l’acqua – che la
scuola ionica e pitagorica annoverava quali “elementi”
costitutivi, insieme con la terra e con l’aria, dell’universo, di quell’altro, grande “libro” che è l’universo12; che
sono stati, e sono, così necessari alla vita quotidiana
dell’uomo, lodati da San Francesco per essere, l’uno,
“bello e iucundo” e, l’altra, “molto utile”, oltre che “umile e preziosa e casta”13 (anche Pindaro scriveva: “Ottima
7 - “Si dice che un califfo orientale un giorno desse” (meglio: facesse dare; ché si tratta, propriamente, di un messaggio del califfo Omar all’emiro
Amr-ibn-al-As, che, tra il 640 e il 641, assediò e conquistò Alessandria:
cfr. P. Granzotto, “Il Giornale” 10/09/2005, p. 38) “alle fiamme la biblioteca di una città famosa (Alessandria)… e che, mentre quelle migliaia di
volumi ardevano, dicesse che essi potevano e dovevano scomparire; perché o ripetevano quello che già diceva il Corano, e dunque erano inutili, o
contraddicevano quel libro sacro agli infedeli, e dunque erano dannosi”
(U. Eco, cit., p. 402); cfr. L. Canfora, Il viaggio di Aristea, Bari 1996, p.
42; La biblioteca scomparsa, cit., pp. 107/8. Lo stesso aneddoto riferisce
J.J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, Paris 1971, p. 157 n.
1, ma per lodare, sia pur indirettamente, l’opera del califfo (aggiungendo,
testualmente: “… supposez Grégoire le Grand à la place d’Omar et
l’Evangile à la place de l’Alcoran, la bibliothèque aurait encore été brûlée,
et ce serait peut-être le plus beau trait de la vie de cet illustre pontife”).
8 - Dante, Purg. 21, 82.
9 - Cfr. Cassio Dione, Storia romana 66, 24, 2.
10 - Cfr. G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze
1952, p. 51 e p. 381; noi conosciamo questo codice solo dalla collazione
fattane, qualche anno prima che il convento di Blandigny andasse a fuoco,
da un professore di Bruges, I. van Cruiyck (Ianus Cruquius), che lo utilizzò per la sua edizione di Orazio pubblicata ad Anversa nel 1587.
11 - Cfr. U. Eco, cit., pp. 486 ss.
12 - “L’universo… è quasi un libro scritto dal dito di Dio” (U. Eco, cit.,
p. 282); per la metafora del “libro della natura”, derivata dal Medioevo latino, cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it.,
Firenze 1995, pp. 354 ss.
13 - San Francesco d’Assisi, Cantico delle creature 16; 19. Su utilità e
31
mario rolfini
cosa è l’acqua”14) – siano altresì, nel contempo, responsabili di colossali catastrofi, e di incommensurabili
danni ai ritmi ordinati proprio di quell’universo di cui
pur sono elementi costitutivi: sì che, talvolta, non possiamo non condividere l’invettiva contro l’acqua, che si
legge nel ditirambo Bacco in Toscana del Redi15, e ci si
stringe il cuore d’umana pietà anche soltanto a leggere
d’incendi subitanei, qual è quello mirabilmente ritratto
da Dante16. E com’è desolante che il libro, pur così solido, e capace di durare a lungo nel tempo, più di quanto
non sia consentito alla persona fisica di alcuno di noi,
sia così facile preda di elementi della natura, come l’acqua ed il fuoco! Debemur, veramente, morti nos nostraque, come diceva l’antico poeta17, e ripeterà Dante18: “le
vostre” (di voi uomini) “cose tutte hanno lor morte, / sì
come voi…”.
3
– Pure, quando la distruzione del libro ad opera
dell’acqua o del fuoco, avviene per lo scatenarsi
incontrollato delle forze e degli elementi della natura – a cui poco o nessun riparo l’uomo può opporre,
essendo eventi per lo più imprevedibili –, per quanto il
cuore ci dolga di fronte all’immane rovina di quelle
umili o preziose carte, esposte al ludibrio e allo strazio
dell’acqua o del fuoco; pure, dicevo, quando ciò avviene per una violenza della natura, la cosa ci ferisce medanni del fuoco e dell’acqua cfr. una pagina del Sermo IV dell’umanista A.
Codro Urceo (= Opera, Basilea 1540, p. 129) riportata da E. Raimondi,
Codro e l’umanesimo a Bologna, Bologna 1987, p. 262.
14 - Pindaro, Olimpiche, 1, 1: avendo, appunto, riguardo all’utilità, come
intese benissimo Aristotele Retorica 1, 7 (nella traduzione di A. Caro,
Venezia 1732, p. 38: quel ch’abbonda è maggior che ‘l raro, perché maggiormente s’usa … E per questo disse Pindaro “ottima è l’acqua”).
Tradurre, pertanto, il verso pindarico con “ottima è l’acqua”, come fanno
L. Cerrato, E. Romagnoli, L. Lehnus ecc., sulla scorta di Aristotele (che
non è poco), i quali, certamente, con “ottima”, non intendono dire che
l’acqua sia la migliore delle bevande, ma rilevarne la fondamentale utilità
come elemento necessario all’equilibrio della natura e alla vita animale e
vegetale, non è un “errore grave” e non costituisce affatto una “sorta di ditirambo degli astemi”, come afferma, in vena di battute spiritose, E.
Mandruzzato, Il piacere del latino, Milano 1980, p. 56 (cfr., anche, la bella lirica, intitolata Mañana, di Garcia Lorca, dove tra l’altro si afferma, vv.
49/50 in Tutte le poesie a c. di C. Rendina, Roma 1993, I, p. 62, che l’acqua “es la vida del mundo, / la historia de su alma”).
15 - Cfr. F. Redi, Bacco in Toscana 735/751.
16 - Cfr. Dante, Inferno 23, 38/42.
17 - Orazio, Arte poetica 63.
18 - Dante, Paradiso 16, 79/80.
32
il rogo dei libri
no che quando avvenga o per incuria o, dolosamente e
deliberatamente, per mano dell’uomo: perché l’atto
gratuito o vandalico a danno di chi, come il libro, ha
ben meritato di noi e reca testimonianza e segno del
passaggio dell’uomo nel mondo, è cosa che offende la
nostra dignità spirituale. Così il rogo di testi ebraici o
“sovversivi”, ordinato da Hitler19, fu un attentato alla civiltà: perché possiamo avversare ideologie, ritenute
aberranti; possiamo disdegnare la lettura di libri ritenuti dannosi alla nostra salute morale; possiamo, anche, sconsigliarne la lettura ai più sprovveduti: ma l’ideologia, e il libro che la professa, vanno semmai combattuti, non perseguitati; e la persecuzione “razziale”
del libro va di pari passo, come andò di pari passo al
tempo del nazismo e dell’oltranzismo culturale a cui si
ispirò quella funesta ideologia politica20, con la persecuzione razziale delle persone21: il rogo nazista dei libri
ebraici e “sovversivi” trova una corrispondenza nella
istituzione nazista dei “campi di concentramento”22. In
modo analogo, nel 25 d.C., l’imperatore Tiberio – che
aveva qualche affinità con Hitler, anche se questi fu infinitamente peggiore – ordinò che fossero bruciati i libri dello storico Cremuzio Cordo23, reo di avere esaltato, nella propria opera, i cesaricidi Bruto e Cassio: “i se19 - Sul “rogo dei libri” ordinato da Hitler il 10 maggio 1933 cfr. Melania
G. Mazzucco, Lei così amata, Milano 2000, pp. 104-106.
20 - A siffatto oltranzismo culturale accenna S. Zweig, Il mondo di ieri,
trad. it., Milano 1979, p. 292: “non essendo purtroppo permesso di bruciare uomini vivi, vennero arsi i volumi su grandi roghi, mentre si recitavano
versetti patriottici”.
21 - Si ricordi, anche, l’amara sentenza (o profezia?) di Heine: “là dove si
danno alle fiamme i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”; al rogo
del libro “eretico” si accompagna spesso, come nel caso di Giordano
Bruno, il rogo dell’eretico.
22 - B. Mussolini, per contro, “non bruciò libri sulle pubbliche piazze e
lasciò ad Hitler il vanto di ripetere l’incendio della biblioteca di
Alessandria” (da una lettera inviata il 6/7/1933 a Mussolini da L. Einaudi,
citata da R. De Felice, Mussolini e il fascismo, Torino 1995, IV, p. 125).
23 - Cfr. Tacito, Annali 4, 35; nella frase dello storico latino (la versione
riportata nel testo è di L. Annibaletto): libros per ædiles cremandos censuere patres “i senatori ordinarono agli edili di bruciare i libri” (di
Cremuzio Cordo), non sembra alieno dal macabro humour di Tiberio immaginare che, nel decreto, egli si compiacesse del lusus suggerito dal rapporto Cremutius/cremare. Per questo, e per consimili “roghi di libri” cfr.
L. Canfora, Libro e libertà, Bari 1994, pp. 64/67; come lo stesso Canfora
avverte, nel “Corriere della Sera” del 19/07/1997, “la storia del libro è soprattutto la storia della sua distruzione, non già quella, fisiologica, dovuta
al tempo e al caso, ma quella che gli uomini, in raptus sterile, compiono
in omaggio a una loro verità”.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
natori” – scrive Tacito – “ordinarono” (dietro ai senatori c’era, naturalmente, la volontà di Tiberio) “agli edili
di bruciare i libri (di Cremuzio Cordo); ma essi ci sono
rimasti, prima nascosti e poi pubblicati… Tanto più
conviene ridere della stoltezza di coloro, che con lo
strapotere presente credono di poter soffocare anche il
ricordo della generazione che verrà: ché, al contrario, il
genio perseguitato cresce in prestigio e nient’altro hanno ottenuto i re stranieri o quelli che hanno usato la
stessa crudeltà se non disonore per sé e gloria per le loro vittime”. I libri, dunque, di Cremuzio Cordo, nonostante il rogo cui li aveva condannati Tiberio, si salvarono24, anche se andarono poi, purtroppo, per altre ra24 - La figlia Marcia riuscì a sottrarre alla distruzione alcune copie dell’opera paterna, che furono messe in circolazione con il consenso di Caligola
(cfr. Svetonio, Caligola 16, 1), ma con qualche intervento censorio (cfr. la
nota di P. Ramondetti a Svetonio Tiberio 61, 3 n. 21, Torino 2008, pp.
738/9).
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
gioni25, irrimediabilmente perduti; così come si salvò
gran parte delle opere condannate al rogo da Hitler:
quel che più importa notare, però, nel passo, stupendo,
di Tacito, è il commento con cui lo storico conclude il
suo racconto, e cioè che, operando siffattamente, i tiranni, artefici del rogo dei libri, procurano soltanto
vergogna a sé stessi e gloria alle vittime loro, perché “il
genio perseguitato cresce in prestigio” o, per dirla con
il latino folgorante di Tacito, punitis ingeniis gliscit auctoritas26.
25 - Cfr. G. Pascucci, I fondamenti della filologia classica, Firenze 1966,
pp. 78/9.
26 - B. Davanzati (Opere di Cornelio Tacito tradotte da B. Davanzati,
Milano 1831, I, p. 258) rendeva lo splendido punitis ingeniis gliscit auctoritas con “i principi… col punire gl’ingegni… dan loro più credito”; ma
forse il senso pieno, e il vigore polemico, della frase si riflettono più incisivamente in H. Ibsen, Drammi, trad. it., Torino 1966, I, p. 1190: “brucia
pure i nostri libri: la parola brucerà nei cuori degli uomini fino all’ultimo
giorno”. Con analoga espressione è stato detto che “i roghi fecondano l’eresia anziché incenerirla” (A. Orsini, “Nuova storia contemporanea” 15
(2011), 4, p. 159).
33
mario rolfini
La distruzione del libro ad opera dell’uomo, comunque avvenga, è un delitto contro la civiltà27; anche se si
deve pur riconoscere la verità di quanto afferma Iosif
Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987: “Tra
i delitti contro la letteratura, il più grave non è la persecuzione degli scrittori, la costrizione della censura, il
rogo dei libri… C’è un delitto peggiore, ed è il disprezzo per i libri, la loro non lettura. Questo delitto, l’uomo
lo paga per tutta la vita”28.
Questo, tuttavia, è, per così dire, un delitto “privato”,
“individuale”: sì, è vero, noi uccidiamo il libro, anche,
non leggendolo; ma almeno, non sopprimendolo “fisicamente”, lasciamo ad altri la possibilità di “viverlo”, di
giovarsene e di trarne conforto. Distruggendo, invece,
materialmente il libro o, peggio ancora, le biblioteche –
luoghi appunto deputati a conservare e preservare il libro –, noi rubiamo al passato le sue memorie e alle presenti e future generazioni la possibilità di fruirne29. Il libro, inoltre, è vivente testimonianza del nostro passaggio sulla terra: perché – dirò parafrasando il Foscolo –
dovremmo, irresponsabilmente, distruggere il libro,
anticipando l’opera fatalmente dissolutrice del tempo?
4
– Leggeremo, dunque, del libro di H. Schanowsky, la lirica che ha per oggetto l’incendio della
Biblioteca Nazionale di Sarajevo. La prima strofa
(o lassa) di quella poesia suona così, nella bella traduzione del prof. De Zordo: “Sarajevo – qui un tempo tu
avevi / un’anima, la tua Biblioteca Nazionale, / un edificio pieno di saggezza e di sogni, / rami fioriti dell’albero del sapere / ne ornavano le sale, / voci rivolgevano
la parola a chi leggeva, / qui riviveva il passato / e l’amore per la tua terra / andava vieppiù crescendo / di gior27 - Scrive, a proposito della distruzione dell’Archivio Legatizio di Ro
Ferrarese, avvenuta, in seguito a bombardamento aereo, il 24 aprile 1945,
G. Savioli in “Ferrara storia” a. I n. 2 (marzo/aprile 1996) p. 11: “distruggere archivi rappresenta una barbarie, quanto fare la guerra”.
28 - A questo rilievo s’accorda U. Eco, cit., p. 399: “il bene di un libro sta
nell’essere letto… Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che
non riproducono concetti, e quindi è muto”.
29 - “Cancellare la memoria delle azioni dell’uomo…, è come uccidere
gli uomini stessi del passato, e condannare quelli del presente e del futuro…” (G. Savioli, cit. a nota 27).
34
il rogo dei libri
no in giorno”30. L’autore si rivolge alla città come a una
persona, con un’apostrofe che denuncia il colloquio
confidenziale e, subito, depreca la ferita profonda, che
ha privato la città della sua “anima”. La mutilazione è
tanto più dolorosa, quanto più quell’“edificio”, che ospitava opere di filosofia, di scienza e di poesia (“saggezza”
e “sogni”), era accogliente e confortevole, nelle sue sale
adorne, come un giardino, fresco e risposante, in cui “i
rami fioriti dell’albero del sapere” porgevano, invitanti,
i frutti elaborati dalla paziente attesa dei secoli; e i libri,
ivi raccolti e ordinati, erano come vecchi amici che “rivolgevano” amabilmente “la parola” a chi li interrogava, e, con la loro familiare o dotta conversazione, porgevano conforto e consiglio, e tenevano desta la memoria del passato, cementando l’unità della nazione.
Quell’“un tempo tu avevi…” preannuncia, però, la catastrofe, espressa a chiare note nella seconda ‘lassa’:
“Centenario voleva diventare quel palazzo. / Finì a novantotto anni, / vittima di un volgare incendio doloso.
/ Non è esatto, schernirono gli assedianti, / mazzi di
fiori ardenti31 noi gli mandammo / per il compleanno”.
Da vecchietto vegeto e arzillo, quel “palazzo”, alla soglia
oramai dei cent’anni di vita, aspirava a raggiunger l’agognato traguardo, che sarebbe stato, con ogni probabilità, solennemente festeggiato dai cittadini di Sarajevo.
Fu festeggiato, sì, in anticipo di due anni, quel “centenario”, ma con “mazzi di fiori ardenti” – sarcastico eufemismo per dire “granate” –, come si affrettano, correggendo l’erronea didascalia “vittima di un volgare incendio doloso”, a precisare gli “assedianti”, i quali, per il
“compleanno” dell’illustre vegliardo (novantotto anni
suonati), si premurano di inviargli, gentilmente, un
omaggio floreale, segno della loro “ardente” ammirazione: un bel mazzo di fiori di fuoco, che l’hanno ridotto in un cumulo di rovine. “Come gridarono di dolore”
30 - H. Schanowsky, Questo giorno, Sarajevo, trad. it. di F. E. De Zordo,
Steyr 1995, p. 53.
31 - Per contro, nella gentile finzione ludica di un torneo, “da graziosi
cannoni si spararono” veri “mazzi di fiori ed essenze dal soave profumo”
(F. Schiller, Maria Stuarda, trad. it., Torino 1982, p. 33); è probabile che
l’autore di Diesen Tag, Sarajevo abbia dedotta, e sarcasticamente capovolta, da Schiller l’immagine dei “mazzi di fiori sparati dai cannoni”.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
(continua la terza ‘lassa’) / “allora i libri colpiti, / come
gemettero umanamente essi allora / cercando di salvarsi dal fuoco, / ma le lingue bramose di questo li lambirono / e li divorarono, / e gli scaffali andarono in pezzi / per le detonazioni delle granate, / acciaio contro
carta, / violenza contro soavità, / che impari lotta!” È la
strofa più bella: i libri, intaccati dalle fiamme, “gridano
di dolore”, “gemono”, come umane creature32: il lamento di quei poveri fogli assaliti, invasi, accartocciati dal
fuoco, si confonde al gemito dei bambini, delle donne
e dei vecchi di Sarajevo. Cercano, quei libri, così fragili,
32 - Cfr. E. Canetti, Auto da fé, trad. it., Milano 1987, p. 251: “lo sa che
cosa significa l’incendio di una biblioteca? Provi ad immaginarselo!
Decine di migliaia di volumi, vale a dire milioni di pagine, miliardi di lettere, e ognuna di esse brucia, ognuna implora, grida, urla aiuto al punto di
rompere i timpani, da spezzare il cuore di chi ascolta…”.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
così indifesi di fronte all’ostile veemenza del fuoco, cercano, disperatamente, di “salvarsi”: ma dove fuggire,
essi, che sono immobili? Dove nascondersi o sottrarsi
all’implacabile artiglio delle fiamme? Quale riparo opporre tra sé e la nemica forza? Sono completamente alla mercé dell’elemento insidioso, che, brutalmente,
avanza, ghermisce, divora, con insaziabile “lingua bramosa”: drago vorace, il fuoco inghiottisce i libri, fa
crollare a pezzi gli scaffali, tra le assordanti “detonazioni delle granate”, che mettono scompiglio e paura e rovina là dove regnavano “la saggezza ed i sogni”, là dove
spirava la pace delle riposate letture e degli amabili, silenziosi colloqui tra il libro e il solitario lettore. “Che
impari lotta!”, veramente: “acciaio contro carta, / violenza contro soavità”: l’acciaio della violenza e della
35
mario rolfini
barbarie, che raggiunge al cuore, ferendola a morte, la
mite saggezza di quelle umbratili carte.
La poesia si conclude tornando, quasi circolarmente,
all’apostrofe iniziale (“Sarajevo, tu…”): “Sarajevo, tu
l’hai veduta bruciare / la storia di Bosnia, / hai veduto
le delicate poesie soffocare nel fumo acre, / hai veduto
ridurre in cenere le antiche vedute, / fondere i preziosi
incunaboli, amorosamente custoditi, / hai udito mandare sospiri / i pensieri irrorati / dal sudore di generazioni, / ammutolire per sempre / le innocenti lettere alfabetiche / ed i segni di scrittura arabi”. È come l’inventario della catastrofe, dolorosamente scandito da quell’“hai veduto”, “hai udito”; brucia, davanti agli occhi
esterrefatti della città, la “storia di Bosnia”, bruciano le
“delicate poesie”, soffocate dal fumo acre degl’incendi,
“fondono”, come duttile metallo in una rovente fornace, i “preziosi incunaboli”, custoditi, per secoli, da mani
amorose (si pensi al danno inestimabile, se anche soltanto un libro come la Bibbia di Borso d’Este o il Codice Atlantico di Leonardo andassero completamente distrutti o irreparabilmente danneggiati dal fuoco); “sospirano”, con gemito affranto, i pensieri sgorgati dalla
mente e dal cuore delle passate generazioni, e affidati
alle mute (eppure eloquenti) carte dei libri: e sono gli
estremi “sospiri” dei moribondi; destinate, per sempre,
a tacere le “lettere alfabetiche” e i “segni di scrittura
arabi” (a dire l’incontro, e la convivenza, pacifica,
nell’ordinato silenzio della Biblioteca Nazionale, delle
due culture, la greco-ortodossa e la musulmana), entrambe “innocenti”, incolpevoli, e immeritevoli di tanta strage: affratellate ancor di più nella morte comune.
Accanto all’“inferno dei bambini”33 e all’“inferno del
ricordo”34 c’è, dunque, l’inferno dei libri: inferno, in
senso non solo traslato, perché tra “fiamme infernali”
periscono i libri gentili della Biblioteca Nazionale di
Sarajevo; “inferno” non meno grave degli altri, perché
s’apre comunque un inferno sulla terra allorché la mano dell’uomo s’arma violenta contro la persona o le cose dell’uomo. Il “grido”, il “gemito”, i “sospiri” di una Bi33 - H. Schanowsky, cit., p. 60.
34 - Id., cit., p. 61.
36
il rogo dei libri
blioteca ferita a morte diventano, così, l’atto d’accusa
più forte e solenne contro la violenza che offende le
memorie e i diritti più sacri ed elementari dell’umanità.
5
– Si è detto, giustamente, che chi non ama gli animali, non ama l’uomo35; e altrettanto giustamente
si può dire che chi offende indiscriminatamente il
paesaggio naturale, sradicando alberi o calpestando
selvaggiamente aiuole fiorite, non ha spesso la necessaria sensibilità nei confronti dei propri simili: anche se è
doveroso aggiungere che il nostro amore per gli animali, quando c’è, non si estende certo a tutti indistintamente gli animali (alcuni li sacrifichiamo senza rimpianti alle esigenze del nostro palato; altri ci sono istintivamente ripugnanti o sono atti a suscitare in noi un
sentimento più di paura, che d’amore); così, se amiamo
le piante, ciò non vuol dire che si debbano amare, e non
estirpare, le malerbe che infestano il raccolto. E non
deve mai, in ogni caso, l’amore per gli animali, degenerare in morbosa predilezione che torni a scapito della
persona e della dignità dell’uomo (come fu denunciato
in memorabili pagine del Parini36 e del Porta37); né il
sentimento di rispetto per la natura deve atteggiarsi a
estetica posa o a languida morbidezza. Similmente, se
fossimo posti nella dolorosa alternativa tra il salvare un
libro e il salvare una persona, per quanto profondo
possa essere il nostro amore per i libri – e fossero pure
la Bibbia di Borso o il Codice Atlantico di Leonardo –,
non esiteremmo a sacrificare il libro per amore della
persona: poiché, se è vero che chi non ama il libro non
ama l’uomo, è altrettanto vero che il libro è in funzione
dell’uomo, e non l’uomo in funzione del libro; e sareb35 - “Wer Tiere nicht achtet, kann nicht-menschlich leben” (Chi non rispetta gli animali, non sa vivere umanamente): è parola di A. E. Brehm, il
grande naturalista tedesco, vissuto dal 1829 al 1884 (notissima anche al
pubblico italiano grazie alla traduzione di M. Lessona, è la sua opera La
vita degli animali).
36 - Cfr. G. Parini, Il mezzogiorno, pp. 517/566.
37 - Cfr. C. Porta, La nomina del cappellan 1/18 (in Poesie a c. di D.
Isella, Milano 1975, pp. 561/2); per altri episodi consimili, o più raccapriccianti, di “sensibilità barbara” (passione pei cani congiunta a disprezzo per gli uomini) cfr. G. Carducci, Opere, ed. naz., XVII, pp. 74/5; “bella la sensibilità verso gli animali se non è a scapito della sensibilità verso
gli uomini” avverte saggiamente M. Veneziani, “Il Giornale” 14/07/2011
(p. 1).
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
be atto inumano subordinare alla salvezza del libro la
salvezza della persona.
Si può anche non amare gli animali, si può non amare la natura; ma ci corre l’obbligo morale, almeno, di rispettarli. Possiamo non avere, per gli animali, per gli
alberi o i fiori, la delicatezza affabile e premurosa che
aveva san Francesco d’Assisi; ma rispettarli, e non offenderli gratuitamente, ogni uomo, degno di questo
nome, può e deve. Possiamo non amare svisceratamente il libro, possiamo considerarlo, come avviene
purtroppo spesso, un mero ornamento della casa38,
una pura e semplice espressione di signorilità e di buon
gusto; ma anche quando non lo si reputi un confidente,
un amico, prezioso e insostituibile, dovremmo saper
rispettarlo, perché ci testimonia l’amore, la passione, la
speranza e la sofferenza di altri esseri umani, vissuti in
un passato più o meno lontano, o a noi contemporanei;
perché il libro, grande o modesto che sia, ci aiuta a capire meglio noi stessi e il senso del nostro destino. E,
indifeso com’è, merita, anche per questo, un rispetto
maggiore. L’animale a un nostro sopruso può reagire;
ma la pianta o il fiore o il libro, come accettano le no38 - Delle dimore di lusso sovraccariche di libri per puro esibizionismo
parlava già Seneca, La tranquillità dell’animo 9, 4-7.
stre premure, così subiscono, senza poter opporre resistenza alcuna, le nostre violenze.
In questa “aiuola che ci fa tanto feroci”39, anche i libri,
quando ci apprendano gentilezza e amore e comprensione per i nostri simili e per le loro debolezze, e pietà
per le loro sventure, sono fiori, splendidi fiori, che dovremmo curare e proteggere. Chi offende, gratuitamente, il libro, offende la dignità e la civiltà dell’uomo;
e la nuova, rediviva barbarie, che ha sparato i suoi “fiori ardenti” d’acciaio contro l’indifesa “soavità” di quell’eden librario che era la Biblioteca Nazionale di Sarajevo,
ha ferito, nella sua azione perversa, aggravata da cinico
sarcasmo, il cuore eterno dell’uomo.❧
Mario Rolfini
39 - Dante, Paradiso 22, 151.
19 Marzo A. D. 2015
L’organizzazione “Humanity in Action Senior Fellow Network” (www.humanityinaction.org), ha
lanciato da Sarajevo l’appello “Books 4 Vijecnica” per rinnovare il fondo bibliotecario della biblioteca
universitaria e nazionale della BiH, conosciuta come Vijecnica.
Il 25 agosto 1992 la Vijecnica (www.vijecnica.ba) fu bombardata e nel rogo andarono persi un milione e mezzo di libri, rari manoscritti e documenti. Si invitano tutti coloro che desiderano sostenere l’iniziativa ad inviare non soldi ma due volumi. Un libro in qualsiasi lingua del mondo, sulle seguenti
materie: medicina, legge, economia, letteratura, arte e filosofia e un altro nella lingua materna dei donatori con contenuti specifici legati alla sua regione, alla gente di quel paese, o altri libri che si ritengano socialmente utili.
I libri vanno inviati al seguente indirizzo: University of Sarajevo – Campus Zmaja od Bosne, bb.
71000 Sarajevo, Bosna i Hercegovina.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
37
la biblioteca «virtuale» di dante
Delectant libri, prosperitate feliciter arridente, consolatur individue, nubila fortuna terrente:
pactis humanis robur attribuunt, nec feruntur sententiae graves sine libris. Artes et scientiae
in libris consistunt, quarum emolumenta nulla mens sufficeret enarrare. Quanti pendenda
est mira librorum potentia, dum per eos fines tam orbis quam temporis cernimus, et ea quae
non sunt, sicut ea quae sunt quasi in quodam aeternitatis speculo contemplamur!
Riccardo de Bury, Philobiblon XV1
Q
1 - “I libri divertono quando si è ricchi e felici, ma ci consolano quando le nubi della sorte ci atterriscono; danno forza ai patti degli uomini e non si pronunziano massime gravi senza libri. L’arte e la scienza, i cui benefici nessuno è all’altezza di descrivere, sono tutte nei libri. Si deve credere davvero che
la potenza dei libri sia meravigliosa, perché essi ci mostrano i confini del mondo e del tempo, e attraverso di essi contempliamo ciò che è e ciò che non
uesti brevi appunti nascono in margine ad un che in tre fasi precise: fino al XII secolo le biblioteche
è, quasi in uno specchio dell’eternità!”: Riccardo de Buty, Philobiblon, a cura di Pino di Branco, La Vita Felice, Milano 1998, pp. 170-171.
A Silvia, prima
libropaziente
recentissimo
ascoltatrice di
e lettrice
Luciano
dei miei
Gargan,
“sragionamenti”
intito-danteschi…
custodiscono opere quali la Bibbia, opere patristiche e
La biblioteca
“virtuale”
di Dante
La biblioteca medievale
Prima di entrare nel vivo del discorso occorre una
premessa su cosa si intendesse per biblioteca nel periodo medievale. Nella coscienza moderna per biblioteca si intende un “luogo ove sono raccolti e conservati i libri”, secondo la definizione dello Zingarelli
(2006). Nel Medioevo le cose erano diverse, poiché le
biblioteche erano veri e propri luoghi di conservazione libraria, ma anche di cultura in cui i testi venivano
letti e diffusi, e spesso vi venivano pure trascritti (nei
cosiddetti scriptoria). Gli inventari antichi hanno permesso di codificare le linee di sviluppo delle bibliote1 - “I libri divertono quando si è ricchi e felici, ma ci consolano quando le
nubi della sorte ci atterriscono; danno forza ai patti degli uomini e non si
pronunziano massime gravi senza libri. L’arte e la scienza, i cui benefici
nessuno è all’altezza di descrivere, sono tutte nei libri. Si deve credere
davvero che la potenza dei libri sia meravigliosa, perché essi ci mostrano
i confini del mondo e del tempo, e attraverso di essi contempliamo ciò che
è e ciò che non è, quasi in uno specchio dell’eternità!”: Riccardo de Buty,
Philobiblon, a cura di Pino di Branco, La Vita Felice, Milano 1998, pp.
170-171.
A Silvia, prima paziente ascoltatrice e lettrice dei miei “sragionamenti”
danteschi…
2 - Si veda la recensione del libro da parte di Edoardo Fumagalli in
“L’Alighieri”, 44 (2014), pp. 153-157.
di Fabio Casna
38
lato Dante, la sua biblioteca e lo Studio di Bologna (Antenore, Roma-Padova 2014)2, e vogliono essere un’esplorazione quanto mai ipotetica ed indiziaria
di ciò che avremmo potuto trovare nella biblioteca di
Dante, biblioteca appunto “virtuale” in quanto non
possediamo alcun documento o testimonianza diretta che ci dimostri le sue letture o ci consenta di conoscere i suoi libri. Desidero inoltre continuare nei prossimi numeri a sondare e scoprire le biblioteche di altri
due autori importanti della nostra letteratura del Trecento, quali Petrarca e Boccaccio, che hanno invece
lasciato numerose testimonianze dirette (elenchi di libri, ex-libris, etc.) delle loro raccolte di manoscritti.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
liturgiche; dal XII al XIV secolo vi compaiono libri di
cultura teologica e scolastica (summae, compendia, tabulae, raccolte di sermoni, etc.) e inoltre libri in lingua
volgare; il secolo XIV però segna la diffusione di nuove opere della spiritualità e soprattutto un ripreso interesse per le opere della letteratura classica (greca e
latina in primis). Questa evoluzione dipende in gran
parte dai possessori che hanno costituito le biblioteche: attraverso le scelte dei libri e della loro disposizione costoro hanno manifestato le loro conoscenze e le
loro aspirazioni spirituali ed intellettuali.
Dal punto di vista dei possessori le biblioteche possono essere suddivise in tre grandi categorie: biblioteche delle istituzioni religiose (presso chiese, cattedrali,
monasteri, conventi, studia di ordini mendicanti, collegi e università); biblioteche delle istituzioni laiche (ad
esempio presso sovrani e città); biblioteche di privati
(presso principi, signori, ecclesiastici, studiosi, famiglie nobili e borghesi). Spesso le biblioteche di privati
diventano il nucleo di biblioteche istituzionali: si pensi all’umanista ed erudito Sozomeno3 (1387-1458) che
lasciò i suoi libri (ben 110 manoscritti e tre carte geografiche) alla città di Pistoia per la creazione di una biblioteca pubblica, e al cardinale Bessarione (14031472) che decise di donare a Venezia tutti i suoi libri
greci e latini.
Le biblioteche in ambito medievale hanno svolto
funzioni molto importanti: oltre alla conservazione
della memoria di tradizioni secolari hanno consentito
di diffondere e di trasmettere numerosi testi della letteratura antica e della patristica secondo manoscritti
antichi. Infatti spesso nei codici d’epoca carolingia si
3 - Per un primo punto su questo interessante personaggio si veda Irene
Ceccherini, Poligrafia nel Quattrocento: Sozomeno da Pistoia, in
“Medioevo e Rinascimento”, 26 (2012), pp. 237-251.
39
fabio casna
fa riferimento al liber authenticus, l’archetipo di copiature successive.
Accanto a biblioteche “istituzionali”, quali quelle di
istituzioni religiose o laiche legate alle corti signorili e
nobiliari, esistono biblioteche private, quelle dei dotti,
spesso legati alla cultura universitaria, che creano vere e proprie raccolte librarie modellate sulla nuova
cultura che veniva imponendosi, avendo fra i suoi
modelli gli autori classici, i padri della Chiesa e gli
stessi scritti umanistici. Così queste biblioteche acquisiscono un nuovo elemento, ossia di essere fatte in
prevalenza di libri moderni, eseguiti e prodotti non
molto tempo prima dell’acquisto. Fra Due e Trecento
viene imponendosi una cultura parallela e tangente a
quella universitaria, una cultura curiale portata avanti da laici, notai, giudici, cancellieri, “tecnici del linguaggio scritto” che “tendevano, attraverso una più
raffinata retorica, a rinnovare il codice espressivo del
contemporaneo latino oratorio e cancelleresco; e ricercavano i modelli di tale rinnovamento negli autori
antichi, sia in quelli conosciuti, sia in quelli meno conosciuti o ignoti; e perciò ne desideravano i testi, ne
scoprivano i codici, li leggevano e li copiavano; e così
facendo rinnovavano le loro biblioteche private e creavano, inconsapevolmente, si può dire, un nuovo modello di raccolta libraria”4, che troverà il suo modello
perfetto e definitivo nella biblioteca del maggiore di
tutti gli umanisti: Francesco Petrarca.
La testimonianza di Boccaccio
La biblioteca di Dante purtroppo non può essere ricostruita su basi certe, poiché manca qualsiasi pezza
d’appoggio per la sua ricostruzione. Così numerosi
studiosi hanno imposto un lungo silenzio su tale argomento, mancando difatti uno studio complessivo
ed articolato prima del saggio di Gargan citato in
apertura. L’unico che si è espresso, seppur brevemente, è Giorgio Petrocchi nella sua Vita di Dante ove afferma che “la biblioteca dell’Alighieri non fu certo
4 - Armando Petrucci, Le biblioteche antiche, in Letteratura italiana, II:
Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983, pp. 527-554: 534-535.
40
la biblioteca «virtuale» di dante
molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e così in continui traslochi da un luogo all’altro.
Tuttavia si può opinare che possedesse una dozzina di
autore, tra classici e cristiani, un’epitome (magari una
sola) storica e una geografica, o storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali,
francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e
la sua Summa di Guido Faba. Avrà consultato qualche
biblioteca? Sarà andato, a Verona, nella Capitolare? Se
lo avrà fatto, non avvenne certamente per scoprire
classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di
codici dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che già conosceva”5.
Petrocchi sottolinea alcuni elementi che ritornano
spesso nei critici successivi: Dante non ebbe una biblioteca nutrita, poiché dopo l’esilio era in continuo
viaggio da una città ad un’altra, e non disponeva di
grandi quantità di denaro per acquistare codici. Però
non si evidenzia mai il fatto che Dante viaggiava spesso e in quei viaggi aveva possibilità di accedere a biblioteche ecclesiastiche, cittadine, universitarie, ma
anche aveva modo di entrare in contatto con libri in
situazioni atipiche, come in una bottega di uno speziale.
Il Boccaccio ci racconta un episodio molto interessante nel Trattatello in laude di Dante: “essendo una
volta tra l’altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d’uno speziale, e quivi statogli recato uno
libretto davanti promessogli, e tra’ valenti uomini
molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte,
sopra la panca che davanti allo speziale era, si pose col
petto, e, messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E come che poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per
alcuna general festa de’ Sanesi s’incominciasse da gentili giovani e facesse una grande armeggiata, e con
quella grandissimi romori da’ circustanti […], mai
non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi
5 - Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 107.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
ad ora di nona, prima fu passato vespro, e tutto l’ebbe
veduto e quasi sommariamente compreso, che egli da
ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il domandavano come s’era potuto tenere di riguardare a così
bella festa come davanti a lui s’era fatta, sé niente averne sentito” (Prima redazione, 121-122)6.
Torniamo alla biblioteca di Dante e al problema che
circonda i libri letti, usati e posseduti dal nostro autore. Il problema, se così lo vogliamo chiamare, se lo è
posto più di trent’anni fa Armando Petrucci, che in un
saggio sulle biblioteche medievali, dopo aver parlato
di Lovato Lovati, scrive: “Gli anni di Lovato sono gli
anni di Dante; ma della biblioteca di quest’ultimo non
abbiamo (ancora) tracce; non possiamo però nasconderci il fatto che alla base della sua produzione latina
e volgare c’è un problema fondamentale di letture e
perciò di biblioteca, o di biblioteche, private, cortesi o
religiose che fosse; un problema che non è possibile
oggi risolvere, ma dietro il quale si nasconde uno snodo, un momento alto del processo di modificazione in
atto nella cultura italiana trecentesca. Poiché Dante
leggeva (dove? come?) testi latini di autori scolastici e
testi di classici, sillogi di poeti provenzali e di poeti
volgari italiani, romanzi francesi e autori medievali,
Padri della Chiesa, trattati di retorica ed enciclopedie,
attraversando, come nessuno aveva saputo fare prima
di lui e pochi avrebbero potuto fare dopo, filoni diversi di tradizione libraria e di cultura scritta e fondendoli insieme di forza”7.
Pare che Dante non abbia mai usato il termine biblioteca nelle sue opere e non abbia mai sperimentato
un amore viscerale nei confronti dell’oggetto-libro come altri autori della sua epoca, benché ricorra ad
espressioni “librarie” nei suoi scritti: si ricordi ad
esempio l’inizio della Vita Nova “In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere si trova una rubrica la qual dice: Incipit
vita nova, sotto la qual rubrica io trovo scritte le paro6 - Giovanni Boccaccio, Vite di Dante, a cura di Pier Giorgio Ricci,
Mondadori, Milano 2002, p. 33.
7 - A. Petrucci, Le biblioteche antiche, p. 535.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
le le quali è mio intendimento d’assemplare in questo
libello; e se non tutte, almeno la loro sententia” (VN, 1
1)8 o alcuni luoghi nel Paradiso (X 27; XXVIII 14-15 e
55-56; XXXIII 85-87) o in un passo del De vulgari eloquentia (I 6 3)9 dove Dante rimanda espressamente ad
un codice di poeti e d’altri autori che dice di aver letto
e riletto (revolvo è il verbo appunto usato che ha il significato di ‘rileggere’).
In mancanza quindi di un documento preciso e dettagliato o di un inventario di codici antichi o superstiti non possiamo far altro che rassegnarci a ricostruire
in maniera “virtuale” la sua biblioteca, attraverso l’analisi del corpus delle opere dantesche e risalendo così alle sue letture10.
Prima però bisogna sgomberare il campo da un’idea
che grava ancora su alcuni studiosi, cioè che Dante
abbia utilizzato principalmente florilegi, enciclopedie
od opere di consultazione per le sue opere, ma – come
ricorda giustamente Michele Barbi parlando dei testi
filosofici usati per il Convivio – “può anche ammettersi che di certe dottrine avesse notizia per quello che
aveva udito nelle scuole o letto in recollectiones e in altri libri di divulgazione”, però è difficile soprattutto
per il modo di citazione e di conoscenza dimostrata
che Dante “fosse spirito da contentarsi di cibo rimasticato, e non sentisse né allora né poi il bisogno di conoscere direttamente le opere dei grandi pensatori, e
non raccogliesse da tali opere passi e note utili ai suoi
studi e lavori”11.
8 - Dante Alighieri, Vita nova, introduzione, revisione del testo e commento di Stefano Carrai, Rizzoli, Milano 2009, p. 41. Di Carrai si veda anche Dante elegiaco. Una chiave di lettura per la Vita nova, Olschki,
Firenze 2006.
9 - Revolventes et poetarum et aliorum scriptorum volumina, quibus mundus universaliter et membratim describitur, “ma sfogliando più e più volte i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo sia
nell’insieme che nelle sue singole parti” (Dante Alighieri, Opere, III: De
vulgari eloquentia, a cura di Enrico Fenzi, con la collaborazione di
Luciano Formisano e Francesco Montuori, Salerno, Roma 2012, pp.
38-41).
10 - Lo stesso metodo indiziario è stato utilizzato nella ricostruzione delle biblioteche di scrittori classici: ad esempio si veda il lavoro di Claudia
Pandolfi, La biblioteca di Cicerone, in “I Castelli di Yale”, 6 (2003), pp.
9-29.
11 - Michele Barbi, Introduzione, in Dante Alighieri, Convivio, ridotto a
miglior lezione e commentato da G. Busnelli e G. Vandelli, introduzione
di M. Barbi, Le Monnier, Firenze 1953, I, pp. XV-LXVIII: LI.
41
fabio casna
Torniamo a Boccaccio e al suo Trattatello in laude di
Dante, ove viene descritto l’itinerario culturale del nostro autore fra Firenze, sua città natale, Bologna e Parigi. Questi dettagli, se letti nella giusta dimensione,
possono darci numerosi spunti sulle varie sezioni della biblioteca dantesca:
[…] lasciando stare il ragionare della sua infanzia,
nella quale assai segni apparirono della futura gloria
del suo ingegno, dico che dal principio della sua puerizia, avendo già li primi elementi delle lettere impresi,
non, secondo il costume de’ nobili odierni, si diede alle
fanciullesche lascivie e agli ozii, nel grembo della madre
impigrendo, ma nella propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle liberali arti, e in
quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo insieme con gli anni l’animo e lo ’ngegno, non a’ lucrativi studii, alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una laudevole vaghezza di perpetua fama
[tratto], sprezzando le transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere avere piena notizia delle fizioni poetiche e dello artificioso dimostramento di quelle. Nel
quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio, d’Orazio, d’Ovidio, di Stazio e di ciascuno altro poeta famoso; non solamente avendo caro il conoscergli, ma
ancora, altamente cantando, s’ingegnò d’imitarli, come
le sue opere mostrano, delle quali appresso a suo tempo
favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere
vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti
estimano, ma sotto sé dolcissimi frutti di verità istoriografe o filosofiche avere nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e naturale filosofia, le poetice intenzioni avere non si potevano intere;
partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia sotto diversi dottori s’argomentò, non sanza lungo
studio e affanno, d’intendere. E, preso dalla dolcezza del
conoscere il vero delle cose racchiuse dal cielo, niuna altra più cara che questa trovandone in questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine, tutto a questa sola si diede. E, acciò che niuna parte di filosofia non veduta da lui rimanesse, nelle profondità al42
la biblioteca «virtuale» di dante
tissime della teologia con acuto ingegno si mise. Né fu
dalla intenzione l’effetto lontano, perciò che, non curando né caldi né freddi, [né] vigilie né digiuni, né alcuno
altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a
conoscere della divina essenzia e dell’altre separate intelligenzie quello che per umano ingegno qui se ne può
comprendere. E così come in varie etadi varie scienze
furono da lui conosciute studiando, così in varii studii
sotto varii dottori le comprese.
Egli li primi inizii […] prese nella propia patria, e di
quella, sì come a luogo più fertile di tal cibo, n’andò a
Bologna; e già vicino alla sua vecchiezza n’andò a Parigi, dove, con tanta gloria di sé, disputando, più volte
mostrò l’altezza del suo ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di tanti e sì fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli: perciò che
alcuni il chiamarono sempre “poeta”, altri “filosofo” e
molti “teologo”, mentre visse. […]
Ma poi che egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n’andò a Parigi; e quivi tutto
si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell’altre scienzie ciò che forse per
gli altri impedimenti avuti se ne era partito. (Prima redazione 21-26; 75)12
I riferimenti di Boccaccio ai soggiorni bolognesi e
parigini di Dante, su cui si tornerà più avanti, andranno riferiti rispettivamente agli anni 1292-1294 e 13091310 (sul viaggio a Parigi permangono ancora grossi
dubbi e resistenze dalla maggior parte degli studiosi).
Il curriculum studiorum che ne esce è quello di uno
studente (o forse anche di un maestro) della facoltà
delle arti liberali. I libri che Dante dovette utilizzare o
comunque conoscere erano quelli usati per i program12 - Boccaccio, Vite di Dante, pp. 8-10, 21. Un’ulteriore testimonianza
sulla cultura di Dante utile per la ricostruzione della sua biblioteca si trova in Boccaccio nelle Esposizioni sopra la Comedia di Dante: Accessus
29-34 (cfr. Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante,
a cura di Giorgio Padoan, Mondadori, Milano 1994, pp. 7-8).
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
mi di insegnamento, ma la sua sviscerata curiosità lo
portò probabilmente ad approfondire testi ed autori
utilizzando edizioni specifiche, e non soltanto florilegi
o enciclopedie. Le scelte e i gusti del nostro Dante infatti si rendono sempre più specifici e settoriali nel corso della sua vita e nella maturazione che ebbe attraverso le sue opere, dalla Vita nova alla Commedia.
La testimonianza di Boccaccio naturalmente è solo
indiziaria e ci riporta un quadro parziale, anche perché difficilmente il nostro sarà stato esperto di tutte le
arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del
quadrivio (aritmetica, geometrica, astronomia, musica) fin dalla sua giovinezza.
Una biblioteca “virtuale”
Entriamo finalmente nella sua biblioteca. I primi
studi latini di Dante, sotto la supervisione di un maestro, saranno stati basati sui trattati di Donato o Prisciano, poi su qualche autore minore e successivamente su qualche auctor classico importante, come ad
esempio il De consolatione philosophiae di Boezio o il
De amicitia di Cicerone, come ci dice nel Convivio (II
12 2-7).
A partire proprio da questo passo Dante afferma
che il suo corso di studi subì una svolta a seguito della
morte di Beatrice, e decise di andare a studiare e comprendere la filosofia “là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”13, ossia proprio a Bologna, già menzionata dal Boccaccio, dove probabilmente ebbe modo di frequentare le lezioni e di prendere parte alle celebri dispute che si tenevano nello Studio teologico e
nelle facoltà di medicina e di arti liberali. Pare così che
Dante tra i venticinque anni ed i trenta abbia avuto
modo di approfondire i propri studi filosofici frequentando la celebre università di Bologna e in maniera saltuaria gli studi teologici di Firenze di Santa
Maria Novella e di Santa Croce. A Bologna inoltre do13 - Dante Alighieri, Convivio, in Id., Opere minori, I/2, a cura di Cesare
Vasoli e di Domenico De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1988, pp.
205-210 (per approfondire si veda l’esaustivo commento del passo a cura
di Vasoli).
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
vette apprendere e perfezionare lo studio dell’ars dictandi e delle arti poetiche, tratti che riemergono più
palesemente nelle fonti e nei modelli del De vulgari
eloquentia. Qui si esercitò e si impratichì nella conoscenza dei poeti classici, di cui offre un primo canone
nella Vita nova (16)14, anticipando di molto la celebre
descrizione del IV canto dell’Inferno.
Tornato a Firenze, grazie alle competenze acquisite
poté iscriversi all’arte dei medici e degli speziali (1295)
e da lì iniziare una carriera politica, di cui purtroppo
conosciamo ben pochi dettagli, poiché mancano documenti che testimonino l’impegno di Dante in tale
settore. Tale momento rappresenta una parentesi breve nella vita dantesca, che lo allontanò – pare – dagli
studi, che ben presto ripresero successivamente al suo
esilio dalla tanto amata Firenze (1302). Questo bando
lo costrinse “peregrino, quasi mendicando” a vagare
per ogni regione d’Italia, e ad essere “legno sanza vela
e sanza governo” (Convivio I 3 4-5). Il che lo indirizzò
verso l’unica sua àncora di salvezza: lo studio e la speculazione filosofica, e produsse così due opere importanti per contenuto e tematica: il Convivio e il De vulgari eloquentia. Il primo è un’opera enciclopedica incompiuta, composta fra il 1304 e il 1307, ove l’autore
commenta tre sue canzoni svolgendo argomenti diversi (amore, consolazione, filosofia, conoscenza, felicità, nobiltà e impero) al fine di divulgare la conoscenza della filosofia presso coloro che, non sapendo
il latino, ne erano esclusi. Il secondo è un trattato in
prosa latina sull’arte di scrivere in volgare (intentio nostra […] est doctrinam de vulgari eloquentia tradere),
composto fra il 1303 e il 1305 indirizzato a letterati e
scrittori. Entrambe le opere sono incompiute – scrive
Folena – “certo per il sopravvenire di interessi spirituali diversi e più urgenti”15.
14 - Vengono citati l’Eneide di Virgilio, la Farsaglia di Lucano, l’Ars poetica di Orazio e i Remedia amoris di Ovidio, nonché il “buono Omero”,
di cui Dante non ebbe conoscenza diretta: Dante Alighieri, Vita Nova, pp.
121-125. “Il canone dei poeti citati corrisponde agli abitanti del ‘nobile castello’ limbale, cioè, oltre Virgilio, Orazio (che qui include anche Omero),
Ovidio e Lucano” (Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini,
Rizzoli, Milano 2013, p. 396).
15 - Gianfranco Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in
43
fabio casna
Si tratta, come scrive Gargan, “di due libri scritti con
i libri”, dove il poeta dimostra di attingere “a piene
mani” ad una conoscenza vasta e da autori che ha letto e riletto. Infatti Dante ad inizio del De vulgari eloquentia (I 1) usa un’immagine metaforica dicendo che
attingerà all’acqua del proprio ingegno mescidandola
con altra cosa migliore, desumendo cioè da altri autori, così da poterne far uscire un dolcissimo idromele,
utilizzando un espediente topico che troviamo in autori classici (Cicerone) e in contemporanei al nostro
come Brunetto Latini. Proprio in quest’opera Dante
comincia dando un canone di autori a cui ricorrere
come esempio di stile alto: da una parte i poeti Virgilio, Ovidio, Stazio e Lucano, e dall’altra i prosatori Livio, Plinio, Frontino, Orosio. I primi quattro sicuramente conobbe Dante direttamente e la loro conoscenza deriva probabilmente dagli studi giovanili,
mentre gli altri quattro destano alcune perplessità: di
Orosio nulla vi è da dubitare circa una conoscenza diretta. Gli altri tre erano testi rari e molto meno conosciuti, che però risultano posseduti dalla Biblioteca
Capitolare di Verona e che quindi possiamo supporre
furono consultati, letti ed interiorizzati da Dante nel
periodo 1303-1304 quando fu ospite di Bartolomeo
della Scala, e subito utilizzati nell’opera che veniva
scrivendo in quegli anni. Dal canone prosastico però
mancano alcuni scrittori importanti, come Cicerone e
Seneca, che il nostro dimostra di saper citare alla perfezione: Dante vuole riportare esempi solo di testi storici (citando Plinio il Vecchio si fa riferimento non alla Naturalis historia, ma al De viris illustribus attribuitogli nel Medioevo).
Il canone dei classici può essere ulteriormente ampliato guardando al Convivio, ove vengono citati Orazio e Giovenale come poeti, Cicerone e Seneca come
prosatori. Di questi ultimi due Dante conosce numerose opere, e spicca fra queste il De finibus ciceroniano, testo molto raro.
Spostiamoci ora nella sezione filosofica della nostra
Atti del Congresso internazionale di studi danteschi (20-27 aprile 1965),
Sansoni, Firenze 1965, I, pp. 1-78: 18.
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la biblioteca «virtuale» di dante
biblioteca dantesca immaginaria. I codici che contenevano questi testi erano spesso assimilabili ai libri
universitari di grande formato, che venivano letti su
banchi, degni secondo Dante di accogliere anche la
sua Commedia (“or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco”,
Paradiso X 22). Il primato spetterà sicuramente ad
Aristotele, “quello glorioso filosofo al quale la natura
più aperse li suoi segreti” (Convivio III 5 7): di lui cita
e conosce i Libri naturales, l’Etica a Nicomaco, la Retorica. Grande importanza hanno anche i numerosi
commentatori aristotelici, quali Averroè, Avicenna,
sant’Alberto Magno e san Tommaso.
Un testo interessante che pare Dante conoscesse è il
Timeo platonico nella versione latina di Calcidio, che
ebbe vasta diffusione ed eco per tutto il Medioevo (fino al XII secolo circa).
Nell’ambito di testi di logica si ricordino i testi di
Aristotele, il Liber de causis attribuito al corpus aristotelico, il De consolatione philosophiae di Severino Boezio e il De regimine principium di Egidio Romano,
nonché l’Elemendatio theologica di Proclo. Per la patristica ritroviamo i testi delle Confessiones di sant’Agostino e la Summa contra Gentiles di san Tommaso.
Per altri ambiti scientifici Dante ricorse per la geometria agli Elementi di Euclide, per l’astrologia e l’astronomia al Quadripartito di Tolomeo, all’Introductorium in astronomiam di Albumasar e al Liber aggregationis scientiae stellarum di Alfragano, per la medicina all’Ars medica di Galeno e agli Aforismi di Galeno
e per il diritto civile al Digesto (Digestum vetus e Infortiatum).
Altra opera che ci aiuta a reperire altre tessere importanti della biblioteca dantesca è la Monarchia, trattato in tre libri scritto in latino, di datazione incerta
(per alcuni composto attorno al 1317) che illustra in
maniera esaustiva e compiuta la dottrina politica dantesca. Il nostro si sofferma ad analizzare la necessità di
una Monarchia universale, dell’importanza dell’Impero romano e della sua funzione provvidenziale, e
dell’illegittimità della donazione di Costantino, arrivando a teorizzare la necessità di distinguere Chiesa e
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IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
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fabio casna
la biblioteca «virtuale» di dante
Impero, due luminaria magna, indipendenti l’uno
dall’altro, e dipendenti direttamente da Dio. Dante, ad
introduzione all’opera, fa subito riferimento all’utilizzo di publica documenta, ossia opere di altri autori per
sostenere le proprie tesi. Questi publica documenta –
scrive Bruno Nardi – “saranno in primo luogo l’Etica
nicomachea e la Politica di Aristotele, opere di diritto
civile accompagnate dalla Glossa dei giuristi bolognesi, il Decreto di Graziano e le varie raccolte di Decretali pontificie, citate e discusse in utramque partem nelle
diatribe intorno alle recenti controversie fra il Papato
e l’Impero, il De regimine principium di frate Egidio
Romano […], e scritti gioachimiti francescani che
predicavano il ritorno della Chiesa alla povertà evangelica e la rinunzia a ogni sovranità temporale e magari la revoca della donazione di Costantino e d’altre
donazioni imperiali”16. Oltre alle opere aristoteliche
menzionate, a cui va aggiunta la Politica, Dante ricorre a Cicerone, Livio, Virgilio, Giovenale, Lucano, Ovidio, Vegezio, Orosio e a numerosi dottori della Chiesa, fra cui spicca il nome di sant’Agostino con il De civitate Dei.
Le epistole, che hanno destato spesso problemi ai
critici danteschi, conservano altri numerosi spunti
per la ricostruzione della biblioteca dantesca: così ad
esempio nella III epistola invita l’amico Cino da Pistoia, esule come lui, alla lettura del De remediis fortuitorum, attribuito malamente a Seneca, “breve opera,
sempre apprezzata, probabilmente per la secchezza e
la lapidarietà della struttura, oltre che per il
contenuto”17; nella V lettera, inviata ai re, principi e
popoli d’Italia, Dante annuncia la venuta dell’imperatore con toni entusiastici e profetici, ricorrendo ad
ampi passi della Bibbia, che dimostra di conoscere fin
dalla Vita nova, nella lezione e nell’ordine scelti dalla
liturgia18.
Fino a qui si è fatto riferimento a testi reali che Dante ha dimostrato di conoscere e di aver utilizzato per
le proprie opere. Il lettore attento avrà già visto che
non si è ancora analizzata l’opera principale del nostro
autore: la Commedia. In quest’opera Dante elabora un
canone di propria “biblioteca ideale, inserendo i nomi
di alcuni autori che non aveva avuto ancora modo di
menzionare o di cui era riuscito a intuire la grandezza
anche attraverso una conoscenza diretta” (Luciano
Gargan).
Dante nella Commedia però non parla di libri, ma
l’autore menzionato dal poeta diventa per antonomasia il libro che rappresenta nella sua biblioteca ideale.
I canoni danteschi appaiono nel famoso Limbo del IV
canto dell’Inferno, nel XXII del Purgatorio, nei canti X
e XII del Paradiso.
Fra i poeti classici il primato spetta ai latini Virgilio
(il maestro de “lo bello stilo che m’ha fatto onore”, Inferno I 87), Ovidio, Orazio, Lucano, Terenzio, Giovenale e Persio, che conosceva direttamente, e poi Plauto, Cecilio Stazio, Lucio Vario Rufo, di cui ebbe solo
eco. Attraverso probabili fonti latine riuscì a costruire
anche un “rarefatto Parnaso greco”19 che vede riuniti
“con quel Greco / che le Muse lattar più ch’altri mai”
(Purgatorio XXII 101-102), ossia Omero che bevve più
di ogni altro il latte delle Muse, i tragediografi Agatone, Antifonte e Euripide, e il poeta Simonide.
Nel castello del Limbo compaiono numerosi filosofi e uomini di scienza20: primeggiano Aristotele accanto a Socrate e a Platone. Vengono citati Democrito, Diogene detto il Cinico, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone di Cizio, Discoride, Orfeo e
Lino, quindi i latini Cicerone e Seneca, l’astronomo
Tolomeo, i medici Ippocrate, Galeno e Avicenna,
nonché il commentatore aristotelico Averroè. Il canone delle letture del Convivio permette quindi di di-
16 - Cfr. il commento di Bruno Nardi a Monarchia I 1 2: Dante Alighieri,
Monarchia, a cura di Bruno Nardi, in Id., Opere minori, II, a cura di Pier
Vincenzo Mengaldo et alii, Ricciardi, Milano-Napoli 1979, p. 282.
17 - Francesco Lo Monaco, Un nuovo testimone (frammentario) del
“Contra casus fortuitos” di Albertino Mussato, in “Italia medioevale e
umanistica”, 28 (1985), pp. 107-136: 107.
18 - Paola Rigo, Tempo liturgico nell’epistola ai principi e ai popoli d’I-
talia, in Ead., Memoria classica e memoria biblica in Dante, Olschki,
Firenze 1994, pp. 33-44.
19 - Per ulteriori riferimenti si veda Claudia Villa, Il canone poetico mediolatino (e le strutture di Dante, Inf. IV e Purg. XXII), in “Critica del testo”, 3 (2000), pp. 155-176.
20 - Lo studioso Gregorio Piaia ha usato la felice espressione di “filosofica famiglia” per definire questo canone.
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scernere quanti e quali furono i filosofi conosciuti direttamente da Dante e quali in maniera indiretta tramite le opere di commento ai trattati aristotelici a cura di san Tommaso e di sant’Alberto Magno.
Chiuso il canone classico e pagano, ci avviamo verso il cielo del Sole nel Paradiso ove in due corone sfolgoranti trovano posto teologici, mistici e dotti cristiani (X 91-138; XII 127-141). Molti dei nomi per noi restano tali, poiché non abbiamo testimonianze superstiti delle loro opere: fra questi annoveriamo Salomone, il profeta Nathan, Illuminato da Rieti e Agostino
da Assisi. La biblioteca cristiana risulta così formata
da Elio Donato, san Giovanni Crisostomo, Paolo
Orosio, Severino Boezio, Dionigi Aereopagita, Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Rabano Mauro, Ugo
e Riccardo di San Vittore, Anselmo d’Aosta, Graziano,
Pietro Lombardo, Pietro Comestore, Gioacchino da
Fiore, Pietro Ispano, sant’Alberto Magno, san Tommaso, san Bonaventura e Sigieri di Brabante. Di costoro Dante dovette aver presente uno o più testi, che
compongono le letture classiche universitarie delle facoltà di filosofia e teologia scolastica. Seguendo la testimonianza del Boccaccio, apprendiamo che il nostro approdò allo studio di filosofia e teologia in seguito alle sue disavventure fiorentine recandosi a Parigi. Qui presso gli stazionari attivi fra la fine del Duecento ed i primi del Trecento avrà potuto trovare,
consultare e magari acquistare diversi di questi testi.
Di altri testi, quali quelli averroistici di Sigeri di Brabante o degli scritti profetici di Gioacchino da Fiore, o
di san Giovanni Crisostomo e di Dionigi Aereopagita
nulla sappiamo circa una conoscenza diretta da parte
di Dante. Conobbe sicuramente le Etimologie di Isidoro di Siviglia.
Prima di avviarci alla conclusione apriamo una
nuova sezione della biblioteca dantesca, quella biblica
e infine quella della letteratura d’oc e d’oïl, e della lingua del sì.
La cultura medievale era permeata da una forte
componente religiosa cristiana, e Dante crebbe e studiò a partire proprio da questo genere di testi. La BibIL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
bia rappresenta un canone immenso per il nostro autore che utilizza immagini, citazioni e formule spaziando dal Vecchio al Nuovo Testamento con voli pindarici impressionanti. Nelle opere di maggior peso intellettuale, quali Convivio, Monarchia e Commedia, la
Bibbia rappresenta “la fonte citata più frequentemente
o comunque utilizzata”21 e non ci si meravigli se i libri
più citati sono i Libri sapienziali, i Salmi, le epistole
paoline, il Cantico dei Cantici, la Genesi, l’Esodo, l’Apocalisse di Giovanni e i Vangeli22. Dante avrà avuto a
disposizione tali testi, molto comuni e di facile reperibilità, assieme ai testi della liturgia.
Per gli intellettuali del XIII e del XIV secolo era naturale conoscere e frequentare le letterature galloromanze nelle lingue originali, e di sicuro gli scrittori
italiani erano in grado di leggere i testi in lingua d’oc e
in lingua d’oïl. Dante molto probabilmente conobbe
questa lingua, vista la sua familiarità con tali testi dimostrata in tutte le sue opere23. In lingua d’oc sicuramente lesse i trovatori, ma “non sappiamo di quali e di
quanti” conoscesse le opere e “non sappiamo quali
manoscritti avesse tra le mani”24. Il nostro cita con sicurezza ben otto trovatori, ma nel suo canone vi sono
lacune vistose: che egli abbia taciuto perché non conoscesse poeti del calibro di Guglielmo IX o Bernart
de Ventadorn pare ipotesi controproducente. Pare
quindi che il poeta abbia “avuto a disposizione più
21 - Angelo Penna, Bibbia, in Enciclopedia Dantesca, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1984, I, p. 626.
22 - Il tema è qui volutamente accennato e solo in parte analizzato, poiché
la bibliografia è vastissima e di facile reperimento: si veda ad esempio il
recente volume La Bibbia di Dante. Esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante, Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna,
7 novembre 2009), a cura di Giuseppe Ledda, Centro Dantesco dei Frati
Minori Conventuali, Ravenna 2011. Un percorso nuovo di ricerca è quello del reperimento delle fonti bibliche e mistiche nelle epistole dantesche,
molto interessante ed innovativo: cfr. il volume citato alla nota 17, nonché
Giuseppe Ledda, Modelli biblici e identità profetica nelle Epistole di
Dante, in “Lettere italiane”, 60 (2008), pp. 18-42, e il recentissimo
Rodney Lokaj, L’emergenza di un’ars dictandi dantesca: l’Epistola II, in
“Studi danteschi”, 79 (2014), pp. 1-37.
23 - Se non siamo certi della paternità del Fiore e del Detto d’amore, che
sono testi dipendenti da precedenti romanzi molto vistosi, possiamo citare quale esempio della familiarità dantesca con la lingua d’oc le parole
messe in bocca ad Arnaut Daniel in Purgatorio XXVI 140-147 in un perfetto – per un italiano – provenzale.
24 - Paolo Gresti, Dante e i trovatori: qualche riflessione, in “Testo”, 6162 (2011), pp. 175-190: 175.
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fabio casna
d’una raccolta di liriche in lingua d’oc, se si pensa ch’egli ha vagato in esilio soprattutto nelle corti del Nord,
in ambienti, cioè, particolarmente ricettivi […] nei
confronti della poesia proveniente dal Midi della
Francia”25. La conoscenza dantesca dei poeti provenzali avvenne sicuramente già in età giovanile al tempo
della Vita nova ed ebbe linfa nuova nel periodo bolognese dove probabilmente poté vedere codici della
letteratura d’oc, vista la recente scoperta (2001) di tre
frustoli trobadorici nell’Archivio di Stato di Bologna
databili ai primi anni del Trecento che documentano
una precoce diffusione dei testi di Arnaut Daniel, Rigaut de Berbezilh e Peirol nella città felsinea26. Successivamente all’esilio irrobustì la propria conoscenza del
canone trobadorico in vista della scrittura del De vulgari eloquentia, ove vengono citati numerosi incipit –
ben undici – di testi provenzali.
Sul versante opposto, la lingua d’oïl, Dante dimostra
di conoscere testi molto importanti quali sono i romanzi arturiani, citati nel De vulgari eloquentia (I 10
2): “Arturi regis ambages pulcerrime”, che andrà tradotto – secondo la recente proposta di Gino Casagrande (2014) – con ‘i bei racconti intrecciati di re Artù’ o, se piace, ‘le belle narrazioni intrecciate di re Artù’. Dei romanzi arturiani notevole fortuna ebbero in
Italia il Lancelot e il Tristan, che vennero fin da subito
tradotti in lingua italiana e furono testi comuni nelle
biblioteche di corte del periodo medievale. A questi
testi Dante allude in maniera precisa in due punti della Commedia: nel celebre V canto dell’Inferno dove si
narra della storia d’amore di Paolo e Francesca e in
Paradiso XVI 14-15 dove si cita la Dama di Malehaut,
che avvertì con un colpo di tosse i due amanti Lancillotto e Ginevra della sua presenza. Il V canto infernale aiuta proprio a comprendere da quale testo Dante
leggesse la storia arturiana: il dettaglio del bacio, mancante in una cospicua parte della tradizione, e il v. 137
25 - Ivi, p. 176.
26 - Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, edizione critica a cura di Sandro Orlando, con la consulenza archivistica di
Giorgio Marcon, Commissione per i testi di lingua, Bologna 2005, pp.
188-191.
48
la biblioteca «virtuale» di dante
ove viene menzionato per antonomasia Galeotto come il personaggio che favorisce l’incontro-rivelazione
e il libro stesso che svolge lo stesso ruolo tra Paolo e
Francesca, che è altresì il nome con cui venne intitolata quasi sempre una delle prime sezioni del Lancelot.
Quindi Dante conobbe il Lancelot secondo il testo
originale allora diffuso in Italia27. Che ebbe modo di
leggerlo a Bologna? Questo dato non importa strettamente, resta il fatto che di recente presso l’Archivio di
Stato di Bologna in un inventario di beni del 1290 si
trovano nominati: de duobus libris de romano scilicet
domini Lançaloti et librum de Ronçivagli. Il libro di
Lancillotto era dunque “a Bologna nelle mani private
di uno speziale, verosimilmente negli stessi anni in
cui Dante era passato di lì”28. Oltre ai romanzi arturiani, Dante inserì nella propria biblioteca romanzi di
materia bretone, di cui si conoscono una trentina di
codici italiani che rimandano all’area toscano-occidentale. Su questo sfondo il nostro poté conoscere il
Roman de Meliadus (1270-1274) di Rustichello da Pisa,
estensore del Milione di Marco Polo.
Un altro posto importante – d’onore direi – hanno
le sillogi poetiche volgari, formate da libri in cui il nostro poté leggere i poeti italiani delle generazioni precedenti (Siciliani e Siculo-Toscani) e contemporanee
(Stilnovisti e altri)29. Non credo sia necessario portare
27 - Si conoscono sedici manoscritti italiani, dei quali solo sei sono databili entro il XIII secolo, e solo tre di questi, un codice laurenziano, un
frammento di Modena e un codice parigino, contengono il dettaglio dantesco del bacio.
28 - Giuseppina Brunetti, Un capitolo dell’espansione del francese in
Italia: manoscritti e testi a Bologna fra Duecento e Trecento, in Bologna
nel Medioevo, Atti del Convegno (Bologna, 28-29 ottobre 2002), Pàtron,
Bologna 2004, pp. 125-164: 137. Su Dante e il Lancelot si veda Daniela
Delcorno Branca, Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana, Longo, Ravenna 1998, pp. 141-150, e Elena Lombardi,
Francesca lettrice di romanzi e il “punto” di Inferno V, in “L’Alighieri”,
43 (2014), pp. 19-39. Sul V canto dantesco la bibliografia è sterminata:
Ignazio Baldelli, Dante e Francesca, Olschki, Firenze 1999; Lorenzo
Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella
“Commedia” di Dante, il Mulino, Bologna 2007; Michelangelo Picone,
Canto V, in Lectura Dantis Turicensis. Inferno, a cura di Georges Güntert
e Michelangelo Picone, Cesati, Firenze 2000, pp. 75-89; Manuele
Gragnolati, Inferno V, in Lectura Dantis Bononiensis, a cura di Emilio
Pasquini e Carlo Galli, Bononia University Press, Bologna 2012, II, pp.
7-22.
29 - Lo status quaestionis della vicenda è tracciato da Claudio Giunta, La
poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, il
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
elementi a suffragio di tale tesi, vista la competenza
indiscutibile in materia poetica di Dante: dalle Rime
fino alla Commedia, passando per la Vita nova, il nostro poeta dimostra una conoscenza assolutamente
invidiabile del panorama poetico italiano, anche per il
fatto che la storia della poesia volgare ha inizio meno
di un secolo prima30. Ma è nel De vulgari eloquentia
che l’Alighieri dimostra una capacità di sintesi e di
una prospettiva storicamente perfetta, ricostruendo
linearmente la nostra storia letteraria almeno dal
punto di vista poetico. In quest’opera cita, anche più
volte, Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Guido Ghislieri (di cui non sappiamo
pressoché nulla), Fabruzzo de’ Lambertazzi (altro poeta a noi ignoto), Onesto da Bologna, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Castra Fiorentino e Cielo d’Alcamo. Questo canone risponde a
criteri selettivi ed essendo l’opera incompiuta probabilmente nei libri successivi avrebbero trovato posto
altri poeti, e quindi per questa ragione si spiega la
mancanza, ad esempio, di Chiaro Davanzati e Monte
Andrea. Non conosciamo però direttamente quali
manoscritti frequentasse, anche se possiamo ricostruire il contesto attraverso altri dati dai quali si evincono
che due erano le tipologie librarie in uso: le raccolte di
un solo autore, in cui i testi sono ordinati in ordine
cronologico o in base ad affinità tematiche e strutturali, e la raccolta antologica di diversi autori, “selezionati e messi insieme secondo un disegno unitario e
con determinati criteri di distribuzione […] e di ordinamento dei materiali”31. Dante avrà avuto modo di
Mulino, Bologna 1998, pp. 32-40, e da Andrea Manzi, Dante e le fonti
manoscritte della lirica delle Origini. Ricognizioni bibliografiche e bilanci, in “Critica letteraria”, 158 (2013), pp. 3-29.
30 - Da alcuni anni il panorama degli studi sulle origini della letteratura
poetica italiana ha subito grosse scosse dopo la scoperta di numerose
“tracce” poetiche riaffioranti da archivi e biblioteche che prospettano
un’irradiazione della letteratura da più fuochi dal Sud al Nord Italia, e non
più solo dalla corte federiciana e dalla Toscana. Valga quale punto di riferimento bibliografico l’ottima sintesi di Paolo Gresti, La lirica italiana
delle origini tra scoperte e nuove edizioni, in “Testo”, 59 (2010), pp. 125147. Su tale argomento mi riservo di tornare in un prossimo numero della
rivista.
31 - Furio Brugnolo, Il libro di poesia nel Trecento, in Il libro di poesia
dal copista al tipografo (Ferrara, 29-31 maggio 1987), a cura di Marco
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
ricorrere a tre manufatti librari diversi: un codice da
cui avrà attinto i Siciliani ed i poeti più antichi (secondo alcuni studiosi molto simile al Vaticano latino
3793, il manoscritto superstite della nostra poesia anteriore allo Stilnovo32), un collettore stilnovistico e
una serie di repertori di poesia colta di ambito locale,
da cui attinse ad esempio i poeti bolognesi. Bisogna
anche ricordare che sul proprio scrittoio Dante poté
avere fogli sciolti inviati dagli amici poeti con cui era
solito intrattenere corrispondenze poetiche, e che
spesso ricorse anche alla propria memoria.
Sicuramente Dante conobbe altri testi importanti
latini, volgari, come la Rettorica di Brunetto Latini33, o
francesi. Dobbiamo però accontentarci di una ricostruzione parziale del contesto.
Un caso emblematico: Dante e la cultura
orientale
Il libro di Gargan getta nuova luce su di un argomento assai dibattuto e contestato negli studi danteschi: il rapporto di Dante con la cultura islamica. Il
nostro sicuramente non conobbe l’arabo, ma poté essere in grado di leggere testi tradotti in latino di matrice orientale, che alla fine del Duecento ebbero larga
diffusione nell’Europa Occidentale e in particolare in
Italia. Si trattava di testi della tradizione escatologica
musulmana, di filosofia, di geografia, di astronomia, e
d’altre scienze.
La questione delle fonti arabo-spagnole nella Commedia venne sollevata per la prima volta da Asín Palacios nel 1919 nel volume intitolato La escatología
musulmana en la Divina Commedia. Gli studiosi successivi hanno variamente contestato tale assunto,
benché vi siano state voci sporadiche a sostegno di tale tesi. Dato certo da cui partire è la circolazione in
Santagata e Amedeo Quondam, Panini, Modena 1989, pp. 9-23: 10.
32 - Su cui vedi Roberto Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in
Letteratura italiana. Le Opere, II: Dalle Origini al Cinquecento, Einaudi,
Torino 1992, pp. 27-44, e F. Brugnolo, Il libro di poesia nel Trecento, pp.
11-12.
33 - Selene Sarteschi, Uno scaffale della biblioteca volgare di Dante:
dalla Rettorica di Brunetto Latini alla Vita nuova, in Leggere Dante, a cura di Lucia Battaglia Ricci, Longo, Ravenna 2003, pp. 171-190.
49
fabio casna
ambito occidentale di una narrazione araba relativa
all’ascensione del profeta Maometto. Si tratta del Libro
della Scala, opera in cui il profeta ascende al cielo e visita i regni dell’oltretomba: “Maometto è destato nel
suo letto alla Mecca dall’angelo Gabriele, è fatto montare sul destriero alato Burāq, condotto a Gerusalemme, e di qui fatto ascendere in cielo per la fulgida ‘scala’ (mi‘rāg) che dà nome al libro. Egli vede l’angelo della morte, un altro in forma di gallo, un terzo metà di
fuoco e metà di neve, e traversa gli otto cieli incontrando in ognuno un profeta, fino al trono di Dio; visita quindi il Paradiso con le sue delizie di natura e
d’amore, e riceve da Dio il Corano, con i precetti delle
orazioni quotidiane e del digiuno. Passato poi all’Inferno, ne percorre le sette terre, e ne contempla i diversi tormenti, ascoltando da Gabriele le spiegazioni
sul giorno del giudizio e la prova del ponte as-Sirāt.
Tornato infine sulla terra, tenta invano di convincere i
suoi concittadini Meccani sulla verità della sua
visione”34. Il testo venne tradotto dall’arabo in castigliano e successivamente dal castigliano in latino (Liber Scalae Machometi) ed in francese (Livre de l’Eschiele de Mahomet). Dell’originale arabo e castigliano
non possediamo tracce, ma possediamo le traduzioni
fatte presso la corte di Alfonso X di Castiglia. I manoscritti, conservati ad Oxford, Parigi e nella Biblioteca
Vaticana, vennero scoperti e pubblicati nella prima
metà del Novecento. Questo testo era sicuramente conosciuto in Italia, dato che si trova citato nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, composto negli anni
quaranta del Trecento.
Viste le notevoli somiglianze strutturali e di singoli
episodi, si è pensato che Dante avesse per forza conosciuto questo testo, ma in che modo? Si è ipotizzato
per il tramite di Brunetto Latini, ambasciatore presso
la corte di Alfonso X nel 1260, anni in cui Bonaventura da Siena lavorava alla traduzione dal castigliano in
latino. Un nuovo spunto viene offerto, come detto in
principio di paragrafo, dal libro di Gargan ove nel se34 - Francesco Gabrieli, Libro della Scala, in Enciclopedia Dantesca,
III, p. 645.
50
la biblioteca «virtuale» di dante
condo capitolo viene presentata la biblioteca di un
frate domenicano, Ugolino, che rivestì diversi incarichi importanti durante la sua carriera prima di diventare arcarius, custode dell’arca che conserva il corpo
di san Domenico nella basilica omonima a Bologna. Il
frate lasciò i suoi libri nel 1312 al convento, e fra di essi
compaiono la Bibbia, opere di Agostino, di Boezio, di
Iacopo da Varazze, di Riccardo di San Vittore, di Agostino, di Anselmo e d’altri. Sono tutti testi comuni e
che non destano meraviglia all’interno di una biblioteca di un religioso. All’ultimo posto nell’inventario
troviamo un liber qui dicitur Scala Mahometti, una
versione latina che cronologicamente sarebbe anteriore ai due manoscritti superstiti. Il codice risulta però già irreperibile nel 1371-1378, anno del primo inventario della biblioteca bolognese. Questa testimonianza, unica per il momento, dimostra come a Bologna si potesse trovare un testo così importante, e di
cui Dante probabilmente avrà potuto tenere conto girovagando per biblioteche religiose e non o per botteghe librarie, e proprio nella città a cui dovette molto
per la sua formazione culturale.
Un nuovo testo, probabile ma non certo, che andrà
a riempire l’ennesimo scaffale della sua biblioteca. Anche “si riuscisse a dimostrare che un certo elemento
presente in Dante sia di effettiva derivazione islamica,
bisogna tenere conto che la genesi di questo non è necessariamente musulmana. […] Dante poté conoscere il Liber Scalae e, forse, una delle varianti del testo attribuito a Ibn ‘Abbās. Ma non si deve insistere esclusivamente sul rapporto di causa-effetto tra questi e la
Commedia, perché sono il risultato di una comune intuizione, interiore, archetipica, simbolica. Il che non
esclude naturalmente […] anche l’influenza culturale
dei testi arabi. Comunque sia, la mente di Dante tutto
trasforma, ricrea e trasmuta: la Bibbia, i testi occidentali e, perché no, quelli islamici”35. La sezione islamica
35 - Maria Piccoli, Viaggio nel regno del ritorno. Davanti a Dio, davanti all’uomo, in Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta nel racconto
di Ibn ‘Abbās, a cura di Ida Zilio-Grandi, prefazione di Cesare Segre, postfazione di Maria Piccoli, Einaudi, Torino 2010, pp. 75-102: 101-102. Si ricordi anche quanto scrive Louis Massignon: “c’è solo un numero limitato
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
della biblioteca dantesca potrebbe quindi essere più
grande di quello che si crede36.
Conclusioni (provvisorie)
Andando a spulciare meglio i testi danteschi potremmo sicuramente riempire altri scaffali della biblioteca di Dante, ma siamo già riusciti a rendere concreta almeno una buona parte della cultura libresca
del nostro maggiore poeta del Duecento. Dobbiamo
contentarci per ora di queste notizie e di queste considerazioni, sperando un giorno di poter ritrovare in
qualche biblioteca o in qualche altro posto dimenticato un libro autografo del nostro o magari qualche indicazione certa e più precisa sulle sue letture e sulla
sua biblioteca. Entrare nello “studiolo” del poeta rappresenta una questione centrale nell’approccio alla
piena ermeneusi del testo letterario, necessaria a comprendere quali testi erano circolanti e disponibili all’epoca. Ora lasciamo posto alle parole di Dante:
di geometrie immaginabili capaci di rispondere a determinate condizioni
di base” (Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale, traduzione e cura [di] Andrea Celli, Medusa, Milano 2008, p. 63).
36 - Per approfondimenti si veda: Il libro della Scala di Maometto, a cura
di Anna Longoni, con un saggio di Maria Corti, Rizzoli, Milano 2013;
Maria Corti, La Commedia di Dante e l’oltretomba islamico, in Ead.,
Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale, percorsi dell’invenzione e altri saggi, Einaudi, Torino 2003, pp. 365-379; Andrea Celli, Dante
e l’oriente. Le fonti islamiche nella storiografia novecentesca, Carocci,
Roma 2013.
Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’io son fatto scriba.37❧
Fabio Casna
37 - Paradiso X 22-27. Qui Dante dice al lettore di rimanere seduto al
proprio banco tenendo davanti il proprio testo e di riflettere su ciò che si è
appena detto, cosicché la gioia dell’apprendere supererà la stanchezza di
tali meditazioni. Per un riscontro con Agostino da un punto di vista della
tecnica utilizzata da Dante cfr. Selene Sarteschi, Dante e il lettore, in
Dante in lettura, a cura di Giuseppe De Matteis, Longo, Ravenna 2005,
pp. 133-154: 149-150.
Addendum. A lavoro ormai terminato leggo il saggio di Emilio Pasquini
(Luci e ombre nel Boccaccio biografo di Dante, in Boccaccio e i suoi lettori. Una lunga ricezione, a cura di Gian Mario Anselmi, Giovanni
Baffetti, Carlo Delcorno e Sebastiana Nobili, il Mulino, Bologna 2013,
pp. 455-468), ove si analizza il valore della biografia dantesca tracciata dal
Boccaccio e usata nel presente articolo per l’esplicazione della sua formazione culturale. Pasquini parla di “persuasiva ricostruzione di un’infanzia
ed adolescenza studiose, dominate già dal dialogo coi suoi auctores prediletti (Virgilio, Orazio, Ovidio, Stazio)” (p. 461), benché sul “piano cronachistico, restano dubbi o mal documentabili il viaggio in Gallia e a Parigi
[…] nonché certe tappe dell’esilio” (p. 463). Tutto sommato però “su
Dante Boccaccio non ha mai mentito: al massimo, ha dato notizie inesatte
o solo parzialmente vere” (p. 467). Quindi vediamo confermare ancora
una volta che la testimonianza di Boccaccio resta fondamentale ed è il giusto incipit per la ricostruzione della biblioteca dantesca.
Per approfondire: sulle biblioteche in età medievale si veda Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di Guglielmo Cavallo, Laterza, Roma-Bari 1988, e la raccolta di saggi di Luciano
Gargan, Libri e maestri tra Medioevo e Umanesimo, premessa di Vincenzo Fera, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, Messina 2011; su Dante la bibliografia è vastissima ma si veda almeno: Guglielmo Gorni, Dante. Storia di un visionario, Laterza, Roma-Bari 2008, e Giuseppe Indizio,
Problemi di biografia dantesca, presentazione di Marco Santagata, Longo, Ravenna 2014.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
51
il «pro arce rovereti» di panfilo sassi
S
Il “Pro Arce
Rovereti”
di Panfilo Sassi
1 - A Trento, nel dicembre del 1899 l’Editore Giovanni Zippel, proprietario dello Stabilimento Lito-Tipo-Grafico della Ditta Editrice Giov. Zippel
nel: «licenziare al pubblico questo Almanacco-Strenna, l’Editore si pregia di avvertire, ch’esso sarà il primo d’una serie di volumetti che vedranno la luce alla fine di ogni anno, se non verrà loro a mancare quella benevolenza che accompagna, ormai da mezzo secolo, l’attività di questa
Casa».
di Ginevra G. Gottardi
52
fogliando l’Almanacco-Strenna del Trentino del
19011, è possibile osservare una piccola incisione
raffigurante il Castello di Rovereto. Sotto, un
piccolo componimento dal titolo “Pro Arce Rovereti”
ed a lato la nota “dagli Epigrammata di Panfilo Sassi
stampati a Brescia nel 1499”.
Panfilo Sassi fu un noto e famoso poeta tra il ‘400 e il
‘500. Nato a Modena intorno al 1455, lasciò in età giovanile la sua patria a causa delle sventure della sua famiglia, che egli attribuisce alla guerra che devastò gran
parte del Modenese ai tempi di Papa Giulio II e di Papa
Clemente VII, per vivere in una terra del Veronese detta “Rafa”. In seguito soggiornò a Brescia e ritornò a
Modena solo in tarda età, dove tenne una scuola privata di letteratura e poesia. Nel 1523 fu accusato di eresia
per alcune sue considerazioni in ambito filosofico e teologico e, soffocato da tali pressioni, lasciò il modenese
per accettare la carica di governatore di Lonzano, carica mantenuta fino alla sua morte sopraggiunta nel 1527.
Fu acclamato principalmente per la sua abilità nel verseggiare in pubblico, nella capacità di inventare componimenti e nel memorizzare le opere di altri dopo un
solo ascolto.
Di questo autore rimangono tuttavia poche notizie,
le quali ci giungono grazie all’imponente opera di Girolamo Tiraboschi, la “Biblioteca Modenese”. Egli esordisce così parlando del Sassi: “Pochi Poeti vissero sulla
fine del secolo XV, che godessero della fama, a cui giunse
Panfilo Sassi, e pochi ve n’ha al presente, che siano al par
di lui dimenticati e negletti. E forse se fu soverchio l’ap-
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
plauso, che allora egli riscosse, è ancor soverchio il disprezzo, in cui ora giace. Io ho proccurato di rischiararne
la memoria, più che non si fosse ancor fatto, nella mia
Storia della Letteratura Italiana. Ma altre notizie, che
mi è poscia avvenuto di ritrovarne, mi agevoleranno la
via a parlarne ora con maggior esattezza” (Biblioteca
Modenese, vol. V, pag. 22).
Panfilo Sassi (il cui vero nome era Sasso de’ Sassi) fu
un personaggio controverso, acclamato in principio ed
elogiato anche da numerosi contemporanei. Ricordiamo Matteo Bosso, Giovanni Taberio, il Lancillotto,
Sabba da Castiglione, Cassandra Fedele e il Cardinale
Gregorio Cortese, tutti illustri personaggi che ebbero
l’occasione di incontrarlo o di conoscerlo attraverso le
sue opere. Tuttavia, il più onorevole degli elogi giunge
da Ariosto che lo menziona tra i più illustri poeti nella
Strofa 12 del Canto XLVI dell’Orlando Furioso:
“Con lor Lattanzio, e Claudio Tolomei,
E Paulo Pansa, e’l Dressino e Latino
Giuvenal parmi, e i Capilupi miei
E’l Sasso, e’l Molza, e Florian Montin”.
Tanti furono ad elogiarlo, quanti furono pronti a denigrarlo: il Varchi lo annovera tra i cattivi poeti e Tebaldeo gli fu nemico. Un giudizio più moderato arrivò da
Giglio Gregorio Giraldi che però mise in risalto il suo
peggior difetto, vale a dire quello di mancare di fantasia, d’estro, di eleganza e grazia nelle composizioni, in
particolare quelle in lingua italiana.
Alessandro Tassoni, come riporta Tiraboschi, nel
1627, osserva che la fortuna di Sassi fu quella di essere
uno dei pochi eruditi dell’epoca che riuscì a fare delle
sue capacità un’eccellenza. Tuttavia, tali capacità poste
in relazione con autori successivi, mettono in risalto le
sue debolezze declassandolo ad un livello mediocre.
Nell’Enciclopedia Italiana Treccani del 1936, possiamo
53
Ginevra G. Gottardi
leggere alcune severe considerazioni di Giulio Reichenbach: “il fare tronfio e reboante, le apostrofi incalzanti, le contorsioni di pensiero e le metafore arrischiate,
turgidezza da una parte e frivolità dall’altra, che malamente mascherano, l’una e l’altra, l’assenza di un sentimento profondo ed efficace”. Lo stesso però ammette
che in numerosi sonetti e strambotti in italiano c’è una
certa finezza di espressioni e che le elegie e gli epigrammi latini mostrano un sapiente uso tecnico dell’esametro e del distico. Caratteristiche che non possono che
dimostrare che Panfilo Sassi fosse un uomo erudito e
avvezzo all’arte della retorica.
Della sua proficua produzione letteraria ricordiamo
tra le prime opere Brixia illustrata, un testo dedicato
alla città di Brescia, e Pamphili Saxi Poetæ lepidissimi
Epigrammatum Libri quattuor, Distichorum libri duo,
de Bello Gallico, de Laudibus Veronæ, Elegiarum Liber
54
il «pro arce rovereti» di panfilo sassi
unus. Brixiæ pridie Non. quintiles MID. Angeli Britannici Civis Brix. sumptu Bernardinus Misinta impressit in
4, pubblicato nel 1499. Nel 1500 segue Sonetti e Capituli del clarissimo Poeta Miser Pamphilo Sasso Modenefe
Opera & impensa Bernardini Misintæ impressum est
hoc opusculum Brixiæ auspicatissimo Augustini Barbadici sceptro Venetorum duce trecentesima Christianorum Olympiade in 4, opera che fu oggetto di varie edizioni ognuna delle quali recante un titolo diverso: Mediolani per Ioannem Angelum Scinzenzeler 1502. die XV.
Novembris in 4; Opera del preclarissimo poeta Miser
Pamphilo Sasso Modenefe Sonetti CCCCVII. Capituli
XXXVIII. Egloghe V; Opera & impensa Bernardini Vercellensis impressum est hoc opusculum Venetiis sub auspicatissimo Leonardi Loredani septro Venetorum Duce.
Anno MCCCCCIIII. die XXVIII. November. [sic] in 4; e
In Venezia per Gabriel Fontaneto da Monferrato 1519. in
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
55
Ginevra G. Gottardi
4. Nel 1502 vede la luce Pamphili Saxi poetæ lepidissimi
Agislariorum vetustissimæ gentis origo & de eisdem Epigrammaton liber. Impressum Brixiæ per Bernardinum
de Misintis de Papia die XXVIII. Junii MCCCCCII. in 4,
opera dedicata dal Sassi a Joannis Antonio Agislario
Cassacio Sumaliæ Comiti. Ricordiamo inoltre alcune
opere di cui non è pervenuto l’anno di pubblicazione:
Pamphili Saxi poetæ lepidissimi ad Onophrium Advocatum Patricium Venetum, ac Equitem magnificentissimum Carmen, in 4 e Versi in Laude de la Lira, composti
per il clarissimo poeta Miser Pamphilo Sasso Modenese:
Brixiæ per Bernardinum de Misintis in 4. Infine Vita S.
Geminiani, opera della quale tuttavia si sa solo che venne composta e di cui non vi è traccia di pubblicazione.
Panfilo Sassi scrisse anche numerosi sonetti, elogie,
epigrammi e lettere, pubblicati come intestazioni in
volumi d’altri autori o in raccolte.
Il componimento che più ci interessa è quello dedicato al Castello di Rovereto. Lo abbiamo ritrovato in
un’ottima edizione del ‘400 [Brescia 1499.07.06], presente in una miscellanea del 1674, nella quale alla pagina 34 e seguente (n.n.) compare il testo originale.
Lo abbiamo ritrascritto facendo seguire la traduzione in italiano.
PRO ARCE ROVERETI
Qui capitolinæ iam mœnia fecerat arcis:
Hoc factum fieri posse negabat opus:
Mausoli clarum qui struxerat ante sepulchrum:
Hoc factum fieri posse negabat opus.
Pyramidum doctos qui vicerat arte magistros
Hoc factum fieri posse negabat opus.
Sed tamen hanc arcem Contrina prole Jacobus
Fecit: & egregiæ condidit artis ope:
Namque caput medio tollit de marmore: duros
Firmat & in medio marmore dura pedes.
Marmoreos miles thalamos colit atque satelles
Marmoreos sotii marmoreosque duces.
56
il «pro arce rovereti» di panfilo sassi
Sunt triplices valvæ: triplices sunt ordine muri:
Rideat ut sospes quisquis in arce sedet.
Non aries fortis: non huic balearica plunibum
Invictæ torquens funda nocere potest.
Inclytus hic vere est; nam quæ natura negabat:
Nec fieri poterat: nobile fecit opus.
ALLA ROCCA DI ROVERETO2
Chi costruì le mura della rocca capitolina
Diceva che un’opera tale era impossibile da realizzare.
Chi un giorno eresse il famoso sepolcro di Mausolo
Diceva che un’opera tale era impossibile da realizzare.
Chi superò nella tecnica i dotti maestri delle piramidi
Diceva che un’opera tale era impossibile da realizzare.
E tuttavia Jacopo, di stirpe contrina, costruì questa rocca
E la innalzò con l’ausilio di egregia perizia.
Infatti il capo ne estrasse dal cuore del marmo; piantò
nel cuore del marmo i solidi piedi, e li rese saldi.
Soldato qual è, abita in stanze marmoree,
[ed il giardino protetto da] guardie e condottieri di marmo.
Son tre i portali, tre sono le cinte murarie
Affinché rida, salvo, chiunque presieda la rocca.
Ad essa, invincibile, non può nuocere il forte ariete,
né la balearica fionda che scaglia proiettili in piombo.
Egli è giustamente famoso: ciò che la natura negava
che fosse possibile fare, lo portò a termine la nobile opera umana.❧
Ginevra G. Gottardi
2 - La traduzione è di Margherita Ciancio studentessa del Liceo Classico
di Rovereto.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Disegno di Iras Baldessari
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
57
NOTE DI COMMIATO
C
Note
di Commiato
di Diego Cescotti
58
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
ome avviene per qualsiasi altro accadimento
umano, l’approdo finale della vita trova un naturale pendant nella musica in ragione della capacità riconosciuta a quest’ultima di essere strumento
di intima consolazione ed anche, nel caso in cui il lutto
assuma la valenza di un evento pubblico e collettivo, di
creare un’adeguata cornice estetica. Per quanto se ne
sa, in nessuna struttura umana, dalla più primitiva alla
più evoluta, è assente un qualsiasi apparato funerario la
cui ritualità non richieda di necessità l’apporto della
musica, che si conferma così l’espressione artistica più
prossima al mistero dell’uomo e alla dimensione ultraterrena. Il senso di nobilitazione che essa apporta all’evento ferale è di per sé una ragione sufficiente della sua
indispensabilità.
Anche a volersi limitare al mondo occidentale e
all’ambito colto, ciò che colpisce è l’ampiezza del fenomeno e la varietà degli atteggiamenti che tale evento ha
saputo ispirare e che va dalle forme del pietismo religioso pur evocatore di castighi e apocalissi alla dignitosa e solenne compostezza delle cerimonie civili che
onorano personaggi eminenti, martiri od eroi, senza
escludere in questo campo gli sconfinamenti nella dimensione del fastoso e dello spettacolare. La storia della musica ricorda tra gli esempi più classici della tradizione monodica il Planctus de obitu Karoli che nel IX
secolo aveva accompagnato alla tomba l’imperatore
Carlo Magno; nel basso medioevo, poi, tutto un genere
di musiche dolenti era stato creato per salutare non solo principi e alti dignitari ma anche persone degne di
merito come i poeti-musici dell’arte trovadorica e trovierica e tanti altri artisti successivi che si volevano così eternare nel ricordo postumo.
I tempi troveranno le forme e i modi per adattarsi
ogni volta alle circostanze richieste. Lo stile barocco,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
particolarmente incline ai toni austeri e lamentosi, aveva avuto in Henry Purcell il magistrale compositore
delle Funeral Sentences for Queen Mary (1695), che si
aprono e chiudono con un cadenzato incedere a base
di trombe e tamburi, abbinando solennità esteriore a
cordoglio intimo. Più caratteristici ancora sono in
quell’epoca i tombeaux, pezzi scritti in commemorazione di un defunto importante, che si modellano sullo
schema formale della suite clavicembalistica, quasi per
invitare a un commiato a ritmo di danza. La pavana, in
particolare, si rivelò adatta a incarnare questo carattere
di morte in punta di piedi, come anche dimostrerà più
di un autore del primo Novecento, soprattutto di area
francese, in dichiarato spirito di recupero di una tradizione nazionale. La nostra epoca non ha rinunciato
all’esteriorizzazione spettacolare della morte, anzi si
giova volentieri delle risorse amplificatrici della diretta
televisiva e dell’immissione in rete: si ricorda in questo
senso il funerale di Federico Fellini in S. Maria degli
Angeli (1993), culminato con uno struggente assolo di
tromba: un modo per dire che suonare a un funerale
famoso in onore di telecamera può diventare un titolo
ambìto per arricchire un curriculum artistico.
L
a storia di tutte le nazioni moderne offre
esempi di cerimoniali pubblici segnati dalla
componente enfatica, impressiva, e in questo
senso l’origine del fenomeno può ricondursi alle tipiche marce en plein air fiorite nell’età rivoluzionaria e in
quella napoleonica, che produssero alcune tra le più significative pagine di retorica mortuaria: tra queste
spicca la Grande symphonie funèbre et triomphale di
Hector Berlioz, scritta per celebrare i caduti della Rivoluzione del luglio 1830. Riportano le cronache che la
composizione era destinata ad una banda di duecento
59
DIEGO CESCOTTI
strumentisti che sfilando per i viali di Parigi si dirigevano verso Place de la Bastille dove era stata eretta la
colonna, luogo dell’inumazione. Più tardi l’organico di
quella composizione sarà da Berlioz ulteriormente accresciuto con l’aggiunta degli archi e di un grande coro.
Come tono ed effetto il pezzo suona del tutto convincente, ad onta che si tratti di musica squisitamente engagée e – si dice – molto ben remunerata dall’apparato
organizzatore: cosa tanto più notevole in quanto il
compositore non si era dichiarato particolarmente entusiasta di quella rivoluzione che aveva portato al trono
Luigi Filippo d’Orléans. Ma ormai si era imposta la
pratica di scrivere musica funeraria come un lavoro,
senza per questo dover esibire una specifica adesione
personale: la firma autorevole bastava a conferire all’evento musicale tutto il suo prestigio.
A quella stessa celebrazione del 1830 è legato anche il
nome del giovane Ferenc Liszt, autore di una poderosa
Symphonie révolutionnaire rimastaci sotto forma di
frammento breve ma sufficiente a mostrarci il ‘programma’ denso e ardito di cui egli voleva investire il
proprio coinvolgimento nei fatti della Storia. In altra
circostanza Liszt scriverà il poema sinfonico Heroïde
funèbre (1854) che per effetto timbrico e intenzioni
espressive è quasi da assumere come epitome di ciò che
è lecito aspettarsi da una musica d’arte associata all’evento funebre e che solo Wagner dopo di lui saprà portare a livelli ulteriori. Nelle derive mistiche che lo cattureranno in epoche successive della sua vita, Liszt non
farà mancare i suoi contributi anche nel campo della
produzione religiosa, consegnando con altrettanta intensità di sentimento la tematica mortuaria ai concetti
ispirati dalla fede.
Va da sé che il merito indiretto di aver occasionato
operazioni quali quelle del 1830 va riconosciuto al Beethoven della marcia funebre dalla Terza Sinfonia, poi
denominata ‘Eroica’ (1804) – e poco importa se il grande uomo di cui quella sinfonia annunziava il sopraggiungere lo aveva deluso al punto da fargli strappare la
dedica originaria: non gli faremo per questo il torto di
rimproverarlo per aver creduto, come tutti i buoni illu60
NOTE DI COMMIATO
ministi del tempo, alla rigenerazione della società che
il Bonaparte sembrava rendere possibile. Sta di fatto
che mai come in quegli albori di romanticismo la morte cominciò ad assumere una sostanza così emotivamente esteriore e teatrale, così magniloquente e spettacolare, da colorare di bagliori corruschi ciò che in altre
epoche e contesti sarebbe stato riservato al contegno
intimo e privato. Ma non va per questo dimenticato
che nella grande rassegna di musica funebre prodotta
in quel secolo si trovano anche dei lavori segnati da più
profonda meditazione filosofica, con capolavori quali
il poema sinfonico Tod und Verklärung di Richard
Strauss (1889) e l’oratorio The Dream of Gerontius di
Edward Elgar (1900) che raccontano entrambi le tappe
di una lunga agonia, con la differenza che per Strauss,
nutrito di afflati superomistici, si trattava di «rappresentare musicalmente i momenti che precedono la
morte di un uomo la cui vita era stata un continuo tendere ai supremi ideali», mentre per Elgar la morte era
quella di un uomo qualunque che la fede rende fiducioso nella misericordia divina pur attraverso gli struggimenti dovuti alla sua debolezza umana.
U
na volta entrata nel campo della musica d’arte, la celebrazione della morte ha stimolato i
compositori alla ricerca di intonazioni
espressive intense e molteplici così da rappresentare
tanto la composta e severa meditazione laica quanto
l’abbandono fiducioso alla radiosa speranza di un premio ultraterreno.
La messa di Requiem non esaurisce certo la casistica,
ma ha costituito storicamente lo sbocco più prestigioso
nell’ambito della produzione colta dopo che il Concilio
tridentino aveva attuato il suo assestamento nella liturgia. Rispetto alla Messa ordinaria, più astratta e neutra
nel tono, il requiem possiede un materiale espressivo
tale da potersi tradurre musicalmente in forti contrasti
drammatici, per non dire in occasioni para-teatrali dal
segno tipicamente chiaroscurale: non è un caso se esso,
in quanto genere musicale a sé stante, nacque nello
stesso periodo storico in cui si affermava anche il me2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
lodramma, né sorprende che molti cultori di esso siano stati delle forti tempre di operisti come Mozart,
Verdi o Cherubini. Questa maggiore ampiezza espressiva del requiem rispetto al comune Ufficio è dovuta a
una sezione – la più estesa di tutte – che altro non è che
la sequenza gregoriana del Dies irae, attribuita com’è
noto a Tommaso da Celano (XIII sec.), che come tutte
le sequenze è organizzata in uno schema strofico con
versi metricamente regolati, il che si traduce in un ritmo narrativo incalzante, incombente, quasi ossessivo1.
Le immagini sono espresse con icastica immediatezza
e offrono alcune suggestioni sonore come le trombe
del giudizio che sembrano messe apposta per attrarre
un compositore voglioso di cimentarsi in quegli umori
ferrigni.
Sennonché il genere, pur mantenendo di preferenza
il titolo canonico, lascerà sbiadire un po’ alla volta, se
non eliminare del tutto, la mera funzionalità devozionale e la sfera strettamente sacrale per acquisire l’organico oratoriale con solisti, coro e orchestra ed assumere lo status di pezzo da concerto. In questa guisa è stata
composta la maggior parte dei requiem a noi noti, che
la contabilità corrente fissa nel numero di almeno un
migliaio. Il genere comincia così ad offrire dei primi significativi elementi di novità sia formale che di contenuto, e i suoi indicatori sono anzitutto il titolo e il dedicatario dell’opera. Uno dei prototipi del genere potrebbe essere individuato nel Requiem für Mignon di Robert Schumann (1849) che consegna al compianto
pubblico un personaggio di fantasia ovvero la dolcissima, indimenticabile fanciulla creata da Goethe nel
Wilhelm Meister la cui morte è per ogni lettore sensibile cagione di molta umana commozione.
Johannes Brahms, dal canto suo, adotta per il suo Requiem tedesco (1854-68) la soluzione di assemblare in
1 - Va segnalata la citazione della melodia del Dies Iræ nel tessuto di molte composizioni sinfoniche o concertistiche di Sergej Rachmaninov (18731943), ma in quel caso per ragioni puramente private e personali: egli era
infatti costantemente ossessionato dal pensiero della propria morte.
L’opera sinfonica che più rappresenta questo autore è L’isola dei morti, ispirata dall’omonimo dipinto di Arnold Böcklin: una morte piuttosto straziante ma rivestita di abiti sontuosi, dato il ricchissimo apparato strumentale che le dà voce.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
modo personale testi biblici estrapolati ed arrangiati
dalla traduzione di Lutero, presentandosi come una seria, virile meditazione sui temi della vita e della morte
che non esclude l’anelito alla pace del riposo eterno ma
non lo ricerca nella necessaria intermediazione di un
redentore. In questo senso il requiem di Brahms si pone
come primo brano nel suo genere che risponda alla
sensibilità moderna. Da esso tende a stabilirsi un tipo
di requiem aconfessionale, non più in latino, che fin dal
titolo denuncia la sua destinazione particolare: un pezzo dunque che si carica di contenuti ogni volta diversi,
a seconda del ‘tema’, del destinatario soggettivo o collettivo e della sensibilità dell’autore. E se in qualche caso,
come in Gabriel Fauré, il latino liturgico viene conservato, è lo spirito a venirne stravolto – e d’altronde Fauré,
come Brahms, non era autore dotato di temperamento
teatrale, né era interessato a cantare la morte in modo
angosciato o implorante, sicché nel suo Requiem (1888)
la sequenza del Dies Iræ, in accordo anche con la tradizione del rito francese, non è presente ed anzi, come è
stato detto, non è presente nemmeno la morte o per lo
meno la natura drammatica, terrifica del trapasso, tutto
essendo risolto in soavità e leggerezza. Nulla di meglio
vi può essere come il coro finale In paradisum con voci
femminili e arpe che riporti il concetto di morte a un
così dolcissimo e antidrammatico ascendere a cieli sereni che ricordano i campi elisi degli antichi. Per questa
funzione consolatrice il Requiem di Fauré è un brano
amatissimo dal pubblico più aperto alle tendenze sincretistiche e inversamente osteggiato dai più ortodossi
che lo trovano alieno da una vera profondità religiosa e
anzi non esente da quel tanto di sensualità che da un
musicista francese ci si aspetta sempre.
L
a coscienza sociale acuitasi nell’epoca moderna fa sì che oltre alla generica espressione
del cordoglio si senta il bisogno di perseguire
un’istanza più precisata in senso ideologico, la quale
permetta ad esempio di prendere posizione nei confronti di chi infligge la morte per causa di guerre e conflitti. Si afferma così un modello di requiem di impron61
DIEGO CESCOTTI
ta sociale-politica, ispirato dall’impegno civile e segnato da una marcata spiritualità laica, con netto carattere
di denuncia: a questo punto il termine requiem, riconsegnato al significato esclusivo di riposo, è impiegato
ormai come mera sigla di riconoscimento priva del suo
valore originario.
Un contributo di alto rigore e insieme di pregnanza
poetica lo ha dato Paul Hindemith nei suoi anni americani con un requiem ancora dedicato ad un singolo
personaggio illustre. Il suo titolo-incipit («When lilacs
last in the door-yard bloom’d») è preso dal primo verso
di un lungo poema che Paul Whitman aveva scritto nel
1865 per onorare la morte di Abraham Lincoln;
Hindemith lo ha recuperato in occasione della
scomparsa di un altro presidente, Franklin Delano
Roosevelt, avvenuta nel 1946. Il sottotitolo «A Requiem
for those we love» riflette il clima dell’immediato
secondo dopoguerra, quando era comune un desiderio
di concordia che attenuasse il senso degli orrori recenti.
Col suo tono insieme austero e vibrante, il requiem di
Hindemith potrebbe forse essere assunto come esempio il più accreditato di cordoglio civile in accezione
novecentesca: severo, sobrio, antiretorico e antisentimentale: in una parola classico, e per di più nobilitato
da una grande, eloquente poesia.
Tra i requiem d’autore di tipo ‘impegnato’ e di testimonianza si annoverano il Berliner Requiem di Kurt
Weill (1929) su testi di Bertolt Brecht che fanno riferimento alla figura della rivoluzionaria socialista Rosa
Luxemburg, e il Requiem für Lenin (1935) dell’austriaco
Hanns Eisler che esplicita il suo credo politico utilizzando testi del fondatore e padre storico del movimento comunista, sviluppando uno stile evoluto e al tempo
stesso disponibile alla comunicazione più ampia. In
progetti di questo tipo, infatti, la questione era sempre
quella di scartare i residui di arte borghese in quanto
organici al mondo da distruggere, ma trovando al tempo stesso una modalità sufficientemente chiara per essere capiti da tutti.
Non pochi lavori saranno ispirati ai fatti sanguinosi
della guerra civile spagnola, e tra questi si fa notare il
62
NOTE DI COMMIATO
è probabilmente l’espressione più radicale di un umanesimo universalistico di segno dichiaratamente ateo:
nessun pietismo vi si sentirà risuonare, né alcun appello che possa valere da ricatto dei sentimenti; il tono generale si mantiene alquanto aspro, intenso, talora violento e lo stile ultramoderno ne è la cornice esatta. Sorprendente sul piano della contingenza esecutiva rimane la sua collocazione all’interno della cattedrale di Colonia che un video riporta non senza effetti suggestivi.
Che la rassegna di requiem, o comunque di brani
musicali che commemorano vittime civili, non si arresti ai nostri giorni lo dimostrano i brani presentati al
concorso internazionale che anno dopo anno si perpetua a Bologna per ricordare la strage fascista dell’agosto
1980 alla Stazione centrale.
Requiem di Madrid (1958) scritto dal milanese Vittorio
Fellegara su versi di Federico García Lorca, che di quella guerra era stato l’emblema della vittima sacrificale.
Frattanto in Unione Sovietica Dmitrij Kabalevskij
componeva nel 1963 un esteso Requiem «per coloro che
sono morti nella lotta contro il fascismo»: opera d’apparato ma non priva di autenticità emotiva allorché
esprime il cordoglio per i soldati caduti nella difesa
della patria e si fa memoria dolorosa incitando al tempo stesso a sperare nell’avvenire.
Con il Polskie Requiem (1984) di Krzystof Penderecki, che rimanda a recenti fatti tragici del suo Paese, si
è ricondotti a climi ed atmosfere liturgiche, anche per
un parziale recupero del latino. Decisamente fuori dagli schemi, invece, la scelta del tedesco Hans Werner
Henze, che nel 1993 fa uscire un suo Requiem le cui sezioni sono bensì designate con i titoli del canone liturgico, ma senza che una qualunque parte cantata dia loro vita. Si tratta in realtà di una sequenza di ‘concerti
sacri’ per grande orchestra che l’autore ha definito
complessivamente come «opera multiculturale, laica,
un atto di amore fraterno verso il mondo» e in particolare «per tutte le persone sulla terra che sono morte
prima del dovuto, le cui sofferenze per il loro trapasso
sono piante in questa mia musica». Il requiem di Henze
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
V
olendo ora circoscrivere un’opera che rappresenti nel modo più artisticamente convincente un requiem civile nel Ventesimo secolo, ci viene in soccorso il memorabile War Requiem
(1961) dell’inglese Benjamin Britten, autore che per
convinzione, formazione culturale e orientamento politico si era fin da giovanissimo dichiarato fedele all’opzione pacifista. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si era reso renitente alla leva e negli Stati Uniti, dove aveva soggiornato per un certo periodo, aveva completato la propria maturazione ideologica attraverso la
frequentazione degli ambienti progressisti di sinistra
animati da figure di émigrés britannici con al centro la
personalità dominante del poeta W.H. Auden.
L’occasione per la composizione del Requiem di guerra fu dovuta alla riapertura della restaurata cattedrale
di Coventry, città martire inglese rasa al suolo nel 1940
da bombardamenti tedeschi rimasti nella storia per la
loro scientifica spietatezza. L’ampia pagina rientra nei
molti esempi di musica di protesta, ma si distingue per
la sua radice umanitaria e per il suo sguardo che va oltre le parti in campo e si rivolge al dramma delle coscienze: per questo non presenta atteggiamenti di
ostentato ideologismo ma si caratterizza per un senso
di compassione che è retaggio dei valori tradizionali,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
anche in senso cristiano, su cui si era compiuta la formazione dell’autore. La scelta di uno spettro più ampio
lo portò ad adottare una soluzione a metà tra il requiem
devoto in latino e quello civile in volgare, amalgamando in una sintesi originale le sezioni canoniche del rito
con un collage di versi inglesi di contenuto pacifista
tratti dall’opera di Wilfried Owen che continuamente
si alternano e si mettono a confronto quasi a creare una
dialettica di enunciazione e commento critico.
Tra i poeti inglesi della Grande Guerra Wilfried
Owen aveva saputo più di altri esprimere con un simbolismo drastico se non macabro la condanna di ogni
conflitto, la pietà per l’umanità che ne è presa in mezzo
e l’inutilità del sacrificio personale di fronte alla indifferente casualità della morte. Il suo destino fu ingeneroso: morì ventiquattrenne sul fronte francese una settimana prima dell’armistizio, avendo vissuto con crescente orrore l’esperienza della guerra combattuta. Le
sue poesie, scritte durante quella sua tragica esperienza, furono pubblicate nel 1920.
Con questa posizione di fermezza e insieme di pietà
umana Britten si era trovato in piena sintonia. E proprio per sottoscrivere la propria adesione all’invito di
essere, in quanto artista, voce della coscienza comune,
volle porre in epigrafe alla sua partitura un motto del
poeta che dice: «ll mio tema è la guerra, e la pietà per la
guerra. La poesia risiede nella pietà. Tutto ciò che oggi
un poeta può fare è ammonire». La critica ai poteri ufficiali, civili e religiosi, rimane dunque tutta, e per evitare ogni equivoco in proposito Britten affermò che il
suo requiem era offerto in riparazione per i morti, non
per dar consolazione ai vivi. Come Owen aveva affermato, non vi è nulla di nobile che giustifichi il morire
per dei calcoli politici fatti in alto loco; ciò che resta sono le sofferenze inflitte e subite, cioè una inqualificabile barbarie, un oltraggio a tutta l’umanità.
Per raggiungere i suoi fini Britten organizzò anzitutto la logistica spaziale e sonora distinguendo due livelli separati per funzioni entro cui collocare gli organici,
più un terzo livello di natura più astratta e metafisica:
63
DIEGO CESCOTTI
1 posizione
centrale
soprano solista,
parti liturgiche
coro, organo, grande in latino
orchestra
2 posizione laterale tenore e baritono
solisti, piccola orchestra da camera
3 più distante e
separato (in alto)
poesie di Owen
coro di voci bianche, sezione
organo
liturgica
Tale articolazione fa sì che l’atemporalità della dimensione mistico-religiosa quale luogo della compassione abbia il suo costante pendant nel commento critico che si sviluppa sul vivo del dramma attuale dei popoli. La carica di protesta presente in questa seconda
sezione può occasionare momenti di impatto quasi teatrale in cui si staglia netto il tono di invettiva. Esemplare al riguardo il racconto dell’episodio biblico di
Abramo e Isacco (III, 3), che Owen fornisce di un finale agghiacciante: padre e figlio, avviatisi verso il luogo
del sacrificio, avevano preparato il tutto, poi, seguendo
il comando venuto da Dio, Isacco era stato afferrato da
Abramo per essere sgozzato. A quel punto un angelo
del cielo era sceso ad intimargli di lasciar stare suo figlio e di immolare al suo posto un ariete. «Ma il vecchio
non se ne diede per inteso: uccise suo figlio e con esso
sradicò uno per uno metà del seme d’Europa». [But
the old man would not so, but slew his son,/And half
the seed of Europe, one by one.].
Altrettanto memorabile, ma per ragioni opposte, è
tutta l’ampia sezione finale [VI, 2], dove le parti che
erano state in opposizione finiscono per incontrarsi
(«Strange meeting»); i motivi musicali contrastanti
vengono abbandonati e sostituiti da un unico canto di
tutte le componenti, non per una comoda messa a posto della coscienza ma per una volontà di superare le
barriere e ricercare una speranza comune di possibile
concordia.
Tutto ciò avviene con mezzi autenticamente musicali, lavorando su tutti i parametri fraseologici, armonici,
timbrici, in un simbolismo chiaro e di piena risultanza
visivo-sonora.
64
NOTE DI COMMIATO
momento della ritualità; espressione formale del lutto; supplica liturgica per la liberazione.
parole e situazioni attuali; visione personale dell’uomo condotta ad estremi di azione/emozione: guerra e dolore dell’uomo sull’uomo; contestazione della guerra.
La distribuzione della materia è esemplificata in questo schema riassuntivo:
I.
Requiem æternam
I.1
Introitus («Requiem æternam»)
Anthem for Doomed Youth («What
passing-bells»)
immagine di innocenza su sfondo atemporale e remoto, fuori
dalla crudezza del campo di battaglia.
P
rima di questo suo massimo impegno sui
temi della guerra e della pace, Britten aveva
avuto modo di misurare le proprie convinzioni pacifiste in occasione della guerra civile spagnola,
con una serie di lavori che lo posero tra gli artisti che
avevano sentito l’obbligo morale di mettersi al servizio
della buona causa. Anche in quel caso, il pensiero era
andato inevitabilmente alla figura di Federico Garcia
Lorca, trucidato dai falangisti nel 1936.
In una sua poesia contenuta nel Poema del Cante Jondo (ed. 1931) il poeta andaluso aveva alluso alla propria
morte con un tono di assoluta serenità e candore. Quei
versi così essenziali ed evocatori di solari immagini mediterranee saranno messi in musica diversi anni più tardi dal compositore ebreo Mario Castelnuovo-Tedesco
come parte di una sua raccolta per coro e chitarra intitolata Romancero gitano (1951). Attraverso la musica
per la quale sembrano istintivamente vocati, essi rivivono negli effluvi di arancio e di menta e nella mobile natura della sabbia e della banderuola, riconducendo a
un’idea di morte come riposo dolce e sereno:
Kyrie («Kyrie eleison»)
II.
Dies iræ
II.1
«Dies iræ, dies illa»
II.2
II.3
baritono
soprano - semicoro
«Recordare Jesu pie»
tenore - baritono
coro
Sonnet on seeing a piece of our artillery
brought into action
baritono
II.7
Dies iræ (ripresa)
coro
II.8
«Lacrimosa»
soprano
II.9
Futility («Move him into the sun»)
tenore
II.10
«Pie Jesu»
III.
Offertorium
III.1
«Domine Jesu Christe»
coro bambini - organo
III.2
«Sed signifer sanctus Michæl»
coro
III.3
coro
The parable of the old men and the
young («So Abram rose»)
III.4
«Hostias et preces tibi Domine»
IV.
Sanctus
IV.1
«Sanctus, Sanctus Dominus»
tenore - baritono
coro bambini
soprano - coro
The end («After the blast»)
baritono
At a Calvary near the Ancre («One ever
hangs»)
tenore
Agnus Dei
V.1
Cuando yo me muera,
enterradme si queréis
en una veleta.
coro
The next war («Out there we’ve walked»)
II.6
V.
Cuando yo me muera,
entre los naranjos
y la hierbabuena.
coro
«Liber scriptus proferetur»
II.4
II.5
tenore
Voices («Bugles sang»)
IV.2
¡
Cuando yo me muera,
enterradme con mi guitarra
bajo la arena.
coro - coro bambini
V.2
«Agnus Dei qui tollis peccata
VI.
Libera me
VI.1
«Libera me de morte æterna»
VI.2
coro
soprano - coro
Strange meeting («It seemed that out of
battle»)
tenore - baritono
¡Cuando yo me muera!
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
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DIEGO CESCOTTI
Al mondo mediterraneo dell’antichità ellenica ci riporta invece un testo sulla morte che si situa agli albori
della civiltà occidentale e che ha la caratteristica di essere il più antico reperto decifrabile di un’intera composizione musicale. Esso si trova scolpito su un cippo
funerario datato tra il II sec. a.e.v. e il I sec. e.v. ed è passato alla storia come l’Epitaffio di Seikilos (o Sicilo). Invitando a vivere pienamente la vita e di non temere la
morte, il testo della stele costituisce uno dei tanti motti
di saggezza che percorrono la storia umana:
LE MUSICHE CITATE NEL TESTO SONO ASCOLTABILI AI SEGUENTI INDIRIZZI
autore
titolo
indirizzo informatico
Henry Purcell
Funeral Sentences for Queen
Mary
www.youtube.com/watch?v=Uhg0pupuJCs
Nino Rota
La visita meravigliosa
www.youtube.com/watch?v=-oq9KTGlQsA
Hector Berlioz
Simphonie funèbre
et triomphale
www.youtube.com/watch?v=98BAg1GSP7U
Ὅσον ζῇς φαίνου
Hoson zēs phainou
Possa tu splendere finché vivi,
μηδὲν ὅλως σὺ λυποῦ
mēden holōs sy lypou
non darti troppa pena per nulla:
πρὸς ὀλίγον ἐστὶ τὸ ζῆν
pros oligon esti to zēn
la vita dura un attimo
Ferenc Liszt
Heroïde funèbre
winkle522000
τὸ τέλος ὁ xρόνος ἀπαιτεῖ.
to telos ho chronos apaitei
e il tempo reclama il suo tributo.
Ludwig van Beethoven
Sinfonia “Eroica”:
marcia funebre
www.youtube.com/watch?v=4nPm7lfE47c
Richard Strauss
Tod und Verklärung
www.youtube.com/watch?v=3D5Up1aYJJs
Edward Elgar
The Dream of Gerontius
www.youtube.com/watch?v=4VgZgJj2NAc
Tommaso da Celano
Dies iræ
www.youtube.com/watch?v=Dlr90NLDp-0
Gabriel Fauré
Requiem
www.youtube.com/watch?v=AnShN9XlhOA
Robert Schumann
Requiem für Mignon
www.youtube.com/watch?v=fbOy3KB45o4
Johannes Brahms
Ein deutsches Requiem
www.youtube.com/watch?v=u_6ih9vBkD0
Paul Hindemith
Requiem for those we love
vimeo.com/66233782
Kurt Weill
Berliner Requiem
www.youtube.com/watch?v=TcuTeg0rRaY
Hanns Eisler
Requiem für Lenin
www.youtube.com/watch?v=S7rBt3gImT8
Vittorio Fellegara
Requiem di Madrid
www.youtube.com/watch?v=71Q2xHw6nX8
Krzystof Penderecki
Polskie Requiem
www.youtube.com/watch?v=f77QWLEkmNw
Hans Werner Henze
Requiem
www.youtube.com/watch?v=-Gf7EzrWHGg
Benjamin Britten
War Requiem
www.youtube.com/watch?v=GHNgfF19CTY
Mario Castelnuovo
Memento
www.youtube.com/watch?v=OSJ4a6Rfz
/
Epitaffio di Seikilos
www.youtube.com/watch?v=xERitvFYpAk
(altri disponibili)
Jan Novák
Sonata super Hoson Zes
www.youtube.com/watch?v=c87XwKTI2v8
I segni in notazione alfabetica che accompagnano il
testo consentono di ricostruire la melodia arcaica, che
risuona serena, scarna, come proveniente da lontananze remote e al di fuori dal gioco dei sentimenti e da
ogni complicazione morale e psicologica. Talmente
universale ne risulta il suo messaggio che un compositore moderno, Jan Novák, ha potuto servirsene per costruirci una affascinante sonata per violino (o flauto) e
pianoforte (Sonata super Hoson Zes fidibus acutis aut
66
NOTE DI COMMIATO
tibia obliqua et clavibus, 1981), dove antico e moderno
si incontrano scavalcando secoli, stili e forme e consegnando a chi è in cerca di una risposta al mistero più
grande il pensiero di una morte dignitosamente accettata quale passaggio inevitabile che conviene affrontare
con saggezza.❧
Diego Cescotti
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CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
Conversazioni Bibliofile
a cura di Giuseppe Maria Gottardi
Amorem namque librorum
amorem sapientie constat esse1.
Amorem namque librorum
amorem sapientie constat esse1.
«Quando gli dei hanno deciso di
distruggere un uomo, cominciano
coll’annoiarlo»2.
Conosco un discreto numero di bibliofili, in svariati stadi di maturazione, ma nessuno annoiato. Quella è roba per Moravia3.
L
a ricerca libraria prevede,
oltre alla mera passione,
tutta una serie di piccole
e grandi doti, non tutte ereditabili e
non tutte in vendita. Chi desiderasse abbandonare per un po’ il semplice accatastamento di libri per
aprirsi allo studio e alla conoscenza
del libro come soggetto dovrebbe
far sì che in lui:
1 - Estrapolato da Philobiblon di Riccardo da
Bury. L’amore dei libri ha la sua ragion d’essere
nell’amore del sapere.
2 - È una strana citazione che Ian Fleming mette in mente a James Bond mentre mette in moto
la sua Bentley, in: A 007, dalla Russia con amore,
Officine Grafiche Garzanti, Milano, 20 maggio
1965 [trad. E. Cicogna], p. 82.
3 - Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto
Pincherle (Roma 28 novembre 1907 - 26 settembre 1990) è stato uno scrittore, giornalista, saggista, reporter di viaggio e drammaturgo italiano. Scrisse La noia per Bompiani Editore,
Milano, 1960.
1 - Estrapolato da Philobiblon di Riccardo
da Bury. L’amore dei libri ha la sua ragion
d’essere nell’amore del sapere.
“… In eo sit multijuga materiarum librorumque notitia, ut saltem
potiores eligat et inquirat; fida et sedula apud exteras gentes procuratio,
ut eos arcessat; summa patientia, ut
rare venalis expectet: peculium semper præsens et paratum, ne siquando occurrunt, emendi occasio intercidat; prudens denique auri argentique contemptus, ut pecuniis sponte
careat quæ in bibliothecam formandam et nutriendam sunt insumendæ. Si forte vir litteratus eo felicitatis pervenit ut talem thesaurum
coacervaverit, nec solus illo invidius
fruatur, sed usum cum eruditis qui
vigilias suas utilitati publicæ devoverunt, liberaliter communicet, …”.
Si trova questa affermazione dello scabino4 Samuel Hulsius – Sa4 - Scabino (scavino, schiavino). Storico: Dopo la
costituzione dell’impero carolingio, ciascuna
delle persone, considerate fra le più idonee per
onestà, prudenza, conoscenza del diritto consuetudinario locale, che venivano scelte dal re o
dall’imperatore in numero da 7 a 12 con funzioni di assessori del magistrato, per dargli consiglio e formulare la sentenza; essendo la loro presenza richiesta dai capitolari imperiali, diventarono veri e propri giudici, benché le sentenze
fossero formalmente atto del conte o del messo
Conga letteraria
68
muel van Huls (? - 1730) – nell’opera che venne data alle stampe alla
sua morte da Johannem Swart &
Petrum de Hondt : Bibliotheca Hulsiana sive Catalogus Librorum quos
magno labore, summa cura & maximis sumptibus collegit Vir Consularis Samuel Hulsius a La Haye, 173033, 4 vol. in-8°.
“… In lui (il bibliofilo) trovandosi
i più svariati riferimenti a materie e
libri, prenda almeno le più importanti e le esamini; abbia affidabile e
diligente cura per le produzioni
straniere al fine di procurarsele;
somma pazienza nell’aspettare acquisti di rarità: soldi sempre in cassa e pronti per non perdere l’occasione quando si presenti, una prudente infine indifferenza per il denaro da investire spontaneamente
per tutto quel che serve a formare
ed accrescere la sua biblioteca. Se,
come conseguenza, il letterato
che presiedeva il giudizio. Anche: Membro
dell’amministrazione comunale in Stati dell’Europa centro-occidentale (come Belgio, Germania).
[S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua
Italiana UTET, Torino, 1994]
Giuseppe Maria Gottardi
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
giunga alla felicità per aver accumulato un tale tesoro al punto tale
che non voglia goderne gelosamente in modo esclusivo, si metta in comunicazione con gli studiosi che
dedicano al pubblico interesse le loro ricerche”.
Questi consigli, ahimè, non erano a mia disposizione al tempo in
cui incontrai quell’infame cuoco
maceratese. Ma tornarono molto utili in seguito.
Ho spesso osservato che la stragrande maggioranza delle persone
che frequentano i mercati occasionali, le botteghe e le fiere librarie antiquarie sono quasi sempre alla ricerca di qualcosa che conoscono già
abbastanza. Si sente spesso chiedere:
– Scusi, ha libri che riguardano
Busto Arsizio?
Chiedo scusa ai bustocchi e anche
ai bustesi e financo ai borsanesi e ai
sinaghini se ho tirato in ballo la loro
città ma la colpa è di Bruno Lauzi e
della sua canzone: Garibaldi Blues.
Ho passato l’adolescenza a cantare:
Garibaldi aveva un socio / si chiamava Nino Bixio / venne giù da Busto Arsizio / e nei mille si arruolò /
per Nino Bixio viva!
E Busto Arsizio è città assaissima
e di storia e di tradizioni bellissima.
Rimane comunque che quella richiesta difficilmente può essere evasa se si considera che il richiedente ha magari sessant’anni e ne
ha trascorsi più di trenta a cercare
memorie patrie. E questo vale per
quasi ogni città.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Meglio sarebbe se si fosse fatto le
ossa sul Lozzi5 mostrando, in questo caso, una competenza indispensabile per una corretta ricerca. Anche avere un quadro bibliografico
della propria patria o città, che dir
si voglia, non sarebbe male e quindi
una furtiva occhiata al Deschamps6
gli renderebbe merito. Ma, pretendere tutto ciò, va al di là di una mera curiosità libresca; comporta
piuttosto una crescita mentale che
rasenta il coraggio, del quale è assodato, parafrasando Don Abbondio
ne I promessi sposi, che … uno, se
non ce l’ha, mica se lo può dare.
Ad un certo punto della mia personale ricerca mi ero trovato nella
difficoltà di reperire testi di qualche
valore; non solo economico intendiamoci, ma anche soltanto curioso
o speciale. C’era stata una fuga in avanti da parte di troppa gente am5 - Carlo Lozzi (1829-1915), giurista e letterato
italiano, scrisse: Biblioteca istorica della antica e
nuova Italia: saggio di bibliografia analitico comparato e critico, Tip. d’I. Galeati e Figlio, Imola,
1886-1887, 2 v.; 23 cm + 1 indice appendice alla
Biblioteca istorica di Carlo Lozzi (47 p.). [È opportuno integrare quest’opera con l’ottimo lavoro
del bibliofilo-editore Arnaldo Forni: Repertorio
dei personaggi a qualunque titolo menzionati nella Biblioteca istorica di Carlo Lozzi / Arnaldo
Forni; seguito dal Repertorio delle pubblicazioni
anonime registrate nella medesima opera. Sala
Bolognese: A. Forni, stampa 1985]
6 - Pierre-Charles-Ernest Deschamps (Magnyen-Vexin 1821 - Mourillon-Toulon 1906), bibliografo francese. È noto per i supplementi che
con P.-G. Brunet ha dato al celebre Manuel du libraire di J.-Ch. Brunet (1878-1880) e per il
Dictionnaire de géographie ancienne et moderne
a l’usage du libraire et de l’amateur de livres,
Librairie Firmin Didot Frères, Fils et Cie Paris,
1870, che vi ha unito. [Per onor del vero, questo
libro è un po’ deficitario per quanto riguarda
l’Italia!]
maliata da facili guadagni. Notizie
di fantastici ritrovamenti si susseguivano, non solo sui giornali di
settore ma anche su quelli a grande
tiratura. Maldidos bibliofilos per
dirla con Carson7, raccontavano
delle loro e altrui mirabolanti scoperte.
Una delle più eclatanti, che io riportavo spesso nelle mie rare e ‘feline’, nel senso che c’erano solo quattro gatti, Serate Bibliofile, riguardava il reperimento, in un sfigato
mercatino delle pulci a Adamstown,
contea di Berks/Lancaster nello stato americano della Pennsylvania, di
una copia della Dichiarazione d’Indipendenza.
Nel 1989, un analista finanziario
scoprì qualcosa di inusuale in una
vecchia stampa che aveva acquistato per 4$ in un mercato delle pulci
ad Adamstown. Aveva comprato il
quadro (una vecchia copia rovinata
raffigurante una scena campestre)
perché gli piaceva la cornice che
voleva recuperare. E probabilmente
gli è piaciuta di più quando ha scoperto una rara copia della Dichiarazione d’Indipendenza nascosta
dentro al quadro. Quando ha provato infatti a staccare la cornice dal
quadro, questa gli si è distrutta tra
le mani, ma ha svelato un documento piegato tra la tela e il legno
posteriore. Su consiglio di un amico, il documento è stato poi fatto e7 - Kit Carson è il pard anziano di Tex Willer
nell’omonimo fumetto. È famoso per nutrirsi
spesso di montagne di patatine.
69
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
saminare da un esperto del settore,
e si trattava veramente di una delle
500 copie della prima stampa della
Dichiarazione d’Indipendenza del
1776 (fino ad allora si sapeva dell’esistenza di sole 24 copie, di cui 3 di
proprietà privata). Questo raro documento fu in seguito messo all’asta presso Sotheby’s il 4 giugno
1991, e il fortunato ritrovatore guadagnò ben più dei 800/1200 mila
dollari stimati: l’oggetto fu venduto
all’asta per 2.42 milioni di dollari!
L’acquirente (Donald Scheer, capo
della Visual Equities Inc.) acquistò
quella che si rivelò una delle copie
meglio conservate della Dichiarazione d’Indipendenza, stampate originariamente da John Dunlap per
portare quella storica dichiarazione
agli abitanti delle 13 colonie. E in
seguito questa copia fu rimessa in
vendita nel giugno del 2000 e venduta per 8.14 milioni di dollari al
produttore televisivo Norman Lear
in un’asta on-line.
Con questi chiari di luna era molto difficile decollare.
Poi però incontrai Ambrogio Calepino8.
Giaceva (non lui ma il suo dizionario!) riverso in mezzo a svariati
libri di un antiquario torinese in una mostra in quel di Milano.
Un libro, per me bellissimo ma al
8 - Ambrogio Calepio (Castelli Calepio 1435 Bergamo 1511) è stato un umanista e latinista
italiano, noto per il Dictionarium latinum
(1502), una monumentale opera di natura lessicografica ed enciclopedica sulla lingua latina.
70
quale quasi nessuno aveva dedicato
la minima attenzione. È notorio come il latino permanga ostico anche
ai latinisti. La rilegatura, il formato
in foglio, i caratteri tipografici erano da urlo. Il titolo, un’autentica
musica.
Ambrosii Calepini Dictionarium
vndecim linguarum, iam septimo
accurata emendatione, atque infinitorum locorum augmentatione, collectis ex bonorum autorum monumentis, certis & expressis syllabarum … Respondent autem Latinis
vocabulis, Hebraica, Graeca, Gallica, Italica, Germanica, Belgica, Hispanica, Polonica, Vngarica, Anglica. Onomasticum vero: hoc est propriorum nominum, regionum, gentium, vrbium, montium … Onomasticon propriorum nominum, primum a d. Conrado Gesnero, ex variis dictionariis collectum9.
Vedendo il mio interesse, l’antiquario iniziò subito una tiritera letterario-social-politico-economica.
Nel senso che qualcosa sapeva del
Calepino e anche delle centinaia di
edizioni della sua opera e che quella che vedevo era sicuramente la
più bella e completa ecc. ecc., ma
anche sull’andamento degli interessi culturali di questa società che, a
suo avviso, erano in totale in caduta libera; financo alle miserie del
governo nazionale e, dulcis in fundo, sul discreto prezzo che doveva
chiedere perché lui, e qui mi dovet9 - Basileae : apud Henricpetrinos (Basileae :
apud Henricpetrinos, 1627) [8], 1582, 302, [2] p.
; 2.
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
ti imporre di non piangere, a tanto
lo aveva pagato anni prima.
Mentre uscivo con la mia domanda mi sovvenni di Provolino10
ma era già troppo tardi.
– Ma allora, cosa ci guadagna?
Quello che mi fece allontanare
immediatamente da quel banco,
peraltro ben fornito, non fu la difficoltà di capire l’ostico dialetto piemontese e neanche le profonde offese alle mie future generazioni, ma
bensì le gocce di saliva che colpirono la mia giacchetta.
Se dovessi verbalizzare tutto il discorso ci sarebbero, nel testo, un’infinità di puntini, al fine di mascherare la sequenza di epiteti che altrimenti potrebbero farmi condannare per vilipendio della morale pubblica.
Mi servì comunque di lezione.
10 - Provolino è il nome di un pupazzo che ebbe
un grande successo in Italia tra gli anni ‘60 e ‘70.
Ideato da Castellano e Pipolo che ne scrissero
anche i testi e lanciato da Raffaele Pisu nelle trasmissioni Ma che domenica amici e Vengo
anch’io del 1968, Provolino, pupazzo dalle fattezze di bambino coi dentoni, manovrato abilmente da Pisu, si presentava come il suo alter ego
irriverente e terribile. Tra Provolino e Pisu (che
tentava di calmarne la vivacità), nascevano continui battibecchi, che si risolvevano alla fine
sempre con il tormentone: Boccaccia mia statti
zitta!
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Quel giorno allargai la mente; mi
procurai una tavola degli alfabeti
ed iniziai l’esplorazione di quei testi
che nessuno considerava. Sulla Gotica che lì non era citata, consumai
un bel po’ di tempo e sull’alfabeto
cirillico, nelle varianti russa, bulgara e serba persi diverse migliaia di
cellule cerebrali.
Sei mesi dopo incontrai i russi
e… fu amore a prima vista.
Quando vidi il libretto, una miscellanea di cinque libri, non ebbi
alcun dubbio che sarebbe stato mio.
Lo avevano aperto e toccato diverse
persone e il venditore non aveva dato risposte sensate. Anche se aveva
un prezzo piccolo, molto piccolo,
nessuno aveva pensato d’investire
in quel fatiscente libretto. Eppure…
Devo ammettere che forse fui avvantaggiato dalla conoscenza del
francese ma penso che altri masticassero la lingua di Molière. Forse,
credo maggiormente, dalla conoscenza della Storia. Ma questa non
è qualcosa di ereditario e solo frutto della lettura appassionata. Ricordavo benissimo che ancora nel febbraio del 1917 Lenin11, pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov, era esule in Svizzera.
Ci volle poco ad associare M. Elpidine12 e la sua casa editrice ai fuoÈ sempre opportuno ricordare
che spesso i librai sono disposti a rimetterci, pur di soddisfare i propri
clienti. Comunque, in quell’occasione ebbi un’autentica folgorazione
che mi permise in seguito ulteriori
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
spazi di bibliofilia. Del Calepino mi
era rimasto nella mente, quella sequenza di termini che finiva per ica
e eca: Hebraica, Graeca, Gallica, Italica, Germanica, Belgica, Hispanica,
Polonica, Vngarica, Anglica.
11 - Lenin, pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov
(Simbirsk 22 aprile 1870 - Gorki Leninskie 21
gennaio 1924), è stato un politico, rivoluzionario
e filosofo russo. Artefice della Rivoluzione russa
dell’ottobre 1917, fu poi a capo del partito bolscevico e presidente del Consiglio dei Commissari
del Popolo della Russia sovietica.
12 - Michail Constantinovic Elpidine (Nikolskoie
23 settembre 1835 - Carouge /Ginevra 17 febbraio 1908) è stato uno stampatore, libraio-editore.
71
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
riusciti russi perennemente inseguiti dalla polizia dello Zar, l’Ochrana13.
Solo quel tanto da comprare subito quel libro.
Poi però per tradurre almeno i titoli ci volle un sacco di tempo e
quasi quasi mi verrebbe voglia di
non darveli. Se siete giunti fin qui
vuol dire che avete il “sacro” fuoco
nelle vene e cosa ci sarebbe di meglio che farvene uscire un pochino
mentre strusciate col cirillico.
Va beh, l’ho capito dalla carta che
Imprigionato nel 1863 per diffusione di volantini
rivoluzionari, fugge dalla Russia espatriando a
Ginevra nel 1865, diventando poi cittadino ginevrino nel 1876. Membro della sezione ginevrina
dell’AIL (Associazione Internazionale dei
Lavoratori o Prima Internazionale), in un primo
tempo fa parte della cosiddetta giovane emigrazione, che ruotava attorno alla figura di
Alexander Serno-Solovievic e ai seguaci di
Bakunin, pur non appartenendo ad alcuna corrente politica. La sua tipografia (1866-1873), la
sua casa editrice (fondata nel 1873 e dal 1879 casa editrice e Librairie russe M. Elpidine) e la sua
biblioteca con prestito fondata nel 1881, erano
aperte a tutti gli oppositori dello zarismo.
Partecipa alla stampa e all’edizione delle riviste
Narodnoje delo (La Causa del Popolo, 18771890), Obchtcheie delo (La Causa Generale,
1877-1890) e Obschtschina (La Comune) del
1878. La casa editrice pubblicò 180 titoli, tra cui
opere letterarie proibite in Russia e letteratura
occidentale sulla Russia. Negli anni 1880-1890
ebbe contatti con la polizia politica ginevrina e
tra il 1887 e il 1900 anche con agenti della polizia
segreta russa.
13 - L’Ochrana o Okhrana [Ochrannoe otdelenie,
ovvero “Sezione di sicurezza” o “Dipartimento
di sicurezza”] era la polizia segreta della Russia
zarista. Essa fu istituita nel 1881 da Alessandro
III al posto della precedente Terza Sezione, esistente dal 1826. Dotata di ampi poteri discrezionali circa i reati concernenti l’eversione politica,
l’Ochrana esercitava un ampio controllo su
scuole, università, stampa e giustizia. Gli agenti
dell’Ochrana potevano incarcerare e condannare all’esilio chiunque fosse anche solo sospettato
di svolgere attività sovversiva, senza che tali
provvedimenti fossero sanzionati da alcun tribunale. Venne soppressa nel 1917 in seguito alla
Rivoluzione di febbraio.
72
sfrigola, non siete in giornata, avete
lavorato troppo oggi e forse avete
anche perso il tram. Pessima giornata per il cirillico! Ve lo traduco
me14.
Dato che ormai il russo era stato
stentatamente incamerato, non mi
restava niente di meglio che imbarcarmi nell’arabo. E poi dicono che
la lettura fa bene!
L’arabo non è facile e i libri in arabo attraggono sempre i bibliofili
curiosi. Tuttavia, per fortuna, questa genia malnata cerca quasi sempre libri scritti a mano magari con
qualche (anche stitica) miniatura.
In questo caso, però, è facile assistere ed ascoltare il nitrito dei librai
antiquari. Sono gentile, avrei potuto chiamarlo raglio perché se si riesce a trovare un libraio che ci dica la
data di stampa della prima edizione
araba in caratteri mobili del libro
sacro dell’Islam, l’al-Qur’ān, sono
pronto a pagare una pizza (margherita senza doppia mozzarella s’intende). Con questa cacofonia da caravanserraglio i prezzi di questi libri salgono come i minareti. E
quest’opera di grande spiritualità finisce dietro vetrinette per la meraviglia dei suoi pari.
Dovendo stare alla larga dal Germano Dominicus e dalla sua Fabrica15, sull’ipotetico possesso della
14 - Bugia! Una carissima amica ha curato con
attenzione e precisione le mie sortite nella terra
degli Zar.
15 - Dominicus Germano de Silesia (1588-1670) è
stato un sacerdote e missionario tedesco. Nato a
Schurgast (oggi Skorogoszcz, Polonia), entrò
nell’ordine francescano nel 1624 e si dedicò a im-
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
quale ebbi diverse polluzioni notturne, pena il totale dissanguamento delle mie ridotte finanze, mi rivolsi, grazie alla mia incommensurabile fortuna ed attenzione, all’Oberleitner16.
Tuttavia, prima d’impelagarmi
nella sua Chrestomathia Arabica una cum Glossario arabico-latino,
nella speranza che un editore s’intrighi delle mie circonvoluzioni, vi
regalo il frontespizio17 dei miei sogni.
La Fabrica.
parare l’arabo, persiano e turco. Nel 1630 si recò in
Palestina come missionario, dove continuò i suoi
studi di lingua. Nel 1635 tornò a Roma, dove si unì
alla Sacra Congregatio de Propaganda Fide (Sacra
Congregazione per la Propagazione della Fede).
Nel 1636 divenne insegnante presso la Missione di
San Pietro in Montorio a Roma dove pubblicò la
sua grammatica della lingua araba e italiana, la
Fabrica [Fabrica linguae arabicae, cum interpretatione Latina, & Italica, accomodata ad vsum linguae vulgaris, & scripturalis. Authore P. F. Dominico
Germano de Silesia . Romae : typis Sac. Congreg. de
Prop. Fide, 1639., \36!, 1082 \i.e. 1092, 120! p.; 2º
(Binā’ al-luġah al-ʿarabiyyah wa-al-luġatayn alfrangiiyyah wa-al-inṭāliyyah ay al-lāṭīniyyah alʿāmīyayn.)]. Nel 1645 fu inviato in Persia per una
missione politica dal re Ladislao IV di Polonia.
Anche se la sua destinazione era Samarcanda, sembra che non sia andato oltre Isfahan, dove rimase,
studiando persiano e turco, prima di tornare a
Roma nel 1651. Nel 1652 si recò in Spagna alla corte di Filippo IV come insegnante e traduttore. A
Madrid completò la traduzione della Bibbia in arabo, pubblicata a Roma nel 1671 [opera poco stimata secondo Gustave Brunet]. La sua traduzione del
Corano sembra sia rimasta incompleta alla sua
morte nel 1670, a Madrid.
16 - Andreas Oberleitner (Angern an der March
12 gennaio 1789 - Vienna 10 giugno 1832) al secolo: Franz Xaver Oberleitner è stato un benedettino austriaco e orientalista.
17 - Frontespizio. La pagina che riporta normalmente autore, titolo e editore di un volume.
Verso la fine del Quattrocento, divenuto elemento distinto dal testo, è sempre più caratterizzato graficamente. Il frontespizio può essere tipografico o inciso, cioè illustrato, perlopiù con
xilografie. Si definisce tradizionale quello tipografico con marca editoriale figurata. [Hans
Tuzzi, op. cit.]
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Skazka pro to, kak car’ Archejan chodil bogu zalovat’sja grafa A.N. Tolstogo, Tret’e izdanie
Fiaba su come lo zar Archejan
andò a lamentarsi da Dio del conte A.K. Tolstoj, Terza edizione
Alekc Amfiteatrov, Gospoda Obmanovy (Romanovy)
Aleks Amfiteatrov, I signori Obmanov (Romanov)
Process socialistov Valer’jan Osinskago, Sofij Lešern-Fon-Gercfel’d i Varfolomija Vološenko: kratkij otčet Zasedanija Kievskago Voenno-Okružnago suda
5 maja 1879, Izdanie M.K. Elpidina
Processo a carico dei socialisti Valerijan
Osinskij, Sofija Lešern-Fon-Gercfel’d
e Varfolomej Vološenko: breve resoconto dell’udienza del 5 maggio 1879
presso il Tribunale del distretto militare di Kiev, Edizioni M.K. Elpidin
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Michail Bakunin i pol’skoe delo A.I.
Gercena, Izdanie M.K. Elpidina
Michail Bakunin e la questione polacca
di A.I. Herzen, Edizioni M.K. Elpidin
V. Korolenko, Čudnaja:
očerk, London, Izdanie Fonda Russkoj vol’noj pressy, 1893
V. Korolenko, La prodigiosa: saggio, Londra, Edizioni della Fondazione russa della stampa libera, 1893
73
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
‘al-Fātḥa’ (l’Aprente)
Ho recuperato le tre opere dell’Oberleitner, alle quali egli dedicò
pressoché tutta la sua vita e che ora
giacciono quasi abbandonate nelle
biblioteche, nelle migliori condizioni tipografiche e ad un prezzo
vergognosamente basso. Il venditore, ricordo, mi chiese se capivo
quella lingua astrusa e la mia risposta fu: così, così.
Tutto il libro era in carta bellissima al tatto e di un colore tipo veronese molto chiaro, quasi un celadon.
Aprii al Praefatio e lessi velocemente.
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Chrestomathia isthaec Arabica usibus destinata est Theologorum, qui
gravissimam Arabicae linguae notitiam sibi parant inprimis propterea,
ut in sacris tum ad Grammaticae
tum ad Hermeneuticae regulas exponendis literis ditissima illa atque
cultissima lingua cognata ceu egregio et confirmandi et illustrandi subsidio utantur.
La mia traduzione fu altrettanto
veloce e qualche tum s’involò. Questa
antologia arabica è rivolta all’uso dei
teologi che si studiano la difficilissima
lingua araba per farne uso sussidiario
nelle materie sacre sia per esporre le
regole grammaticali che ermeneutiche
avendo appreso quella ricchissima e
raffinata lingua come egregio sussidio
di verifica e di spiegazione.
Prima che lui potesse dire alcunché, sfogliai svelto il libro e mi arrestai a pagina centodieci. Posai l’indice sul testo e lentamente tradussi. In
realtà, non ci capivo niente ma lui era sempre più stupito. In verità, sapevo quel testo a memoria.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
In nome di Allah, il Compassionevole,
il Misericordioso
La lode ad Allah, Signore dei mondi
il Compassionevole, il Misericordioso
Re del Giorno del Giudizio
Te noi adoriamo ed a Te chiediamoaiuto
Guidaci sulla retta via
la via di coloro che hai colmato di grazia,
non di coloro che incorsero nella Tua ira,
né degli sviati. Amen
Avevo sempre pensato che solo gli stolti non
s’interessano delle preghiere degli altri ed ora questo si rivelava importante.
Scorrendo le pagine, nella pagina 45 in alto avevo letto PSALM e sotto XXII. Conoscevo quasi a
memoria il canto di Re Davide e, pieno di vanità,
non seppi trattenere il fiume di erudizione ormai
incontenibile. Stimolato non poco da due belle
fanciulle che, nel frattempo, si erano avvicinate a
noi.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
Salmi. 23(22) Il buon pastore.
Praticamente feci un botto.
75
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
Quell’uomo era così felice di avere incontrato
qualcuno che finalmente gli aveva aperto gli occhi
su quei libri che da tanto tempo aveva in casa, che aprì i cordoni della borsa e mi propose altri due testi.
Con due centoni18 portai via tutto.
1.- Chrestomathia Arabica una cum glossario Arabico-Latino, huic chrestomathiae adcommodato ab
Andrea Oberleitner … Viennae : typis et sumptibus
Antonii Schmid 1823-1824, 2 v.; 8. [vol. 1., XIV, <2>,
298 p., prior pars, chrestomathiam continens / vol.
2., 382, <2> p., posterior pars glossarium continens].
2.- Chrestomathia Syriaca, una cum glossario Syriaco-Latino, huic chrestomathiae adcommodato ab
Andrea Oberleitner … Viennae : Typis sumtibus
Antonii nob. de Schmid 1826-1827, 2 v.; 8º. [vol. 1.,
X, [2!, 292 p., Prior pars, Chrestomathiam continens / vol. 2., 246, [2! p., Posterior pars, Glossarium
continens].
3.- Joannis Jahn, … Elementa Aramaicae seu Chaldaeo-Syriacae linguae, latine reddita, et nonnullis accessionibus aucta ab Andrea Oberleitner, … [Jahn,
Johann <1750-1816>]. Viennae : typis et sumptibus
Antonii Schmid, 1820, XVI, [4], 196, XXX, [2] p. ; 8.
(le pp. 41-46 sono tavole).
Devo onestamente ammettere che le mie scorribande linguistiche fecero un grosso naufragio perché… tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Nel mio caso, visto che vivo in Trentino, c’erano
montagne. Delle vere montagne semitiche perché il
siriaco, l’aramaico e il caldeo mi tolsero il sonno e
consumarono la suola degli scarponi.
18 - Duecentomila lire.
76
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
Poi incontrai l’ebraico.
Affrontai l’impegno con la baldanza di una giovane gazzella. Saltellai quindi, senza metodo, di palo in frasca19 e mi ritrovai a non vedere un bufalo
nella neve20.
Quando presi atto della mia grande difficoltà nel
superare anche minimi scogli, nella speranza di
ammarare in un porto sicuro, tornai in fretta alle
lingue neo-latine.
19 - Saltare di palo in frasca / Passare capricciosamente da un discorso ad un altro.
20 - Non vedere un bufalo nella neve / Non accorgersi di cosa
evidentissima.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Rispetto a Geremia e alle sue Lamentazioni21 il
mio sconforto rimase confinato nella mente. Quando, anni dopo, seppi che la mia cara zia, Nedda
Gottardi Rossi22, aveva iniziato a 73 anni lo studio
della lingua cinese pensai che non era mai troppo
tardi per farsi Isaia23 in ebraico.
21 - Il Libro delle Lamentazioni, nella Bibbia, attribuito al profeta
Geremia (Gerusalemme, dopo il 650 a.C. - Egitto, dopo il 586 a.C.),
predica la necessità di un ritorno alla fedeltà all’alleanza, condannando aspramente le pratiche idolatre, i frequenti soprusi dei forti contro
i deboli, l’osservanza ipocrita e superficiale dei rituali.
22 - Nedda Gottardi Rossi (1921-2008?). Ah! Quanto mi manca la
tua voce!
23 - Isaia (VII secolo a.C.), profeta ebreo della tribù di Giuda.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Io sono l’uomo che ha provato la miseria
sotto la sferza della sua ira.
Egli mi ha guidato, mi ha fatto camminare
nelle tenebre e non nella luce.
Solo contro di me egli ha volto e rivolto
la sua mano tutto il giorno.
Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle,
ha rotto le mie ossa.
Ha costruito sopra di me, mi ha circondato
di veleno e di affanno.
Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi
come i morti da lungo tempo.
Lamentazioni. 3,1-6.
Tornato a lidi certi e a terre emerse, rimaneva
nella mia perenne ricerca libraria un non so ché di
indefinito, un qualcosa d’incompiuto. Come se tutto questo darsi da fare non facesse altro che muovere a stento l’aria in una calda estate di luglio. L’afa libraria seccava quel poco di umido rimasto nei miei
polmoni perennemente indaffarati a liberarsi dei
residui delle Marlboro. Occorreva dedicarsi più seriamente, bisognava ulteriormente erudire. Allon-
77
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE
Il mestiere di scrivere
a cura di Gregory Alegi
tanarsi dalle furiose collezioni (ahimè sempre incomplete!) per produrre qualcosa, come pensai allora, di scientificamente duraturo. Ero quasi pronto ma mancava l’imput24.
Poi incontrai Richard de Fournival .
25
Omnes declinant ad ea, que lucra ministrant,
utque sciant discunt pauci, plures ut abundent.
Sic te prostituunt, o virgo Scientia! Sic te
venalem faciunt castis amplexibus aptam,
non te propter te querentes, sed lucra per te,
ditarique volunt potius quam philosophari;
. . . . . . sic Philosophia
exilium patitur et Philopecunia regnat.26
Scienza Bibliografica, ci aggiungo io.
E quindi, onde evitare di sostare nel calderone di
quei tutti, vi sparo il capitolo seguente nel quale potrete comprendere quale lavoro si può fare allorché
si cerca di crescere nella conoscenza libraria.
È un classico testo cassettiero, nel senso che giace
semisepolto da più di sei anni in un cassetto anche
se è bellissimo. D’altronde: ogni scarrafone è bello a
mamma soja27. ❧
Giuseppe M. Gottardi
Tutti si dedicano a quanto può garantire
un profitto
ben poco imparano per sapere
e molto per accumulare denaro
così ti prostituiscono, o vergine Scienza!
Così ti vendon per soldi,
tu nata per un casto letto
e non ti coltivano per te stessa,
ma perché procuri soldi.
Amano guadagnare e non filosofare.
24 - Input è un termine inglese con significato di “immettere”. Nel linguaggio corrente, input è divenuto sinonimo di impulso o direttiva
che consenta l’avvio di qualche opera, iniziativa o azione, spesso usato anche nella forma italianizzata di “imput”.
25 - Richard de Fournival o Richart de Fornival (Amiens 10 ottobre
1201 - ? 1260), cantastorie e filosofo medioevale francese.
26 - Dal poema De Vetula di Richard de Fournival. Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo poema e del suo autore consiglio
il magnifico testo di Hippolyte Cocheris: La Vieille ou Les dernières
Amours d’Ovide - Poëme français du XIVe siècle, traduit du latin de
Richard de Fournival pad Jean Lefevre, publié pour la première fois et
précédé de recherches sur l’auteur du Vetula par H. C. membre de la
Société impériale des Antiquaires de France, etc., etc. A Paris, Chez
Auguste Aubry - l’un des Libraires de la Société des Bibliophiles françois, Rue Dauphine, 16. 1861, pp. 295.
78
S
econdo un celebre aneddoto,
Luigi XIV avrebbe detto che
ogni qualvolta assegnava
una carica vacante creava «cento
scontenti e un ingrato». Lo stesso
vale per le recensioni. Quando si
parla bene di un libro, l’autore non
ringrazia, ritenendo di aver ricevuto solo quanto gli spetta; quando se
ne parla onestamente, pensa di aver
a che fare con un piantagrane; ma
quando si accenna a qualche critica, ci si fa un nemico per sempre. E
allora, perché recensire? Per vendere, naturalmente, o almeno per far
sapere che il libro è uscito. Facile,
vero?
In realtà, no.
Come spesso accade, il termine si
presta a più di una interpretazione.
Molti autori, soprattutto quelli non
professionisti, pensano che la recensione sia una scheda informativa o addirittura descrittiva: numero
delle pagine, personaggi, trama,
conditi forse da qualche luogo comune o frase ammiccante per invogliare all’acquisto. Insomma, poco
più di quanto già compare in quarta di copertina. Tanto che c’è chi,
nell’inevitabile biglietto di accompagnamento del libro, si premura
di sottolineare di allegare la “recensione” già pronta per l’uso. E non è
detto che qualcuno non la usi davvero, soprattutto sulla stampa locale. Intendiamoci: quel foglio di carta, completo di immagine della copertina, dati tecnici, biografia
dell’autore e – naturalmente – trama, accompagna anche i libri editi
dalle grandi case editrici. Solo che è
scritto da professionisti, con parole
calibrate e in grado di essere riutilizzate da un redattore pigro senza
lasciar trasparire di non aver letto il
libro.
Recensire, però, è un’altra cosa.
Gli ingredienti essenziali sono tre.
Il primo, naturalmente, è leggere il
libro. Il secondo è essere in grado di
capirlo. Il terzo è disporre di una testata che creda nella recensione come genere letterario.
Sul primo punto, c’è poco da dire.
Nonostante la rituale citazione di
Oscar Wilde («Non leggo mai un libro prima di recensirlo. Trovo che
influenzi il giudizio»), bisogna aprire la busta o il pacchetto, prendere in mano il volume e poi leggerlo con attenzione. Questo richiede tempo e concentrazione,
due elementi raramente disponibili
sul luogo di lavoro anche quando
esso sia una redazione. Ne consegue che il recensore si porta il libro
a casa, dove lo legge nel proprio (e
perciò non retribuito) tempo. Anche per questo quello di tenersi i libri è uno dei diritti più antichi e rispettati del recensore. In ogni caso,
se la recensione non cita passaggi
tratti dai capitoli intermedi, se non
entra nel dettaglio, è lecito supporre che il libro sia stato sì e no sfogliato.
Ma oltre a essere letto, il libro deve essere capito. Sembra banale, ma
il secondo requisito è che il recensore abbia la competenza per comprenderlo. Un medievalista potrebbe considerare rivoluzionaria una
Gregory alegi
27 - Tratto dalla canzone: O’ Scarrafone (1991) di Pino Daniele
(1955-2015), cantautore e musicista italiano.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
La nobile arte della recensione
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
79
il mestiere di scrivere
biografia di D’Annunzio che i contemporaneisti definirebbero banale, così come uno storico potrebbe
trovare insufficiente la prospettiva
solo artistica. E come potrebbe uno
specialista di decadentismo francese, formatosi sullo Joris Karl
Huysmans di À rebours, recensire
un noir italiano contemporaneo
quale Come doveva finire di Alberto Gentili? Ci sono eccezioni, naturalmente: Robin Winks fu per anni
professore di storia contemporanea a Yale e grande appassionato di
gialli, che recensiva sul settimanale
politico The New Republic. Ma contrariamente a quanto diceva Achille Campanile, non è possibile costruire regole fondate sulle sole eccezioni. La regola aurea è che quanto più l’argomento è circoscritto,
tanto più specializzato deve essere
il recensore, al punto che per alcuni libri l’unico possibile recensore
sarebbe in realtà lo stesso autore.
Alcune riviste scientifiche internazionali aggirano l’ostacolo scegliendo i recensori tra quanti hanno già
pubblicato sull’argomento, ma in
altri casi si ricorre al più semplice
passaparola. Intendiamoci: in alcuni casi può essere utile anche un recensore mediocre, soprattutto perché l’incapacità di apprezzare le
novità si traduce, simmetricamente, nella possibilità di lasciarsi sfuggire errori anche marchiani. In certi casi, è un bel vantaggio.
Il terzo punto è quello di avere a
disposizione una testata che dedichi spazi adeguati alle recensioni.
80
Non è facile, soprattutto oggi che
invalgono modalità espressive influenzate da tweet, SMS, bullet point
e, in genere, lunghezze da internet.
Scendere sotto le due cartelle significa dover calibrare le espressioni
per motivi di spazio e non di contenuto, rinunciare a ogni citazione,
chiedere il permesso per ogni parola polisillabica. Si può fare, ma il rischio di cadere nel Bignami di liceale memoria è molto forte.
Quando le prime tre condizioni
sono assicurate, inizia il lavoro vero
e proprio. Il primo errore da evitare
è rimproverare all’autore di non aver scritto il libro che avremmo voluto leggere: come se un cattolico
rimproverasse a un materialista
storico di non credere in Dio. Il
bravo recensore entra nella logica
dell’autore per misurarne la coerenza ai suoi assunti, e solo a quelli. Ma
non è tutto. Il recensore onesto è
coerente con sé stesso, nel senso
che applica gli stessi criteri a tutte le
opere che presentano le stesse caratteristiche. A questo, in ultima analisi, si riduce l’obiettività sempre
invocata: non fare parti uguali tra
disuguali. Ciò non vuol dire che la
recensione debba essere asettica,
ma solo che non può diventare lo
strumento per regolare i conti con
l’autore, con la scuola alla quale appartiene o con la casa editrice. Ma il
conflitto di interessi esiste anche
nella direzione opposta, quella della captatio benevolentiae. C’è chi,
per evitare ogni rischio, si astiene
dallo scrivere di libri nei quali sia
il mestiere di scrivere
citato nei ringraziamenti: posizione
lodevole ma estrema, tanto più in
quei campi (o ambienti, il che è
funzionalmente la stessa cosa) ristretti.
Entro questi limiti, il recensore è
libero (meglio: obbligato) a dire ciò
che pensa, o che pensa di aver capito. Fino alla stroncatura, purché
sincera e basata su fatti obiettivi. In
tutti gli altri casi, la stroncatura snatura la recensione, trasformandosi
in arma impropria, esercizio di stile, avanspettacolo, prodotto seriale,
tentativo di sostituirsi all’autore.
Tutto, fuorché quel ragionamento
(ancorché declinato in forma di
consiglio per l’acquisto) che il lettore vorrebbe avere. Nei casi più estremi, una stroncatura può ritorcersi contro il recensore. Di fronte a
un «questo libro non è degno di essere recensito» messo nero su bianco e mandato in edicola, un autore
particolarmente focoso querelò il
recensore. Il quale, essendo avvocato, preferì transare e pubblicare le
proprie scuse. In un altro caso, la
frase «questo libro sta al suo nobile
soggetto come il fast food all’alta cucina» causò la fine dell’amicizia tra
il recensore e l’autore, i quali in precedenza erano stati tanto amici da
pensare di scrivere quel libro insieme (il che, peraltro, rimanda all’amore tradito o perlomeno al conflitto d’interessi).
Poiché è comunque un genere
letterario, la recensione deve rispettare alcune regole fondamentali.
Deve, per esempio, comprendere i
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
dati essenziali dell’opera, compresa
la sua reperibilità ove non sia universalmente diffusa. Includere
l’ISBN risolve molti problemi, ma
poiché ancor oggi molti libri ne sono privi può essere utile indicare
l’indirizzo o il contatto dell’editore
(o dell’autore, caso sempre più frequente in quest’epoca di autopubblicazione).
Come per ogni altro scritto, bisogna scrivere in modo chiaro, salvo
che la farraginosità non sia una
precisa strategia per mimetizzare
giudizi sgraditi o mostrare la propria presunta superiorità sull’autore. Meglio evitarlo.
Per quanto difficile sia recensire,
non è facile neppure essere recensiti. In primo luogo perché l’enorme
numero di pubblicazioni si traduce
in un pari affollamento delle scrivanie dei redattori e, peggio, degli
spazi riservati alle recensioni. Di
qui le pressioni degli uffici stampa
delle case editrici per farle uscire,
soprattutto dove più si notano: televisione, radio, grande stampa. I 15
secondi nella rubrica “Billy” di Bruno Luverà, i 30” in coda a “Superquark” di Piero Angela, il trafiletto
su La lettura valgono centinaia di
copie. E, facendo le dovute proporzioni, altrettanto vale per le testate
specializzate. Anni fa, recensii in
termini entusiastici sulla rivista più
diffusa del settore (30.000 copie) un
libretto di ricordi e fotografie personali di un ex pilota della Seconda
Guerra Mondiale. La piccola tiratura si esaurì rapidamente e l’autore,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
che lo aveva realizzato a proprie
spese, dovette ristamparlo più volte.
Il problema non è nuovo, tanto
che si dice che tra i motivi che quattro decenni fa portarono Mondadori a far nascere un proprio quotidiano (poi diventato la Repubblica)
vi fosse anche la necessità di promuovere i propri libri, che trovavano poco spazio sulle pagine del
Corriere della Sera, passato ai concorrenti di Rizzoli. Poiché non tutti
possono crearsi un quotidiano, si
scatena la ricerca del canale attraverso il quale far giungere la copia
sulla scrivania giusta, se possibile
accompagnata da idonea segnalazione.
Per l’autore, la vera difficoltà è
quella psicologica di dover accettare il giudizio altrui. Per quanto impietosi siano i numeri, la scarsa
vendita può essere minimizzata
dando la colpa alla cattiva distribuzione, alla strategia commerciale
errata, persino alla simultanea uscita di altri volumi concorrenti. In ogni caso, le quantità sono aggregati
anonimi. Se anche il libro ha trovato solo i canonici 25 lettori, il loro
giudizio resta individuale e non
scalfisce l’ego dello scrittore. Per la
recensione è vero il contrario. Se
anche il libro ha venduto 10.000 copie, la recensione negativa è un atto
pubblico, consegnato alla pagina, e
dunque destinata a tormentare l’autore e a sopravvivergli. Quella recensione, anche se unica, entra nelle rassegne stampa, salta fuori su
Google, viene spedita a casa dall’editore o citata in conversazione dalla moglie (o dalla mamma), riaprendo ogni volta la ferita. È una
macchia indelebile sulla camicia
nuova, fatta a mano, fresca di bucato, ancora profumata. È un’offesa da
lavare col sangue. Meglio ancora,
con l’inchiostro della prossima recensione.❧
Gregory Alegi
81
narrare la storia
Narrare la storia
a cura di Liliana De Venuto
I
l giorno 11 aprile 1862 Carlotta Perini scriveva a Francesco Antonio Marsilli, residente a Rovereto, per chiedere consigli su un endecasillabo della sua
cantica – Ezzelino da Romano – il
quale non si armonizzava, per numero di sillabe, con la metrica del
componimento. Attribuendo un’anima al fiume Adige che, nei giorni
della tirannia di Ezzelino, «mesto»
scorreva in Verona ai piedi del colle
di San Pietro, un tempo sede di antiche e gloriose memorie, gli fa pronunziare amare considerazioni:
Fra spalti resto e fra sinistri valli
Dalle mie glorie scompagnato e solo,
Ove perì, onda che fugge.1
L’ultimo verso, com’è evidente, era difettoso di due sillabe rispetto agli altri, nonostante che il verbo
tronco, perì, impedisse l’elisione2. Il
1 - Archivio dell’Accademia roveretana degli
Agiati, Rovereto (AARA), C. Perini, Lettera,
Trento 11 aprile [1862]; ms. 1057.15 [già Marsilli
IV 214-219], 214.
2 - Sulle questioni di metrica cfr. C. Di
corrispondente, letterato di approvata fama3, propose un’opportuna
correzione, suggerendo d’inserire
una parola bisillaba che, armonizzandosi con il concetto del verso,
salvasse il metro poetico del carme:
Girolamo, Teoria e prassi della versificazione,
Bologna, Il Mulino, 1976; A. Marchese,
Dizionario di retorica e stilistica, Oscar Studio,
Milano, Mondadori, 1981 3ed.; M. Ramous, La
metrica, Garzanti, 1984.
3 - Su Marsilli cfr. D. Rasi, Romanticismo italiano e romanticismo trentino: ipotesi e materiali di
ricerca, in Rovereto, il Tirolo, l’Italia: dall’invasione napoleonica alla Belle Epoque. Atti del seminario di studio, 1a sessione, Rovereto, 28-29 ottobre 1999; 2a sessione, Rovereto, 2-3 dicembre
1999, a cura di M. Allegri, Memorie della
Accademia roveretana degli Agiati, CCLI
(2001), ser. II, vol. IV, t. II, pp. 353-389, part. pp.
377-380. M.G. Pensa, Classicisti, romantici, dialettali. Poeti trentini del primo Ottocento, ibidem,
pp. 391-415, part. 399-400; 408-411. M.
Bonazza, Sensibilità e buon senso. Francesco
Antonio Marsilli (1804-1863), in I buoni ingegni
della patria: l’Accademia, la cultura e la città nelle biografie di alcuni agiati tra Settecento e
Novecento. Atti del ciclo di conferenze Una galleria di ritratti: l’Accademia roveretana degli Agiati
nell’opera di alcuni soci; 1a sessione, Rovereto, 16
marzo-11 maggio 2000; 2a sessione, Rovereto, 15
marzo-10 maggio 2001, a cura di M. Bonazza,
Memorie della Accademia roveretana degli
Agiati, VI, ser. II, vol. VI, pp. 165-202. F.
Brancaleoni, Marsilli, Francesco Antonio, in
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 71
(2008), Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, pp. 1-2.
“Ove tutto perì, onda che fugge”; e
con questo aggiustamento l’autrice
diede alle stampe la cantica4.
Contemporaneamente all’Ezzelino la Perini lavorava ad un altro
componimento, I Cimbri e il Verruca5, per il quale si rivolse più volte al
poeta roveretano, amico e collaboratore di suo padre Agostino, nonché suo “maestro”, e si sarebbe a lui
rivolta – scriveva nella lettera con
cui gli omaggiò una copia del libro
appena stampato – ogni qual volta
la sua «inesperienza» le provocasse
qualche «inciampo», affinché –
specificò – «non falli la Musa a cui
Ella non invano avrà presagito un
avvenire»6.
Carlotta era pressoché un’adolescente al tempo di questo letterario
scambio di vedute, essendo nata nel
1847, mentre il corrispondente era
di età più matura; la loro relazione
4 - C. Perini, Ezzelino da Romano, Trento,
Monauni, 1864, p. 23.
5 - Stampato a Trento, Monauni, 1862.
6 - AARA, ms. 1057.15 [già Marsilli IV 214219], 218. L’opera della Perini uscì nel 1862 a
Trento per i tipi di Monauni.
Liliana De Venuto
Carlotta Perini. La figura storica
82
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
epistolare non avrebbe tuttavia avuto un lungo seguito, giacché il Marsilli scomparve l’anno successivo a
59 anni. Venne troncata in tal modo una relazione intellettuale e affettiva, che avrebbe potuto prendere le forme elette, di cui proprio in
quegli anni Andrea Maffei e Francesca Lutti davano un esempio alto
e compiuto7.
La giovane poetessa che – stante
il passo di una lettera paterna – si era già cimentata in traduzioni di opere letterarie8, nella sua breve vita
– sarebbe morta nel 1881 a soli
trentaquattro anni – scrisse opere
poetiche a carattere storico con
particolare attenzione alle vicende
di Trento, sua patria. Delle quattro
cantiche composte, due – I Bellenzani e L’ultimo Madruzzo – hanno
come protagonisti personaggi trentini; una terza, Ezzelino da Romano,
7 - Cfr. S. Fava, Francesca de Lutti Alberti (18271878): una poetessa trentina dell’Ottocento, Il
Sommolago, Arco, 1913, pp. 41-51.
8 - Qualche cenno a quest’attività si trova nella
lettera di Agostino Perini al Marsilli del 18 dicembre 1856; nel testo il padre faceva riferimento a una sua figlia, certamente Carlotta, impegnata nella traduzione di un non precisato «romanzo danese». Probabilmente la giovane attingeva, più che al testo in lingua originale, a una
sua trasposizione in tedesco, idioma più familiare ai Trentini. L’esempio di Francesca de Lutti,
che portò in italiano Le figlie del Presidente di
Fredrika Bremer servendosi di un testo in lingua
tedesca, suggerisce un’ipotesi simile anche per
l’impegno di Carlotta; S. Fava, Francesca de Lutti
Alberti (1827-1878): una poetessa trentina
dell’Ottocento, p. 78. Comunque sia con questa
impresa la giovane Perini partecipava a quel fervore per le traduzioni letterarie che animava le
persone colte del Trentino nel corso dei primi
decenni dell’Ottocento; cfr. in proposito i lavori
su citati di D. Rasi e M.G. Pensa, citati in nota 3
e, dallo stesso volume, P.M. Filippi, Andrea
Maffei traduttore di Franz Grillparzer, pp.
417-439.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
pur avendo come attore un signore
di altra regione, è anch’essa collegata con la città vescovile, giacché
questa – e l’autrice lo mette bene in
rilievo – fu la prima città a ribellarsi al suo giogo tirannico; l’ultima, I
Cimbri e il Verruca, è ambientata
sul colle che sovrasta la città, il Doss
Trento, la cui aspra configurazione
prestava uno scenario suggestivo
alla tragica vicenda della sacerdotessa Vellèda9.
9 - Questo componimento ha ispirato un melologo dallo stesso titolo, I Cimbri e il Verruca, presentato il 25 marzo 2009 nello Spazio archeologico del Sass. Autore del progetto e della ricerca
storico-letteraria è stato Renzo Francescotti; la
musica di accompagnamento del testo, suonata
su oboe e arpa, è composizione di Andrea
Mattevi.
Carlotta Perini è dunque scrittrice e poetessa, una delle prime comparse nell’ambito della storia letteraria trentina. È vero che in passato
voci di autrici si levarono dai monasteri e dalle corti signorili del
Principato – le mistiche Giovanna
della Croce e Maria Arcangela
Biondini, la poetessa Angela Nogarola contessa d’Arco e altre, cui Antonio Mazzetti ha dedicato una raccolta di appunti e notizie10 –, lei tuttavia può aspirare al primato quale
appartenente al “ceto medio”, che
proprio nel secolo XIX si andava
costituendo nella città non più ve10 - BCT1: A. Mazzetti, Materiali per la compilazione di biografie di donne illustri, ms. 1390.
83
narrare la storia
scovile, ma direttamente annessa
all’impero austro-ungarico11.
Suo nonno Francesco infatti era
«speditore di merci», attività che gli
permise di raggiungere una certa agiatezza economica; seguì con viva
partecipazione le vicende della rivoluzione francese e dell’ascesa di
Napoleone, assimilandone i principi fondamentali di libertà, fratellanza e uguaglianza12. Il padre Ago11 - L’Ottocento trentino annovera un’altra poetessa, Francesca de Lutti Alberti, cui prima si accennava. La donna visse e operò in zona periferica della regione, a Riva del Garda, in un contesto familiare di ascendenza nobiliare, anche se
da alcune generazioni i de Lutti avevano intrapreso attività economica nel campo della produzione della seta. Sulla figura della poetessa cfr. S.
Fava, Francesca de Lutti Alberti (1827-1878):
una poetessa trentina dell’Ottocento.
12 - Notizie desunte da P. Alessandrini,
Biografia dei fratelli Agostino e Carlo dr. Perini;
Rovereto (TN), Tipografia roveretana ditta V.
Sottochiesa, 1901, pp. 7-8. Della poetessa Perini
si hanno scarse notizie nelle rassegne letterarie
locali; F. Ambrosi ne dà qualche cenno in
Scrittori e artisti trentini, Trento, Zippel, 1894,
pp. 180-181. Un profilo più esteso della donna si
trova in Donne in poesia nel Trentino, a cura di
84
stino incarnò di quel ceto i tratti salienti: curiosità intellettuale, spinta
all’imprenditorialità, amore per la
cultura. Nella sua mente gli interessi per gli studi storici s’intrecciavano con quelli per le indagini sulla
natura in armoniosa convivenza13;
la sensibilità artistica con l’inclinazione a tradurre in pratiche econoR. Francescotti, Trento, U.C.T., 1990, pp. 17.20.
13 - A motivo di questi interessi molteplici i fratelli Perini vengono catalogati sia nelle sezioni
storico-artistiche sia in quelle scientifiche dei repertori bibliografici: F. Ambrosi li include nella
sua rassegna dedicata agli Scrittori e artisti trentini; F. Largaiolli li inserisce invece nella sezione Botanica, Zoologia, Antropologia della
Bibliografia del Trentino, Trento, Zippel, 1897; L.
Bonomi li nomina fra gli studiosi di scienze naturali; Id., Naturalisti, medici e tecnici trentini:
contributo alla storia della scienza in Italia,
Trento, Scotoni, 1930. Anche in tempi vicino a
noi essi sono citati fra i naturalisti; cfr. C.
Conci-R. Poggi, Iconography of Italian
Entomologists, with essential biographical data,
in «Memorie della Società entomologica italiana», 75 (1996), pp. 159-382, part. pp. 308-309; P.
Lorenzi-S. Bruno, Uomini, storie, serpenti: contributi alla storiografia erpetologica del TrentinoAlto Adige e dintorni, «Annali del Museo Civico
di Rovereto», 17 (2001), pp. 173-274.
narrare la storia
micamente redditizie le proprie abilità; l’amore per la sua patria con
la pulsione al viaggio e all’avventura
che lo spinse, in età non più giovanile, a solcare le onde marine verso
i paesi orientali del Mediterraneo,
porta delle più lontane contrade
dell’Oriente estremo. Il motivo reale che lo indusse all’impresa fu l’acquisto di semi dei bachi da seta esenti da malattie, condizione indispensabile per sostenere una redditizia industria serica14. Era questo
un intreccio felice, che si qualificava non quale retaggio del sapere enciclopedico del Settecento, ma come espressione della cultura della
classe media nel momento storico
della sua ascesa e della sua affermazione. Dei caratteri propri dell’“uomo borghese” Agostino incarnava anche la spinta verso l’iniziativa pedagogica e al giornalismo inteso quale mezzo di formazione del
“popolo”.
Non più rivolti a formare le élites,
ma destinati a elevare gli individui
del ceto medio, insegnamento e
giornalismo si apprestavano a divenire attività volte alle “masse”, così
come a queste s’indirizzavano le
singole produzioni culturali, anche
14 - Sulle capacità imprenditoriali di Agostino
Perini Claudio Leonardi ha espresso un giudizio con riserva, rilevando in lui – come in altri
imprenditori coevi – «la totale mancanza di
qualsiasi consapevolezza circa le prospettive di
sviluppo dell’area trentina e roveretana», anche
se gli riconosce di essere un attento osservatore
della realtà economica del tempo. Cfr. Id.,
Un’occasione perduta: la mancata industrializzazione del Trentino nel secolo XIX, in Rovereto, il
Tirolo, l’Italia. Dall’invasione napoleonica alla
Belle Epoque, t. I, pp. 201-238, part. p. 211.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
quelle più “dotte”. Creati al di fuori
delle Accademie e dei ristretti collegi di studi, i libri erano indirizzati al
vasto “pubblico”: quelli “scientifici”
per istruirlo, quelli artistico-letterari per trasmettergli i valori “civili”. Il
Perini scrisse dunque, nell’ambito
dei primi, Cenni statistici del Trentino (1843), Statistica del Trentino
(1852) e Dizionario geografico statistico del Trentino (1856?), rivelando
una precoce sensibilità per quel bisogno d’informazione rapida e sicura, cui nel secolo scorso diedero
ampia soddisfazione editrici affermate, stampando enciclopedie tascabili, annualmente rinnovate.
La Statistica del Trentino, opera di
cui si rileva l’“accurata” composizione15, incontrò largo consenso e
andò ben presto esaurita, tanto che
l’autore si accingeva a farne una seconda edizione, ma fu colto dalla
malattia che lo condusse a morte.
Per il giornalismo Agostino ebbe
un’autentica vocazione, che si concretò in iniziative diverse nel corso
della sua intera vita, dall’autonoma
creazione di giornali e periodici –
La Gazzetta di Trento, L’Ape – alla
collaborazione in qualità di corrispondente ad altrui pubblicazioni.
Diede quindi un importante personale contributo a quella fervida stagione di giornalismo che caratterizzò la società trentina nella prima
metà dell’Ottocento16, a costo an15 - P. Cafaro, Infrastrutture di comunicazione
ed apertura a nuovi contesti, in Rovereto, il
Tirolo, l’Italia: dall’invasione napoleonica alla
Belle Epoque, t. I, pp. 247-59, part. p. 248.
16 - «Trentennio di autentica euforia giornali-
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
stica» vengono definiti i decenni 1830-1860 da
Mario Allegri; cfr. Id., La Rivista viennese (18381840): un episodio della cultura tedesca in Italia
nel primo Ottocento, «Bollettino della Società
Letteraria di Verona», n. 5-6 (1982), pp. 243287, part. p. 244. Sul giornalismo trentino cfr.
inoltre F. Ambrosi, I tipografi trentini e le loro
edizioni, Trento, «Archivio trentino», a. IX
(1890), pp. 135-168; E. Zucchelli, Le riviste
trentine dell’anteguerra, «Studi trentini di scienze
storiche», I (1920), pp. 5-29; A. Zieger,
Giornalismo trentino fino al 1866, Trento, Seiser,
1960; G.B. Emert, L’ambiente culturale trentino
dal secolo XIX al secolo XX, in U. Corsini-G.B.
Emert-H. Kramer, Trentino e Alto Adige
dall’Austria all’Italia, Bolzano SETA, 1969, pp.
11-51; M. Garbari, Aspetti dell’editoria trentina
nell’800: una produzione in lingua italiana alla
periferia dell’impero austriaco, «Studi trentini di
scienze storiche». Sezione prima, a. LXXVI
che di notevoli rischi imprenditoriali, che gli costarono il fallimento
e la chiusura della propria impresa
tipografica.
Quanto alle opere storico-letterarie, egli percorse le vie della narrativa, aderendo al genere del romanzo
storico, costituitosi in Italia già nei
primi decenni dell’Ottocento17, e
(1997), pp. 67-88. G. Faustini, Il giornalismo e
la diffusione dell’informazione, in Storia del
Trentino, vol. V, L’età contemporanea 1803-1918,
a cura di M. Garbari e A. Leonardi, Bologna, Il
Mulino, 2003, pp. 413-437.
17 - M. Cataudella, Il romanzo storico italiano, Napoli, Liguori, 1968, pp. 17 segg.
85
narrare la storia
ancora a metà secolo suscettibile di
imprevedibili sviluppi.
Carlotta visse dunque in questo
clima culturale particolarmente aperto e stimolante18, e ne assimilò
l’esuberanza e la duttilità, aprendosi
fin dagli anni giovanili alla produzione letteraria, nella quale si addentrò con decise movenze da protagonista. Da questo punto di vista
lei segnò una tappa importante nel
lungo percorso dell’emancipazione
femminile, segnando un avanzamento, anche se accettò le limitazioni imposte alla formazione della
donna dalla cultura dominante del
tempo. Non mise infatti in discussione la convinzione del padre secondo la quale era giusto che una
donna raggiungesse una buona istruzione, purché non mettesse
«mano fuori di pasta», vale a dire
nel campo della filosofia e delle lingue antiche19. Tale limitata concezione non è prerogativa di questa
zona, essendo condivisa da numerosi letterati “progressisti” fin da
quando il problema venne discusso
nell’ambito delle Accademie arcadiche20. Nell’Ottocento essa conti18 - Per il clima culturale del Trentino nei decenni che seguirono all’annessione della regione
all’Austria cfr. U. Corsini, Il Trentino nel secolo
decimonono, volume primo (1796-1848),
Rovereto, Manfrini, 1963. Nel cap. VI l’autore
traccia un quadro della cultura locale dei decenni 30-40, considerata principalmente nell’ottica
della formazione della coscienza di nazionalità;
alle pp. 307-308 un breve profilo di Agostino
Perini.
19 - A. Perini, Le donne letterate, «Rivista viennese», t. IV (1838), fasc. XI, pp. 148-150.
20 - Importante da questo punto di vista è la miscellanea curata da Antonio Vallisneri che riporta una serie di discussioni tenute appunto
nell’Accademia padovana; Id., Discorsi accade-
86
nuò a essere proposta da educatori
e scrittori fra i quali Niccolò Tommaseo che pure aveva grande considerazione per la donna21.
Carlotta fu educata in questo spirito e non apprese perciò le lingue
classiche: «Il carattere di quel romano – scriveva a Marsilli alludendo
al protagonista de I Cimbri e il Verruca, il comandante Opimio – è poi
il riassunto de miei studi latini; non
so se mi sia riuscito il dargli quella
fermezza romana, pur mi tanto piace Plutarco e Sallustio che mi rincresce tanto di doverli leggere tradotti, ma le donne non devono saperne di lingue dotte»22.
Diversamente si comportò un’altra donna – Teresa Elena Belli
(1703-1783) – nativa di Trento, che,
pur vissuta nel secolo precedente,
non si attenne a questa pedagogia
restrittiva; imparò le lingue straniere e il latino, tanto da tradurre in italiano scritti sia in lingua francese
sia nell’idioma di Roma23. Provemici di varj autori viventi intorno agli studi delle
donne la maggior parte recitati nell’Accademia de’
Ricovrati di Padova, in Padova…, nella stamperia del seminario presso Giovanni Manfrè, 1729.
21 - Sulla concezione del Tommaseo cfr. G.
Petrocchi, L’immagine della donna in
Tommaseo, in L’educazione delle donne: scuole e
modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di S. Soldani, Milano, Angeli, 1989, pp.
393-404; P.M. Filippi, Tommaseo e l’educazione
della donna: “Due baci”, in Atti della Accademia
Roveretana degli Agiati, a.a. CCLIV (2004), ser.
VIII, vol. IV, A, fasc. II, pp. 95-104. E inoltre, per
un discorso più generale, Ead., L’educazione della donna in età romantica, Firenze, Aletheia,
2003.
22 - AARA: C. Perini, Lettera del 22 luglio
1862, ms. 1057.15 [già Marsilli IV 214-219], 216.
23 - Per questo personaggio rimando al mio lavoro, Istar in silenzio e preghiera. Profilo di una
giansenista trentina del sec. XVIII: Teresa Elena
Belli, «Brixia Sacra. Memorie storiche della dio-
narrare la storia
niente anch’essa dal ceto medio cittadino, questa virgo docta, ci riporta in un’altra temperie culturale: le
aspre polemiche fra cattolici e giansenisti negli anni che precedettero
la soppressione della Compagnia di
Gesù; partecipando agli avvenimenti del suo tempo lei ha lasciato,
con la propria esperienza di vita, un
esempio di donna rigorosa e autonoma, dedita a una battaglia religiosa e nel contempo impegnata in
concrete prestazioni di lavoro negli
uffici del comune cittadino.
Carlotta Perini tuttavia, pur rispettando il limite imposto ai suoi
studi, si avventurò con notevole
forza intellettuale in ricerche storiche, destreggiandosi fra le opere del
Pincio, del Bonelli, del Muratori,
del Sismondi; e, seguendo l’esempio
paterno, imparò a «rinserrarsi in
polverosi archivi»24, misurandosi
nella lettura dei documenti e nella
loro interpretazione; ne fanno fede
le puntigliose note storiografiche
apposte alle sue produzioni poetiche. Così richiedeva la sua vocazione letteraria orientata appunto verso composizioni a carattere storico
dietro le orme del padre e dello zio
Carlo, anch’essi raccoglitori di documenti d’archivio e autori di novelle e romanzi storici.
Nelle loro vicende pubbliche e
private questi personaggi, nient’affatto comuni, disegnano dunque ucesi di Brescia», Terza serie, a. XVII (2012), n.
1-2, pp. 341-426.
24 - C. Perini, In morte di mio padre, Rovereto,
Sottochiesa, 1879, 7a strofa. Il canto è datato
Bologna, gennaio 1879.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
na storia tipicamente ottocentesca e
trentina; trentina per la coscienza
dilacerata che essi espressero, divisi
com’erano – similmente ad altri
concittadini – fra sentimento di appartenenza a una cultura di matrice
italiana e obbedienza politica a uno
stato straniero25. Di queste lacerazioni – presenti nel tessuto storico
di questa regione, posta fra Austria
e Italia – i Perini furono dunque
vittime e se ne fecero interpreti, illustrandole nelle loro opere. Eloquenti, a questo proposito, sono i
versi con i quali Carlotta designa la
sua patria:
Il bel nido conosci ove confine
Ha dell’Italia la gentil favella?
Ove d’un lembo il suo zaffir sereno
Distende il ciel, e qual vïola ascosa
Tra le falde dei monti una cittade
Siede obliata, e dall’alpestre vena
L’Adige sceso giù nei verdi paschi
Lambe le vetuste mura?
È la mia Trento, la remota culla
Di gente nata alla virtù del pianto.26
Quasi presagio delle future vicende della famiglia, affiora in questi
25 - Riflesso eloquente di questa condizione è il
travaglio avvertito dagli autori locali nel momento in cui dovevano scegliere i toponimi per
designare la terra che dal Brennero si estende alle Chiuse veronesi: il loro primo impulso era
quello di scansare «il brutto nome di Tirolo»,
«l’ingiusta parola – Tirolo», ma s’imbattevano
nella censura viennese; cfr. F. Rasera,
Collezionismo scientifico, virtù civiche, lotta nazionale: una lettura politica dell’epistolario di
Fortunato Zeri, in Rovereto, il Tirolo, l’Italia.
Dall’invasione napoleonica alla Belle Epoque, t.
II, pp. 597-612, part. 599-600.
26 - C. Perini, Ezzelino da Romano, Venezia,
Tipografia Naratovich, 1984, p. 30.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
simo carme non come l’esperienza
che tocca in genere ai mortali, ma
come la scorata dipartita dell’esule:
Chi detto avria,
che a lui sotto un’arcata
Del patrio cimiter non fosse data
Sepoltura, od almen sotto la bruna
Zolla, che nome e cenere accomuna?30
versi, scritti già con lo sguardo nostalgico della lontananza, il tema
dell’esilio; la poetessa lo avvertì con
particolare sensibilità, rinverdendo
un topos ricorrente nella letteratura, particolarmente caro ai poeti romantici: «Orme raminghe ed incresciosi giorni / trassi esulando…»,
canta mesta Cunizza a Sordello, rifiutando il suo invito a fuggire con
lui27; pietà profonda ispira all’autrice il vescovo di Trento Egnone di
Appiano – «Egnone infelice» – per
il suo esilio a Padova, dove morì nel
127328. E nel suo ultimo componimento, In morte di mio padre, canta
in commosse ottave la partenza di
lui dalla terra natia sotto «la dura
sferza […] della sventura» e ne coglie il mutare dell’aspetto mentre si
fa
«d’ogni
umano
dolor
29
conoscitore» . La stessa morte del
genitore è rappresentata nel mede-
Ma – si diceva – le vicende dei
Perini tracciano una storia che è tipica della realtà ottocentesca per le
modalità delle occorrenze familiari
e dei rapporti interpersonali, che
legavano i vari membri della famiglia. Le figlie di Agostino, paragonate alle coetanee, segnano nuovi
modelli di vita sia sul piano affettivo sia su quello sociologico: pur dedite agli studi, non esitano a lasciare libri e pianoforte quando con la
famiglia si trasferiscono a Gardolo,
dove s’impiegano nell’azienda agricolo-industriale, avviata dal padre,
pronte a coltivare i campi, a sostenere la produzione di acquavite, seta, sapone e colla garavella31. E, una
volta in esilio a Padova, aprono un
negozio di modiste – attività tipica
delle donne dell’Ottocento che intraprendevano fuori di casa un lavoro pubblico e lucrativo – per sostenere sé e il genitore, consentendogli di passare tranquillamente gli
anni della vecchiaia, dedito alla
composizione dei Racconti e novelle.
27 - Ibidem, p. 26.
28 - Ead., I Bellenzani, Trento, Giuseppe
Marietti, 1862, p. 22.
29 - Ead., In morte di mio padre, 9a strofa.
30 - Ead., In morte di mio padre, 4a strofa.
31 - AARA, Lettera di Agostino a Marsilli,
Trento 18 dicembre 1856, ms. 1057.14 [già
Marsilli IV 93-213], 211.
87
narrare la storia
Da queste vicende traspaiono atmosfere e situazioni che la coeva
narrativa europea ci ha reso familiari; modiste e merciaie popolano
storie e libretti d’opera: da Teresa
Raquin di Émile Zola a Siberia di
Umberto Giordano. Come in certi
romanzi di Jane Austen – Orgoglio e
pregiudizio ad esempio – sulla condivisa passione per i libri e la lettura si stabilivano legami affettivi particolari. Similmente a mister Bennet nei confronti della figlia Lizzy,
anche Agostino per Carlotta nutriva un affetto esclusivo, sostanziato
da comuni letture e scambi di conoscenze: dalle ricerche naturalistiche del padre e dello zio Carlo la
giovane poetessa derivò l’interesse
e il rispetto per la scienza «L’astro
che splende al secol mio» (I Cimbri
e il Verruca, p. 21) e ampiamente vi
attinse notizie che inserì senza forzature nelle sue composizioni, ora
come solenni incipit di respiro cosmogonico – «Alla culla del tempo
… / Fra squarciati crateri e fuse lar88
ve / Convulso ribolliva il mar primevo» (I Cimbri e il Verruca, p. 21)
– ora come elementi preziosamente
caratterizzanti il paesaggio32.
Il padre a sua volta faceva tesoro
delle scoperte archivistiche della figlia e ne traeva materia per le proprie creazioni; in una narrazione,
dal titolo Emma del Monte, adottò
come protagonista l’eroina di un
dramma di Carlotta, I Bellenzani, e
32 - Carlotta attinge elementi dallo scritto del
padre Agostino – Sulla storia delle foreste d’Italia
e di Germania, estratto da «Annali universali di
agricoltura», giugno 1829, pp. 29-32 – (oltre che
dai passi del De Bello gallico di Giulio Cesare, VI,
25) per descrivere, nella cantica I Cimbri e il
Verruca, la selva Ercinia che nella trasfigurazione poetica la presenta come luogo dell’orrido e
dell’inaccessibile. Così come alle ricerche botaniche paterne e dello zio – confluite nell’opera in
due volumi, Flora dell’Italia settentrionale rappresentate colla fisiotipia, Trento, Tipografia
Perini 1854-1858 – deve la puntuale citazione di
vegetali che crescono sul Verruca: pervinca, terebinto ed efedra, pianta quest’ultima considerata un relitto del periodo terziario perciò rarissima nella regione (cfr. B. Bonapace, Osservazioni
botaniche sul “Doss Trento”, «Natura alpina.
Bollettino della Società di Scienze naturali del
Trentino-Alto Adige», a. V (1954), n. 1, pp. 1125. Per queste e altre caratteristiche botaniche il
dosso è stato recentemente dichiarato biotopo e
sottoposto a protezione.
narrare la storia
non mancò di menzionarne la fonte33. Per questa vicinanza affettiva
chiamava la figlia la «sua dolce Antigone» evidentemente identificandosi nell’esule re di Tebe, Edipo. Fu
Carlotta infatti che, come Antigone
a Colono, assisté il padre negli ultimi suoi momenti: ne accolse la preghiera di comporre in sua memoria
una dolce canzone e infine «l’ultimo dell’addio sguardo morente»34.
Per la sua ispirazione poetica
Carlotta guardò invece alla letteratura italiana: «Io studierò indefessamente i buoni modelli e principalmente la tragedia italiana l’Alfieri e il Niccolini», poi Aleardi ma
con moderazione, scriveva a Marsilli il 22 luglio 186235; ma più di
tutti lesse Dante. Seguendo le leggi
della composizione poetica che nasce nella letteratura e di essa si nutre, lei attinse da questi autori prestiti linguistici che trasferiva nelle
sue opere; qui pertanto si colgono
qua e là, come echi poetici, ora un
emistichio dantesco, Biondo era e
bello, riferito al principe Carlo Emanuele Madruzzo, ora espressioni
tolte dai carmi manzoniani: il candido pensier nella narrazione della
morte di Filiberta, gli atri muscosi
nelle strofe finali de I Bellenzani ed
altri. Altre cadenze provengono dai
melodrammi musicali, come quella
furtiva lagrima, che spunta sull’oc33 - La composizione fa parte dell’ultima raccolta di Agostini Perini, Racconti e novelle,
pubblicata a Rovereto nel 1875.
34 - Da In morte di mio padre.
35 - AARA, ms. 1057.15 [già Marsilli IV 214219], 216.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
chio di Cunizza alla vista del fratello Ezzelino. Nell’accostarsi a questi
maestri la Perini era mossa da
un’intima tensione verso un ideale
di perfezione, di cui vedeva esempi
nelle coeve produzioni letterarie
dell’Aleardi e del Prati; in queste il
dono spontaneo della parola si mostrava perfettamente plasmato nelle
forme retoriche della poesia scientemente applicate36: «quel modello
/ Che seguo sempre e non aggiungo
mai», affermava pertanto in un verso del componimento poetico – un
capitolo ternario in terza rima37 –
scritto in morte del Marsilli e così
rivelava l’intima inquietudine che
l’affaticava38.
In questa poesia l’autrice, soffermandosi sul legame di discepola
che a lui – quale magister ludi – la
univa, esprime l’intimo suo travaglio poetico – il «forte palpito inquieto» causato dalla «pugna» fra
l’«immaginazione» e le «parole» – e
il suo affanno per raggiungere la loro armoniosa composizione nel
prodotto artistico: per interamente
«innovarsi», afferma. Con la morte
dell’amico ella ha perduto il mae36 - Sui pregi, o vezzi poetici, della poesia di
Aleardi e di Prati cfr. il saggio di Spinazzola che
dedica maggiore attenzione ai contenuti ideologici ed etici delle produzioni letterarie che ai loro valori formali; V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, VII,
L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, pp. 9611067, part. pp. 1043-1062.
37 - Per questa forma poetica, qui rigorosamente rispettata nella successione di terzine endecasillabe a rima incatenata chiuse da un verso solo,
cfr. M. Ramous, La metrica, pp. 117-118.
38 - Il componimento fu pubblicato in «Il
Messaggiere di Rovereto», a. XLVIII, 18 agosto
1863, n. 185.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
spirazione poetica: la cantica in endecasillabi sciolti; nella veste di versi e strofe, lei ha infatti composto
novelle e romanzi storici nell’ottica
civile e pedagogica propria degli
anni venti dell’Ottocento.
… d’anni remoti ombre ridesto
Di spenti eroi, sì che la patria ascolti
Il carme eccitator d’opre gagliarde.39
All’età romantico-risorgimentale infatti la Perini attinse temi e idee che le contingenze storiche della patria trentina rendevano ancora
attuali; riprese perciò l’ideologia di
J.-C.-L. Sismonde de Sismondi, e
sulle sue orme esaltò le virtù delle
età repubblicane in riferimento sia
all’antica Roma, sia all’Italia medievale e comunale, e rappresentò i dispotismi quali cause di «perdita di
tutte le virtù»41. A questa idea di
medioevo, vero serbatoio di miti
per i romantici, la Perini attinse ideologie e prospettive, tematiche e
situazioni, nonché i caratteri umani, mentre dalla letteratura italiana,
antica e coeva, ricavò strutture narratologiche e modalità poetiche.
Compose in tal modo opere che
si possono inserire sotto l’indice di
40
stro, cui soleva «narrare» quel dissidio, ricevendone consolazione e aiuti; privata pertanto della sua presenza, ne ricrea nella mente la figura, sublimandola nell’immagine del
«pellegrin dell’infinito» che, giunto
nelle regioni celesti, «s’insapora
all’eternal convito» e penetra «il mistero del bello». Perciò, riallacciando con lui l’antico colloquio, lo prega di illuminare la sua mente –
«movi l’ombra che vela il guardo
mio» – e di levarla a sé in modo
che, a lui congiunta, possa infine
raggiungere quel modello supremo,
invano perseguito in terra.
Carlotta chiedeva dunque al Marsilli i mezzi per raggiungere la padronanza nell’arte del poetare e dello scrivere; e su questa ci si vuole
qui soffermare per cogliere – senza
alcuna pretesa di pervenire a definitivi risultati valutativi – motivi e
caratteri del suo «raccontare la storia». Perché a questo lei mirava,
scegliendo la forma letteraria che
meglio si confaceva alla propria i-
39 - I Cimbri e il Verruca, p. 21.
40 - Per questi temi cfr. V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale: K. Morawski, Il
romanzo storico italiano nell’epoca del
Risorgimento,
Wrocław-Warszawa-Kraków,
Accademia polacca delle Scienze. Biblioteca e
centro di studi a Roma, Conferenze, fasc. 44,
1970.
41 - Dalla introduzione di Storia delle repubbliche italiane di Jean-Charles-Léonard
Simonde de Sismondi, con presentazione di
Pierangelo Schiera, Torino, Bollati Boringhieri,
1996.
89
narrare la storia
poesia narrativa, e cioè cantiche simili a novelle in versi, che
nell’Edmengarda di Giovanni Prati
e nella Francesca da Rimini di Aleardo Aleardi trovavano il loro modello di riferimento. L’endecasillabo
sciolto offriva il metro più idoneo
per lo sviluppo della novella, sviluppandosi a volte in strutture ardue come quelle dei versi alfieriani;
stemperandosi altre volte in cadenze melodiose da romanza di melodramma musicale, come nella canzone d’amore di Sordello, il poeta
della lirica cortese:
Doveri
La vittima non ha. Fuggiam lontani,
Ove non giunga della patria il grido,
d’Ezzellino i sanguinosi eccessi.
E ove l’onda è più chiara e più romita
Arresteremo. A rallegrarti l’alma
Ti canterò le cortesie e gli affanni
D’infiammate donzelle e l’alte imprese
Dei cavalieri, i torneamenti, i fiori,
D’incantati giardini, ove ormeggiando
Lieve la fata col sorriso adesca.
Noi cercheremo negli estranei lidi
Tepidi soli che rammentin l’aure
Molli d’Italia e le gioconde rive.
Sotto altro ciel così la patria in core
Noi porteremo: io ti sarò conforto
Peregrinando in tacite pianure;
Lo stanco piede poseremo all’ombra
Delle brune pinette, ed alle mura
D’ospitali castelli, ove le sale
Rallegrerò colla canzon d’amore.42
La scrittura dei canti, modulata
per lo più su un tono “medio”, pro42 - C. Perini, Ezzelino da Romano, pp. 26-27.
90
narrare la storia
Da quell’altezza eterea come
Stella dal ciel cadente,
e sol segnal di morte
A un terebinto penzolar dall’alto
Fu veduta una ciocca fluttuante
Svelta al volume delle chiome bionde.44
cede attraverso lunghe parti espositive alternate a dialoghi prolungati;
ma, in alcuni momenti, assume accenti drammatici non privi di teatrale efficacia. Si veda ad esempio il
passo della morte di Vellèda (I Cimbri e il Verruca), in cui la concitazione della narrazione, accentuata
dai frequenti enjambement dei versi, s’intesse col lirismo di alcune
commosse immagini43:
Rimosso alfine quel pietoso velo,
Tornò la mente alle giornate grame
E faticose del dolor. L’impulso
Dell’amaro pensier più non sostenne,
E giù dall’orlo dell’eccelsa rupe
Scagliossi ardita, e la persona bella
Sui ciglioni battendo alfin si giacque
Al fondo dilaniata. Ella disparve
43 - Andamento narrativo, drammaticità ed effetti teatrali erano tratti della poesia romantica
dovuti all’“intenzione” poetica degli autori di
destinare le proprie opere all’ascolto pubblico,
piuttosto che alla intima e privata lettura; cfr. V.
Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, pp. 966-967.
La cantica in cui la penna della
Perini esprime al massimo la forza
drammatica è però I Bellenzani:
racconto movimentato e “notturno”, in cui si alternano fatti d’armi e
scontri di passioni; ambienti claustrali e buie sale di medievali castelli. È evidente che l’autrice mutua
dalla letteratura nordica, nota peraltro ai letterati del luogo che la
leggevano e la traducevano, i toni
gotici, lugubri e orridi di certi
squarci paesaggistici. Già sperimentati in I Cimbri e il Verruca con
la descrizione della selva Ercinia,
essi si fanno predominanti nella
novella dei Bellenzani, che si snoda
appunto nella suggestione di scene
notturne: quella in cui furono sventate le nozze imposte a Emma Delmonte; quella del colloquio amoroso fra la stessa e Pietro Bellenzani.
Di notte l’eroina, in compagnia di
Rodolfo Bellenzani, si reca a cavallo
a San Michele all’Adige, per ottenere dai potenti signori che avevano
catturato Pietro, l’uomo che amava,
la sua libertà. Similmente in ore
prossime alla notte la stessa si avvia
verso il castello di Sporminore, dove è tenuto prigioniero il vescovo
Giorgio di Liechtenstein: «Già declinava il sole, e al fioco raggio / si
44 - I Cimbri e il Verruca, p. 46.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
pingea di rancio la / superba torre
di Sporo».
Quest’ultimo episodio, che conclude il dramma, offre infine – con
la visione della valle dello Sporeggio dove incombe il castello di Sporo-Rovina, e la truce narrazione
della fine del principe – l’occasione
per una pagina fosca, degna delle
migliori Ghost Stories:
Nessuno più varcò la nera soglia,
Gli atri muscosi de la bruna rôcca45,
Ove sepolto giacque il tradimento.
Talor in su la sera orrendo spettro
Fra le merlate mura si aggirava,
E correa voce ne la val sommessa,
Che lo spettro di Spor tenea l’effige
Del sepolto barone46. Un gel nell’ossa
Al vederlo sentia la villanella,
E chiedeva se ancor lo spettro truce
Vibrasse ne le tenebre pugnali,
ed uccidesse a nappi di veleno
I vescovi di Trento.47
45 - È il castello di Sporo-Rovina.
46 - È il conte Pietro Sporo, il potente signore di
Sporminore che, nel periodo convulso a cavallo
dei secc. XIV-XV, fu alternativamente avversario
e alleato di Giorgio di Liechtenstein, secondo
quanto dettavano le contingenze storiche e le
convenienze; D. Reich, I castelli di Sporo e
Belforte, Trento, Stab. Tip. Lit. Scotoni e Vitti ed.
1901, rist. anast. Andalo (TN), 2011, pp. 106115; M. Bellabarba, Istituzioni politico-giudiziarie nel Trentino durante la dominazione veneziana: incertezza e pluralità del diritto, n. 11,
Milano, Giuffré, 1990, pp. 175-231, part. pp.
181-189.
47 - I Bellenzani, p. 43. Questo e soprattutto il
passo successivo che chiude la cantica richiamano le atmosfere cupe e spettrali di certe pagine
di E.T.A. Hoffmann, principalmente quelle del
lungo racconto il Maggiorasco. Non si hanno
notizie sulla circolazione in loco delle opere del
grande artista tedesco; traduzioni in italiano dei
suoi Racconti apparvero negli anni 1833, 1835,
1855; mentre Il Maggiorasco uscì singolarmente
in prima versione nel 1880 (CLIO. Catalogo dei
libri italiani dell’Ottocento (1801-1900), a cura di
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Le strutture narratologiche delle
cantiche si basano, come emerge dai
riferimenti alle cantiche, sulla polarizzazione schematica di caratteri e
situazioni, talché i buoni sono opposti ai malvagi, gli oppressi agli oppressori, la virtù oltraggiata alla
malvagità. I caratteri sono quelli tipici della letteratura romantica: vi si
trovano l’eroe satanico (il tiranno
Ezzelino e il vescovo Giorgio di Liechtenstein), la giovane indifesa sacrificata a indesiderate nozze per ragioni politiche ed economiche (Cunizza, Filiberta Madruzzo), l’eroe
per la libertà (Pietro Belenzani)48.
Essi sono protagonisti di avvenimenti fuori dell’ordinario, che si sviluppano fra opposizioni e contrasti,
dando origine all’azione drammatica; punto d’approdo di questo svolgimento è l’inevitabile sconfitta seguita dalla morte. Se questa tocca ai
malvagi, prende il volto della vendetta; all’inverso, se tocca ai buoni, è
affermazione di un’idea e di un valore positivo.
M. Costa-G. Vigini, Milano, Editrice
Bibliografica, 1991, vol. 3, p. 2356). Si ha invece
notizia che Christian Schneller (1831-1908), poeta e filologo che visse a Rovereto dove rivestì un
ruolo culturale di un certo rilievo dedicandosi,
fra l’altro, alla raccolta di fiabe popolari del SudTirolo – Märchen und Sagen aus Wälschtirol tradotto in italiano nel 1978: C’era una volta. Fiabe
e storielle trentine raccolte da Christian Schneller,
a cura di I. Andergassen-M. Neri, Trento,
Editrice Innocenti – aveva nella sua biblioteca
opere di Hoffmann; cfr. C. Flaim, “Seme latino”
o “seme germanico”? Istanze nazionalistiche nelle
raccolte ottocentesche di fiabe trentine, in
Rovereto, il Tirolo, l’Italia: dall’invasione napoleonica alla Belle Epoque, tomo II, pp. 485-509,
part. p. 489.
48 - Per questi temi cfr. K. Morawski, Il romanzo storico italiano nell’epoca del Risorgimento, p.
14.
Particolare forza assume nelle
composizioni della Perini il tema
della vendetta, motivo ricorrente
nei romanzi storici per dare giusta
compensazione a un’offesa ricevuta49; l’autrice lo incarna principalmente nelle figure di donne cui affida, se non il compito di eseguire
materialmente l’atto riparatore, di
esserne testimoni quasi a ratificarne la necessità e la giustezza.
Nel canto VII de I Bellenzani l’autrice descrive la morte del principe
Giorgio di Liechtenstein, con occhio attento – più che alla logica
dei caratteri – all’effetto di coup de
théâtre che se ne poteva ricavare.
Emma Delmonte, l’eroina infelice
privata del promesso sposo, Pietro
Bellenzani50, giustiziato per comando di Enrico di Rottenburgo
(Heinrich von Rottenburg, burgravio di Merano, capitano dell’Adige
e del vescovo di Trento51), si reca da
sola al castello di Sporminore, dove
è tenuto prigioniero il principe vescovo Giorgio di Liechtenstein, per
chiederne – lei che è stata vittima
del suo mal governo – la liberazio49 - G. Pagliano, Il mondo narrato. Scritti di sociologia della letteratura moderna e contemporanea, Napoli, Liguori, 1985, pp. 95-95. Per i temi
e le strutture narrative del romanzo storico cfr.
Ead., Le costanti narrative, in L’età romantica e il
romanzo storico in Italia, Roma, Bonacci, 1988,
pp. 41-56; M. Di Fazio, Dal titolo all’indice: forme di presentazione del testo, ibidem, pp.
57-123.
50 - L’autrice scrive il toponimo con la consonante elle doppia, laddove l’uso comune la vuole
scempia; io seguo la grafia della Perini per non
creare in questo scritto dissonanze fonetiche.
51 - M. Bellabarba, Istituzioni politico-giudiziarie nel Trentino durante la dominazione veneziana: incertezza e pluralità del diritto, «La leopoldina», p. 182.
91
narrare la storia
ne. Il prelato, rinchiuso in una
stanza, è già in balia degli effetti del
veleno che il signore di Sporo e i
suoi alleati gli hanno somministrato; ma, alla vista della fanciulla, gli
si ridesta in cuore la speranza della
salvezza. E lei «È tardo prence», risponde; «Già il veleno ti dier, né
più ti resta / Che la fiducia in
Dio…», e, dopo averlo esortato a
confidare nella bontà divina «gli
porse ancor l’ultimo sorso / all’arso
labbro»52.
Ancora più crudele è la presenza
di Cunizza al capezzale del fratello
Ezzelino, ormai morente. Già preda
delle confuse nebbie della follia che
ha invaso la sua mente, la donna ricorda al fratello le sofferenze che ha
causato a lei e a Sordello. Straziato
dai rimorsi e dal rifiuto del perdono
da parte della sorella, il tiranno
… le fasce squarcia
E le ferite: dalle piaghe sgorga
Inacerbate un rio di sangue e mise
Sdegnosamente l’ultimo sospiro.53
Rilevanti – come risulta da questi
esempi – la presenza e i ruoli delle
donne, come se l’identificazione di
genere permettesse all’autrice di
raggiungere esiti poetici più alti.
Sono, queste, donne inappagate
nelle loro aspirazioni amorose e destinate a sorti infelici dalla volontà e
dalla brutalità maschili. Inevitabile
è perciò un moto di pietà nei loro
confronti; può esso originarsi dal
52 - I Bellenzani, pp. 41-42.
53 - Ezzelino da Romano, pp. 41-42.
92
triste destino di Cunizza o da quelli
non men dolorosi di Filiberta Madruzzo contessa di Challant e di
Claudia Particella, eroine quest’ultime della cantica L’ultimo Madruzzo, immolate, quali vittime sacrificali, alle ambizioni del principe vescovo Carlo Emanuele e del suo potente casato. Soprattutto nell’ultima
parte di questo dramma – un componimento in settenari in rima, che
si discosta dai precedenti endecasillabi sciolti – l’autrice si rivolge direttamente a Claudia, giacente sul
letto di morte54, e le rivolge un canto pietoso, come a volerla accompagnare lungo la via verso le regioni
celesti, dove troverà perdono e finalmente pace:
Dormi, o gentil, la libera
Aura dei nostri monti
Sperse i superbi principi
Dalle mitrate fronti,
Come calati lupi
Ai pascoli feroci
Dalle infeconde rupi
Quando le grava il gel;
Di libertà le voci
Così ci aperse il ciel.
Consente il sole ai miseri
Anco il tepore amico,
L’ali dispieghi l’angelo
Della pietà pudico,
Su lei celeste ardore
Piovi dal grembo aperto,
Ché tutti nel Signore
Fratelli ei ci creò,
54 - Claudia Particella muore nell’anno 1667,
nove anni dopo la scomparsa del principe Carlo
Emanuele avvenuta nel 1658.
narrare la storia
Anco quel fior deserto
Che l’uom contaminò.55
Particolare rilievo assume nelle
composizioni della Perini il tema
dell’invasione del patrio suolo da
parte di stranieri; il sentimento di
partecipazione e la veemenza con
cui lo ha espresso sono da riconnettersi sicuramente al clima che lei respirava nella casa paterna e nell’ambiente cittadino. Il padre faceva
parte di quel movimento patriottico che nei decenni 1850-1860 andava acquistando una più chiara
coscienza di appartenenza alla nazione italiana, in concomitanza con
i successi della politica piemontese
e delle azioni militari insurrezionali56. Alla sua presenza nelle file di
coloro che si battevano per l’autonomia della regione trentina da
Innsbruck e da Vienna Umberto
Corsini attribuisce appunto un
ruolo importante nella formazione
della coscienza nazionale dei Trentini57; ne furono strumenti le sue iniziative giornalistiche e l’impostazione dei suoi saggi. Rilevante, in
quest’ottica, fu l’apporto della Stati55 - C. Perini, L’ultimo Madruzzo, Trento,
Giovanni Battista Monauni, 1866, pp. 47-48.
Sono evidenti i rimandi al coro manzoniano in
“Morte di Ermengarda”, Adelchi, atto IV: simili a
quello sono l’impiego del verso settenario nonché alcuni motivi, fra i quali la rimembranza dei
dì felici, l’appello al perdono e l’invocazione della pace.
56 - M. Garbari, Aspetti politico-istituzionali di
una regione di frontiera, in Storia del Trentino,
vol. V, L’età contemporanea 1803-1918, a cura di
M. Garbari-A. Leonardi, Bologna, Il Mulino,
2003, pp. 57-164, part. pp. 59-76.
57 - U. Corsini, Il Trentino nel secolo decimonono, volume primo (1796-1848), p. 308.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
stica del Trentino, che per la prima
volta presentava la regione «nella
sua individualità separata dal
Tirolo»58.
Da queste esperienze la giovane
Carlotta traeva principi di orientamento politico e alimento per la sua
fervida immaginazione, dalla quale
sortivano personaggi e storie, situazioni e figure. Di queste una delle
più forti è quella dello straniero che
s’affaccia dalle Alpi e guarda con
cupidigia le terre dell’Ausonia che
davanti ai suoi occhi si distendono;
quasi leitmotiv, questa immagine si
trova in tutte le cantiche: irruppero
i Cimbri «dai monti alla infelice /
terra cui cinge il mar fremente e
l’Alpe» (I Cimbri e il Verruca, p. 14);
scendevano numerosi da Nord signori guerrieri, variamente schierati con ghibelline e guelfe schiere.
A questi appartenevano gli Appiano che
Dai valichi dell’Alpi
Eran discesi all’atesine sponde,
Ed annidati su’ dirotti balzi,
Come falchi alla preda, aveano rivolto
L’invido sguardo all’itale pianure.59
Anche Federico I Barbarossa
Drizzò dall’Alpi spiatore il ciglio,
E con ardente bramosia guatava
Quella d’incanti e di vaghezze al sole
Terra diletta ed al celeste riso.60
58 - G. Faustini, Il giornalismo e la diffusione
dell’informazione, p. 422.
59 - I Bellenzani, p. 22.
60 - Ezzelino da Romano, p. 6.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
E altrettanto fece il nipote Federico, che rinnovò nelle pianure e nelle
città italiche stragi e guerre. Perciò
profetizza il principe Giorgio alla
dolente Emma Delmonte, con parole che hanno, nella bocca di lui
morente, quasi un senso di ritorsione:
… Ma la tua patria, donna,
Sarà d’invidia e d’odio
ognor bersaglio,
Finché dall’Alpe volgerà lo sguardo
Lo straniero ai suoi colli,
e fatta ancella,
Benedirà de’ prenci il mite impero.61
Ancor più profondo si fa «il gemito d’oppressi», se dai destini delle
itale terre si passa a quelli della patria Trento, destinata dalla sua posizione geografica a subire per prima
l’urto della «selvaggia schiatta»:
Svelta alle gioje del materno amplesso
[dell’alma Roma]
Di caten e dolor Trento recinta,
Misera vide sulla trista riva
Calare in danza i demoni irrisori».62
Nei passi in cui sfiora questi motivi l’autrice, propensa in genere ad
una scrittura dal tono narrativo
“medio” – in ciò seguendo la predilezione dei letterati locali per l’istanza classicista63 – adotta un an61 - I Bellenzani, p. 42.
62 - Le citazioni da I Cimbri e il Verruca, pp.
48-49.
63 - Cfr. D. Rasi, Romanticismo italiano e romanticismo trentino: ipotesi e materiali di ricerca,
e M.G. Pensa, Classicisti, romantici, dialettali.
Poeti trentini del primo Ottocento, citati in nota 3.
damento più concitato e ricorre ad
espressioni enfatizzate, sulla spinta
forse di elementi fortemente emozionali quali la passione politica.
Nel comporre le sue cantiche
Carlotta Perini si attenne con piena
consapevolezza a due fondamentali
principi della poetica romantica; il
primo è l’intreccio fra sentimenti
pubblici e affetti privati: «Ho cercato di esporre con fatto privato una
grande azione pubblica», dichiara
la poetessa nella Presentazione de I
Cimbri e il Verruca. Perciò da una
parte illustra la sorte della sua patria, destinata ad essere, per posizione geografica, preda di invasioni
e occupazioni, nonché la condizione di asservimento e di sfruttamento delle genti che l’abitano, vittime
della rapacità dei signori feudali;
dall’altra canta gli intimi affetti di eroi ed eroine, specialmente i loro
tormenti e speranze d’amore che
mai trovano soddisfazione. In questa visione di una realtà divisa e attraversata da irriducibili opposizioni lei, similmente agli autori dei romanzi storici e del melodramma
musicale, trovava alimento per le
creazioni poetiche.
L’altro principio-guida della composizione poetica dell’autrice è l’assunto che la poesia deve rimanere
fedele alla storia: la poesia non deve
«mai scompagnarsi dalla verità»,
proclama nell’introduzione a Ezzelino da Romano; e, a conferma dell’affermazione, sostiene che nel ricostruire gli amori di Sordello e Cunizza, non si è mai allontanata dalla
93
narrare la storia
verità storica: «né mi partii dalla
storia», scrive nello stesso passo.
Il problema verte, com’è evidente,
sul rapporto tra poesia e storia e,
più estesamente, su quello tra finzione e verità. Gli autori romantici
erano convinti dell’esistenza di una
loro interazione stretta e proficua,
fonte di un reciproco inveramento,
nel senso che la poesia rendeva “visibile” ciò che nella storia era «accennato in confuso e di scorcio»64;
mentre la storia offriva alla poesia
materiali oggettivi da rappresentare, perciò veri, in quanto direttamente sperimentabili. Il segreto,
precisa Ugo Foscolo nello scritto
Della nuova scuola drammatica in
Italia, «sta nell’incorporare e
identificare la realtà e la finzione, in
guisa che l’una non predomini
sovra l’altra»65.
Corrosa dal dubbio che, come
«germe di malattia mortale», era
presente già nei primi momenti di
entusiasmo per la nuova moda letteraria, e minata da critiche, questa
fede incrollabile nella felice coabitazione di storia e invenzione all’insegna della “verità”, non permase a
lungo. Lo stesso Manzoni, infatti,
nel saggio Del romanzo storico e, in
genere, de’ componimenti misti di
storia e d’invenzione (1845), condannò il genere del romanzo storico come forma letteraria ibrida e i64 - Per questi concetti espressi da G.B.
Bazzoni nell’Introduzione al suo racconto storico, Falco della rupe o la guerra di Musso (1829),
cfr. M. Cataudella, Il romanzo storico italiano,
p. 36.
65 - Per la citazione di Foscolo, ibidem, p. 34.
94
naccettabile, giacché l’autore, nel
mentre rifà «in certo modo le polpe
a quel carcame, che è, in così gran
parte, la storia» vi introduce fatti di
fantasia: aggiunge «un altro vero» a
quello dei documenti storici; perciò
ne proclamò il dissolvimento66.
L’osservazione del Manzoni coglie
nel vero; la fisionomia del cardinale
Federico Borromeo da lui ricostruita, infatti, non è men falsa di quella dei vari personaggi che popolano
le cantiche della Perini: i due Bellenzani (dei quali Pietro è completamente di sua invenzione) e Cunizza da Romano, Emma Delmonte e la sacerdotessa Vèleda, plasmati più dal sentimento patriottico da
lei vivamente sentito, che dal rispetto della verità storica.
La questione, che toccava un
punto nevralgico della poetica del
romanzo storico, era destinata a riproporsi negli anni seguenti e a
continuare nel secolo successivo,
con punte elevate negli anni ottanta
del Novecento, l’età del postmodernismo. Essa inoltre si sarebbe dilatata sino a coinvolgere aspetti più
vasti, quali i rapporti fra scrittura e
storia e, oltre, la possibilità stessa di
“scrivere la storia”, vale a dire di
pervenire alla conoscenza del reale.
La problematica, di carattere me66 - Il saggio è contenuto in La storia e l’invenzione, a cura di A. Tagliapietra, Milano, Gallone,
1997, pp. 3-80; per le citazioni v. pp. 11, 79-80.
Esso è stato ripubblicato in A. Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione, premessa di Giovanni
Macchia, introduzione di Folco Portinari, a cura
di Silvia De Laude, Milano, Centro nazionale di
studi manzoniani, 2000.
narrare la storia
ramente letterario, si è trasformata
in tal modo in un punto filosofico,
un banco di prova per dibattiti epistemologici fra letterati e storici,
semiologi e filosofi, che ha portato a
una più articolata visione dello “scrivere la storia” e a una smagata e ironica consapevolezza circa il rapporto tra la narrazione e la realtà67. Caduta la concezione ottocentesca di
“verità”, si sono trovati altri motivi
d’interpretazione e legittimazione
dello scrivere romanzi storici: accanto alle considerazioni che ne fanno
un modo di evasione e divertimento,
nonché di sperimentazione letteraria (come nel caso di Umberto Eco e
Dan Brown), si sono imposte le concezioni che attribuiscono loro carattere e finalità performative, cioè capacità di produrre un’azione immediata: si è parlato di un ritorno alla
realtà e alla narrazione e di una rinnovata fiducia nella mitopoiesi68.
Il romanzo storico che ai nostri
giorni ha proposto quest’ottica è Q
(1999), opera di un autore “collettivo” bolognese dal nome Wu Ming
che, pur stampata dall’editrice Einaudi, ha scelto come via preminente di diffusione il mezzo telematico. La forza e la novità di questo
romanzo riposano non soltanto
nella capacità performativa della
narrazione, in grado di aggregare
intorno a un racconto storico una
comunità, ma anche nell’aver posto
al centro del dibattito la questione
67 - Su queste tematiche cfr. G. Benvenuti, Il
romanzo neostorico italiano. Storia, memoria,
narrazione, Roma Carocci, 2012.
68 - Ibidem, pp. 70-73.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
di che cosa sia la letteratura all’epoca dei nuovi media69. Carlotta, che
scriveva a metà Ottocento con adesione immediata alla realtà storica e
con ingenua fede nella capacità veritativa della parola, scolpiva i suoi
personaggi con appassionata partecipazione e innocente convinzione
di stare nel “vero”. Questa era la sua
concezione del fare poesia e del
narrare la storia; e, mentre narrava
vicende di un lontano passato, illustrava – come sempre accade nella
narrativa ispirata alla storia – temi e
tendenze diffuse nel suo tempo: la
formazione di una coscienza nazionale, l’aspirazione ad affrancarsi dai
signori stranieri e a fissare sicuri
confini nelle «mal vietate Alpi» (I
Bellenzani, p. 16). Al di là di questi
intenti immediatamente politici, lei
è riuscita anche ad esprimere una
personale esperienza di vita, rappresentando i teneri legami che la
univano al padre e, relativamente
alla propria scrittura, il travaglio
che si accompagna alla creazione
poetica.
Ha lasciato anche sorprendenti
vedute naturali perfettamente riconoscibili nella loro fisica realtà, pur
tuttavia permeate da particolari tonalità emotive rispondenti di volta
in volta a contingenti esigenze narrative; il lettore le gusta e – miracolo della poesia romantica – ne resterà segnato al punto che, riguardandole, difficilmente potrà sottrarsi a quella modalità emotiva. Si
legga a dimostrazione la descrizio69 - Ibidem, pp. 73-78.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
ne dell’impetuoso corso del fiume
Sarca, che lei vide prima che venissero creati lungo il suo percorso gli
impianti idroelettrici, impoverendone la portata delle acque:
Delle cicale anco dei fior più bella
Piove la vaporosa onda del Sarca
Ampio il volume delle argentee schiume.
Nel suo rapido vol travolge i nudi
Irti macigni, mentre l’acqua irata
Talor negli ampi cavi si tranquilla
O lambisce d’un picco umile il piede,
O bacia l’elce che radice mise
Sulla pensile cresta indifferente
Del precipite corso e dell’annosa
Pioppa travolta dal furor dell’onde.70
va con la famiglia, e delle vicende
della sua vita in esilio non sappiamo nulla. Sfortunatamente le carte
dei Perini, a differenza di quelle di
Francesco Antonio Marsilli, non
sono state conservate. L’Alessandrini nella prefazione alla Biografia dei
fratelli Perini annota che gli scritti
dei due Trentini furono depositati
presso la famiglia Fogolari; nell’archivio di questa famiglia oggi esistente non è dato però trovare i manoscritti dei Perini72. ❧
Liliana De Venuto
E in altri versi poeticamente rilevanti lei riesce a fare avvertire la
presenza dell’infinito richiamando
non la spazialità senza limiti, ma il
trascorrere del tempo della natura:
Tutto passò………………
……………………………
Poi la festa tornò per l’infinito
Tremolar di fiori e di vaghezze,
Però che eterna la natura canta,
E sol le vanitose ire e gli amori
Alla nebbia simil passano a volo.71
Dopo la stampa di L’ultimo Madruzzo, avvenuta nel 1866, Carlotta
non pubblicò altre opere, o meglio
a noi non è pervenuto altro suo
scritto oltre al già citato In morte di
mio padre. Lei viveva ormai a Pado70 - L’ultimo Madruzzo, p. 38.
71 - I Cimbri e il Verruca, pp. 46-47.
72 - Presso il Museo Storico Italiano della
Guerra a Rovereto vi è un fondo archivistico
Fogolari Dal Toldo, che conserva prevalentemente la corrispondenza intercorsa fra i due fratelli Gasparo e Vittoria nel contesto dei due conflitti mondiali. Ringrazio vivamente il dott.
Alessandro Cont per avermi segnalato
l’archivio.
95
rinvenimenti
Rinvenimenti
a cura di Stefano Tonietto
Q
uesta è la storia di un ritrovamento, su cui per ragioni di
privacy non siamo in grado
di fornire indicazioni archivistiche o
bibliografiche… Un nostro conoscente
ha ereditato da un vecchio zio alcune
vecchie scartoffie, tra cui una smilza
cartellina contrassegnata da un marchio editoriale piuttosto noto e da una
scritta a mano in lapis azzurro, ottocentesca, adorna di svolazzi: Riservato. Naturale che questo conoscente,
sapendoci filologi, ci abbia affidato il
contenuto della cartellina medesima
incaricandoci di una sommaria expertise. Ed ecco che gli appunti da noi
tratti esaminando il carteggio (ché di
carteggio trattasi) tra un editore e vari autori di romanzi possono ora vedere la luce su questa rivista, all’insaputa del nostro conoscente che non
s’interessa molto di libri e che non leggerà certamente mai queste pagine…
1. Sfruttamento
di un caso editoriale
Quando nel 1883 il romanzo Le
avventure di Pinocchio di Carlo
Collodi, in precedenza uscito a
puntate sulla rivista “Il giornale per
i bambini”, fu finalmente pubblicato in volume, l’editore Treves capì
che il suo rivale Piaggi aveva trovato la gallina dalle uova d’oro.
Non che in quegli anni Ottanta la
Ditta Fratelli Treves di Milano versasse in cattive acque, avendo pubblicato tutto Verga, innumerevoli
traduzioni di romanzi francesi alla
moda e potendo attingere ad un vivaio di nuovi talenti, come il rampante giovane abruzzese il cui scandaloso debutto romanzesco, Il piacere, faceva fremere di deliziosi brividi le dame dell’aristocrazia come
le crestaie dei quartieri operai.
Tuttavia l’ambizioso editore milanese, che già pubblicava una collana per ragazzi, vedeva le immense
potenzialità che il nuovo pubblico
della scuola, scolari, studenti e insegnanti, con le loro famiglie, stava aprendo al mercato del libro. Egli
non poteva accettare che quel vero
e proprio best seller ante litteram
non fosse uscito dai suoi torchi; al
suo tesoro di “classici moderni”
sfuggiva proprio la perla più redditizia.
Treves non era uomo da arrendersi. La repentina morte di Collodi
per infarto1 (25 settembre 1890)
parve fornire l’occasione attesa per
agire. L’editore mise sotto pressione
il suo staff (allora non si diceva così)
per lo sfruttamento del successo. Il
suo progetto era nientemeno che una riscrittura collettiva di Pinocchio
ad opera degli scrittori più in voga
in quel periodo, un’appropriazione
dell’opera che avrebbe completamente spiazzato Piaggi e magari l’avrebbe persino indotto, chi sa, a cedere i diritti sul testo di Collodi. Egli
prefigurava un’edizione per adulti,
una di ispirazione sociale, una simbolista, un prequel (allora non si diceva così) sulla giovinezza di Mastro Geppetto, qualche sequel (allo1 - Morte davvero repentina e quasi provvidenziale per le mire dell’astuto imprenditore! Nel
blog di Beppe Grillo da tempo si levano le voci di
chi denuncia in quella morte una evidente manovra del complotto demo - giudo - pluto - sciekimike - massonico.
Stefano Tonietto
Pinocchiata - Un carteggio Treves et alii (1890-97)
96
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
ra non si diceva così), alcuni spin off
(allora non si diceva così), come ad
esempio la serie picaresca Il Gatto e
la Volpe2 o il romanzo sentimentale
sulla Bimba dai Capelli Turchini3.
Treves, in ciò lucido anticipatore
dell’attuale industria della fiction,
già vedeva commistioni di generi e
di personaggi: Pinocchio nella jungla
nera, Pinocchio contro Maciste, Pinocchio nelle Cinque Giornate di Milano erano titoli che roteavano nella
sua mente e che egli proponeva,
quasi ebbro, ai suoi allibiti collaboratori. Peraltro, dopo questa prima
fase d’euforia, l’imprenditore si ricompose e iniziò ad agire razionalmente.
2. Pinocchio secondo
Giovanni Verga
Rivolgendosi innanzitutto alla
propria scuderia di autori, Treves
consultò riservatamente Giovanni
Verga, che allora versava nella tribolata gestazione del terzo romanzo
del “Ciclo dei Vinti”; Verga era in
gravi difficoltà d’ispirazione, i primi
abbozzi de La duchessa di Leyra
non lo soddisfacevano, per la difficoltà di applicare i canoni veristi a
personaggi del bel mondo4. La proposta di Treves parve allo scrittore
2 - L’idea fu “rubata” dalla Disney: infatti il film
del 1940 riserva ai due imbroglioni un ruolo assolutamente spropositato rispetto al romanzo.
3 - Spunto ripreso più tardi da Vladimir
Nabokov, che lo sfruttò in Lolita.
4 - Verga avrebbe più tardi sperimentato un fallimentare scambio artistico con Marcel Proust,
per cui si veda il nostro articolo L’ideale dell’ostrica. Verga versus Proust, ne “Il Furore dei
Libri”, anno III n. 6, agosto 2012, pp. 32-37.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
catanese utile per una estensione
delle proprie pessimistiche teorie
sociali al mondo della fiaba: non era forse la storia di Pinocchio costellata di “vinti”? Ecco dunque arrivare via posta a Treves un primo
frammento di capitolo, scelto apparentemente a caso:
Il Gatto e la Volpe.
Erano spelacchiati, magri, avevano soltanto due code ferme e vigorose, da vertebrati carnivori – e pure
non erano più giovani – erano cenciosi come avessero sempre addosso
i creditori, e in due che erano avevano due occhi in tutto, grandi così, e
ai musi baffi e vibrisse e due linguette fresche e rosee, che se li leccavano.
Al villaggio li chiamavano il Gatto
e la Volpe perché non erano sazi mai
– di nulla. Le donne si facevano la
croce quando li vedevano passare, in
coppia come un gattaccio e un cagnaccio, con quell’andare randagio e
sospettoso dei predatori affamati; essi si spolpavano i loro figliuoli e nipoti in un batter d’occhio, con le loro
false promesse, e se li tiravano dietro
fino al Campo dei Miracoli a piantare i loro miseri zecchini sotto terra,
con l’assurda promessa della moltiplicazione del capitale. Per fortuna il
Gatto e la Volpe non venivano mai
in chiesa, né a Pasqua, né a Natale,
né per ascoltar messa, né per confessarsi.
Il Grillo-parlante, una vera coscienza patentata, aveva persa l’anima per loro (…)
Treves rispose con un telegramma in cui chiedeva un inizio folgorante per l’intero romanzo. Verga
rispose in modo altrettanto telegrafico, proponendo quanto segue:
Mastro-Don Geppetto
(titolo provvisorio)
Capitolo I
Maestro Ciliegia si chiamava così
perché aveva il naso rosso; ed aveva
il naso rosso perché era un falegname malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di beone. Sicché tutti al villaggio lo chiamavano
Ciliegia; e persino sua madre col sentirgli dire a quel modo aveva dimenticato il suo nome di battesimo (…)
Tuttavia appunti verghiani giunti
successivamente fanno pensare che
il romanziere verista iniziasse a scivolare in un simbolismo nemmeno
troppo velato:
Per il Pinocchio di Treves
La paranza Provvidenza. Geppetto vi s’imbarca per cercare il figliuolo. Scena dei pescatori sul molo che
guardano da lontano la tempesta e
la barchetta che s’inabissa. Il narratore corale osserva con scetticismo:
“Non ce la può fare, pover’uomo”. Si
ode un grido: “Gli è il mi’ babbo!” e
un burattino si getta in mare e nuota verso il largo. Qualcuno commenta che evidentemente i calzoni e le
scarpe del vecchio fanno gola al figliuolo.
Addirittura, lo scrittore in crisi ri97
rinvenimenti
trova nella propria opera precedente, con un gusto per il sovrannaturale del tutto decadente, premonizioni nette di quanto sta ora tentando di fare. Eccolo riflettere su Rosso
Malpelo:
Se il mio Ranocchio fosse in realtà
una prefigurazione di Pinocchio?
(Malpelo sarebbe Lucignolo). Si veda
il paragone tra Ranocchio e l’asino
della cava, bastonato da tutti. La cava come prefigurazione del ventre
del Pesce-cane. Ranocchio bastonato
deve avere la pelle dura, come quella
di un asino; sì che ci se ne possa ricavare un tamburo. Titolare: Le avventure di Ranocchio?
Altre note manifestano un grado
di identificazione con Collodi che inizia a raggiungere livelli paranoidi:
Rissa di Pinocchio coi compagni di
scuola: cavalleria rusticana?
La mano di padron ’Ntoni che
sembra di legno nodoso. Dio mio,
quel toscano (i Malavoglia si chiamavano Toscano!) mi ha plagiato! O
lui rivive in me? Ricordarsi di scrivere a Fogazzaro per chiedere chiarimenti.
3. Pinocchio secondo
Edmondo De Amicis
Perso Verga nel suo delirio irrazionale – e morto così il Verismo italiano5 – già Treves era alle prese
5 - Verga non scriverà più fino alla morte, avvenuta nel 1922. Il ciclo I Vinti resterà
incompiuto.
98
con l’altro suo grande scrittore, Edmondo De Amicis, reduce anch’egli
da un successo epocale: quello di
Cuore, che, uscito nel 1886, aveva
conosciuto in pochi mesi più di
quaranta diverse edizioni e decine
di traduzioni in lingue straniere.
Pur dubbioso di venire identificato come un autore “per ragazzi”, il
torinese aderì di buon grado alla
proposta giunta da Milano. Il proprio contributo si limitò tuttavia ad
un saggio di capitolo in cui il narcisismo autorale lo portava a travalicare i limiti imposti dalla trama
pensata da Collodi: il suo Pinocchio, sostanzialmente, esce dalla
fiaba e viene calato nell’aula di una
quarta elementare della Torino
preindustriale.
Il padre di Pinocchio
28, sabato
(…) entrò tutt’a un tratto nella
scuola il padre di Pinocchio, affannato, con la parrucca gialla arruffata e
sghemba, tutto fradicio d’acqua di
mare, imbrattato d’alghe e senza casacca, spingendo avanti il figliuolo di
legno che è stato assente dalla scuola
per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! Il pover’uomo si gettò
quasi in ginocchio davanti al Direttore, giungendo le mani, e supplicando:
– Oh signor Direttore, mi faccia la
grazia, riammetta il burattino alla
scuola! Son tre giorni che è a casa, gli
ho tagliato la coda e le orecchie d’asino e l’ho tenuto nascosto per vedere se
casomai gli ricrescevano, ma Dio ne
guardi se Mangiafuoco scopre la cosa,
rinvenimenti
lo usa per l’arrosto; abbia pietà, che
non so più come fare! Mi raccomando
con tutta l’anima mia! – Il Direttore
cercò di condurlo fuori; ma egli resistette, sempre pregando e piangendo.
– Oh! se sapesse le pene che m’ha dato
questo burattino, avrebbe compassione! Si è venduto l’abbecedario, è andato a vedere il teatro delle marionette, è
andato in osteria con due mariuoli,
ha seppellito i suoi zecchini in un
campo e se li è fatti rubare come un
povero grullo! E non le dico le bugie
che racconta! La povera Fata Turchina ci è morta di crepacuore. E il buon
Grillo-parlante? Schiacciato al muro!
Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io ho passato due anni nella
pancia del Pesce-cane, ho la morte
qui, signor Direttore; ma vorrei vederlo cambiato in un bambino vero
prima di morire perché – e diede in uno scoppio di pianto, – gli è il mi’ figliuolo, gli si vòl bene, morirei disperato; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua
una disgrazia in bottega, lo faccia per
pietà d’un povero falegname! – E si
coperse il viso con le mani, singhiozzando. Pinocchio teneva il naso basso,
impassibile. Il Direttore, da quel grosso Gufo che era, lo guardò fisso con
due occhiacci così, stette un po’ pensando, poi disse: – Pinocchio, va al tuo
posto. No, non in banco con Lucignolo. A quell’altro posto laggiù. – Allora
il vecchio levò le mani dal viso, tutto
racconsolato, e cominciò a dire grazie,
grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e si avviò verso l’uscio, asciugandosi gli occhi con la parrucca, e dicen2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
do affollatamente: – Figliuol mio, mi
raccomando. Abbiano pazienza tutti.
Grazie, signor Direttore, che ha fatto
un’opera di carità ed è venuto incontro alle esigenze del settore artigianato. Bono, sai, figliuolo, bonino. Buon
giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo,
signor maestro. Se vi servisse un restauro… un’impiallacciatura… un
colpo di martello a un infisso, chiamatemi pure, non fatevi riguardo.
Vengo senza preavviso, c’è tanto poco
lavoro in giro… E scusino tanto, un
povero babbo. – E data ancora lì all’uscio un’occhiata da intenditore, passando il pollice sullo spigolo, se n’andò,
ripiazzandosi la parrucca sul cranio,
pallido, incurvato, fradicio com’era,
addobbato di alghe e senza casacca. Il
Direttore roteò la testa di 180 gradi,
guardò fisso Pinocchio, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse, con accento da far tremare: – Pinocchio, tu
uccidi tuo padre! – Tutti si voltarono
a guardare il burattino. E quell’infame sorrise6.
4. Pinocchio secondo
Gabriele D’Annunzio
Il contributo di De Amicis non
soddisfece Treves: Qui si vuol far
piangere i bimbi, altro che divertirli!,
scrisse in un appunto sul retro del
foglio precedente, da quel sagace
uomo di marketing7 che era.
Si rivolse dunque all’uomo cui a6 - Superfluo richiamare l’attenzione sul noto
saggio di Umberto Eco (in Diario minimo,
Bompiani) che, in modo provocatorio, esaltava
Pinocchio come l’unico personaggio deamicisiano veramente vivo nella sua contestazione
globale dell’ordine costituito.
7 - Allora non si diceva così.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
vrebbe forse dovuto pensare per
primo: il suo giovane e promettente, scandaloso autore, l’esteta de Il
piacere, Gabriele D’Annunzio.
D’Annunzio, che in quel periodo
versava in critica situazione sia finanziaria sia familiare (dopo l’anno
di servizio di leva prestato tra i cavalleggeri a Roma, si era ritirato a
Napoli dove viveva in angustie e
strettezze), non solo accolse senza
obiezioni la proposta di Treves, ma,
fedele al suo motto “O rinnovarsi o
morire”, iniziò subito a raccogliere
appunti nei suoi Taccuini.
Ecco ad esempio, nella tipica ampia calligrafia, una bozza del possibile inizio del suo Pinocchio:
Seguono appunti sparsi:
Mastro Geppetto poteva farne uno
scrittoio, un inginocchiatoio, la cornice di una tela del Veronese.
No. Egli, fatto maggiore del suo ceto, voleva un figlio. Un erede. Un superuomo.
C’era una volta…
“Un re!” diranno subito le mie
marchesine e baronessine.
No, fanciulle, erraste. C’era una
volta un ceppo di legno.
Non era un semplice pezzo di catasta, di quelli che d’inverno si mettono ne le stufe e ne’ caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le
stanze, sibbene un legno pregiato, esotico, giunto forse da le jungle Malesi8 o da le ripe Amazoniche: un
stizzo verde quale Dante descrisse
nel suo ardere gemendo in versi memorabili9, o quali ne dipinsero in mirabili interni i manieristi lombardi.
Mastro Gioseffo, Gioseffetto, Iseppetto, Beppo l’Artiere vuol procreare
un burattino che stia agli altri burattini come il Superuomo sta all’uomo. Da
buon maestro d’ascia, pensa di usare
un ceppo ligneo sfuggito alle mani del
plebeo Ciliegia per farsene un figlio.
Geppetto si costruisce una Burattina fanciulla e, come Pigmalione sedotto dalla propria creatura, tenta di
possederla, insieme Dedalo e Pasifae
di sé stesso. Si congiunge al simulacro, anelando d’impregnarlo dell’erede desiderato. Ma la Burattina non
prende vita, resta inerte qual pezzo
di legno, non infiamma la libidine
dell’artefice, che deve rassegnarsi a
creare virginalmente il Burattino, ricavandolo dalla figura della madre
lignea (ne toglie il soverchio, come faceva Michel Agnolo coi suoi Prigioni,
liberati dal marmo in sovrappiù).
8 - Si noti l’allusione salgariana, omaggio ai piccoli lettori.
9 - Come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de
capi, che dall’altro geme / e cigola per vento che va
via (Inf., XIII, 40-42).
Lo stesso plico (pagine strappate
da uno dei Taccuini) mostra l’arrovellarsi dello scrittore sulle figure iniziali del racconto: scartato Maestro Ciliegia quale vil plebeo, sordo
all’empiti del Bello, D’Annunzio si
concentra sulla figura di Mastro
Geppetto, nella quale egli riconosce
sé stesso, creatore di personaggi
immortali:
99
rinvenimenti
Pinocchio non ancora finito –
necdum perfectus – si ribella, novello Adamo, al suo creatore, e fugge.
Ha molta strada da fare, molti ostacoli e molti nemici: la giustizia umana; gl’inganni del volgo; la propria ignoranza (viene chiuso al collegio di madama Cicogna per imparare); le proprie pulsioni verso levrieri, cavalli e femmine.
Lo aiutano personaggi magici: la
Fata Fatale, davanti alla quale il naso gli s’allunga turpemente; il Grillo
Favellante; il saggio Tonno ch’egli incontra nella Balena Cerulea.
Alla fine delle sue vicissitudini, Pinocchio diventa non già un bambino
vero, ma un Superuomo vero, insofferente d’ogni passaggio intermedio.
Non sappiamo se il piano dell’opera sia piaciuto a Treves, la cui risposta manca nel carteggio. Certo è
che il Vate perseverò, inviando pochi giorni dopo un intero capitolo
accompagnato dalla richiesta di un
anticipo di cinquemila lire.
La Fata Turchina
Chi era ella mai?
Era uno spirito magico in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature mitologiche, ella aveva
per fondamento del suo essere morale uno smisurato senso materno. La
sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale, per dir così, era l’imaginazione; almeno, finché non la sostituì
col naso di Pinocchio, ben più stabile
asse. Una imaginazione morganatica, nudrita di poteri sovrannaturali,
100
direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata
dall’isterismo. Possedendo una certa
intelligenza, essendo stata educata
nel lusso d’una casina candida come
la neve ove era possibile convocare
ben tre medici, dove un Can-barbone la serviva di tutto punto, ove cento pariglie di topini bianchi la menavano in una carrozza color dell’aria,
tutta imbottita di penne di canarino
e foderata nell’interno di panna
montata e di crema coi savoiardi, ove ella era la principessina – a simiglianza di quelle rampolle di famiglie principesche romane, di nobiltà
papale – ella era abituata ad esprimersi papale papale, e non tollerava
la menzogna. Il distico paradisiaco
d’un poeta contemporaneo le sorrideva particolarmente:
Non pianger più.
Torna il diletto figlio
a la tua casa.
È stanco di mentire.
E dunque ogni ritorno del figliuolo
adottivo, incapace di tener fede a tale proposito, le riesciva particolarmente penoso. Sotto la sferza della
menzogna di lui, ogni sua reazione
prendeva un’apparenza patetica. Ella era la Bimba delle passioni fulminee, degli incendi improvvisi, delle
treccine turchine. Ella copriva di lezioni morali i bisogni erotici della
sua carne e sapeva transformare in
alto sentimento un basso appetito…
Così, con questa ferocia, Pinocchio
giudicava la protettrice un tempo adorata. Procedeva nel suo esame
spietato senza arrestarsi d’innanzi
rinvenimenti
ad alcun ricordo più vivo. In fondo
ad ogni atto, a ogni manifestazione
dell’affetto della Fata trovava l’artifizio, lo studio, la magia, l’abilità, la
mirabile disinvoltura nel permutare
qualunque cosa con un tocco di bacchetta, nel recitare la parte della
mammina in pena, nel combinare una scena straordinaria. Che dire di
quei conigli becchini entrati al momento giusto per indurlo a sorbire i
succhi amari della purga? E quel suo
morire di crepacuore e poi risuscitare? Poteva egli ancora credere alla
falsità di una tal donna? Senza contare che il color turchino non si portava più. Nemmeno la marchesa Aldobrandini Odescalchi osava spingersi oltre un tenue cobalto alla Manet. E nessuna sartoria vaticana avrebbe d’altronde mai suggerito tale
pagana sfumatura per le pianete del
tempo d’Avvento o per i soggoli delle
Celesti Sorelle del Divino Spirito.
Ormai, l’Automa era conscio che
tale scoperta toglieva a lui ogni speranza d’altro piacere che non fosse
carnale. O, veramente, ligneo. Ormai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d’abbandono, qualunque ebbrezza dello spirito. Ingannare una mammina sicura e fedele,
riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con un baglior fallace – e incapace di ardergli i piedi, – dominare un’anima con l’artifizio meccanico, possederla tutta e farne vibrare la
carne, solo stromento di gioia – felixpulpa – può essere un alto diletto.
Ma far uso di legna era forse troppo
pervertimento?
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Mai troppo. Pregustando l’incontro imminente, e volendosi far trovar
pronto, egli cominciò ad alta voce a
pronunziare le prime bugie.
5. Pinocchio secondo
Italo Svevo
Era troppo, sì, anche per Treves.
Il suo grande progetto gli franava
tra le mani: Pinocchio, vitalissimo
personaggio, sfuggiva ad ogni tentativo di appropriazione; invano i
più grandi autori, come gendarmi,
tentavano di abbrancarlo, sempre
egli sgusciava via facendosene beffe, con un marameo10.
Prima di gettare la spugna, Treves
valutò la possibilità di rivolgersi a
scrittori ancora giovani, sconosciuti, più facilmente manovrabili e anche più parcamente retribuibili. Un
corrispondente triestino gli parlò
verso la fine del 1897 di un non più
giovane impiegato locale, Ettore
Schmitz, la cui riputazioncella letteraria si basava su un unico romanzo venduto pochissimo: Una
vita. Benché impegnato con le bozze della sua nuova fatica, destinata
ad uscire l’anno seguente col titolo
di Senilità, l’ancora sconosciuto Italo Svevo accettò con entusiasmo la
proposta del potente imprenditore
10 - Anni dopo, Luigi Pirandello definì Pinocchio
una maschera nuda, viva, che sfugge ad ogni forma le si voglia imporre, che sempre fugge e sempre
fuggirà, lontano da quella trappola che gli costruiscono l’affetto del babbo e della Fatina: la famiglia,
la scuola, un lavoro onesto, l’inserimento in società. Pinocchio è di legno e quindi è uno ma in quanto tale è anche nessuno (chi mai è di legno?); ma se
è nessuno egli può essere anche centomila, nella libera fantasia dei lettori (L’umorismo, cap. 17).
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
milanese, iniziando con l’inviargli
una pagina destinata a divenire la
Prefazione al nuovo Pinocchio, problematico e autobiografico, che gli
nasceva via via dalla penna.
Io sono il Grillo di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco
lusinghiere. Chi di conflitti di coscienza s’intende, sa dove piazzare
l’ostilità che il mio assistito mi dedica.
Di morale non parlerò perché qui
entro se ne parla già a sufficienza.
Debbo scusarmi di aver indotto il
mio assistito a scrivere la sua autobiografia; i lettori di Collodi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli
era di legno ed io sperai che in tale
rievocazione la sua fibra si ammorbidisse, che l’autobiografia fosse un
buon preludio alla metamorfosi in
bambino vero. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il burattino sul
più bello non si fosse sottratto alla
custodia cercando di spiaccicarmi
sul muro mentre con pazienza esaminavo queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero
gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono
pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò dalla cessione dei
diritti cinematografici11 su questa
pubblicazione a patto egli riprenda
la scuola. Sembrava tanto curioso
del mondo e di sé stesso! Se sapesse
quante sorprese potrebbero risultar11 - La morte prematura nel 1928 impedì a
Svevo di vedere questo suo sogno realizzato (si
veda la nota 2).
gli dal commento delle tante verità e
bugie ch’egli ha qui accumulate! ...
Dottor C12
Malgrado le crescenti perplessità
di Treves, Svevo si infervorava, descrivendogli in una delle lettere
successive la struttura innovativa
che andava progettando:
Le avventure di Pinocchio saranno
scritte da lui medesimo, in forma caotica, non cronologica.
Un primo capitolo sarà dedicato
all’autoanalisi della sua propensione
alla fuga. Di questo vizio egli ricorderà di aver sempre sofferto, fin da
quando era pezzo di legno. Rievocazione di episodio d’infanzia: egli si
bruciò i piedi sul focolare nel tentativo inconscio di privarsi della possibilità di fuggire; ma babbo Geppetto
glieli rifece. I dispiaceri dati al padre
derivarono tutti dal suo vizio della
fuga; egli perciò tentò di smettere.
Coglieva ogni evento significativo
come un’occasione per chiudere definitivamente con le fughe. Molti anni
dopo trova propri appunti scritti su
vecchi libri o persino sulle pareti del
suo studio: “Oggi abbandono la
scuola elementare. Ultima fuga!”,
oppure: “Muore la Bimba dai Capelli Turchini. Ultima fuga!”, o ancora
si lasciava ispirare da certe date: “Ore 8 dell’ottavo giorno dell’ottavo mese del 1888: ultima fuga!”.
Un capitolo parlerà della morte
12 - Probabilmente la C sta per Civetta, appunto uno dei tre medici che la Fata convoca al capezzale del burattino creduto morto.
101
rinvenimenti
Musicobibliofilia
a cura di Federica Fortunato
N
del padre, divorato da un Pesce-cane: evento di cui si sentirà inconsciamente responsabile ma che tenterà
di liquidare come un banale incidente di pesca (intitolare questo capitolo
“Il vecchio e il mare”?).
Un altro capitolo, “Storia di un’impresa commerciale”, racconterà di
come Pinocchio abbia tentato di arricchirsi moltiplicando il proprio capitale di partenza secondo i suggerimenti dei soci, il Gatto e la Volpe.
“La fata e l’amante” sarà un capitolo in cui penso di mettere il burat-
102
tino in un tipico conflitto di coscienza: vorrà ubbidire alla Bimba dai
Capelli Turchini e andare a scuola,
ma non riuscirà a resistere alla tentazione di fuggire con Lucignolo al
Paese dei Balocchi.
L’ultimo capitolo dovrà suggerire
che Pinocchio si crede ormai guarito
da tutte le sue tendenze trasgressive:
egli si ritiene integrato nella società,
un bambino vero, con una carriera
davanti, una famiglia, una posizione, senza rendersi conto che è e che
rimarrà un inetto: “Com’ero buffo
quand’ero un burattino! E come ora
son contento di essere diventato un
ragazzino per bene!”...
Difficile credere che il pubblico
giovanile del 1898 sarebbe stato
pronto per una struttura e dei contenuti tanto innovativi. Di certo,
non lo credette Treves, che chiuse le
consultazioni e l’intera pratica. ❧
Stefano Tonietto
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
o, Radiguet non c’entra. Nel presente e prolungato anniversario
della grande guerra Le diable au
corps (che si apre con il 14 luglio del
1914 e continua nei “quatre ans de
grandes vacances” del protagonista)
potrebbe essere buono spunto per
uno sguardo divergente sull’esperienza del conflitto, dalla parte di
chi, lontano e indifferente al carnaio in corso, in vari modi, se ne accomoda. Ma non qui, poiché in questo romanzo di passione acerba e
cinica l’unica citazione di un mondo sonoro sta in un cantar lontano
di galli. Del romanzo francese teniamo l’adesione ad un impulso di
natura immemore delle convenzioni, ma sostituiamo quel demone
adolescenziale e disgregativo con
un altro valore estetico e psicologico, consapevole e controllato. La
musica a cui si riferisce il titolo non
ha a che fare con le diverse forme di
possessione dionisiaca, ma sempli-
cemente con l’opportunità di riconoscere il ruolo del corpo nell’esperienza estetica e, inversamente, la
sua valenza musicale nel nostro
agire quotidiano.
Un ossimoro culturale
Se in alcune lingue africane ancora oggi l’equivalente di ‘musica’
comprende, inscindibilmente, anche la parola cantata e soprattutto il
movimento, con questa genesi sincretica di suono e corporeità la nostra tradizione non ha ancora finito
di fare i conti. Per millenni nel pensiero religioso e filosofico la musica
ha sofferto una posizione ambivalente e la potenza della sua seduttività sensoriale ha variamente gene-
rato prudenza, diffidenza, quando
non sostanziale condanna. Né oggi
possiamo considerare estinta la separazione tra generi con proprietà
estetico-etico-terapeutica e quindi
socialmente apprezzati, da una parte, e altri da trattare (a seconda dei
periodi e delle latitudini) con sufficienza o ostracismo.
Su una cosa troviamo d’accordo
Lao-Tze, Pitagora, Safi al-Dīn alUrmawi, patristica e scolastica, fino
ai vari romanticismi di età moderna: informando direttamente o per
analogia ogni aspetto dell’universo
macro e micro, la musica è simbolo,
rappresentazione o garanzia della
relazione tra uomo e universo; elementi tecnici e misurabili (interval-
Kandinskij - Punto linea superficie
La musique au corps
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Federica Fortunato
103
li, ritmi, modi scalari) com-muovono l’anima e influenzano i comportamenti. Eppure invece di trovare
nella musica il medium per una saldatura virtuosa, anche qui si è alimentata la dissociazione tra spirito
e corpo, tra speculazione filosoficomatematica e operatività svalorizzata. Il pensiero idealistico non ha
aiutato a far emergere l’ovvia centralità del fare pratico e ancora non
è raro incontrare chi si senta offeso
dall’avvicinamento troppo stretto
tra arte e soma. “E che c’azzecca?”:
posta da uno studioso sensibile e
musicalmente avvertito, l’espressione falsamente interrogativa non nasconde una sorta di disprezzo preventivo verso un’indebita mescolanza di piani: perché contaminare
l’arte ineffabile del suono organizzato con una profana meccanica fisiologica?
Sostiene Couperin
Naturalmente, almeno per cura
didattica, percorre la storia anche
l’attenzione all’estetica della pratica
strumentale. In L’Art de toucher le
Clavecin (1716) François Couperin,
organista di Luigi XIV e insegnante
delle dame di corte, testimonia come sia accortezza antica quella di
considerare la globalità corporea
come premessa per l’educazione e
l’eleganza esecutiva. C’è un punto di
partenza ben chiaro nel suo metodo: “poiché la bonne-grace è necessaria [per l’esercizio del clavicembalo] bisogna cominciare dalla position du corps”. Bonne-grace è tante
104
musicobibliofilia
musicobibliofilia
cose: sensibilità, precisione, ma soprattutto disinvoltura; “bisogna avere un’air aisé […] senza fissare
troppo la vista su un oggetto, né tenendola troppo vagante; meglio
ancora, guardare la compagnia, se
c’è, come se non si fosse affatto occupati altrove”. Impossibile non accostare qui la sintesi di Merce Cunningham per la tecnica innovativa e
straordinaria con cui David Tudor
(inarrivabile pianista delle avanguardie dagli anni ‘50) affrontava le
sfide della nuova musica: impegno
intellettuale ed economia di movimento, in una parola ‘grace’. Postura e controllo del movimento sono
non solo premessa tecnica, ma parte esteticamente integrante dell’esecuzione.
tinet presso il conservatorio di Padova. Un’esperienza questa profondamente particolare, in cui le molte
tecniche armonizzate nel metodo
sono indirizzate alla ricerca della
musicalità del gesto individuale e
interpersonale, arricchita dalla riflessione sul tempo, lo spazio, le emozioni.
Per un’ecologia del corpo
sonoro
È nel corso del XX secolo che approcci globali all’espressione musicale si sono moltiplicati assumendo
vesti disciplinari più sistematiche e
incrociandosi con tecniche di educazione corporea (Feldenkrais e Alexander, per non citare che i padri
più conosciuti); nate come ricerca
di soluzione a problemi fisici, queste ultime sono andate costituendo
una sorta di nuovo sapere più educativo che riabilitativo, fondato su
valori comuni (espansione dell’esperienza vitale, centralità del momento creativo e del piacere) e
principi dinamici (apprendimento
come processo trasformativo, circolarità tra percezione fisica e tra-
Martinet - Grafica e movimento
Martinet - Stato d’animo e sue sfumature
sformazione cognitiva), con l’obiettivo di un miglioramento funzionale dell’intero sé.
Alcuni metodi per l’apprendimento strumentale hanno incorporato questa impostazione, dalla
“tecnica corporea globale per il pianista” di Raymond Thiberge (18801968) al passo ulteriore contenuto
in The Pianist’s Talent di Harold
Taylor (1925-2014) secondo cui “il
flusso di energia di una performance è un singolo, semplice gesto di espansione che opera attraverso la
postura complessiva, con la quale
tutti gli altri gesti sono correlati come prodotti derivati o aggiustamenti adattativi”. Già molto prima
il raffinatissimo Ferruccio Busoni
parlava di “gesti musicali” al pianoforte come di nuclei complessi di
tecnica, contenuti, memoria.
Una visione ecologica del movimento è anticipata da Moshe Feld2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
enkrais (1904-1984) per il quale
l’individuo è un sistema in equilibrio dinamico che richiede cura costante e attenzione al contesto: il
rapporto con l’ambiente, la riduzione degli sprechi di energia (a partire da quelli gestuali), la diversificazione delle abilità motorie sono alcuni dei suggerimenti per una migliore tutela dell’equilibrio psico-fisico.
Non è infrequente, anzi è testimoniato da esempi illustri, che tensioni inconsapevoli, superallenamento, ansia da prestazione conducano musicisti e altri performers a
somatizzazioni pesanti fino alla paralisi psicologica o funzionale. Anche per questo, tra nuova consapevolezza e azione preventiva, l’attenzione alla dimensione corporea è ora diventata voce integrante dei
programmi di studio musicale; pionieristico ne è stato l’avvio, nel
1999, dei corsi quinquennali di Espressione corporea di Susanne MarIL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Per un’estetica
del quotidiano
“La musica è sempre attorno a
noi, e se solo ci fermiamo ad ascoltarla possiamo capirlo”, insegna
John Cage. Ora che la portata storica di questo enfant terrible del secolo scorso è (o dovrebbe essere) fuori discussione, più valorizzato e diffuso andrebbe il suo impulso pedagogico, e non esclusivamente tra i
professionisti della musica. È alla
sua ricerca sul silenzio e sull’immersione ininterrotta in ambienti
sonori che dobbiamo una delle poetiche più comprensive del mondo
acustico, dove la musica viene a
coincidere con la vita reale, sollecita all’ascolto del nostro suono interiore, fisiologico e psicologico.
L’insegnamento è per tutti, utile
nelle attività quotidiane come in
quelle professionali: mentre sottolinea il valore della comunicazione
nell’atto artistico, Alfred Tomatis
(L’orecchio e la voce, 1993) orienta
verso la dilatazione dell’ascolto per
farci diventare “un grande orecchio, un’antenna che riceve e trasmette”; applicando alla danza il
principio di ascoltare e riorganizza-
re l’uso di ogni segmento in relazione a tutto il corpo, Marta Melucci
scopre che “l’esteticamente soddisfacente coincide finalmente con
l’efficace da attuare e il piacevole da
sentire” (Lezioni di metodo Feldenkrais. Per un’ecologia del movimento, 2011).
Sentire che siamo il nostro respiro, seguire la pulsazione cardiaca,
percepire suoni e ritmi costanti della nostra macchina, prendere contatto con singole parti generalmente ignorate e relegate a funzionalità
prosaica, scoprire che ogni gesto
funzionale può diventare espressione musicale, che possiamo diventare agenti di armonia, circondarci di
bellezze nascoste nel quotidiano: in
un realizzarsi progressivo, tutto
questo è, mi scuso per la retorica,
un gran regalo che possiamo fare a
noi stessi.❧
Federica Fortunato
Martinet - Stato d’animo
105
musicobibliofilia
Lo scaffale
a cura di Italo Bonassi
Susanne Martinet o il corpo musicale
“Come dar vita al proprio corpo? Come muovere
la testa, il gomito, il bacino, le gambe? Con quale energia e utilizzando quale spazio?”. Parte da questi
interrogativi sul potenziale musicale del nostro
corpo e del movimento la personalissima ricerca
che Susanne Martinet va conducendo da oltre
mezzo secolo con corsi e seminari in ogni continente.
Ad inizio ‘900 Emile Jaque-Dalcroze aveva postulato l’essenza muscolare del senso ritmico e la
necessità per ogni artista di svilupparlo globalmente attraverso tutto il corpo. Interessato non
tanto (o non solo) ad un metodo innovativo per
conseguire precisione ed espressività, il grande pedagogista svizzero perseguiva la fioritura di una
musicalità pervasiva, un vero e proprio ‘risveglio
mentale’ propedeutico alla didattica strumentale.
“Prima di accordare i movimenti isolati delle membra occorre acquisire una libertà corporea generale”.
La ritmica (un’area più aperta del tradizionale solfeggio) svestiva così i panni dell’allenamento meccanico per diventare esperienza diffusa, comprensione più intima, condizione mentale e fisiologica
per un’esecuzione non stereotipata.
Partita dalla rilettura del pensiero originario di
Jaques-Dalcroze, Martinet ha lavorato integrando
concetti e metodi anche di altre discipline (dalle arti orientali ai diversi metodi di rieducazione e consapevolezza sviluppati lungo il secolo scorso) e assorbendo da tutte le arti (pittura, danza, teatro)
strumenti di analisi e suggestioni operative.
Mentre avanza ora nella sua nona decade, Martinet mantiene un atteggiamento di continua esplorazione creativa, arricchita dal rapporto dialettico
con gli allievi. Parlare di suo ‘metodo’ (come cor-
106
rentemente si fa) rischia di tradire quello che ne è il
fondamento: lo spirito di ricerca verso le potenzialità espressive di un singolo gesto, il coordinarsi eutonico di movimenti più complessi. Vigilanza e attenzione creativa sono requisiti dei suoi stages dove
la tensione è sempre diretta alla ‘qualità’ del muoversi, al rapporto con lo spazio, all’ascolto degli altri e delle reazioni profonde ad ogni minimo cambiamento di peso, postura, velocità, energia.
“Qualsiasi insegnamento non può venir ricostituito nei suoi istanti più preziosi, quelli in cui si riesce a
raggiungere l’«io» intimo di tale o talaltro allievo e a
farne scaturire una luce spirituale. […] L’insegnare
per mezzo dell’entusiasmo interiore è il contrario
dell’insegnare in modo preconcetto e metodicamente
elaborato”.
Dall’azione e dalle parole di Susanne escono un
nucleo di pedagogia generale e l’ipotesi, per tutti, di
poter illuminare il quotidiano cercando la musicalità dello stare nel mondo.
e
Il lavoro di Susanne Martinet è sintetizzato per
grandi linee teoriche e abbondanti esemplificazioni
nel suo La musica del corpo. Manuale di Espressione Corporea, Trento, Edizioni Erickson, 1992; informazioni in www.lamusicadelcorpo.it. Per qualche
momento da un saggio al conservatorio di Padova:
www.youtube.com/watch?v=QrOIPy99U68.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
C
’è da dire anzitutto che si
tratta di una poetessa famosa ma conosciuta in Italia
quasi solo nei più ristretti ambiti
letterari.
Premiata con il Nobel nel 1996, è
considerata la più importante poetessa polacca del ’900. In Polonia, i
suoi volumi raggiungono cifre di
vendita che rivaleggiano con quelle
dei più notevoli autori di prosa, nonostante in un’occasione Szymborska
abbia ironicamente osservato, nella
poesia intitolata Ad alcuni piace la
poesia, che la poesia piace a non più
di due persone su mille.
Come non ricordare lo stupore
per non dire ironia con cui fu accolta da noi la notizia dell’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura ad un’illustre sconosciuta?
Del resto, la poesia polacca di allora
era da noi assolutamente ignorata
e, nel 1996, si trovava nelle nostre librerie una sola raccolta di poesie
della Wislawa, Gente su ponte, edita
da Scheiwiller.
Wisława Szymborska
(Kórnik, 2 luglio 1923 - Cracovia, 1º febbraio 2012)
LODE DELLA CATTIVA CONSIDERAZIONE DI SÉ
La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piraňa non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.
Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.
Il cuore dell’orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.
Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.
Wislawa Szymborska
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Italo Bonassi
107
LO SCAFFALE
In mancanza di eternità hanno ammassato
diecimila cose vecchie.
Un custode ammuffito dorme beato
con i baffi chini sulla vetrina.
Quanto a me, credente, sono viva.
La gara col vestito non si arresta.
E lui, quanta tenacia mi dimostra!
Vorrebbe vivere più della mia vita!
Per quanto riguarda il suo genere di scrittura,
molte delle sue poesie, toccando spesso argomenti
di respiro etico, hanno per tematica la condizione
della gente, considerata sia come individui singoli
che come membri della società umana. Il suo verso
si caratterizza per una disincantata introspezione
intellettuale, una sottile arguzia e una particolare
ironia, il tutto con una succinta ed elegante scelta
delle parole. Non mancano aperte o velate denunce
contro le ingiustizie e le storture del regime liberticida, dispotico, della sua Polonia. È senz’altro una
delle poetesse più rappresentative della letteratura
europea del ’900, con un genere di poesia ironica e
profonda, di cui Pietro Marchesani, il suo traduttore, ha indicato nell’incanto del silenzio il tratto più
interessante e significativo. Lei stessa, è stato ricordato, individua l’origine della poesia proprio e soprattutto nel silenzio.
Gli orsi battono le zampe ritmicamente
La scimmia in tuta gialla va in bicicletta,
il leone salta nel cerchio fiammeggiante,
schiocca la frusta e suona la musichetta,
schiocca e culla gli occhi degli animali,
l’elefante regge un vaso sulla testa
e i cani ballano con passi uguali.
Mi vergogno molto, io, umano.
Divertimento pessimo quel giorno:
108
LO SCAFFALE
gli applausi scrosciavano a cascata,
benché la mano più lunga d’una frusta
gettasse sulla sabbia un’ombra affilata.
Wislawa è nata a Bnin, in Polonia, il 2 luglio del
1923; la famiglia dopo pochi anni si trasferisce a
Cracovia e qui, s’un giornale locale, pubblica, ancora giovinetta, la sua prima poesia. Dopo pochi
anni sposerà il caporedattore del giornale. Dal ’41
al ’43, in piena occupazione delle truppe tedesche,
lavora come impiegata alle ferrovie per evitare la
deportazione. In questo periodo comincia la sua
carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Comincia inoltre a
scrivere storie e, occasionalmente, poesie. Nel 1945
s’iscrive a Lettere e Sociologia, ma dopo due anni
smette gli studi perché, essendo nel frattempo passata la Polonia sotto la dittatura comunista filorussa, vi si studiava quasi esclusivamente il marxismo,
e la cosa, parole sue, le riusciva assai noiosa. Nel ’47
diventa segretaria di redazione di un quindicinale
dedicato all’istruzione.
Ben presto si fa strada nel locale ambiente letterario, dove incontra lo scrittore Czesław Miłosz,
che la lancia definitivamente come poetessa.
Nel 1948 si sposa, ma è un matrimonio di breve
durata, cinque soli anni, e poi il divorzio.
Le sue poesie vengono intanto pubblicate con
continuità su vari giornali e periodici; la prima
raccolta Per questo viviamo verrà pubblicata molto più tardi, nel 1952, quando la poetessa aveva 29
anni.
In effetti, la pubblicazione di un suo primo volume era stata rifiutata per motivi ideologici: il libro,
che avrebbe dovuto essere pubblicato nel 1949, non
aveva superato la censura in quanto «non possedeva i requisiti socialisti».
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
DECAPITAZIONE
Decolleté deriva da decollo,
decollo, ovvero taglio il collo.
La regia di Scozia Maria Stuarda
salì al patibolo con la camicia adatta.
Una camicia scollata
e rossa come un’emorragia.
Nello stesso momento
in una sala appartata
Elisabetta Tudor regina d’Inghilterra
stava accanto alla finestra con un vestito bianco.
Vestito trionfalmente chiuso sotto il mento
e con al bordo una gala inamidata.
Pensavano all’unisono:
Signore, abbi pietà di me.
La ragione è dalla mia parte.
Vivere ossia essere d’intralcio.
In determinate circostanze la civetta
è figlia d’un fornaio.
(…)
La differenza d’abito – sì, di questa
si può essere certi.
Il particolare è inflessibile.
Come molti altri intellettuali della Polonia postbellica, e in genere in molti regimi dittatoriali,
nella prima fase della sua carriera la Szymborska
rimane ufficialmente fedele all’ideologia ufficiale
del Partito Comunista Polacco: sottoscrive petizioni politiche ed elogia Stalin, Lenin e il realismo
socialista. Ma si sente il fiato sul collo, ed ogni sua
mossa errata sa che potrebbe costarle molto cara.
Dopo il rifiuto della pubblicazione del suo primo libro, cerca di adattarsi al realismo socialista:
il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti
testi elogiativi dai titoli come Lenin oppure Per i
giovani che costruiscono Nowa Huta, dove esalta la
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
costruzione di una città industriale stalinista nei
pressi di Cracovia.
Intanto a poco a poco la poetessa prende nettamente le distanze da quel suo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche una sua successiva raccolta del 1954
(Domande poste a me stessa). Anche se, in effetti,
fino al 1960 non si distacca ufficialmente dal partito, comincia a instaurare contatti segreti con
gruppi dissidenti. Successivamente prende più
apertamente le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.
EPITAFFIO
Qui giace come una virgola antiquata
l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata
dell’eterno riposo, sebbene la defunta
dai gruppi letterari stesse ben distante.
E anche sulla tomba di meglio non c’è niente
di queste poche rime, d’un gufo e la bardana.
Estrai dalla borsa il tuo personal, passante,
e sulla sorte di Szymborska medita un istante.
Dal 1953 al 1966 è redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Vita letteraria», al quale collaborerà come collaboratrice esterna fino al 1981.
Sulle pagine di tale pubblicazione appare una serie di saggi (Letture facoltative) che sono stati successivamente pubblicati, a più riprese, in un volume.
Nel ’57 pubblica un’altra raccolta di versi, Uno
spasso. Ma il successo letterario vero e proprio arriva con la terza raccolta poetica, Appello allo Yeti,
del 1957. Nello stesso anno, per non fare la fine di
diversi dissidenti politici, aderisce anche al «Partito Operaio Unito Polacco», del quale rimarrà
membro fino al 1960.
109
LO SCAFFALE
Nel 1964 prende però coraggio, e firma insieme
ad altri 34 intellettuali la cosiddetta Lettera dei 34,
una severa protesta contro l’acutizzarsi della censura e la limitazione della libertà della parola. Il
governo risponde con un’altra lettera, cui aderiscono 800 ricercatori, scrittori e artisti. E Wislawa
finisce nel libro nero del regime.
La situazione precipita, e insieme ad altri scrittori straccia la tessera del partito, perciò perde il
posto di direttrice di una rivista letteraria. Oramai
si è definitivamente compromessa col partito, an-
110
LO SCAFFALE
che se le permettono di collaborare come giornalista con qualche articolo saltuario.
Nel 1973 firma una lettera aperta di protesta indirizzata al Parlamento, la Lettera dei 59, che si
oppone all’introduzione quale unica guida nella
Costituzione polacca del «Partito Operaio Unito
Polacco» e all’indissolubilità del patto polacco-sovietico.
Nel ’78 firma insieme a diversi intellettuali la dichiarazione costitutiva di un’associazione che si
propone di divulgare una cultura estranea al pensiero comunista. L’anno dopo inizia a collaborare
con una rivista che viene subito soppressa dalla
censura. La stessa fine che fa l’associazione stessa,
che viene disciolta d’autorità, e Wislawa e gli altri
intellettuali diventano sorvegliati speciali e cancellati dall’albo degli scrittori.
Nel 1981 il ministro della difesa Jaruzelski annuncia l’introduzione della legge marziale, assumendo il comando della nazione. La legge marziale rimane in vigore fino al 1983, e solo nel 1986
il governo promulga un’amnistia generale con cui
scarcera la maggior parte dei prigionieri politici.
Da questo momento tutti gli scritti di Wislawa
possono apparire solo con pseudonimi. Nell’86
l’organizzazione clandestina di Solidarnosc le
conferisce un Premio Culturale. Nel 1991 riceve in
Germania il Premio Goethe.
FOTOGRAFIA DELL’11 SETTEMBRE
Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase.
Con il crollo del Muro di Berlino la Polonia,
grazie anche all’appoggio della comunità internazionale, è il primo paese socialista a decretare la
fine del regime e l’indipendenza da Mosca. In seguito a libere elezioni Jaruzelski incarica Mazowiecki, giornalista e attivista politico, che per la
prima volta dopo 40 anni, forma un governo non
comunista.
Nel 1996 Wislawa viene insignita del Premio
Nobel per la letteratura «per una poesia che, con
ironica precisione, permette al contesto storico
biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà».
Per una donna schiva come lei, che trascorreva
le giornate in tranquillità, lavorando alle sue ultime poesie, ora che tutto stava andando secondo i
suoi piani, l’annuncio che le veniva conferito quel
premio che tutti gli scrittori sognano, giunge come un fulmine inaspettato. Lei, la relativamente
poco conosciuta Szymborska, aveva vinto il Premio Nobel 1996 per la letteratura che assolutamente non immaginava di meritare.
Sull’onda del Premio, la sua ultima raccolta poetica Due punti apparsa in Polonia nel 2005, ri-
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
scuote un ancora più strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi.
Dopo diversi mesi di malattia, il 1º febbraio 2012
Szymborska muore improvvisamente nel sonno a
casa sua a Cracovia.
Nulla è cambiato,
il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo.
Le torture c’erano, e ci sono, solo la terra
è più piccola,
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Le tematiche politiche costituiscono uno sfondo
costante per la sua opera fin dagli esordi. Diverse
sue poesie delle origini, come detto, glorificano il
comunismo, col quale inizialmente pensava si potesse davvero salvare l’umanità, mossa com’era
dall’amore per il genere umano.
In una poesia apparsa su un quotidiano di giovani militanti polacchi denuncia con parole di fuoco
i crimini hitleriani:
Voglio definirli con una parola:
com’erano?
Prendo parole comuni
rubo dal dizionario,
misuro, peso e controllo.
Nessuna è quella adatta…
La nostra lingua è imponente,
i suoi suoni d’un tratto – sono poveri.
Cerco con uno sforzo della mente,
cerco quella parola – ma non la trovo.
Non la trovo.
Ma subito capisce che non serve amare il genere
111
LO SCAFFALE
umano: bisogna apprezzare le persone. Apprezzare, non amare. Capisce che non è possibile amare
l’umanità in generale ma provare piacere per le
persone in particolare. Comprende che è necessario capire la gente, ma che non può offrire ad essa
la salvezza. Basta leggere Riabilitazione, che è una
sofferta autocritica del suo coinvolgimento politico e morale sotto lo stalinismo, in particolare della sua partecipazione, insieme a decine di altri intellettuali, ad una campagna di stampa contro alcuni sacerdoti polacchi, accusati di spionaggio in
un processo farsa nel 1953:
Mi valgo del diritto dell’immaginazione
e per la prima volta in vita evoco i morti,
scruto i loro volti, ascolto i loro passi,
benché sappia che chi è morto, lo è per davvero.
È tempo di prendersi la testa fra le mani
e dirle: – Povero Yorick, dov’è la tua ignoranza,
la tua cieca fiducia, l’innocenza,
il tuo “s’aggiusterà”, l’equilibrio di spirito
tra la verità verificata e quella no?
Li credevo traditori, indegni dei nomi
poiché l’erbaccia irride i loro tumuli ignoti
e i corvi fanno il verso, e il nevischio schernisce
– e invece, Yorick, erano falsi testimoni.
L’eternità dei morti dura
finché con la memoria viene pagata.
Valuta instabile. Non passa ora
che qualcuno non l’abbia perduta
(…)
La terra ribolle – e sono loro, già terra,
si alzano zolla a zolla, manciata su manciata,
escono dal silenzio, tornano ai loro nomi,
alla memoria del popolo, a lauri e applausi.
112
LO SCAFFALE
(…)
Vengono a noi. E duri come il diamante
tagliano silenziosi le vetrine.
Dall’esterno rilucenti,
le finestre di alloggetti accoglienti,
gli occhiali rosa, i cervelli, i cuori di vetro.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì.
Si convince amaramente come la sua iniziale
simpatia per il regime sia stata una lezione molto
dura per un intellettuale. Molti suoi colleghi erano stati incarcerati per aver cambiato come lei
opinione. Per sua fortuna, questo destino non le
era toccato, ma solo perché probabilmente non ha
mai avuto l’indole della vera attivista politica.
Nella seconda parte della sua carriera collabora
a pubblicazioni che la collocano al di là di ogni
dubbio nel novero dei pensatori liberi anti-comunisti. Durante la legge marziale in vigore nei primi anni Ottanta, pubblica, come detto, poesie sotto pseudonimo. Ma dopo la rottura con lo stalinismo – avvenuta all’inizio degli anni Cinquanta –
Szymborska resiste con risolutezza alla poesia
ideologizzata.
Alcune sue poesie sono introspettive, altre contengono manifesti politici di ampio respiro; a volte sembra sentire il desiderio spirituale di dire
qualcosa di più generale sul mondo come in Vietnam, parole senza tempo e senza luogo:
Gli sono troppo vicina perché mi sogni.
Non volo su di lui, non fuggo da lui.
Sotto le radici degli alberi. Troppo vicina.
(…)
Mai più morirò così leggera,
così fuori dal corpo, così ignara,
come un tempo nel suo sogno. Troppo,
troppo vicina. Sento il sibilo
e vedo la squama lucente di questa parola,
immobile nell’abbraccio. Lui dorme.
Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Altre volte sembra abbracciare il desiderio di
esprimere qualcosa di più intimo come in Gli sono troppo vicina:
Le sue parole sembrano scritte per un lettore
alla volta senza desiderio di contattare il “grande”
pubblico radunato nei teatri. Le sue parole instaurano automaticamente un rapporto personale senza pretesa di essere collettivo. D’altro canto
raccontare i propri sentimenti è come vendere la
propria anima a degli sconosciuti ma questo solo
perché i poeti, seppur condividendo anche cose
terribili, orribili, con tutti gli altri esseri umani,
riescono a descriverle, a non tacerle.
Molti poeti vivono uno stato di sospensione in
cui l’elemento sacrale appare essere il silenzio e
proprio il silenzio, come già detto, è spesso invocato, insegnato, cantato, descritto dalla Wislawa
in moltissime delle sue liriche. E anche dove il silenzio non viene nominato, sembra ergersi dalle
sue parole che nascono da un suo totale e rispettoso ascolto della realtà.
Un silenzio volto a coprire la paura di amare:
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
È vero, taccio – ma taccio
solo per timore
che il mio canto in futuro
mi dia dolore,
che verrà giorno e d’un tratto
smentirà le parole.
Un silenzio come spazio di condivisione di chi
si ama:
C’è un tale silenzio che udiamo
la canzone cantata ieri:
tu per il monte, io per la valle…
Udiamo – ma non ci crediamo.
Il silenzio anche come necessità pedagogica:
INSEGNO il silenzio
in tutte le lingue
mediante l’osservazione
del cielo stellato,
delle mandibole del Sinanthropus,
del salto della cavalletta,
delle unghie del neonato,
del plancton,
d’un fiocco di neve.
Il silenzio come grido contro la disumanità
della storia:
Si cantava con la terra in bocca.
Una leggiadra canzone
Sulla guerra che colpisce dritto al cuore.
Scrivi che silenzio c’è qui.
Sì.
Il silenzio infine di una donna violata e che,
113
LO SCAFFALE
Il Furore del Rock
a cura di Livio Bauer
morta dentro, risveglia le coscienze col suo silenzio violento:
Quando l’uscio si richiuse
e l’assassino corse giù,
lei si alzò come i vivi
risvegliati dal silenzio.
ma si sente, si intuisce in tutta la sua forza: un silenzio totale, esterno ed interno.
Quel silenzio che sta per morire giacché il giorno
inizia. Quel silenzio che sta per morire giacché è finito il sonno. Il silenzio forza della natura.
Il silenzio, quasi una divinità che risuona in
noi.❧
Sono moltissime le poesie e i versi legati al silenzio, anche dove il silenzio non viene nominato
Italo Bonassi
OPERE PRINCIPALI
Per questo viviamo, 1952
Posta letteraria, 2000, edizione italiana: Scheiwiller, 2002
Domande poste a me stessa, 1954
Attimo, 2002, edizione italiana: Scheiwiller, 2004
Appello allo Yeti, 1957, edizione italiana: Scheiwiller, 2005
Due punti, 2005, edizione italiana: Adelphi, 2006
Sale, 1962, edizione italiana: Scheiwiller, 2005
Opere, a cura di Pietro Marchesani: Adelphi, La Nave Argo, 2008
Uno spasso, 1967, edizione italiana: Scheiwiller, 2003
La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009): Adelphi, 2009
L
’assassino che è in me: un
titolo che evidentemente
‘prende’ molto in USA.
Oltre che al romanzo di Jim Thompson del 1952, giudicato unanimemente il suo capolavoro, da cui tutto nasce, è in capo anche a due film:
l’opera di Burt Kennedy del 1976
con Stacy Keach (inedita in Italia) e
quella di Michael Winterbottom
del 2010 con Casey Affleck, Kate
Hudson e Jessica Alba, ambedue
tratti dal libro di Thompson.
The Killer inside me è infine anche
un gran bel disco del 1987 dei Green
on Red, ispirato esplicitamente al
maestro del noir americano.
Nel secondo dopoguerra, erede
diretto delle pulp magazine1 (o pulp
fiction, da cui il film di Q. Tarantino
del ’94) e prima ancora delle dime
novel (1 dime = 10 cent), infuriava
negli USA il fenomeno paperback:
libri in brossura (e perciò a basso
1 - Riviste di bassa lega, pubblicate più o meno
dal 1900 al 1950 negli USA, piene di racconti
‘forti’. Il termine pulp definisce il tipo di carta,
tratta dalla polpa degli alberi: la meno pregiata,
naturalmente.
Ogni caso, 1972, edizione italiana: Scheiwiller, 2003
costo), letteratura di grana grossa
per palati forti. Storie violente, sesso, delitti, vendette atroci: tascabili
da edicola a grande distribuzione,
reperibili soprattutto fuori dal circuito delle librerie in supermarket,
dime-stores, stazioni e aeroporti. Il
fenomeno si esaurì intorno al 1960:
oltre a mettere in circolo quantità
industriali di spazzatura letteraria
permise tuttavia ad alcuni grandi
scrittori americani di sopravvivere
e poi di emergere prepotentemente
(Arthur Miller e John Steinbeck fra
i tanti); soprattutto, consentì di restare a galla in attesa di tempi migliori a tre giganti del noir a stelle e
strisce: Cornell Woolrich, David
Goodis e Jim Thompson (oltre a
Philip K. Dick per la fantascienza).
Racconta Arnold Hano, uno degli editor della Lion Books, tra le
principali editrici di paperback all’inizio degli anni ’50:
Consegnavamo agli autori delle sinossi (spunti di trama estremamente
schematici e semplificati), sui quali
gli si chiedeva di lavorare e costruire
un romanzo. Una di queste riguardava un poliziotto di New York che
ha una relazione con una prostituta
e finisce per ucciderla. Era il riassunto di un thriller da quattro soldi, ma
Jim gli diede un’occhiata e disse:
“Prendo questo”. Dopo due sole settimane si presentò con dodici dei ventisei capitoli di The Killer inside me,
avendo cambiato l’ambientazione e
trasformato la struttura, ma soprattutto avendo creato un personaggio,
ed una voce, cui sarebbe tornato negli anni e che costituiscono il suo personalissimo marchio di fabbrica. La
grandezza di Jim sta in ciò che riusciva a trarre dalle nostre banalissime sinossi e dai loro personaggi triti
e ritriti. Lui ci cavò The Killer inside
me2.
I suoi protagonisti sono sempre
dalla parte sbagliata, perdenti disperati e cattivi, fuori di testa ed almeno
inizialmente ben integrati, ma destinati comunque a finire male. Se cercate l’happy end rivolgetevi altrove.
2 - Luca Briasco, postfazione di Un uomo da
niente, Torino, Einaudi, 2013.
Grande numero, 1976, edizione italiana: Scheiwiller, 2006
Livio Bauer
Gente sul ponte, 1986, edizione italiana: Scheiwiller, 1996
Jim Thompson - Green On Red, The Killer inside me
Letture facoltative, 1992, edizione italiana: Adelphi, 2005
La fine e l’inizio, 1993, edizione italiana: Scheiwiller, 1997
Vista con granello di sabbia, 1996, edizione italiana: Adelphi, 1998
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2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
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IL FURORE DEL ROCK
Questo tratto lo distingue nettamente, insieme appunto a Woolrich
e Goodis3, dall’Hard Boiled classico
di Raymond Chandler, Dashiell
Hammett e degli innumeri epigoni,
in cui l’eroe è sempre un private-eye
duro, onesto, dal cuore d’oro e destinato a farcela sempre, magari un po’
acciaccato ma vincente.
Il protagonista di Thompson, invece, sempre lo stesso sociopatico,
anche se cambiano nome e professione, corre pervicacemente verso
l’ineluttabile, tragico, meritato finale. Per lui non c’è speranza, né voglia di redenzione. È un personaggio tormentato e sfortunato, sì, ma
che al momento di scegliere prende
sempre la strada sbagliata.
Lo scatto letterario, il tratto geniale, il contributo innovativo di
Thompson al noir è però la scelta di
narrare gli eventi in prima persona
e dal punto di vista soggettivo, parziale e distorto del protagonista
(che è sempre negativo). E che per
buona parte del libro appare tutt’al
più come una sfortunata vittima di
eventi contrari e di cattiverie altrui.
3 - Altre due vite quantomeno problematiche:
Cornell Woolrich (1913-1968), autore raffinatissimo avvicinato a Scott-Fitzgerald, anch’egli etilista, non accettò mai la propria omosessualità e
visse all’ombra della madre, cui lo legava un rapporto ossessivo e malato. Da uno dei suoi scritti
Hitchcock trasse il geniale Rear Window (La finestra sul cortile, 1954, con James Stewart e
Grace Kelly). David Goodis (1917-1967) visse,
volontariamente, una vita da recluso. Solo, rassegnato, sconfitto senza combattere, morì 49enne, un anno dopo la madre. Delmer Daves trasse da uno dei suoi romanzi il celebre Dark
Passage (La fuga, 1947, con Humphrey Bogart e
Lauren Bacall). Un altro fu utilizzato da François
Truffaut per Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960).
116
Più che il ‘perché’ (c’è sempre comunque una spiegazione: dalla ‘infamante’ ferita di guerra ad uno
schematico tentativo di psicanalisi
freudiana, allora in grandissima voga in letteratura, poesia, pittura, cinema, …) gli interessa raccontare
‘come’ i suoi antieroi progressivamente e inevitabilmente si avvitano
sulle loro psicosi.
I suoi prodotti migliori, nella frenesia creativa indotta anche da necessità ‘alimentari’ (tredici romanzi
scritti e pubblicati tra il 1952 e il
1955), sono proprio quelli narrati
dal protagonista deviante, disturbato, decisamente psicopatico: oltre al
masterpiece The Killer inside me, in
cui il vicesceriffo Lou Ford, apparentemente bonario ma noioso e
un po’ tonto, si rivela progressivamente un perfido manipolatore, un
misogino deviato, spietato, e irrimediabilmente pazzo, da citare almeno anche il sicario di Savage
Night (Notte selvaggia, 1953), il venditore porta-a-porta di A Hell of a
Woman (Diavoli di donne, 1954:
schizotica personalità sdoppiata,
ognuna delle quali racconta, a capitoli alterni, la propria delirante verità), il cronista di provincia di The
Nothing Man (Un uomo da niente,
1954), il pugile suonato di After
Dark, my Sweet (È già buio,
dolcezza, 1955) e, dieci anni dopo,
l’altro sceriffo e ‘folle di Dio’ di Pop.
1280 (Colpo di spugna, 1964).
Jim Thompson continua implacabile a raccontare il suo mondo disperato e irredimibile, il suo inferno in terra costellato di demoni e
IL FURORE DEL ROCK
ossessioni, conciliandolo faticosamente con le esigenze commerciali
e seriali dei tascabili da edicola.
A volte le sue opere sono talmente dark e deprimenti da indurre gli
editor ad imporgli tagli e manomissioni per renderle un po’ più ‘potabili’ al grande pubblico. Thompson
raccontava di aver «speso più tempo a litigare su The Nothing Man
che a scriverlo; e alla fine, per poterlo vendere, ho dovuto rovinare il
finale». E noi rivolgiamo un sentito
ringraziamento a Mr. Hano della
Lion Books, per averci trasmesso intatto il tragico, apocalittico finale di
The Killer inside me.
La mancanza di successo che lo
porta a bere sempre più smodatamente (o viceversa, poco importa)
non intacca le sue certezze, tanto
che sul letto di morte, distrutto
dall’alcol, nel 1977, suggerisce saggiamente alla moglie Alberta di custodire con cura i suoi manoscritti,
benché all’epoca nessuna delle sue
opere fosse nei cataloghi di vendita
USA.
Un perdente a tutto tondo, dunque, Jim Thompson, nonostante il (o
forse ‘a causa del’?) suo genio, all’epoca incompreso. Forse fu anche
questo ad avvicinarlo ai Green on
Red, piccolo grande gruppo, fra i più
vitali esponenti del Paisley Underground di Los Angeles dei primi anni ’80. Questo movimento musicale
accomunava una serie di formazioni
sotto l’egida del ritorno ai suoni dei
mitici anni ’60, con grande attenzione alle radici e un amore sfegatato
per le divagazioni psichedeliche, in
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
aperta contrapposizione all’imperante sound elettronico, sintetico,
‘pompato’ e modernista del decennio reaganiano.
I Green on Red seppero però velocemente svincolarsi da ogni legame
di genere, creando presto un’impronta musicale tutta loro, fatta di
blues lenti e ‘desertici’, chitarre slide
in puro western-style, armonica a
bocca, melodie ispirate a Neil
Young ed una ‘voce’ acuta, minacciosa, ‘sudista’ e strascicata dovuta
al co-leader Dan Stuart, altro devoto suddito di Bacco.
La poetica tutta americana del
viaggio on the road, l’etica del drop
out (rinuncia, abbandono), l’estetica
dell’outlaw (fuorilegge), l’affinità con
gli autori ‘maledetti’ del noir, ballate
indolenti e febbrili impastate d’organo e di chitarre, alcol e droghe (potevano mancare?), rock’n’roll sferraglianti e fragorosi… ed ecco apparecchiati un’immagine affascinante
ed un futuro da perdenti.
Il successo inversamente proporzionale alla struggente freschezza
delle loro canzoni ingigantì i contrasti interni dovuti all’inaffidabilità
di Stuart e portò a continui cambi
di formazione, tanto che la sigla
‘Verde su Rosso’ portò presto a definire semplicemente il duo Dan
Stuart-Chuck Prophet, più gli ac-
compagnatori del momento. Attenzione particolare verso i ribelli e gli
sconfitti di ogni epoca, dunque: disperati, fuggitivi e spostati di ogni
genere costellano le canzoni dei Green on Red, come i libri di Jim Thompson. Alcuni titoli significativi: Baby
loves her Gun (Baby ama la sua pistola), Gold in the Graveyard (Oro
nel cimitero), Two Lovers (waitin’ to
die) (Due amanti, aspettando la
morte), Rock’n’roll disease (Malati di
R’n’r), Zombie for Love (Morto-vivente per amore), You couldn’t get
arrested (Non ti arresterebbero),
Pills and Booze (Pillole e liquori-le
grandi passioni di Dan), La vida
muerta (La vita morta), Here come
the Snakes (Ecco i serpenti), Scapegoats (Capri espiatori), Cool Million
(Un intero milione), …
Stuart affermò ripetutamente di
voler cantare le gesta dei marginali,
la mean people, contrapposti all’effimero ed ingannevole American dream; si spinse addirittura a dedicare
The Drifter (Lo sbandato) al serialkiller Ted Bundy.
The Killer inside me (Mercury,
1987) suggella il gemellaggio rocknoir. Undici pezzi, produzione di
Jim Dickinson, venerando nume
tutelare del southern blues rurale, i
cui figli Luther e Cody portano
avanti tuttora lo spirito del lavoro
paterno. Vendite omeopatiche, naturalmente. Titoli come Mighty
Gun, Ghost Hand, No Man’s Land,
Born to fight e Killer inside me, tanto per non uscire dal seminato. Copertina stupenda ed estremamente
evocativa: stazioni di servizio, traffico, asfalto, il tramonto su un deserto desolato ad evocare psicosi
individuali e collettive di una nazione; un occhio al passato (il sole
calante nello specchietto) ed uno
ad un futuro cupo (è già crepuscolo
davanti al parabrezza).
Musicalmente nulla di nuovo
(per fortuna): tracce di Neil Young
e di The Band, un country ‘sporco’
ed agli antipodi delle classifiche di
Nashville, un rock’n’roll pieno di livore e perfino un tocco di gospel. E
la solita grande, disperata rabbia
urlata da Dan Stuart (l’iniziale, apocalittica Clarksville).
Là dove il sogno americano diventa incubo, dove i pochi che arrivano al successo svaniscono nella
moltitudine dei perdenti, dove imperano i brutti, sporchi e cattivi…
là in mezzo troverete anche Jim
Thompson e i Green on Red, ed alcune delle migliori pagine mai
scritte e delle più struggenti canzoni mai suonate.❧
Livio Bauer
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Enciclopedia Rock, 5 voll., 1985-1999
RICCARDO BERTONCELLI-CHRIS THELLUNG, 24.000 dischi, Zelig, 2004
EDDY CILIA-FEDERICO GUGLIELMI, 1000 dischi
fondamentali, Giunti, 2012
PAOLO MEREGHETTI, Dizionario dei film, Baldini Castoldi Dalai, 2004
ROBERT POLITO, Savage Art: a Biography of Jim Thompson,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Vintage, 1996
JAMES SALLIS, Vite difficili: l’anima nera dell’America, Giano, 2004
GIANLUCA SERRA-FABIO CERBONE, Rock Noir, RootsHighway, 2012
JIM THOMPSON, L’assassino che è in me, Fanucci, 2010
JIM THOMPSON, Un uomo da niente, Einaudi, 2013
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IL FURORE DEL ROCK
JIM THOMPSON
Hai l’eternità; ed è larga un miglio,
profonda due dita e piena di coccodrilli.
James Myers Thompson nasce nel 1906 ad Anadarko, Oklahoma, figlio di uno sceriffo corrotto
che perde tutti i suoi soldi speculando sul petrolio
(edipicamente, è fin troppo facile notare che alcuni
dei suoi cattivi più riusciti sono proprio poliziotti
‘marci’). Sperimenta una girandola di mestieri (come altri suoi personaggi), obbligato com’è a mantenere la famiglia ma, come loro, non farà mai fortuna (in contraddizione con l’American Dream e in
perfetto accordo con la realtà, nella maggioranza
dei casi), anche per colpa sua e dei suoi eccessi.
Già da adolescente fattorino d’albergo subisce
infatti il primo collasso nervoso da alcolismo. Molti dei suoi personaggi bevono come spugne, considerandolo del tutto normale. Ed i rari momenti sereni dei suoi romanzi sono vissuti sempre di mattina, in sobrietà, mentre le azioni più scellerate spesso vengono perpetrate di notte, dopo una giornata
di libagioni. E però il vicesceriffo Lou Ford, archetipo della sua galleria di pazzi furiosi, beve solo
caffè lungo… Entra in contatto con la peggiore feccia (truffatori, falliti, prostitute, spacciatori), esperienze che gli serviranno per i suoi migliori romanzi. Gravita da sempre ai margini dell’ambiente
letterario e giornalistico e agli inizi degli anni ’30
dirige per un breve periodo l’Oklahoma Writers
Project, uno dei tanti istituti del New Deal rooseveltiano finalizzati a riemergere dalla Grande Depressione. Aderisce per qualche anno, dal 1936 al
1938, al Partito Comunista.
Trasferitosi a San Diego, California, lavora
nell’industria aeronautica. Scrive i suoi primi romanzi, si dedica esclusivamente al noir, e final-
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IL FURORE DEL ROCK
mente nel ’52 inizia la collaborazione con la Lion
Books, che lo porta sì a dover sostenere ritmi di
produzione forsennati, ma anche a godere di una
certa libertà creativa (fatte salve le esigenze di
mercato) e ad affinare incredibilmente lo stile,
tanto da diventare un caposcuola, purtroppo totalmente misconosciuto in vita.
Per arrotondare diventa anche reporter del Los
Angeles Mirror (ed ancora: l’io narrante di The
Nothing Man è uno scribacchino fallito).
Hollywood si accorge di lui: il geniaccio britannico Stanley Kubrick (altro patito di psicanalisi)
lo chiama a collaborare alla sceneggiatura dei suoi
primi capolavori: The Killing (Rapina a mano armata, 1955) e Paths of Glory (Orizzonti di gloria,
1957). Kubrick, però, accredita a sé stesso il lavoro
di scrittura di Thompson. Si favoleggia anche di
un’intera sceneggiatura (Lunatic at large, Pazzo in
libertà) apprezzata dal regista, che avrebbe voluto
realizzare il film, da cui fu però distolto a causa di
obblighi contrattuali per il detestato Spartacus
(pepla del 19604). In seguito lo script, realizzato in
un’unica copia, andò perduto. Thompson continua a produrre circa un romanzo l’anno (per un
totale di circa quaranta) e lavora proficuamente
per la tv, scrivendo diversi episodi per serial al
tempo famosi ma oggi dimenticati.
Nel 1970 Robert Redford gli paga 10.000 $ una
sceneggiatura poi non utilizzata su un hobo (vagabondo, barbone) durante la Grande Depressione.
Nel 1972 esce The Getaway! (Getaway!) di Sam
Peckinpah, dall’omonimo noir di Thompson del
1958, primo di una lunga serie di film tratti dai
suoi libri. Anche stavolta la partecipazione come
4 - Così erano definiti spregiativamente nell’ambiente cinematografico i film storico-mitologici che spopolavano all’epoca. Dieci anni
più tardi il filone spaghetti-western, altrettanto vituperato dai
puristi.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
co-sceneggiatore non è accreditata: Steve McQueen, protagonista con Ali McGraw ed ai tempi
superstar onnipotente, non gradisce quello che a
lui pare un eccesso di dialogo a discapito dell’azione pura, e così Peckinpah stesso, insieme ad
un giovanissimo Walter Hill (poi regista di successo: The Warriors, I Guerrieri della notte, 1979,
fra gli altri) riscrive il film, anche se Thompson
affermerà sempre che comunque fu utilizzato
gran parte del suo lavoro poi rovinato, secondo
lui, dal solito rassicurante happy end. Nel 1994
stesso titolo (senza l’esclamativo) e stesso finale
per un remake anonimo (appunto) di Roger Donaldson, con A. Baldwin e la splendida Kim Basinger.
Thompson è anche attore: una particina in Farewell, my lovely (‘Marlowe, il poliziotto privato’
di Dick Richards, 1975, con Robert Mitchum),
per colmo d’ironia tratto da un capolavoro del
suo ‘rivale’ hard boiled Raymond Chandler.
Mentre negli Stati Uniti i suoi libri sono tutti da
tempo fuori catalogo, inizia dalla Francia (seconda patria del noir, che là preferiscono nella variante poliziesca, il polar) la riscoperta della sua
opera, e con essa un regolare flusso di royalties.
Secondo il suo biografo Robert Polito (vedasi
bibliografia), comunque, il suo cronico bisogno
di soldi era dovuto più che altro alle cattive abitudini, perché è sempre stato pagato regolarmente,
ed ai (buoni) livelli di tutti gli altri scrittori professionisti.
Thompson, etilista cronico fin dalla più giovane età, tabagista accanito e consumatore di anfetamine, è costretto a letto da una serie di infarti.
Alla fine rifiuta di nutrirsi, accelerando in tal modo il trapasso, avvenuto ad Huntington Beach,
California, nel 1977.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Nel 1990 Stephen Frears porta sul grande schermo The Grifters (Rischiose abitudini), dall’omonimo romanzo del 1963. Prodotto da Martin Scorsese
e sceneggiato da Donald E. Westlake (giallista
americano di successo), con John Cusack e Anjelica Huston.
Almeno altri sei romanzi di Jim Thompson (in
aggiunta alle due versioni di The Killer inside me e
al doppio The Getaway) vengono ‘tradotti’ in altrettanti film negli anni tra i ’70 e i ’90, tra Francia
(Bertrand Tavernier, Alain Corneau) e USA, con
alterni ma mai memorabili risultati a riprova, comunque, della crescente popolarità postuma del
noir-writer di Anadarko.
James Sallis, romanziere e critico americano, nel
suo Vite difficili definisce i noir di Thompson «la
tragedia dell’uomo della strada nella metropoli novecentesca». Tragedia non più vissuta da protagonisti regali e/o divini come nei classici greci, o agita
in senso spirituale/intellettuale come in Dostoevskij, ma pescando umanità e vicende direttamente e concretamente on the road.
È citato fra gli scrittori preferiti, assieme a
Flannery O’Connor e James M. Cain, da Bruce
Springsteen; fra le maggiori influenze da Jo Nesbo
(giallista norvegese).
Di lui Stephen King dice che «al meglio di sé era
semplicemente il migliore, perché non era disposto a fermarsi».
«The Killer inside me è il più grande romanzo su
una mente criminale mai scritto», Stanley Kubrick
dixit.
James Ellroy (scrittore noir americano, ego sconfinato) afferma: «dopo di me, che sono il numero
uno, Jim Thompson è sicuramente il migliore».
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IL FURORE DEL ROCK
GREEN ON RED
Si formano nel 1977 a Tucson, Arizona. Nell’organico spiccano Dan Stuart, cantante carismatico
ma incline agli eccessi (usa esibirsi con un cavatappi appeso al collo, a mo’ di monile…), e Chris
Cacavas, tastiere e chitarre, figlio di John, notissimo autore di colonne sonore per la TV (Kojak e
Hawaii 5.0, fra le altre) e il cinema (Airport ’74 e
’75).
Nel 1980 sono già a Los Angeles, punta di diamante (insieme ai Dream Syndicate di Steve Winn
e Karl Precoda, per la cui etichetta incideranno il
secondo LP) del neonato Paisley Underground
(underground californiano, ‘morbido’, contrapposto a quello della costa-est, tradizionalmente più
duro e ‘cattivo’) insieme, fra gli altri, ai Long Ryders
di Sid Griffin e Steve McCarthy, ai True West di
Gavin Blair e Russ Tolman ed ai Rain Parade dei
fratelli Steven e David Roback.
I primi quattro dischi (1981-85), con quattro etichette diverse a testimonianza dello scarso riscontro commerciale, nonostante il plauso unanime
della critica più raffinata5, sono perfettamente allineati al pop vintage, psichedelico e velocizzato,
che caratterizza le band Paisley Underground.
A partire dal 1985 il sound diventa progressivamente più adulto, svincolato dal ‘giogo’ paisley e
peculiare del marchio Green on Red. Radici a tutto
tondo: blues rockato e rallentato soprattutto, ma
anche western, country, folk acustico, rhythm’n’blues sudista, soul, honky-tonk. Tutto riproposto attraverso i filtri di personalità, gusto, passione
e talento garantiti dalla band. Sembra esattamente
5 - «Surely the most scandalously overlooked band of the last decade»
per il Times, la band più scandalosamente sottovalutata del decennio, insomma, secondo il primo giornale americano.
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IL FURORE DEL ROCK
la ricetta che ha portato a successo, fama e soldi il
revival folk del movimento denominato Americana, solo… con vent’anni d’anticipo, purtroppo.
E poi tracce di Neil Young, Bob Dylan e Stones;
cantato inconfondibile e timbricamente caratteristico.
Sempre nell’85 entra nel gruppo Chuck Prophet
IV, da Austin, Texas, grande chitarra, d’ora in poi
co-leader e co-autore di tutti i pezzi, insieme a
Dan Stuart. Questo è a mio avviso il periodo d’oro
dei Green on Red, che pubblicheranno fino al 1992
altri 6 dischi ed un live, per tre diverse etichette
minori.
Nell’88 se ne va Cacavas, per contrasti con
Stuart, e i due leader rimasti, con sezioni ritmiche
e tastiere continuamente diverse, portano in giro
sempre più stancamente e faticosamente la loro
musica. Apprezzati più in Europa che in patria,
dopo l’inevitabile scioglimento intraprendono entrambi la carriera solista, con scarsi risultati sia di
qualità che di vendita, a riprova che anche nel
rock non bastano talento e passione per arrivare
in cima. E col tempo, senza fortuna e successo, si
accentuano vizi, difetti e insofferenze che portano
regolarmente a litigare e dividersi.
Nonostante cantassero a squarciagola, nel 1985,
Se proprio dovete prenderne uno solo scegliete
il primo: in No free Lunch (miniLP) c’è tutta la
freschezza del nuovo sound, la gioia della scoperta, ancora senza tracce dell’amarezza e disillusione che renderanno via via più cupi e pessimisti,
anche se a loro modo fascinosi, i lavori degli anni
successivi. Suoni stupendi, è prodotto da Dan
Stuart che, al canto, come Cacavas (tastiere) e
Prophet (chitarre) si produce davvero al meglio
di sempre. E l’apertura con Time ain’t nothing,
ballata assassina (una delle mie 10 canzoni da iso-
la deserta), scalda il cuore, esalta, commuove e…
ringiovanisce.
Aggiungete anche The lost Weekend (A&M: finalmente una major!, 1985) accreditato a Danny
& Dusty (Dan Stuart e Steve Winn dei Dream
Syndicate), cui parteciparono alcuni dei migliori
musicisti del nuovo movimento di Los Angeles.
Country rock da antologia e ballate senza tempo,
come la dylaniana Knocking on Heaven’s Door.
Forse il miglior epitaffio per l’utopia paisley.
Time ain’t nothing,
when you’re young in heart,
and you so still burn…
Green on Red: discografia essenziale
No free Lunch (EP, Mercury, 1985)
The Killer inside me (Mercury, 1987)
Here come the Snakes (Restless, 1988)
Live at the Country Club (China, 1989)
Scapegoats (China, 1991)
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il furore del cinema
Il Furore del Cinema
a cura di Catia Simone
“Se devo decidere cosa scrivere di te, dobbiamo parlare molto”.
Q
uesta è la frase chiave pronunciata da Truman Capote, interpretato dal magnifico e compianto Philippe Seymour
Hoffman, che per questa rappresentazione del grande scrittore
americano ha ricevuto nel marzo
del 2006 l’Oscar come miglior attore protagonista.
La locuzione è diretta a Perry
Smith, uno dei due efferati assassini della strage famigliare raccontata dallo scrittore americano nel suo
celebre libro A sangue freddo da cui
è tratto l’omonimo film.
La trama descrive la perbenista
società americana di fine anni ’50,
nel momento fatale in cui il mondo
di lì a poco avrebbe scoperto che il
colore della pelle non significava
una malvagia diversità, ma solo
pregiudizio.
Un mondo in cui il successo letterario di Harper Lee, autrice de Il
buio oltre la siepe, amica e accompagnatrice di Truman Capote in
questo lungo viaggio verso il Kansas alla ricerca di una verità lettera-
ria, contribuisce alla causa dell’eguaglianza sociale tra neri e bianchi.
Truman Capote si confronta con
i due criminali, in particolare con
Perry Smith, aiutandoli a sopravvivere per mero egoismo, perché lui
ha una storia da scrivere e lo vuole
fare diversamente dalle altre volte.
Capote vuole documentare il crimine, raccontarne i particolari recandosi proprio nei luoghi dove i
protagonisti di questa triste vicenda
hanno inconsapevolmente costrui-
to l’incipit del suo libro, rivoluzionando di fatto il mondo della letteratura legata alla cronaca nera.
Luoghi e persone accolgono Capote come un divo; lo stesso Perry
per prima cosa chiede allo scrittore
se conosce Liz Taylor, argomentando e raccontando a Capote la propria vita, anche con una certa proprietà di linguaggio che però non
impressiona lo scrittore americano,
il cui unico interesse per quel detenuto consiste nel capire il perché di
un omicidio tanto crudele quanto
inutile, e tracciare la strada su cui la
sua penna troverà una lunghissima
direzione.
Truman e Perry, uno di fronte
all’altro, in una piccola cella, due
facce della stessa medaglia: quella
dell’abbandono e della diversità.
Figli di due madri il cui istinto
materno si è fermato non oltre il
cordone ombelicale, svezzati e nutriti dal buio di un amore mai ricambiato. Perry mezzosangue indiano, allevato nella polvere, nella
fame e nella follia alcolica. Truman
vissuto nella solitudine di uno sgabuzzino dal quale spia l’amore,
quello che a lui è negato e proposto
come un fermo immagine erotico
tra i contorni di una serratura.
È come se Capote in Perry avesse
percepito ciò che lui sarebbe potuto
diventare senza il talento della scrittura, senza quella sua personalità
così stravagante che non si è lasciata annientare dalla mentalità di
un’epoca e di una società che non
ammetteva stranezze. Eppure
quell’originalità gli ha permesso, insieme ai suoi libri, di diventare il
personaggio che era, proiettato in
una Hollywood nella quale gli scrittori erano delle star al pari degli attori. Capote alter ego di Perry, affascinato dalla cultura, dalla vastità
del suo mondo che riusciva a riempire le ore che lo separavano da una
morte annunciata e rinviata più
volte, dietro sbarre di ferro che lo
consegneranno al cielo senza vedere mai più la luce.
Un grande film, un grande scrittore, una grande storia, una grande
sofferenza.
La ridondanza è d’obbligo quanto
la commozione che suscita la scena
in cui la standing ovation alla prima
lettura di questo libro non ancora
terminato determina, anticipandolo, il successo. E mi chiedo: il rispetto e gli onori che si riservavano agli
scrittori un tempo, esistono ancora? Sì, rispetto per un mestiere che
un tempo dava fama e gloria, e che
oggi è considerato forse il capriccio
di una grande quantità di scribacchini che non hanno capito che
scrivere è anche ricerca, pazienza e
autodistruzione in taluni casi.
A sangue freddo non è solo un libro e non è solo un film. Non è solo
un crimine.
È l’ossessione di uno scrittore che
fa di un reato un capolavoro letterario. ❧
Catia Simone
Catia Simone
Capote, A sangue freddo
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marginalia
Marginalia
a cura di Renzo Galli
V
ladimir Beşleagă ha accettato di scrivere per Il
Furore dei Libri la prefazione per l’edizione in lingua rumena dell’antologia Parole per strada
…nel mondo che raccoglie tutti i 48
racconti selezionati nelle cinque edizioni del nostro concorso e sarà diffusa nelle biblioteche, nelle scuole e
nelle università della Moldavia e della Romania.
Avrei potuto dire: in una goccia
di pioggia. Oppure: in una stilla di
rugiada. Però ho scelto lacrima.
Come mai? Perche la lacrima simbolizza perfettamente il vissuto, il
profondo vivere umano.
Sì, la lacrima è un segno di un
grande, lacerante dolore. Giusto.
Però, a volte, è il segno di una irrefrenabile gioia!
Il libro Cuvinte pe stradă …în lume
ci raggiunge dall’Italia. È un libro insolito, originale, a suo modo particolare. È pieno di bellezze, di saggezza, e, nello stesso tempo, impregnato
di tragicità. Non posso trattenermi
dal non attribuire queste qualità ad
un intero Paese…
Leggendo il libro, dall’inizio fino
alla fine, con tante emozioni, associazioni e ricordi, il pensiero mi ha
portato al De Sanctis, il quale diceva:
“È sufficiente leggere Dante per
conoscere l’intero spirito dell’Italia”.
Un mondo, un popolo con tutta la
sua storia espressa in un’opera di un
singolo autore. Uno di genio!
Come potremo denominare, come genere letterario, questi testi
concentrati al massimo, in non più
di due pagine, che ci offrono una lettura di squisito piacere? Io li chiamerei: mini-storie. Oppure: novellette.
Ma cosa conta classificare? È l’essenza che conta. Il messaggio che
porta. E, tuttavia, in un capolavoro
la forma fa parte del… contenuto.
Oggi, nel nostro mondo super-industrializzato e tecnicizzato, le parole sono state banalizzate, addirittura
rese in gran parte senza valore. Dunque, là dove sarebbero sufficienti pochissime parole per esprimere un’idea, ne vengono invece gettate a pa-
late, in modo tale che non si capisce
più quello che un tale voleva dire.
Questo libro viene a riabilitare il
valore e l’importanza della parola,
cioè il senso e il suo significato primario, primordiale.
Soltanto la poesia può realizzare
questo. Dunque, e più vicino alla verità, sarebbe più esatto denominare
gli scritti del libro: poesie in prosa.
Perché la proprietà fondamentale
della poesia è la massima concentrazione dell’espressione: la concisione,
la brevità… A proposito, i tedeschi
hanno il proprio termine per la poesia: Dichtung. Che vuol dire, letteralmente: compatto/denso, ben chiuso,
ermetico…
Il libro „Cuvinte pe stradă …în
lume” ci racconta tante verità sull’esistenza umana, quella richiusa fra
“Il Dio di tutti”, e Lucifero, tanto che
quando arrivi alla fine della lettura
hai l’impressione di aver viaggiato e
conosciuto l’intera umanità, con
tutta la sua tormentata storia… Oppure, almeno quella della nostra
sempre insanguinata Europa…
V ladimir Beşleagă
Un mondo in una lacrima
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Un cimbro, abitante delle montagne, lui, l’ultimo discendente del suo
vecchio popolo, aiuta una coppia di
un’altra nazionalità, smarrita nella
bufera di neve, offre loro riparo, assiste la donna incinta al parto… Lui,
che domani non ci sarà più! Non è
questa una sconvolgente prova della
solidarietà umana, aldilà di razza,
popolo, colore della pelle? Oppure:
un nipote, avvisato che è morta la
nonna, va alla vecchia casa di lei, andata in rovina, per fare quello che fa:
venderla, levarsi un peso di dosso…
Tuttavia, la nonna gli aveva lasciato
come testamento un pacchetto con
la raccomandazione di aprirlo solo
dopo aver raggiunto la casa. Arrivato sulla soglia, vi trova una piccolissima scatola, ricevuta in dono per la
Prima Comunione, nella quale custodiva le pietruzze più belle… Il
suo cuore si riempie di un infinito amore per la sola persona che gli era
rimasta della sua famiglia, abbandona l’idea di vendere la vecchia casa,
deciso a ristrutturarla e averne cura… Cosa potrebbe essere questo se
non il sacro legame e la continuità
delle generazioni?
Oppure: una persona trova un libro sulla panchina, con dentro un
post-it: prendere il libro e, in cambio,
liberarne un altro in un posto insolito… Quando ho letto questo affascinante racconto e ho trovato le parole
liberare un libro, mi sono detto: ma
come, liberare? Poi, dopo aver letto
il finale della storia, ho capito: i libri
che noi raccogliamo nelle nostre biblioteche non assomigliano forse
all’uccello del paradiso: richiusi sui
ripiani, invece di volare verso altri e
altri lettori? E siamo noi quelli che li
teniamo chiusi, come nelle gabbie…
È l’idea fantastica, bellissima, di questo raccontino poetico!
Ho incontrato fra gli autori dei mi-
granti – persone venute da altri paesi
e stabilite in Italia, dopo aver abbandonato la loro Terra a causa dei conflitti interetnici, guerre, genocidi…
L’autrice di una straziante testimonianza dice del Paese che l’aveva adottata: È una buona matrigna, ma
non avrebbe mai potuto sostituire
una madre, una madre che non c’è
più.
Affascinato dalla lettura, avevo
scelto come titolo per questa prefazione una frase un po’ poetica. Vorrei chiudere con una simile: „Cuvinte pe stradă…” offre al lettore una
vera collana di perle letterarie. E la
loro trasposizione in romeno, realizzata con ispirazione da Ecaterina
Deleu, merita tutte le lodi. ❧
Vladimir Beşleagă
(traduzione dal romeno di Ecaterina Deleu)
VLADIMIR BEŞLEAGĂ
Vladimir Beşleagă (1931, Mălăieşti, Repubblica Moldova). Romanziere di lingua rumena, saggista, traduttore. Nome di riferimento
nella prosa, cultura e vita politica. Ha cominciato la sua attività letteraria negli anni ‘60. Il suo libro di debutto Zbânţuilă /
Scavezzacollo (1956) e altre opere sono dedicate ai lettori più piccoli. Il primo romanzo di Beşleagă, Zbor frânt / Volo spezzato
(1966) è considerato una delle prose più rimarcabili del periodo postbellico e uno dei romanzi che ha cambiato la prosa in Moldova.
Il senso e i problemi dell’esistenza umana, il confronto etico, la zona irrequieta della coscienza umana sono diventati la materia epica e documentaria dei romanzi Acasă / A casa (1976, riedito nel 1998 con il titolo Nepotul / Nipote) e Ignat şi Ana şi Durere /
Ignat e Anna e il dolore (1979). L’epica e la saggistica si fondono nei volumi con temi storici Sânge pe zăpadă / Il sangue nella neve (1985) e Cumplite vremi / Tempi Terribili (1990). Beşleagă ha il merito di aver utilizzato nuove tecniche narrative, in particolare
nel romanzo psicologico Viaţa şi moartea nefericitului Filimon… / La vita e la morte dell’infelice Filimon, scritto negli anni ‘60 e
pubblicato solo nel 1988. Oggi Vladimir Beşleagă sta lavorando ad un romanzo che aspetta da 22 anni di essere pubblicato.
Notevoli anche i suoi contributi come traduttore dall’inglese e dal latino: da Coliba unchiului Tom / La capanna dello zio Tom
a Lauda prostiei / Elogio della pazzia, e tanti altri. Come scrive Emilian Galaicu-Păun: “[Vladimir Beşleagă] d-aia nici nu-l compar cu nimeni este el însuşi o unitate de măsură / Vladimir Beşleagă non si può paragonare a nessun’altro perché è lui stesso l’unità di misura”.
Ecaterina Deleu
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
125
tra libro e gioco
1
E
*
a cura di Francesca Garello
Libri e pedine,
andata e ritorno
A
ttraverso le varie puntate
di questa rubrica abbiamo esplorato il vasto
mare che unisce le isole del gioco e
del libro. Di isole infatti si tratta,
poiché i libri e l’attività ludica appartengono (almeno apparentemente) a due sfere distinte: i primi
sono destinati ad una fruizione solitaria o quanto meno personale,
mentre il gioco è per sua natura
un’attività comunitaria.
Ma, come dicevo nella prima
puntata, alcune isole non sono in
realtà così “isolate”, poiché sono
unite a formare un arcipelago proprio dal mare che in altri casi le separa dalla terraferma.
Il libro e il gioco condividono
molti spazi, a partire dal gioco letterario che si svolge sulle pagine, ai
giochi più “materiali” in cui il libro
è un oggetto con il quale si può interagire ludicamente.
Il viaggio quindi è stato lungo e
forse è il momento di riposarsi per
un po’, ripercorrendo brevemente le
tappe salienti.
Antichi giochi di parole
Abbiamo cominciato scoprendo
come fin dall’antichità costituisse
un divertimento per certi autori
giocare con il testo di un’opera (propria o altrui), come per esempio fece Pindaro scrivendo l’Ode Asigma,
in cui in tutto il testo non compariva mai la lettera sigma. Benché questa possa sembrare un’attività più
vicina all’enigmistica che al gioco di
società, va ricordato che anticamente la lettura era spesso eseguita
ad alta voce e al cospetto di diversi
spettatori: leggere ad un gruppo di
ascoltatori un’ode che contiene un
gioco enigmistico è forse uno dei
primi esempi di gioco di società.
I pop-up prima di Internet
Da queste prime manifestazioni
di gioco letterario siamo poi passati
a scoprire che il libro può essere
considerato strumento di gioco in
quanto oggetto, e non per il contenuto scritto nelle sue pagine. Abbiamo quindi ammirato l’evoluzione
dei cosiddetti libri “pop-up”: il termine è ormai confinato nella terminologia di Internet e riferito alle finestre che si aprono più o meno fastidiosamente sui nostri schermi,
ma è stato in principio attribuito a
questi libri perché sfogliandoli “saltano fuori” dalle pagine personaggi,
oggetti, paesaggi. Da strumento di
descrizione scientifica (i primi “libri
animati” nascono in ambiente
astronomico, come il magnifico
Astronomicum Caesareum di Pietro
Apiano del 1540) diventano presto
elemento immancabile della stanza
dei giochi dei bambini con la loro
capacità di trasformare la fruizione
esterna di una storia in un’esperienza tangibile e coinvolgente per il lettore/giocatore, ed approdano infine
al mondo dei grandi con alcune piccanti edizioni di argomento erotico.
Francesca Garello
Tra libro e gioco, un arrivederci
126
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Il gioco e il libro condividono
un’importante elemento: una trama. Il gioco infatti, sia pure in modo un po’ schematico, ha un suo
svolgimento che potremmo quasi
dire narrativo: da un punto di inizio sul tabellone il giocatore sposta
la sua pedina in avanti, componendo così una storia che può appartenere a vari generi: il Risiko, per
esempio, racconta una storia di
guerra, il Monopoly un financial
thriller, il Cluedo il classico giallo
all’inglese. Questa similitudine di
base è stata ampiamente applicata
in quella categoria di giochi derivati da romanzi, in cui i giocatori impersonano uno o più personaggi e
devono ripetere (o cambiare completamente) gli eventi della storia di
ispirazione. Tra i tanti, mi piace ricordare l’Orlando Furioso di Ariosto trasformato in gioco da Andrea
Angiolino, il più noto creatore di
giochi italiano, ben noto ai lettori
del Furore.
E tanto per non farci mancare
nulla, esistono anche esempi speculari di derivazione, ovvero libri discesi da giochi, tra cui spicca il romanzo di Tom Clancy Raimbow
Six, derivato proprio dall’ambientazione di un gioco elettronico da lui
stesso ideato.
Fanatici e finzioni
Questa combinazione di elementi narrativi e ludici si concretizza
soprattutto nella pratica della fanIL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
fiction, in cui i personaggi di romanzi molto amati vengono utilizzati dai lettori (i “fan”) per scrivere
nuove storie (cioè della “fiction”)
che integra e prolunga la narrazione originale di un libro. Attività
molto popolare tra gli adolescenti
(le storie dedicate a Harry Potter
sono decine di migliaia), la fan-fiction è un gioco in quanto per praticarla si “smontano” trame esistenti
estraendone personaggi o ambientazioni e rimettendoli insieme come fossero i mattoncini del Lego.
Piccoli, ma grandi
Ovviamente, i libri rivolti ai ragazzi e ai bambini sconfinano più
apertamente nel mondo del gioco,
ma non lo fanno in maniera banale.
Forse perché gli autori in questo
campo si sentono meno giudicati,
la letteratura per ragazzi è spesso
più sperimentale di quella per adulti. In questo ambiente compaiono
libri in cui narrazioni lineari e non
lineari corrono parallele e si risolvono reciprocamente alla fine del
libro oppure esistono trame che si
svolgono
contemporaneamente
sulle pagine e sul web e che si integrano l’una con l’altra in una lettura
parallela su due media diversi.
Ce l’ho, manca
Come i bambini si scambiano le
figurine, così i grandi fanno con i libri. Un gioco che sfrutta il libro in
qualità di oggetto ludico è il bookcrossing, e non ha tanta importanza il suo contenuto quanto pro-
prio la sua fisicità di oggetto. Il gioco consiste infatti nell’abbandonarlo per le strade (“liberarlo” dicono i
bookcrossers) dopo averlo etichettato con un numero rintracciabile,
seguirne i movimenti su un sito Internet e aspettare con una curiosità
un po’ bambinesca di scoprire chi
lo avrà trovato, fino a seguire il libro
in tutti i suoi spostamenti attraverso il vasto mondo. Un libro liberato
da un bookcrosser in Irlanda alcuni
anni fa, e da me raccolto, è arrivato
fino in Finlandia in pochi mesi, e
chissà dove sarà ora.
Tra le sudate pagine
Naturalmente non poteva mancare un connubio tra libri e giochi
sportivi. A partire dal gioco della
palla di Nausicaa e le sue ancelle
nell’Odissea (che costituisce anche
il primo esempio di sport femminile), i libri e lo sport attraversano insieme tutte le epoche, a testimoniare la passione dell’uomo per entrambi i passatempi: dal Medioevo
con il trattato sulla falconeria
dell’imperatore Federico II, passando per la più popolare “pallamaglio” rinascimentale (progenitrice
dell’inglesissimo cricket e del golf)
fino all’amatissimo calcio. Nei libri
si trovano ovviamente anche sport
inventati, spesso derivati da ambientazioni di fantascienza, ma il
processo è anche inverso: dalle pagine di Harry Potter il “Quidditch
babbano” ha conquistato correndo
i campi da gioco, in mancanza di
scope volanti.
127
tra libro e gioco
Libro chiama Libro
a cura di David Cerri
Upcycling e opere d’arte
Per concludere questo nostro
viaggio vorrei aggiungere un ultimo incrocio che vede il libro protagonista, e che anche se non dichiaratamente ludico secondo me non
sfigura tra gli altri. Si tratta del “libro d’arte”, non inteso come bel libro fotografico che si tiene sul tavolino del salotto, ma di quelle opere
prodotte da artisti in forma di libro.
Il libro si è spesso incrociato con
l’arte, basti pensare ai manoscritti
miniati o ai vari “Libri d’ore” tanto
in voga tra il Trecento e il Quattrocento. Quelli però erano primariamente libri, in cui l’arte aveva lo
scopo di renderli più belli e ricchi.
Nel libro d’arte vero e proprio è
piuttosto l’arte che si serve del libro
per esprimere valori culturali, formativi, creativi. Nato con le Avanguardie storiche del Novecento ed
in particolare con il Futurismo, il libro d’arte diventa spesso espressione di provocazione giocosa, come
nel caso della copertina di Le Surréalisme (1947) per cui Marcel Duchamp creò una copertina tridimensionale in forma di seno di
gomma rosa. In altri casi il libro accentua il suo carattere di opera d’arte mescolando ai testi scritti a mano
illustrazioni uniche in litografia e
collage (come i futuristi russi); altre
volte il libro rifiuta il suo ruolo di
mezzo di espressione di contenuti
essendo scritto in una lingua inventata.
La tradizione di giocare con i libri
e l’arte continua ancora adesso con
128
la pratica detta dell’upcycling, che
trasforma i libri in opere d’arte senza modificarne del tutto l’aspetto
originale e che ha prodotto mostre
e libri d’arte nel senso tradizionale
di libri fotografici (per esempio:
Playing With Books: The Art of
Upcycling, Deconstructing, and Reimagining the Book di Jason Thompson, 2010).
Un arrivederci
In un’epoca in cui il libro elettronico sembra (e sottolineo “sembra”) minacciare l’esistenza stessa
del libro come oggetto, privilegiandone piuttosto il contenuto immateriale, potrebbe essere pericoloso
chiudere questa rubrica sui rapporti tra libro e gioco dandoci appuntamento ad un più o meno lontano
futuro. Esisteranno ancora i libri?
Esisteranno ancora i giochi “fisici”,
o saranno sostituiti dai giochi elettronici?
Sarò forse un’inguaribile ottimista, ma non credo proprio che
scompariranno gli uni e gli altri. A
giudicare da ciò che vedo fare nel
mondo del fandom giovanile direi
che i giovani continuano a compare
libri di carta, se amano l’autore e la
storia. E comprano anche molto
manuali di gioco, soprattutto dei
complessi giochi di ruolo. Anzi,
proprio in questo ambiente mi è
stato spiegato che se una storia è
bella, la vogliono di carta. Se un
gioco è bello, vogliono poterne sfogliare con calma le molte pagine del
manuale. In elettronico leggono le
cose che non conoscono bene o che
ritengono di dover conoscere almeno per sommi capi per non essere
del tutto tagliati fuori dalle chiacchiere di gruppo. Ma poi, se scoprono una storia che li appassiona o
un gioco che li fa divertire, entrano
in una libreria e si comprano il libro.
Arrivederci, dunque, a un futuro
non lontano di nuovi libri e nuovi
giochi. ❧
Francesca Garello
L
e tre parole che aprono la
seconda stanza della canzone di Ariel nella Tempesta shakespeariana sono ricordate in un recente articolo di Mark
Forsyth sull’International New York
Times (14-11-2014). Lo studioso di
retorica ed etimologia ha gioco facile nel mostrare come l’allitterazione faccia diventare la cruda informazione che il padre di Ferdinando
giace a quasi dieci metri sott’acqua
uno dei più noti versi della lingua
inglese, con una sorta di meccanismo magico non sconosciuto a greci e latini.
Verrebbe da dire: “È la retorica,
ragazzi!”. Tanti altri meccanismi simili appaiono nella vita di tutti i
giorni, ed in particolare nel bombardamento mediatico pubblicitario.
“Pemberton’s French Wine Coca”
(il nome originario della bevanda,
dal farmacista suo creatore) non avrebbe avuto lo stesso successo di
“Coca Cola” (e infatti il povero
Pemberton si trovò pieno di debiti,
così da dover svendere la ricetta a
chi seppe trovare subito il nuovo
nome).
La ripetizione del suono formula
un richiamo icasticamente irresistibile: da “Brrr… Brancamenta” a
“Mitsubishi mi stupisci” fino a
“Perlana. Passa parola” e a “Fiesta ti
tenta tre volte tanto!”.
Se c’è poi un artificio retorico abusato è il chiasmo, quando si crea
un incrocio tra coppie di parole o
intere frasi. Se il buon Karl Marx
col celebre “L’arma della critica non
può certamente sostituire la critica
delle armi”1 sembra avervi ridato
vita nell’età moderna, ve ne è oggi
un uso alluvionale nei titoli dei
quotidiani e prima ancora da parte
della politica: una bella rassegna di
frasi di presidenti americani si legge ancora nel blog di Forsyth, The
Inky Fool2. Ma la più nota è forse
quella di John F. Kennedy nel discorso inaugurale della sua presidenza: “Non chiedete cosa possa fare il paese per voi: chiedete cosa potete fare voi per il paese”.
Però è la diacope (o tmesi, se intesa estesa alla frase) che segna il nostro tempo, insieme ai raddoppi
dell’epanalessi e dell’anafora. La ripetizione di una parola o di una intera frase, intervallata da altre parole, è divenuta lo standard degli slo1 - Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
Introduzione (1844).
2 - http://blog.inkyfool.com/2014/10/eloquentamericans.html. Di Forsyth vd. The Etymologicon:
A Circular Stroll through the Hidden Connections
of the English Language, London, Icon Books,
2011.
David Cerri
Full Fathom Five (Thy father lies)
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
129
LIBRO CHIAMA LIBRO
Parlando di Libri...
a cura di Anna Maria Ercilli
gan pubblicitari, dopo che la letteratura aveva coniato, ricorrendo a
quelle figure, alcune delle espressioni più famose.
“Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!” di Riccardo III
è a tutti noto, come l’“Essere o non
essere” di Amleto, o l’incipit di Anna Karenina “Tutte le famiglie felici
sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo
suo”, ma passando per “Finalmente
liberi! Finalmente liberi! Grazie a
Dio onnipotente, siamo liberi finalmente!” del 1963 di Martin Luther
King si approda al “Bond, James
Bond” e quindi all’“Always low prices. Always” di Walmart, all’“I am
what I am” della Reebok, al “Be all
you can be” dell’U.S. Army, e, da
noi, al “Piace alla gente che piace”
per un’auto.
Il raddoppiamento e la ripetizione, anziché “rendere grave l’orazio-
ne” come scriveva Demetrio3 e comunque più elevato lo stile – insegnamento seguito nella letteratura
medievale e ben praticato da Dante
(per esempio “Cred’io ch’ei credette
ch’io credesse”, Inferno XIII) – si
imprimono piuttosto facilmente
nella mente dell’ascoltatore/consumatore.
L’importante è che la ripetizione
sia immediata e la frase breve, e
non sono affatto importanti né la
correttezza grammaticale né la
compiutezza del senso.
Sotto il primo profilo, sia detto anzi
più in generale che una calibrata
violazione della norma conduce ad
un maggior effetto sia nella letteratura che nella pubblicità: non a caso
T.S. Eliot mette in epigrafe a The
Hollow Men – la cui ultima strofa
contiene la triplice ripetizione del
verso “This is the way the world ends” – una citazione di Conrad: “Mistah Kurtz – he dead”, di per sé sbagliata4; e la Apple ha usato lo slogan
“Think different”, non “differently”,
come sarebbe stato corretto.
3 - Lo stile del discorso (Della locuzione), rist.
anastatica delle due diverse edizioni italiane del
’500 e del ’700 dell’opera di Demetrio Falereo,
retore greco vissuto tra il III e il I sec. a.C. (Pisa,
PLUS, 2010).
4 - Ma giustificata nell’originale per chi la pronuncia: un servitore nero, in Heart of Darkness.
Sotto il secondo, ricorro ancora a
Forsyth5, per concludere su alcuni
dei refrain rock più noti: se oggi Katy Perry in Hot N Cold gioca con
contrapposizioni tanto elementari
quanto prive di uno specifico significato (caldo e freddo – sì e no –
dentro e fuori) è doveroso il rimando ad un moderno classico:
You say yes. I say no. You say stop
and I say go
ma il senso, in effetti, lo si percepisce solo ascoltando la musica: e se
è Hello, Goodbye dei Beatles, ve ne è
di più che in tutto Heidegger. ❧
David Cerri
5 - Here’s The Real Reason Why That Pop Song Is
Stuck In Your Head, dall’Huffington Post del
13-10-2014.
N
oi ammiriamo l’opera
d’arte, il libro, il brano
musicale, ci sembra naturale soddisfare la curiosità, conoscere l’autore e i suoi risvolti umani.
Dell’artista si dovrebbe capire e valutare solo la sua opera, ripete Elena
Ferrante, ad ogni invito a uscire
dall’anonimato, di lei non si conosce
né biografia o immagine, anche la
sua identità di genere è incerta. Così
è stato per alcuni scrittori che hanno
preferito sottrarsi alla curiosità dei
media. Thomas Pynchon, Henry
Roth, J.D. Salinger, per citarne alcuni. Non hanno interrotto la scrittura, ma solo tagliato i contatti con i
riti del mondo esterno, cambiato lavoro e imposto il diritto all’oblio.
Di diverso parere è Lev L’vovič
Tolstoj, quarto figlio della coppia
Sof ’ja e Lev Tolstoj, convinto estimatore delle opere paterne, afferma: per capire appieno l’opera e la
dottrina di Tolstoj, occorre, innanzitutto la verità sulla sua vita intima1.
1 - Lev L’vovič Tolstoj, La verità su mio padre,
Archinto, 2004, pag. 11.
Per conoscere il valore di Sof ’ja
Tolstaja nella vita del venerato marito Lev Tolstoj, è necessario leggere buona parte dei diari scritti da
tutti coloro che vissero nella cerchia
familiare. Sollevare l’aura dello
scrittore che tanto influenzò gli ambienti e le classi sociali russe e restituire la realtà alla vita complessa di
una coppia condizionata dal talento di entrambi.
Lev L. Tolstoj sente il dovere di
scrivere una raccolta di memorie,
un atto d’amore e di ricerca della
verità nel ricordo del padre, per
chiarire la personalità e le condizioni quotidiane in cui lavorava.
Nelle opere sociali e religiose manifestava la sua forza intellettuale e
morale e il sincero trasporto verso
le persone umili che possedevano
la fede e la felicità.
Durante l’ultima estate trascorsa
insieme, un giorno disse al figlio: Sì,
ho molto successo, ma è il segno che
non ho fatto nulla di buono2.
La famiglia Tolstoj visse a Jasnaja
2 - Idem pag. 126.
Poljana, “la chiara radura”, antica
proprietà di principi e antenati, dove il nonno di Tolstoj fece costruire
tutte le case del villaggio. Lev N.
Tolstoj vi trascorse la maggior parte
della sua vita, nel centro della grande Russia. In seguito scriverà della
Anna Maria Ercilli
Tolstoj, il ricordo nei diari
130
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
131
parlando di libri
figura del nonno Nikolaj per rappresentare il vecchio principe
Volkonskij in Guerra e pace.
Lev L. Tolstoj ricorda ogni particolare della sua crescita all’ombra
del padre, rammenta il lutto per i
fratelli morti, la dedizione di Tolstoj nell’istruire i figli dei contadini
nella scuola del villaggio. Con lo
stesso impegno si dedicava all’educazione dei figli maggiori, Lev ricevette delle lezioni di aritmetica, poi
entrò in una scuola di Mosca e finirono le lezioni paterne.
“La caccia e le passeggiate a piedi
o a cavallo erano per Tolstoj degli esercizi fisici indispensabili, che praticava quotidianamente per mantenere il corpo forte e il cervello irrorato
di sangue puro”3.
La fama di Tolstoj attirava molti
visitatori da ogni paese, letterati e
uomini di pensiero, pittori, musicisti, popolani, tolstoiani, accorrevano presso lo scrittore per consigli e scambi di idee; per molti era
diventato il profeta di un cristianesimo “purificato dai dogmi e dai
misteri”.
Curioso l’episodio occorso all’antropologo Lombroso, ospite a Jasnaja Poljana, che rischiò di annegare nelle acque della Voronka. Fu
salvato dallo stesso Tolstoj abile
nuotatore, estratto per i capelli dal
fiume e riportato in piscina, non sapeva nuotare. Scrive Tolstoj nel suo
Diario: È venuto Lombroso. Vecchietto ingenuo e limitato4.
3 - Idem pag. 31.
4 - Idem pag. 141.
132
“I contadini e i rappresentanti del
popolo interessavano Tolstoj molto
più degli intellettuali”.
“Mio padre aiutò molto i duchobory a lasciare la Russia. All’inizio
diede loro il denaro ricevuto per la
prima edizione del suo romanzo Resurrezione, poi riuscì ad ottenere
per loro, dal Governo russo, il permesso di lasciare il paese… andarono a colonizzare le regioni inesplorate al nord del Canada dove attualmente prosperano”5.
Questi contadini erano membri
di una setta religiosa che rifiutava i
dogmi della Chiesa ortodossa, erano vegetariani e antimilitaristi, come Tolstoj, furono perseguitati dal
Governo fino all’epoca dell’espatrio.
Lev L’vovič Tolstoj prese sempre
le difesa della madre, riconoscendole il ruolo determinante per l’aiuto intelligente che diede al marito,
sollevandolo da ogni preoccupazione pratica. Lei trascriveva i manoscritti, correggeva le bozze, teneva i contatti con l’editore, dispensava consigli, era indispensabile per
la pubblicazione e per la grandezza
di Tolstoj.
Sof ’ja Tolstaja trascrisse Guerra e
pace, ben sette volte.
Il figlio la ricorda come madre affettuosa, laboriosa e paziente. Una
vita dedicata alla gloria del marito e
alla cura della numerosa famiglia di
tredici figli.
La relazione coniugale e gli umori della coppia sono descritti nei
diari personali, consapevoli di la5 - Idem pag. 45.
parlando di libri
sciare ai posteri le contraddizioni
della loro esistenza.
“…Mi è impossibile darti un’idea
dell’immensa tenerezza che provo
per te, una tenerezza che mi fa venire le lacrime agli occhi, e non soltanto in questo momento, ma in ogni istante della giornata. Anima mia,
mia adorata, tu sei la migliore al
mondo… Quando non ci sei non
provo soltanto tristezza e spavento
(anche se può capitare): senza di te
sono un uomo morto, non vivo più.
Ti amo troppo, in tua assenza…”
(L.N. Tolstoj, da una lettera alla
moglie del giugno 18676).
“Il giorno dopo, quando eravamo
già a Pirogovo, ho trascorso l’intera
giornata a scrivere per L.N.. E tutto è
diventato necessario: il colbacco che
mi ero premunita di portare, la frutta, i datteri, nonché il mio corpo e il
mio lavoro di trascrizione; tutto ciò
gli è parso più che indispensabile”
(S.A. Tolstaja, Diari, 18977).
Fra i tolstoiani convinti si avvicina Vladimir Čertkov, ufficiale della
guardia a cavallo, che si presenta a
Tolstoj deciso a servire la sua causa
e curare gli scritti del maestro. Nei
primi tempi i rapporti con la famiglia sono cordiali, ma in seguito il
discepolo si rivela manipolatore di
un uomo vecchio e fiducioso.
“Il testamento che mio padre scrisse, influenzato da Čertkov, alcuni
mesi prima di morire, e nel quale egli cedeva al dominio pubblico i suoi
6 - Vladimir Pozner, Tolstoj è morto, Adelphi
edizioni, 2010, pag. 44.
7 - Idem pag. 149.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
diritti d’autore, fu la causa segreta
ma principale della sua fuga e della
sua morte” … “Dopo la morte di
Tolstoj, Čertkov voleva essere libero
di disporre del diritto di pubblicare
tutte le sue opere, compresi i romanzi, e fu così che quel testamento fu
firmato a Jasnaja segretamente e con
molte precauzioni”8.
Scrive Boris Pasternak: “Era in un
certo senso naturale che Tolstoj avesse trovato pace e riposo lungo la strada, come un pellegrino, presso le
strade ferrate della Russia d’allora,
lungo le quali continuavano a volare
e ruotare i suoi eroi e le sue eroine…”, Astapovo 7 novembre 19109.
Il segreto di Tolstoj bambino, il
“bastoncino verde”, sepolto nel bosco dove lui dispose di essere tumulato, lo ricongiunge al sentimento
condiviso con i fratelli, “l’amore di
tutti per tutti”. ❧
Anna Maria Ercilli
8 - Lev L’vovič Tolstoj, La verità su mio padre,
cit., pag. 129.
9 - Vladimir Pozner, Tolstoj è morto, cit., pag.
271.
BIBLIOGRAFIA, vita e fuga di Tolstoj
Alberto Cavallari, La fuga di Tolstoj, Einaudi
Jay Parini, L’ultima stazione, Bompiani
Aleksandra Tolstoj, La vita con mio padre, Castelvecchi
Vladimir Pozner, Tolstoj è morto, Adelphi
Lev L’vovič Tolstoj, La verità su mio padre, Archinto
Pavel Basinskij, Fuga dal paradiso. La vita di Lev Tolstoj, Castelvecchi
Sof’ja Andreevna Tolstaja, I diari: 1862-1910, La tartaruga
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Lev Nikolaevič Tolstoj, Diario di Leone Tolstoi: 1895-1899, Treves
Lev Nikolaevič Tolstoj, Racconti e ricordi / di Leone Tolstoi; raccolti e
illustrati dalla figlia Tatiana, Mondadori
Tatiana Tolstoj, Anni con mio padre, Garzanti
133
parlando di libri
Parlando di Libri...
a cura della Redazione
T
ribunale distrettuale di Gerusalemme, aprile 1961.
Dentro una gabbia di vetro
anti-proiettili, costruita appositamente per proteggerlo, si intravede
“un uomo di mezza età, di statura
media, magro, con un’incipiente
calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo
scarno collo incurvato sul banco
(neppure una volta si volgerà a
guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi
sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che
gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo”. Si tratta di
Adolf Eichmann, ex ufficiale delle
SS esperto in evacuazione e deportazione, incolpato di aver smistato
milioni di ebrei nei campi di concentramento con l’incarico di farli
liquidare. L’imputato sta aspettando
di essere giudicato dalla corte israeliana “per crimini contro l’umanità
commessi sul corpo del popolo
ebraico”. Verrà condannato a morte
per impiccagione dopo poco più di
un anno, nel maggio del 1962.
Hannah Arendt, filosofa e scrittrice tedesca di origini ebree, che
negli anni Trenta emigrò dalla Germania per evitare le terribili persecuzioni naziste, viene incaricata dal
settimanale The New Yorker di seguire le varie fasi del processo per
farne un resoconto da pubblicare in
una serie di articoli. Il risultato di
tali scritti, poi raccolti e pubblicati
nel libro La banalità del male
(1963), avrà l’effetto di una bomba
al fulmicotone, perché solleverà parecchie questioni di carattere politico, giuridico, sociologico e filosofico che verranno più volte dibattute
negli anni futuri. Ma cosa avrà mai
scritto la Arendt per provocare un
tale polverone?
Innanzitutto la giornalista ebbe il
coraggio di criticare le procedure e
le modalità del processo, che a suo
avviso rappresentava uno spettacolo voluto da Ben Gurion, primo ministro del neonato Stato d’Israele,
che aveva fatto di tutto affinché
Eichmann venisse giudicato nel tribunale di Gerusalemme e non davanti ad una Corte internazionale,
in modo da poter dare piena soddisfazione alla sete di giustizia del popolo ebraico. L’ex gerarca nazista era stato infatti rapito di nascosto
dagli agenti governativi israeliani,
mentre viveva in Argentina sotto
falso nome, e già questo fatto costituiva di per sé una violazione del
diritto internazionale.
Inoltre, sempre secondo la Arendt, era fin troppo evidente che il
processo non si stesse svolgendo
sulla base di una giusta parità tra
accusa e difesa, visto che quest’ultima non ebbe né i mezzi né il tempo
(forse neppure la volontà) per organizzarsi bene, a differenza dell’accusa che aveva invece avuto accesso
Alessandra Bonassi Vivaldi
La banalità del male di Hannah Arendt
134
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
ad un imponente materiale raccolto
dalla polizia d’Israele. Insomma,
dietro l’operato di Hausner, il Pubblico ministero incaricato di dipingere Eichmann come il diavolo in
persona, si profilava l’ombra del governo israeliano, che per la prima
volta nel corso della Storia aveva finalmente la possibilità di giudicare
dei crimini compiuti contro il proprio popolo, e di certo non voleva
farsi sfuggire tale occasione. Ma lo
scopo di un processo dovrebbe essere
quello di rendere giustizia e basta –
spiega la Arendt – e qualunque altro
scopo, anche il più nobile (come ad
esempio “fare un quadro del regime
hitleriano che resti nella storia”) non
può che pregiudicare quello che è il
compito essenziale della legge: soppesare le accuse mosse all’imputato,
per render giustizia e comminare la
giusta pena.
Oltretutto l’Olocausto era un “crimine contro l’umanità”, reato nuovo anche per i giudici perché non aveva precedenti nella Storia; non si
poteva infatti equiparare ai crimini
di guerra o alla persecuzione delle
popolazioni locali col fine di assoggettarle e colonizzarne i territori, era qualcosa di molto di più. In questo caso c’era stata proprio l’intenzione di eliminare un intero gruppo
etnico dalla faccia della terra. Quindi, proprio per questo, sarebbe stato
giusto far giudicare l’ex gerarca nazista non dalla giustizia israeliana
ma da un tribunale internazionale.
Ma in quegli anni l’ONU non aveva
ancora creato un tribunale penale
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
internazionale permanente, e anche se ci fosse stato Israele non avrebbe probabilmente rinunciato
alla possibilità di farsi giustizia da
sola.
In secondo luogo la Arendt dipinse un ritratto di Eichmann che
si discostava nettamente da quello
che tutti si aspettavano, e anche
questo fatto sollevò critiche e perplessità. Ossia, invece di descriverlo
come un efferato criminale, come
la reincarnazione di Belzebù in persona, lo presentò come un uomo
mediocre, ordinario, dalle vedute
limitate. Un uomo complessato,
dall’ambizione frustrata e privo di iniziativa, che si lasciava trascinare
dalle situazioni in cui viveva, con
un’intelligenza organizzativa capace di funzionare bene solo se inserita in una rigida catena di comando.
Un uomo di scarsa cultura che viveva sulla base di idee formulate da
altri e che ogni tanto cercava di attribuirsi meriti che non aveva. Un
uomo che parlava per frasi fatte e
che spesso si contraddiceva per una
cattiva memoria, incapace di elaborare dei pensieri personali che non
fossero dei clichés, ossia ripetizioni
di slogan del partito o di frasi elaborate da lui stesso nel tentativo di
autoesaltarsi. Un uomo mosso da
un’obbedienza cieca, un’obbedienza
cadaverica – Kadarergehorsam, come la chiamava lui stesso – per eseguire unicamente la volontà del
Führer.
Insomma, Eichmann era veramente un sadico – si chiedeva la Arendt – un fanatico che odiava in
modo sfrenato gli ebrei, oppure era
un cittadino talmente ossessionato
dal rispetto delle leggi da non essersi sentito in grado di trasgredirne
nemmeno una? Il governo israeliano e i giudici del processo, che miravano ad una condanna esemplare
da esibire davanti a tutto il mondo,
in modo da condannare assieme a
lui anche “tutto il nazismo e l’antisemitismo”, propendevano naturalmente per la prima ipotesi, pensando che tutto il resto fosse menzogna, messinscena, abile camuffamento. E a nulla servì che Eichmann cercasse di spiegare alla Corte, più e più volte, che non si era
mai sentito “colpevole nel senso
dell’atto d’accusa”, perché era convinto di aver agito non per dei bassi
motivi ma solo per rispettare degli
ordini. Dal suo punto di vista, banale o meno che sia, lui aveva offer135
parlando di libri
to i suoi servizi ad Hitler per realizzare una Germania Judenrein, ossia
ripulita dagli ebrei, e una tale azione non gli rimandava affatto l’immagine di un individuo sordido e
indegno. E per quanto riguarda la
consapevolezza del male compiuto,
ebbe il coraggio di rispondere ai
giudici che se non avesse eseguito
tali ordini non si sarebbe sentito a
posto con la propria coscienza. In
altre parole, se avesse disubbidito al
Führer rifiutandosi di organizzare
con grande zelo e cronometrica
precisione il viaggio di milioni di
uomini, donne e bambini verso la
morte, probabilmente non avrebbe
più dormito bene la notte… Quando in istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a morte anche suo padre se così gli fosse stato ordinato,
non intese soltanto mostrare fino a
che punto era soggetto agli ordini e
pronto ad obbedire; volle anche mostrare fino a che punto era sempre
stato “idealista”. Essere idealisti, per
Eichmann, era soprattutto vivere per
le proprie idee ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti.
Affermazioni del genere lasciano
assolutamente sbigottiti e ci fanno
capire quanto sia importante considerare questo tipo di crimini in
un’ottica nuova, abbandonando le
consuete categorie morali sinora adottate. E non bisogna nemmeno
farsi prendere dal dubbio che un tale individuo potesse essere pazzo,
perché tutti gli psichiatri che lo visitarono all’epoca del processo lo dichiararono sano di mente, in grado
di intendere e volere.
La Arendt riuscì a capire più di
chiunque altro che la questione andava analizzata da un altro punto di
vista, e quindi era propensa a credere che l’imputato non mentisse.
parlando di libri
Secondo la filosofa, l’ex gerarca era
arrivato al punto di identificarsi così tanto nelle regole del regime nazista da non avere più bisogno di
“pensare”, da comportarsi in modo
quasi automatico. Anche osservandolo durante il processo, si poteva
notare che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a
un’incapacità di pensare, cioè di
pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era
impossibile, non perché mentiva, ma
perché le parole e la presenza degli
altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano. E la cosa ancora più grave, secondo la Arendt, era
che “di uomini come lui ce n’erano
tanti e che questi tanti non erano né
perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”.
Ma le autorità israeliane non potevano accettare deduzioni di questo tipo, perché avevano bisogno di
attribuire all’ex gerarca un ruolo di
totale responsabilità nei fatti che gli
venivano imputati. Il popolo ebraico lo voleva giudicare e condannare
come l’autore di un atto criminoso
scelto e voluto, e non di certo come
un burattino che aveva obbedito a
degli ordini per non tradire degli ideali o per un ossessivo senso del
dovere. Per loro Eichmann rappresentava il diavolo in persona e non
riuscivano a immaginarselo in altri
modi.
La giornalista ritorna invece più
volte, nei suoi articoli, su una questione che è di fondamentale im-
136
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
portanza per cercare di capire le
cause che hanno potuto favorire la
Shoah: se Eichmann aveva all’inizio
qualche dubbio, qualche scrupolo
di coscienza, secondo lei questo
sparì del tutto di fronte alla constatazione che non solo le SS e i vertici
del partito, ma anche i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di
dirigere questa “crudele” operazione. E se tutti pensavano e agivano
in quel modo, addirittura i benpensanti e le personalità più in vista,
chi era lui in fondo per ergersi a
giudice? Chi era lui per permettersi
di “avere idee proprie”? Preso atto
di questo, Eichmann si sentì come
una sorta di Ponzio Pilato, ossia libero da qualsiasi colpa. Ma egli,
scrive la Arendt, non fu né il primo
né l’ultimo ad essere rovinato dalla
modestia, o meglio dalla banalità di
questo modo di concepire le cose.
Molti altri, infatti, vissero questo
stesso processo nelle loro coscienze
per arrivare ad accettare con acquiescenza o indifferenza ciò che
stava accadendo. Bastava, insomma, non avere più bisogno di pensare; così stavano le cose, queste erano le nuove regole, e non restava
altro che continuare a comportarsi
come cittadini ligi alla legge. E
quando non c’è più un’etica interiore, ossia un guardarsi dentro, un riflettere sulle proprie scelte e motivazioni, la distinzione tra bene e
male comincia a perdere ogni nettezza.
In altre parole, nella Germania
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
nazista si era verificata una disumanizzazione dei principi, delle regole, delle stesse leggi dello Stato, che
poi si era riflessa anche sulla gente
comune. Possono allora il distacco
dal reale e l’offuscamento morale
trasformare delle persone perfettamente normali – che hanno una casa, una famiglia, dei figli, magari
anche un cane che viziano e coccolano – in tanti ingranaggi più o meno inconsapevoli di una macchina
infernale? In individui che appoggiano, almeno teoricamente se non
all’atto pratico, una politica di tipo
discriminante, anche quando questa comincia ad assumere aspetti anomali e inquietanti? Sì, sembra
che un tale appiattimento delle coscienze sia non solo possibile e contagioso, ma anche responsabile di
ogni prevaricazione dittatoriale.
Viene allora da pensare che processi di questo tipo, anche se talvolta spettacolarizzati e strumentalizzati, anche se non sempre fedeli a
tutti i cavilli burocratici, siano in
realtà di fondamentale importanza
per il corso della Storia umana, perché le colpe e le responsabilità di
personaggi del calibro di Eichmann
non devono essere sottovalutate né
passare inosservate. Il processo,
quindi, come monito per le generazioni future a non ripetere gli stessi
errori, e proprio per tale motivo
non me la sento di giudicare più di
tanto i mezzi e le procedure adottate dalle autorità israeliane. La Arendt è stata invece molto corretta e
onesta in tali termini, perché non si
è limitata a riportare nei suoi articoli le varie fasi del processo e le attinenti riflessioni sui danni che
possono scaturire da un’obbedienza
cieca, ma ha fatto anche le pulci a
tutti quelli che avevano organizzato
il rapimento di Eichmann, a quelli
che intendevano usarlo come capro
espiatorio per soddisfare la sete di
rivalsa del popolo ebraico, a quelli
che lo volevano giudicare e condannare come il demonio in persona. Ciò che non quadrava tanto bene, sia da una parte che dall’altra, lei
ha avuto il coraggio di analizzarlo e
illustrarlo in modo lucido e dettagliato, a costo di sollevare polemiche su polemiche. E queste infatti
furono tante, al punto che qualcuno arrivò al limite assurdo di accusarla di antisemitismo, soprattutto
per le critiche non troppo velate che
rivolse ai capi delle comunità ebraiche, colpevoli di aver collaborato
con i nazisti negli anni del conflitto.
Questo fu infatti un altro dei motivi che fomentarono le polemiche
dopo la pubblicazione del libro. Ma
è un fatto oggi risaputo e accertato
che le autorità ebraiche accettarono
di collaborare con i nazisti per avere in cambio salva la propria vita e
quella di altri ebrei illustri, come se
fosse lecito fare una distinzione tra
un ebreo di serie A e un ebreo di serie B… Al tempo del processo si
cercò naturalmente di sorvolare su
tale questione, anche se la Arendt aveva raccolto dati e testimonianze
che la comprovavano. Secondo la
137
parlando di libri
giornalista, se gli ebrei non si fossero affidati alle mani dei loro capi,
almeno il 50% di loro si sarebbe salvato.
Ma in realtà tutta la società tedesca di allora, di qualsiasi ceto ed estrazione, si era ormai compromessa sistematicamente con le idee, i sistemi e i mezzi del regime nazista.
C’era proprio stata la complicità di
tutti, anche delle banche, che incassavano volentieri i beni confiscati
alle famiglie ebree e anche i denti
d’oro strappati ai cadaveri. Tutti erano al corrente dell’ammassamento
degli ebrei nei campi, a partire dai
vari Ministeri statali fino ai responsabili dei servizi civili. Un fatto vergognoso fu anche la compiacenza di
molti industriali tedeschi, che cominciarono a costruire le loro fabbriche vicino ai campi di sterminio
per sfruttare gratuitamente il lavoro
degli ebrei internati, i quali, già e-
138
maciati e distrutti dalla fame, perivano precocemente negli stenti.
Insomma, per quanto la verità
possa suonare terribile, c’era stata la
complicità più o meno consapevole
di un’intera nazione, e il fatto ancora più grave, spiega la Arendt, è che
nessuno in realtà si sentiva responsabile, tanto ognuno era convinto
di fare solo il proprio dovere, ossia
di rispettare semplicemente i dettami del Reich. Alla fine della guerra
molti tedeschi dichiararono che
pur avendo nutrito dei dubbi su
certe soluzioni estreme, avevano
preferito mettere da parte le proprie convinzioni personali. La loro
morale era dettata dalla società che
avevano attorno, da quello che facevano tutti, e le iniziali titubanze
venivano ben presto sostituite da
un adeguamento passivo al nuovo
status quo. Si può quindi capire co-
parlando di libri
me, in una situazione simile, non
solo Eichmann ma migliaia di cittadini tedeschi si resero complici di
un tale misfatto, visto che potevano
tacitare facilmente la coscienza con
la constatazione che ciò che facevano era normale e lecito, perché permesso dallo Stato e condiviso da
tutti. È stato il naufragio morale di
un’intera nazione.
… la coscienza in quanto tale era
morta in Germania, al punto che la
gente non si ricordava più di averla e
non si rendeva conto che il “nuovo
sistema di valori” tedesco non era
condiviso dal mondo esterno (pag.
111).
Allo stesso modo anche Eichmann si sentiva innocente, come
disse più volte davanti ai giudici, ed
era convinto di essere condannato
per colpe non sue; dopotutto, lui era stato un solerte burocrate che aveva svolto in modo corretto il proprio lavoro, e solo incidentalmente
questo era coinciso con un crimine
(!!!). Ma la volontà di un dittatore e
gli ordini dei superiori non possono scusare né deresponsabilizzare il
singolo individuo. La sospensione
del giudizio morale e la cieca obbedienza ad un ordine rendono comunque corresponsabili, soprattutto se il fatto di obbedire equivale a
favorire attivamente una politica di
sterminio.
Nella realtà sarebbe stato infatti
possibile sottrarsi a tale tipo di obblighi, nel senso che la possibilità di
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
scelta ai tedeschi non mancava. Se
un cittadino non se la sentiva di
collaborare non per questo veniva
fucilato, gli veniva solo imposto di
ritirarsi dalla vita pubblica e di rinunciare alle sue funzioni. Ma quelli che ebbero il coraggio di dimostrarsi contrari erano sempre troppo pochi per riuscire a fare qualcosa di concreto. È anche vero che alcuni tedeschi si attivarono per aiutare di nascosto gli ebrei, ma se fossero stati molti di più ad essere
mossi nella coscienza, forse molte
carneficine si sarebbero evitate.
Molti hanno riflettuto sul fatto
che la Germania si trovava in una
condizione di estrema debolezza
morale ed economica, visto che usciva sconfitta e stremata dalla prima guerra mondiale, e di questo
Hitler ha certamente approfittato
per spargere i semi della sua propaganda; ma resta ancora oggi difficile poter capire con chiarezza tutte le
motivazioni che possono essere state alla base di un’accondiscendenza
così cieca e totale… Forse la Arendt
con le sue riflessioni ci è andata
molto vicino:
Il male, nel Terzo Reich, aveva
perduto la proprietà che permette ai
più di riconoscerlo per quello che è –
la proprietà della tentazione. Molti
tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza,
dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalIL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
mente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero esser
tentati di non trarre vantaggi da
questi crimini e divenirne complici.
Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni
(pagg. 156-157).
È oltremodo interessante notare
che i trucchi, le menzogne e la stupidità con cui Eichmann rispondeva alle domande dei giudici corrispondevano in gran parte allo stato
d’animo della popolazione tedesca
all’epoca del processo, che a vent’anni dal crollo del regime nazista ancora tendeva a nascondere a sé stessa la realtà e la gravità dei fatti, quasi fosse un presupposto morale per
riuscire a sopravvivere… Insomma, la distorsione della realtà messa
in atto da Eichmann, quel suo continuo mostrarsi poco convinto della gravità dei fatti che gli venivano
imputati, non era tanto diversa da
quella che si stava manifestando nei
cittadini tedeschi della Germania
post-hitleriana. Basti solo pensare
che alla notizia della cattura di
Eichmann e dell’imminente processo, i tribunali tedeschi, che fino
ad allora erano stati inconcludenti,
si avvalsero finalmente delle prove
raccolte dagli investigatori e si decisero ad agire contro “gli assassini
che sono tra noi”. I risultati furono
stupefacenti, perché in breve tempo
furono catturati molti criminali nazisti, anche se poi alcune di queste
condanne furono così miti da risultare ridicole. I tribunali tedeschi furono infatti colpevoli di una vergognosa mitezza nei confronti degli
ex-nazisti rei di sterminio. Ma con
il processo ad Eichmann, il cancelliere tedesco Adenauer fu praticamente tirato per i capelli e costretto
a mettere in pratica una vera e propria epurazione, togliendo l’incarico a centinaia di magistrati e funzionari di polizia con un passato
compromettente.
In ogni caso la Arendt, con tutte
queste osservazioni, più che sollevare delle polemiche voleva far capire al mondo che il male può assumere diverse forme, e che tra queste
ce n’è una che tende a intrecciarsi in
modo inquietante con la nostra
normalità. Non si tratta di un male
vistoso e clamoroso, come quello
che potrebbe mettere in scena un
terrorista o un feroce assassino, e
neppure di un male ferocemente
sadico, come quello perpetrato nei
lager da alcuni aguzzini. No, il male teorizzato dalla Arendt possiede
caratteristiche più sottili e insinuanti e quindi molto più pericolose, perché è in grado di diffondersi
come un virus in tutti gli strati del
sociale fino a diventare gradualmente una norma, una cosa scontata e accettata da tutti. È un male che
infetta un po’ alla volta anche gli individui più ordinari e comuni, perché tutti lo consentono, lo favoriscono, lo autorizzano. Ma, pur avendo un carattere estremo, tale
139
parlando di libri
La Biblioteca di...
a cura di Silvio Sega
male non possiede delle radici, non
possiede una profondità. Si tratta di
una sfida al pensiero, scrive la Arendt, “perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle
radici delle cose, e nel momento che
s’interessa al male viene frustrato,
perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha profondità, e
può essere radicale”.
Tale mancanza di radicalità è
quindi dovuta al fatto di non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo
con sé stessi (dialogo che la filosofa
definisce “due in uno”, e da cui secondo lei scaturisce e si giustifica
l’azione morale), con il risultato che
persone spesso banali si trasformano in autentici agenti del male o nei
loro relativi complici. Ed è proprio
questa banalità, ossia questa assenza di un pensiero sentito e profondo, che ha potuto rendere un intero
popolo acquiescente se non addirittura in molti casi collaborante
nell’attuazione di un progetto così
tremendo. Perché, se ci pensiamo, è
proprio l’adesione cieca o indifferente alle idee propugnate da un sistema che rende sfuggevole – o meglio non ben identificabile alla propria coscienza – la gravità del male
che si sta facendo ad altri.
Questo processo, e soprattutto il
pensiero argomentato dalla Arendt,
fu quindi anche un’occasione per
meditare a fondo sulla natura umana. Molti si resero conto che Eichmann sarebbe stato meno temibile
140
se fosse stato veramente un mostro,
perché proprio in quanto tale rendeva difficile identificarvisi. Ma
quello che diceva e il modo in cui lo
diceva, non faceva altro che tracciare il quadro di una persona che sarebbe potuta essere chiunque, sarebbe bastato trovarsi calati in una
circostanza simile e non avere delle
idee personali. Quindi, anche se il
genere umano sembra non averlo
ancora capito fino in fondo, non bisognerebbe mai scordarsi che è
sempre la lontananza dalla vera realtà e dalla propria coscienza che
prepara il terreno più adatto per ogni tentazione totalitaria.
Adolf Eichmann andò alla forca
con gran dignità. Aveva chiesto una
bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l’assistenza del
pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita, e perciò non aveva “tempo da perdere”. Percorse i
cinquanta metri dalla sua cella alla
stanza dell’esecuzione calmo e a testa
alta, con le mani legate dietro la
schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese
che non stringessero troppo le funi,
in modo da poter restare in piedi.
“Non ce n’è bisogno”, disse quando
gli offersero il cappuccio nero. Era
completamente padrone di sé, anzi
qualcosa di più: era completamente
sé stesso. Nulla lo dimostra meglio
della grottesca insulsaggine delle sue
ultime parole. Cominciò col dire di
essere un Gottgläubiger, il termine
nazista per indicare chi non segue la
religione cristiana e non crede nella
vita dopo la morte. Ma poi aggiunse:
“Tra breve, signori, ci rivedremo.
Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò”. Di fronte alla morte aveva
trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la
memoria gli giocò l’ultimo scherzo:
egli si sentì “esaltato” dimenticando
che quello era il suo funerale.
Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che
quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la
lezione della spaventosa, indicibile e
inimmaginabile banalità del male
(pag. 259). ❧
Alessandra Bonassi Vivaldi
«Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro
un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire»
(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)
I
n questo numero vi presentiamo la biblioteca del professor Livio Caffieri.
Nato a Trieste, si laurea in Lettere
Classiche nel 1959 presso l’Università di Trieste. Nel 1960 si trasferisce in Trentino ed insegna al Liceo
Classico “Antonio Rosmini” di Rovereto.
Nel 1973 viene nominato Preside,
carica che deterrà fino al 1993.
È membro dell’Accademia degli
Agiati e ne è stato Presidente dal
1993 al 2010.
Professor Caffieri, lei è nato e cresciuto a Trieste in un periodo molto
particolare che è quello della Trieste
del dopoguerra. Ci può raccontare
brevemente come si viveva a Trieste
in quegli anni?
Per fare un po’ di chiarezza bisogna cominciare dal ’41, quando ci
fu l’aggressione italo-tedesca alla
Jugoslavia. Durante l’occupazione,
gli occupanti non si facevano scrupoli a perpetrare massacri di civili
slavi e croati ed a bruciare villaggi.
Fu anche per questo che ci furono
poi le ritorsioni che sappiamo nei
confronti degli italiani dell’Istria,
solo che non ce lo dicono.
Dopo l’occupazione tedesca nel
’45 arrivarono le truppe titine e occuparono Trieste e la proclamarono
città autonoma della repubblica Jugoslava. Solo che la gente non si
sentiva slava né tantomeno comunista.
Nel giugno del ’45 finì la guerra e
anche le truppe jugoslave lasciarono Trieste, ma i problemi non era-
no finiti. Nel ’47, dopo gli accordi di
Parigi, l’Istria e la massima parte
della regione giuliana furono assegnate alla Jugoslavia, mentre Gorizia, Monfalcone e la restante parte
della Venezia Giulia furono assegnate all’Italia.
Sulle sorti di Trieste invece non si
era ancora deciso, perciò gli Angloamericani ne presero il controllo,
mentre si discuteva sul destino di
Trieste.
Finalmente nel ’54 Trieste divenne italiana, fino a quel momento
però, per poter andare in Italia si
doveva avere il passaporto.
Nel 1959 mi sono laureato in Lettere Classiche e nel 1960 da “esule”
sono venuto in Trentino ad insegnare a Rovereto e da quel momento non mi sono più mosso.
Silvio Sega
...Livio Caffieri
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
141
la biblioteca di...
la biblioteca di...
Lei ha censito nel suo catalogo esattamente 5.378 libri, ma ricorda l’esatta ubicazione di tutti?
Assolutamente sì, ricordo dove
ho messo ogni singolo testo, tant’è
vero che una volta mio fratello ha
voluto scommettere con me.
Lui era qui nel mio studio mentre
io ero fuori sul corridoio, lui mi diceva il titolo di un libro presente nel
mio studio ed io da fuori gli spiegavo esattamente dov’era situato.
Però, niente male. Ci vuol descrivere
la sua biblioteca?
Come potete vedere, ho una sezione della mia biblioteca interamente dedicata a Trieste e al Friuli
Venezia Giulia, con molti libri che
parlano della situazione di quegl’anni.
Ci dica ora com’è nata la sua passione per i libri e per la lettura…
In famiglia erano tutti maestri o
insegnanti perciò avevamo una biblioteca di famiglia molto ben fornita.
Da ragazzo mi sono appassionato
ai libri di Salgari, anche se il primo
libro che ho letto è stato “Il giornalino di Gianburrasca”.
Un libro invece che da ragazzo ho
sempre odiato, senza un motivo
particolare, è stato il libro “Le avventure di Pinocchio”.
142
Da quanti libri è composta la sua biblioteca?
Dal 1968 ad oggi ho raccolto e catalogato esattamente 5.378 libri, lo
so perché, come dicevo, ho registrato tutte le mie acquisizioni in
questo catalogo (ce lo mostra), pertanto conosco il titolo di ogni libro
e la quantità. Da questa lista dobbiamo escludere i libri di testo di
cui recentemente ho dovuto liberarmi di buona parte di essi, dato
che mia moglie continuava a rimproverarmi dicendomi che se non
mi disfacevo di un po’ di libri saremmo finiti al piano di sotto; e siccome alla fine alle mogli si obbedisce sempre (ride) ho scelto di regalare una bella parte dei libri di testo
di quando insegnavo greco e latino
al liceo Rosmini.
A proposito di Liceo… molti si ricordano di lei come preside più che come insegnante!
Ebbene sì, nel 1973 mi nominarono Preside, sottolineo, contro la
mia volontà, in quanto ero ritenuto
un ottimo elemento moderatore e
facevo al caso loro.
Sono rimasto preside fino al
1993, data del mio pensionamento.
La notte però, invece che fare sogni di tutt’altro genere, sognavo di
tornare in classe ed insegnare le
materie che tanto amavo dato che
non volevo assolutamente fare il
preside, dato che diventare preside
vuol dire diventare ignorante dato
che non insegnando più si tende
anche a non aggiornarsi più e questo è a dir poco un guaio.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Molto volentieri! Come dicevo
prima ho una sezione interamente
dedicata a Trieste e al Friuli Venezia
Giulia, poi una sezione dedicata agli autori classici latini e greci, una
sezione dedicata alla letteratura italiana e a quella straniera, in particolare quella russa che amo molto:
Tolstoj e Dostoevskij sono i miei
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
autori russi preferiti. Poi ho una sezione dedicata alla letteratura del
periodo dell’Impero Asburgico e
molti libri su Maria Teresa d’Austria
alla quale sono molto grato poiché
è grazie a lei se abbiamo l’Accademia degli Agiati di Rovereto della
quale sono stato presidente dal
1993 al 2010 e ora continuo a farne
parte come membro.
Naturalmente poi, non possono
mancare tutti i libri di Salgari che
mi avevano così tanto appassionato
da ragazzo.
Com’è il suo rapporto con i libri? Preferisce scriverci su o tenerli immacolati?
Beh no! A volte mi capita di scriverci su, di fare qualche nota o di
prendere qualche appunto. Infatti
quando presto un libro chi lo riceve
è molto contento di trovarci anche
le mie note e i miei appunti.
Quindi lei presta volentieri i suoi libri?
Certo, ma solo a qualcuno che
posso considerare veramente amico, dato che il rischio è quello che
poi il libro non torni più indietro e
come diceva Confucio: “Il prestito
di un libro è cosa gradita per chi lo
riceve e cosa sgradita per chi lo fa”.
La ringraziamo molto per la sua disponibilità professor Caffieri! Per
concludere, possiamo fare qualche
foto alla sua biblioteca?
Certo! Fate pure e grazie a voi. ❧
Silvio Sega
143
gli amanti dei libri
Gli Amanti dei Libri
a cura di Barbara Bottazzi
I
talo Calvino (1923-1985) è indubbiamente uno dei maggiori esponenti della letteratura italiana moderna e forse il nostro autore più conosciuto all’estero.
Il suo desiderio di sperimentazione,
unito ad un’autentica vocazione
fantastica, ha fatto sì che nella sua
produzione siano rintracciabili diversi filoni che si intersecano tra loro e che non sono mai veramente
distinti. Dai racconti quasi neorealistici, di cui Il sentiero dei nidi di ragno è l’esito più noto, si passa alla
narrazione filosofica e favolosa con
la trilogia dei tre antenati (Il barone
rampante, Il visconte dimezzato, Il
cavaliere inesistente) per poi approdare alla fantascienza e alla fase cosiddetta combinatoria (Le cosmicomiche, Ti con zero).
La sua attività di scrittore è stata
affiancata da quella altrettanto importante di critico e collaboratore
della casa editrice Einaudi e caratterizzata da una costante riflessione
metaletteraria, di cui le Lezioni a-
mericane sono l’ultimo approdo.
Il 6 giugno 1984 fu infatti invitato
a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures presso l’Università di
Harvard nell’anno accademico
1985-1986. Era la prima volta che
l’incarico veniva affidato ad un italiano. Il programma prevedeva sei
incontri, ma in realtà riuscì a portarne a compimento soltanto cinque, poiché morì nel settembre del
1985.
Le lezioni, raccolte dalla moglie
Esther, furono pubblicate per la prima volta nel 1988 con il titolo di Lezioni americane per l’editore Garzanti.
Per Calvino non fu facile individuare il tema da trattare, dato che vi
era ampia libertà in questo senso e
lui riteneva importante nella scrittura avere una certa dose di costrizione, ma alla fine decise di trattare
degli importanti valori della letteratura da conservare nel millennio a
lui prossimo.
Egli, percependo la frequenza
con cui ci si interroga sulla sorte del
libro e della letteratura nell’era tecnologica, afferma: “La mia fiducia
nel futuro della letteratura consiste
nel sapere che ci sono cose che solo
la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici. Vorrei dedicare queste
mie conferenze ad alcuni valori o
specificità della letteratura che mi
stanno particolarmente a cuore,
cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio”.
Il primo valore analizzato è la leggerezza, che rappresenta la definizione complessiva del lavoro stesso
dello scrittore e si associa per lui
Barbara Bottazzi
Calvino e le Lezioni Americane (parte I)
144
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Calvino ha operato una sottrazione di peso sulle figure
umane, sui corpi celesti, sulle città,
ma soprattutto ha cercato di togliere pesantezza alla struttura del racconto e al linguaggio, spinto da una
forte tensione interiore e filosofica:
ritiene infatti che solo la vivacità e
la mobilità dell’intelligenza sfuggono alla condanna di una pesantezza
insostenibile.
“Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime o antichissime,
stili e forme che possono cambiare la
nostra immagine del mondo… Ma
se la letteratura non basta ad assicurarsi che non sto solo inseguendo dei
sogni, cerco nella scienza alimento
per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta…
Oggi ogni ramo della scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi
dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi…
Poi, l’informatica. È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza senza la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul
mondo esterno e sulle macchine, le
quali esistono solo in funzione del
software, si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
con immagini schiaccianti quali
presse di laminatoi o colate d’acciaio,
ma come i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto
forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso” (p. 12).
Il discorso punta direttamente
all’evoluzione del pensiero scientifico e filosofico, sfiorando la religione e la fisica quantistica (soprattutto quando viene citato il de Rerum
Natura), ma presto Calvino ci riporta ai testi con riferimento in
145
gli amanti dei libri
Recensione
a cura della Redazione
particolare a Dante e Cavalcanti,
sottolineando che due vocazioni
opposte si contendono il campo
della letteratura attraverso i secoli:
l’una che tende a fare del linguaggio
un elemento senza peso e l’altra che
tende a comunicare con il linguaggio lo spessore e la concretezza delle cose.
Viaggia nella sua biblioteca e cita
tra gli altri Shakespeare, sognando
di trasformarlo in un seguace dell’atomismo lucreziano, Cervantes,
Cyrano de Bergérac, Swift, Newton
e Leopardi: il tutto per mostrarci
come a volte sono attimi leggeri a
fare la storia della letteratura. Poche
righe per la lotta contro i mulini a
vento e immagini di leggerezza che
pervadono gli scritti più celebri come il pallone su cui viaggia il Barone di Munchausen e la luna a cui si
rivolge il poeta di Recanati, che ben
conosceva le teorie di Newton. Calvino finisce riprendendo tutti i fili
che ha tirato, ma la prima sua conclusione definita ovvia è quella che
più ci affascina: la scrittura è metafora dell’anima pulviscolare del
mondo.
La seconda delle lezioni americane di Italo Calvino è dedicata alla
rapidità ed è un viaggio nel rapporto tra letteratura e tempo, una ricchezza di cui lo scrittore può disporre con agio e distacco.
Nei meccanismi narrativi è celato
il desiderio di fermarlo o prolungarlo all’infinito: “Il racconto è un’operazione sulla durata, un incante146
simo che agisce sullo scorrere del
tempo, contraendolo o dilatandolo,
tramite gli espedienti tecnici dell’iterazione e della digressione”.
La rapidità dello stile non è di per
sé un valore in quanto il tempo narrativo può anche essere ritardato, ciclico o immobile, in ogni caso vuol
dire mobilità, agilità, disinvoltura.
Calvino parte dai suoi studi sulle
folk tales, che lo hanno sempre attratto per l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate, ma cita anche Galileo e Leopardi.
Per Galileo “il discorrere è come
il correre”: la rapidità, l’agilità del
ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli
esempi sono qualità decisive del
pensar bene. Per Leopardi invece la
rapidità e la concisione dello stile
piace perché “presenta una folla d’idee simultanee (…) che fanno ondeggiare l’anima in una tale abbondanza di pensieri, immagini, sensazioni spirituali che ella non è capace di abbracciarle tutte. (…) Essa
desta realmente una quasi idea
dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica. La velocità è piacevolissima
per sé sola, per la vivacità, l’energia,
la forza, la vita di tal sensazione”.
Passando a narratori moderni
ampio spazio viene dedicato a Borges, maestro di precisione e concretezza, capace di straordinarie aperture all’infinito.
Queste riflessioni sono state scritte nel 1984 ma appaiono oggi più
che mai attuali: “Nei tempi sempre
più congestionati che ci attendono
il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione
della poesia e del pensiero”. E ancora: “In un’epoca in cui altri media
velocissimi e di estesissimo raggio
trionfano e rischiano di appiattire
ogni comunicazione in una crosta
uniforme e omogenea, la lezione
della letteratura è la comunicazione
tra ciò che è diverso in quanto diverso non ottundendone bensì esaltandone le differenze, secondo la
vocazione propria del linguaggio
scritto”.
Calvino non poteva immaginare
che sarebbe arrivato il web, ma per
prevedere che il futuro dell’informazione e della scrittura sarebbe
stato ingarbugliato gli è bastato ciò
che aveva sotto gli occhi negli anni
Ottanta.❧
Barbara Bottazzi
H
o appena letto il libro di
Roberto Vecchioni, Il
mercante di luce, e ne ho
tratto un commento che proporrei
agli amici de Il Furore dei Libri.
Dapprima è il padre – professore
di lettere antiche – a voler spiegare
al figlio le virtù di Aiace, l’acheo più
coraggioso alla guerra di Troia. Lui
è la forza, la fedeltà a un’idea, la nobiltà di pensiero, l’orgoglio delle
proprie azioni, in definitiva la ‘coerenza’. Ma il premio che meritava –
le armi del defunto Achille – gli
venne disconosciuto: fu l’intrigante
Ulisse a beneficiarne e Aiace per la
vergogna si uccise. È la vergogna
del perdente, di chi subisce un oltraggio e sente calare su di sé la solitudine dell’eroe tragico: egli perde,
perde sempre. Ma la sua non è una
resa, è l’estrema ratio di chi non accetta di sottostare alla realtà corrente: “Sapete cosa c’è di nuovo? Mi
disgustate, io vi saluto”.
Il figlio – su cui incombe, appena
diciassettenne, la morte a causa di
una malattia inesorabile – medita
la vicenda di Aiace e alla fine ripete
a memoria i versi immortali di Saffo: “Questa è la mia sera. / Sei venuta, Dio che bello, non stavo in me /
dal desiderio, e l’hai bagnata la mia
anima / che bruciava di non averti”.
Per poi concludere: “Non ho più
paura, papà”.
Ecco allora che è il figlio a dare la
lezione vitale al padre: diventa lui
“il mercante di luce” – ed è questo
anche il titolo del libro di Roberto
Vecchioni (Einaudi, Torino, 2014)
che qui commentiamo – è lui che
insegna al padre a reggere con dignità il destino dei perdenti. Il padre – distrutto dalla sorte impietosa
riservata al figlio e offeso dalla prepotenza inflittagli nella vita professionale e privata – vorrebbe farla finita e schiantarsi in automobile
contro il primo muro che avrebbe
incontrato. Ma all’improvviso gli
tornano alla memoria le parole del
figlio: “Non ho più paura”.
Era il coraggio di Aiace che soccorreva il giovinetto davanti alla
prova della morte imminente. Lo
stesso coraggio che ora ordinava al
padre – e a noi tutti – di non avere
più paura, la “paura” ancora più angosciante, come quella “di vivere”:
ad essere felici del sole che ci resta,
insomma a coltivare qualche ragionevole illusione. Del resto la leggenda racconta che le onde del mare – strappandole ad Ulisse – riportarono sulla tomba di Aiace le armi
di Achille.
All’ultimo ad Aiace fu resa giustizia: sì, egli “meritava l’umanità e la
bellezza”. Il destino sarà gentile con
lui, seppur in modo tardivo e simbolico: e tutti i perdenti di questo
mondo potranno alfine immaginare che sarà clemente anche con loro. Eppure noi sappiamo che la speranza per essere credibile non può
che “essere rara”. ❧
Nicola Zoller
Nicola Zoller
NOTA: Per queste note è stata utilizzata
l’edizione Oscar Mondadori del 1993.
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Aiace, I’eroe che ci aiuta a vivere (e a perdere) con dignità
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
147
parole per strada
Parole per Strada
a cura di Maria Luisa Mora
L
a classe 3CL del Liceo “Rosmini” di Rovereto ha fatto
parte della giuria che ha
selezionato i 10 racconti per la Mostra di Parole per strada - Lasciami
andare, la quinta edizione del nostro
concorso ad invito. È la terza volta
che un gruppo di giovani lettori si affianca a dei professionisti della parola scritta (autori, redattori, insegnanti, giornalisti, librai) per valutare i racconti pervenutici e pronunciare la loro scelta, e ancora una volta si è rivelata un’esperienza di grande valore non solo per i giovani che
hanno potuto viverla, ma per tutti
noi.
Per questa edizione hanno raccolto l’invito 140 autori e sono stati ammessi 136 racconti; per metà di provenienza locale (Trentino Alto Adige), il resto da una dozzina di regioni italiane, oltre agli autori di origine
straniera che hanno inviato testi anche in lingua originale. L’edizione di
quest’anno vedrà la novità di una
mostra “diffusa” con tutti i racconti
esposti per tutta l’estate nelle vetrine
della città oltre alla Mostra itinerante che sarà ospitata all’Urban Center
di Rovereto.
C’è chi scrive per leggersi e c’è chi
lo fa per farsi leggere. Gli autori di
Parole per strada, e ormai sono parecchie centinaia, sono invitati a
farlo con questo secondo obiettivo
che è poi quello de Il Furore dei Libri: promuovere il piacere della lettura in tutti, senza condizionamenti di età, studi, censo. Questo piacere, che sembra naturale in chi ha alle spalle anni di buone consuetudini di lettura, per molti, soprattutto
giovani abituati più ai display che
alla carta, non è immediatamente
raggiungibile. Per questo è importante che chi scrive si renda conto
che catturare l’attenzione e la frequentazione dei lettori più giovani
è vitale per la sopravvivenza della
stessa scrittura.
Ma quanti di quelli che scrivono
hanno la voglia o la possibilità di
confrontarsi con chi determinerà il
futuro della lettura? Per questo siamo lieti di ospitare una scelta dei
commenti che gli studenti della III
classe del Liceo Linguistico “Rosmini” hanno prodotto a margine
del loro lavoro di valutazione, come
membri della giuria, e come protagonisti di un’esperienza didattica originale che durerà ben oltre la conclusione della lettura dei racconti e
resterà per sempre nel loro patrimonio culturale. I commenti si riferiscono all’esperienza in generale,
perché nello spirito di Parole per
strada vogliamo che sia comunque
il lettore il giudice della validità di
uno scritto, e preferiamo lasciare i
riferimenti ai singoli racconti al lavoro di analisi e di critica che Lucia
Debiasi, la docente che ha organizzato e curato il progetto didattico,
ha fatto e continua a fare in una
scuola che cerca di essere nella realtà. Lasciamo agli autori di Parole
per strada e a tutti i lettori la riflessione sulle osservazioni che seguo-
Maria Luisa Mora
Lasciamo andare le parole
148
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
Sentirsi parte di un gruppo di
giudici e sapere di aver contribuito
a scegliere i testi migliori tra i moltissimi proposti è stato costruttivo.
Ho imparato a leggere attraverso
vari criteri che prima non utilizzavo, a leggere più a fondo e attentamente. Alcuni testi erano davvero
bellissimi e sono davvero felice di aver potuto leggerli. Esperienza da
rifare!
Anna Corsi
no e concludiamo rilevando che la
lettura non è morta ma vive e vivrà
anche grazie a questi giovani.
Partecipare al progetto Parole per
strada è stata un’esperienza davvero
unica poiché ho potuto cogliere dai
vari racconti emozioni veramente
speciali da condividere con i miei
compagni di classe. Particolarmente piacevole è stato leggere e comprendere allo stesso tempo come una tematica possa essere interpretata in modo diverso dai vari autori.
Grazie a queste letture spesso riuscivo a entrare nel personaggio e viIL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
vere a pieno la sua storia lasciando
dentro di me a volte del rammarico,
ma la maggior parte delle volte felicità e altruismo. Sicuramente il mio
bagaglio lessicale si è arricchito notevolmente.
Anna Marzadro
È stata un’esperienza nuova e
interessante, mi è piaciuto molto
leggere i racconti e vedere come i
vari scrittori hanno interpretato,
ognuno a modo suo, il tema
“Lasciami andare”.
Giorgia Tovazzi
Far parte della giuria del concorso
“Parole per Strada” è stata un’esperienza veramente di mio gradimento. Oltre ad aver svolto un compito
che non avevo mai provato prima
d’ora, ovvero quello di giudicare il
lavoro di altre persone dando loro
un voto, ho anche imparato molto
nel campo della scrittura. Diversi e
particolari erano infatti gli stili di
scrittura dei testi che ho trovato
davvero interessanti, piacevoli e
coinvolgenti. Mi piacerebbe ripetere l’esperienza anche il prossimo anno e la consiglierei a molti miei coetanei per far provare loro una lettura alternativa e diversa dal solito.
Francesca Modena
Sono stata molto entusiasta e fiera di aver potuto far parte, seppur
nel mio piccolo, della giuria della V
edizione del concorso letterario
“Parole per Strada”, propostoci
dall’organizzazione “Il Furore dei
Libri” di Rovereto.
Erika Ricci
149
parole per strada
parole per strada
Quest’anno l’argomento di questi
brevi, ma esaurienti racconti, era
incentrato sul tema “Lasciami andare”, il quale è stato ampliamente
gradito da noi tutti. Io e la mia classe abbiamo letto più di cento racconti in meno di una settimana, ma
ne è assolutamente valsa la pena
perché, oltre ad aver fatto qualcosa
di totalmente nuovo per noi, in
quanto siamo sempre stati abituati
a venir valutati e non a valutare, è
stata anche un’esperienza volta
all’invogliarci alla lettura, in un
mondo oramai sommerso dalla
tecnologia. Ripeterei molto volentieri quest’incredibile avventura
che mi ha aiutato ad arricchire il
mio bagaglio culturale.
Francesca Modena
L’esperienza come giudici del
concorso letterario “Parole per
Strada”, coordinata in classe dalla
prof.ssa Debiasi, è stata una leva per
aprire le nostre mentalità e ha fatto
barcollare il nostro etnocentrismo.
È stato interessante e sempre curioso perché non riuscivi a smettere di
leggere i racconti. Volevi finirli al
più presto possibile per scoprire i
pensieri di una persona a te completamente sconosciuta. Se qualcuno ora mi chiedesse: “Argomenta
sulla tematica: lasciami andare” avrò sicuramente molte più fonti,
spunti per articolare il discorso di
quanti ne avessi prima. Il progetto
per me ha rappresentato una crescita personale e mi ha donato una
visione quasi omnisciente sull’argo150
do numerosi, il mio giudizio finale
è positivo.
Elisa Soini
“Lasciami nel silenzio della poesia, quando l’analfabeta scopre le
parole del sorriso”. Ho sempre ammirato questo senso di ritrovamento che si prova talvolta durante la
lettura e lo stupore che ne segue.
Quello stupore quasi infantile,
spontaneo, vivido e allo stesso tempo maturo, che porta a riflessioni silenziose. Giudicare gli altri implica
il dover scavare prima in se stessi e
comprendere cosa crea in noi una
certa frase, delle determinate parole. Ringrazio tutti coloro che hanno
reso possibile questa grande opportunità, con la speranza che il progetto venga portato avanti!
Asmira Vugdalic
mento. Se il prossimo anno si ripresentasse la stessa occasione, sarei
lieto senza alcuna esitazione a dare
il mio sostegno!
Daniele Folgarait
È stato sorprendente vedere come
le persone interpretino in modi differenti uno stesso argomento e come ogni individuo abbia i propri
pensieri, diversi da chiunque altro.
Leggere tutti i testi è stato faticoso,
ma ne è valsa la pena. Erano uno
più interessante dell’altro, anche se
a volte lasciavano perplessi o senza
parole. Veramente un’esperienza
consigliata e da rifare!
Virginia Simoncelli
Far parte della giuria di “Parole
per strada” mi è piaciuto molto. Ho
avuto l’opportunità di leggere molte
storie, diverse tra loro, ed ognuna
di esse era stata scritta con uno stile
differente dalle altre. La cosa più interessante è stata vedere come la
frase “Lasciami andare” era stata
interpretata da ogni persona, perché non sapevo che per ognuno di
noi una frase potesse avere così tan2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
ti significati. È stata una bellissima
esperienza e sono molto felice di aver partecipato a questo progetto!
Chiara Pedergnana
Esperienza interessante sotto vari
punti di vista. Ho colto il significato
della maggior parte dei testi e l’ho
interpretato a mio piacimento. Devo ammettere che il tema trattato
non era facile ed aveva uno spessore emotivo notevole, infatti svariati
testi mi hanno emozionato e fatto
riflettere.
Giorgia Ruele
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Per quanto mi riguarda, ho trovato molto interessante questa esperienza, perché è stata la prima volta
in cui ho preso parte ad un concorso con il ruolo di giurato. Oltre ad
avermi allettato, questi testi hanno
anche stimolato in me il desiderio
di scrivere. Ho potuto constatare inoltre come l’immaginazione umana non abbia limiti: nonostante alcuni testi si somigliassero, molti erano differenti riguardo l’interpretazione del tema “Lasciami andare”.
Anche se i testi hanno richiesto
molto tempo per essere letti, essen-
Ho trovato il progetto “Parole per
strada” molto bello ed interessante,
perché mi ha permesso di far parte di
una giuria, assieme ai miei compagni
di classe, di un prestigioso concorso
letterario, analizzando testi di diversi
autori di tutto il mondo. Uno degli aspetti che mi ha colpito maggiormente è stato l’approccio dei vari autori al
tema del concorso che mi ha permesso di conoscere vari stili di scrittura.
Alessandro Gerosa
Ho trovato l’esperienza molto utile, perché ho imparato a dare un
giudizio agli scritti, senza venire influenzata dai commenti degli altri.
Arianna Zoara
151
parole per strada
parole per strada
Parole per Strada è stato un progetto interessante e coinvolgente
che mi ha fatto riflettere su molte
cose. Leggere tutti i testi è stata
un’impresa ma è stato particolarmente emozionante e motivante.
Molte delle storie erano davvero
belle e impressionanti.
Veronica Ferrari
Esperienza del tutto nuova per
me e che ho affrontato in maniera
positiva, con molta curiosità. Ho
giudicato i testi cercando di essere
imparziale, consapevole del fatto
che il mio voto avrebbe influito.
Molti testi mi hanno coinvolta emotivamente, suscitando in me una gamma di emozioni che spazia
dall’immensa gioia alla profonda
tristezza. Di questo devo rendere
merito agli autori, dei quali la maggior parte ha compreso a pieno il
tema del concorso, “Lasciami andare”, componendo dei magnifici racconti.
Larissa Moyola Espen
È stata un’esperienza interessante.
Mi ha colpito molto l’organizzazione del concorso. Penso che l’obbiettivo che si pone il concorso sia
un obiettivo importante: coinvolgere più persone possibili nella lettura di diversi racconti non è
un’impresa facile. Ringrazio gli ideatori del concorso per dare la
possibilità di scrivere e di leggere
alle persone.
Gabriele Matté
152
prire come con poche parole si possano trasmettere grandi sentimenti
capaci di toccare nel profondo
chiunque.
Riccardo Pandini
È stato un bellissimo progetto.
Vorrei ringraziare l’Associazione Il
Furore dei Libri e la professoressa
Debiasi per averci coinvolto in questa esperienza e averci reso importanti. Durante il nostro percorso di
valutazione, ho letto differenti stili
di scrittura e ciò mi ha aperto la
mente e mi ha fatto scoprire le differenze di pensiero e scrittura che ci
sono anche tra i giovani.
Ioanna Koutsoukou
Parole per strada è un progetto a
cui parteciperei volentieri anche
l’anno prossimo. Nonostante il tema da sviluppare, “Lasciami andare”, fosse complicato, tutti i racconti
erano indubbiamente originali, per
questo li ho letti e valutati con molto piacere.
Michela Sguario
È stata una bella esperienza. Mi è
piaciuto particolarmente il fatto di
essere giudice insieme ai miei
compagni per confrontarmi e
rendermi conto di come ognuno di
noi possa interpretare i significati a
modo suo. È un’esperienza che
consiglio di fare a tutti, se si ha la
possibilità.
Sebastian Metz
È stata un’esperienza nuova ed
interessante, che mi ha dato modo
di avvicinarmi alla lettura e alla
scrittura. Il tema trattato non era
affatto semplice: richiedeva ingegno
e creatività. Gli autori, tuttavia,
sono riusciti a interpretare al
meglio questo tema senza cadere
mai nel banale. Nel complesso, “Parole per strada” si è rivelato essere
un progetto innovativo ed educati2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
vo, che mi ha piacevolmente sorpresa. Spero, per questo, di avere
l’occasione di parteciparvi anche i
prossimi anni, stavolta però non
più come giurato.
Orjona Drizi
Trovo che questa esperienza sia
stata davvero piacevole. Ho potuto
scoprire vari artisti che grazie alle
loro storie mi hanno fatto viaggiare
con la fantasia. Alcuni racconti mi
sono piaciuti più di altri, ma credo
che ognuno abbia qualcosa di speciale. Grazie Furore dei Libri!
Chiara Sannicolò
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
Parole per strada è stata un’esperienza nuova nonché istruttiva. In
queste ore abbiamo avuto la possibilità di leggere testi provenienti da
tutto il mondo, conseguire il nostro
ruolo da giudici, al fine di votarli,
ma soprattutto capito che per scrivere un qualsiasi testo basta un foglio, una penna e saper volare con
la fantasia!
Sebastiano Spagnolli
Avevo sentito parlare de Il Furore
dei Libri e del concorso Parole per
Strada, ma farne parte, anche se per
un breve periodo, mi ha fatto sco-
Sono dell’opinione che leggere
renda l’uomo completo e libero. I
testi propostici dall’associazione “Il
Furore dei Libri” sono stati un modo diverso per noi di apprendere,
noi che siamo sempre stati abituati
ad essere giudicati e non a giudicare. Sono stati, prima di tutto, un
modo per leggere con occhi nuovi i
pensieri di persone come noi, che
hanno interpretato il tema “Lasciami andare” attraverso le esperienze
che hanno vissuto nelle loro vite.
Mi sono immersa in ogni testo, dal
primo all’ultimo, e da ognuno ho
cercato di trarre una crescita personale. Mi complimento con ogni autore, dal primo all’ultimo, per avermi fatto sognare ad occhi aperti e
per avermi portato, attraverso le loro righe, verso nuove terre, nuovi
profumi e nuovi visi, anche se sedu153
parole per strada
ta in un banco di scuola. Esperienza davvero costruttiva e fuori
dall’ordinario da ripetere, magari
non in veste di giurato, ma di scrittrice!
Barbara Adami
L’esperienza di quest’anno non ha
fatto che confermare la validità e
l’utilità didattica della classe-giuria.
Ho ulteriormente confermato la
mia convinzione professionale che
attraverso la lettura gli studenti
possono arricchire la loro cultura
154
personale, consolidare buone capacità e competenze linguistiche, acquisire una capacità critica e un’autonomia di pensiero.
Parole per strada mi ha permesso
di fare tutto ciò.
Impostando il lavoro in modo da
sviluppare l’autonomia di lettura e
di analisi, il confronto e la discussione, la responsabilità di emettere
un giudizio è diventata per ciascuno il riconoscimento di un ruolo
attivo e indipendente, difficile da
attuarsi perfino in una scuola mo-
parole per strada
derna. Che ne siano consapevoli,
piacevolmente sorpresi e desiderosi
di “continuare”, magari cimentandosi nella scrittura, è proprio una
bella soddisfazione che desidero
condividere con gli amici di Parole
per strada e con tutto Il Furore dei
Libri!
Lucia Debiasi
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
155
notizie dal furore
Notizie dal Furore
I Mercoledì del Furore
Giornata della Memoria:
celebrazioni e riflessioni
Un ricordo
di Sandro Disertori
S
andro Disertori, scomparso
il 19 maggio 2014, tra i primi
soci dell’associazione Il Furore dei Libri, è stato un narratore
originale e un lettore onnivoro. Lettori e collaboratori della rivista del
“Furore” non dimenticheranno i
suoi originali contributi: utilizzando uno stile personalissimo, munito di raffinati strumenti critici, Disertori (“Dise” per gli amici) – nei
suoi scritti – è riuscito a leggere il
presente nelle trasparenze del mondo classico, ha saputo rievocare
quelle atmosfere della finis Austriae
tanto care ad autori come Stefan
Zweig, Karl Kraus, Peter Altenberg,
Arthur Schnitzler, Joseph Roth. Più
di una volta ho incontrato Sandro:
mi è sembrato refrattario alla retorica e al conformismo, scevro di
pregiudizi e senza lenti ideologiche,
uno spirito libero, lucido, consapevole, attento ai contesti e alle relazioni. Quando Renzo Galli, allora
direttore della rivista del “Furore”,
me lo presentò, immediatamente
rammentai un altro mitteleuropeo,
statuario nel portamento proprio
come Disertori, cioè Gregor von
Rezzori, figura poliedrica di artista
e scrittore (classe 1914) nato a Czer156
nowitz, capoluogo della Bucovina,
allora parte integrante dell’impero
austro-ungarico. Anche Disertori
nacque in Austria, a Vienna nel
1918, l’anno in cui si concluse la
Grande Guerra. Di padre trentino e
di madre istriana, visse a Trento e
nel mondo. Sandro era cugino di
Beppino Disertori, uomo di scienza, ma pure letterato e filosofo. La
famiglia Disertori era legata da vincoli di parentela ai librai Monauni e
ai banchieri Calderari.
Dalla famiglia, appartenente
all’alta borghesia, Disertori mutuò
il senso dell’ordine, il rispetto per le
istituzioni, il godimento per la cultura, una cultura che sapeva incrociare scienza e vita, tecnologia e arte. La casa dei Disertori era, nella
Trento a cavallo tra Ottocento e
Novecento, un crocevia di destini e
di intelligenze. Ecco che l’apertura
al mondo era già scritta nel dna del
“Dise”. Nella sua lunga esistenza,
Disertori si è sempre distinto per
coerenza e correttezza: antifascista
convinto, fu arrestato dalla Gestapo
e deportato in un lager per ufficiali
italiani (prima in Baviera e poi in
Bassa Sassonia).
Si salvò senza aver abdicato alla
sua fede democratica. Tornò a
Trento nel 1945, l’anno seguente si
laureò in ingegneria idraulica all’u-
niversità di Padova. Partecipò alla
realizzazione di importanti lavori idroelettrici, di dighe e di impianti
industriali un po’ in tutti i continenti, dal Camerun alla Ddr, fino
all’Iraq di Saddam Hussein. Attento
e sensibile viaggiatore, Disertori mi
fa ricordare l’ingegnere Ulrich Arnheim, di musiliana memoria, il
quale cercava di far quadrare il regolo con la fantasia, la geometria
con la poesia.
Mercoledì 14 maggio, qualche
giorno prima che Sandro Disertori
venisse a mancare, il Furore dei Libri, ospite della biblioteca di Rovereto, ha presentato l’ultima fatica di
Sandro, un libro autobiografico: Il
mio Secolo Breve. Diario di un sopravvissuto mitteleuropeo, straordinaria testimonianza della sua vita
di cittadino del mondo, di apolide
della cultura, di attento osservatore
della Storia e dei suoi processi culturali.
Attraverso la propria vicenda
personale, Disertori traccia un impareggiabile quadro degli avvenimenti politici e sociali che hanno
caratterizzato l’Italia e l’Europa dalla Grande Guerra alla caduta del
muro di Berlino (1989).❧
Carlo Andreatta
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
N
oi del Furore abbiamo
dedicato alle tematiche
sempre attuali e rivisitate sulle questioni della Religione
Ebraica tra storia e sociologia una
serata speciale, a “due voci”.
Giuseppe Gottardi, con passione
di bibliofilo, ha presentato il libro
Pasque di sangue (1° edizione 2007),
mostrandoci un’autentica copia di
quel saggio di Ariel Toaff così rara
ormai da reperire anche sul mercato antiquario specializzato. L’autore,
in contumacia, sembra aver di nuovo subìto una critica storica e letteraria serrata come lo fu quella perfino persecutoria che lo indusse al ritiro della sua opera e ad una revisione-purga in seconda edizione. Le
tesi sostenute dallo studioso e docente di storia ebraica e figlio dell’allora Rabbino di Roma, riguardanti
non solo l’accusa del sangue, bensì
altri temi come il coinvolgimento di
ebrei in attività di spionaggio, le invettive anti-cristiane nella letteratura e nei rituali ebraici medioevali,
sono state fertile terreno per una disamina attenta e dialettica che si è
svolta prevalentemente sulle pagine
della stampa da parte di studiosi di
chiara fama.
Luzzatto, storico, uomo di sinistra e di famiglia ebraica, in una recensione entusiastica dichiara che
“dopo la tragedia della Shoah, è
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
comprensibile che l’accusa del sangue sia divenuta un tabù … al giorno d’oggi, soltanto un gesto di inaudito coraggio poteva consentire di
riaprire l’intero dossier … si parla
di miti, cioè di antiche credenze e ideologie, oppure di riti, cioè di eventi reali…”. Prosperi e Quaglioni
oppongono critiche metodologiche
e giuridiche all’impostazione
dell’autore; al ritiro di tutte le copie
esplode la febbre mediatica. Franco
Cardini su l’Avvenire definisce l’opera come “una ricerca storica metodologicamente esemplare” e “un
atto di onestà intellettuale”. La giornalista Nierestein ed esponenti delle comunità ebraiche italiane condannano il libro come espressione
di antisemitismo.
Carlo Ginzburg, dalla UCLA e
dalla Normale di Pisa, conclude:
“Che un tema così grave sia stato
affrontato con tanta superficiale irresponsabilità lascia sgomenti”.
Alla nuova edizione del 2008, del
libro di Toaff si parla solo nelle aule
universitarie. La febbre dell’anno
precedente è svanita.
Fabio Casna, laureando in Lettere
moderne e ricercatore, ci propone
un’accurata, attenta ed ampia ricerca sul caso di Simonino da Trento.
Gli autori (fra cui Giorgio Sommariva e Giovanni Mattia Tiberino)
della vasta produzione di documenti, atti processuali e cronache
contemporanee e iconografia relative alla tragedia del piccolo Simone, di cui furono accusati gli Ebrei
di Trento e che fu poi proclamato
santo, rivivono e trovano voce nella
ricostruzione della ricchissima produzione letteraria ed iconografica
seguita al fatto. Appare evidente il
grande e funzionale apporto del
mezzo della stampa, non solo a sostegno e divulgazione della tesi accusatoria conto la comunità ebraica, ma nell’intera costruzione del
caso al tempo del vescovo Hinderbach, che già conosceva la potenzialità della stampa e che fece di Simonino il “primo santo tipografico”.
Al di là della disamina attenta e
scientifica delle fonti, la riflessione
converge sul metodo: enormi responsabilità storiche ed etiche coinvolgono l’attività letteraria e di diffusione ora come allora.❧
Maria Grazia Masciadri
Presentazione antologia
Dritto Al Cuore
M
ercoledì 11 febbraio
2015, il Furore dei Libri è stato promotore
di una splendida iniziativa benefica
legata alla pubblicazione dell’antologia Dritto al Cuore (Galaad Edizioni). Sira Terramano e Igor De
Amicis, tra gli ideatori di questo
volume, hanno gettato l’amo verso
chi, tramite la scrittura, avrebbe potuto raccontare una storia. All’appello hanno risposto in tanti, noti
scrittori come Carlo Lucarelli e An157
notizie dal furore
drea G. Pinketts, e tanti altri autori,
molti dei quali soci de Il Furore dei
Libri che ogni anno esprimono il
proprio talento anche nelle antologie di Parole per Strada, e che in
questa sfida hanno dimostrato che
l’impegno unito alla sensibilità e
all’entusiasmo possono aiutare chi
necessita di assistenza e di nuovi
spazi, come i pazienti pediatrici afflitti da patologie cardiologiche.
A nome dei colleghi autori presenti alla serata (oltre la sottoscritta, i soci Renzo Galli, Anna Maria
Ercilli, Renzo Saffi, Rocco Sestito,
Bruno Zaffoni, Elena Belotti e Rosa
Mazzacca), ringrazio chi è venuto
ad ascoltare i nostri racconti ma anche quelli di chi non è potuto essere
presente, a cui abbiamo dato una
voce insieme alle voci preziose del
nostro presidente Giuseppe Gottardi e della nostra vicepresidente Maria Grazia Masciadri.
Concludo con le parole finali della prefazione di A.G. Pinketts: “Se
scrivi solo di testa ti può venire un’emicrania, se scrivi di pancia rischi la
pancreatite, se scrivi di cuore hai un
fine, non una fine”.
Dritto al Cuore non finisce qui
ma continua su www.metticiilcuore.net, su cui potete trovare tutte le informazioni per fare una donazione e acquistare il libro.❧
Catia Simone
158
Carla Casetti Bregantini,
Una storia bella
L
a lettura di un libro è un
atto solitario, ci addentriamo nelle pagine incontrando storie e personaggi, condividiamo vite immaginarie o biografie di uomini e donne illustri e
nella saggistica nuovo sapere. La
presentazione al pubblico della monografia di un uomo nel corale
coinvolgimento della gente del suo
paese, immerso nei cambiamenti
sociali del periodo post-bellico,
non è molto usuale, perché è scritta
e raccontata dalla moglie. Una storia bella (Curcu&Genovese, 2014)
di Carla Casetti Bregantini, sembra
un libro di memorie familiari, ma è
molto di più, racchiude tanti frammenti di vita raccolti dentro un ampio periodo storico, dalla Grande
Guerra al secondo conflitto mondiale, sino ai nostri giorni. Il pubblico ascolta e trova risalto nel taglio dell’esposizione; il bambino Livio cresce temerario e curioso, attraversa le conquiste giornaliere
con coraggio e voglia di raccogliere
il meglio della vita. Grande lavoratore, incontra la compagna del primo matrimonio, rimane vedovo,
ma non si arrende e ancora si adatta
alla vita che cambia, come cambiano le persone, rinnova il modo di
pensare e rapportarsi, incontra
Carla, la seconda moglie.
La voce narrante prende il sopravvento nel tempo attuale, diventa introspettiva, raccoglie brani feli-
notizie dal furore
ci di narrativa. Ultime note musicali e la festosa condivisione degli amici avvicinano l’autrice.
Per il rito della pizza del mercoledì, si passa al locale vicino, al tavolo
le voci mescolano gli argomenti:
perché dobbiamo imparare l’inglese se lo spagnolo è più diffuso?❧
Anna Maria Ercilli
Dentro il Nicaragua con
Martina Dei Cas
T
orna per la seconda volta a
presentare un suo libro
Martina Dei Cas. Dopo il
successo di Cacao Amaro presenta
una nuova avventura nicaraguense
con Il Quaderno del destino (ProspettivaEditrice, 2015). Ad entrambi i libri è sotteso un progetto importante “Un libro per una biblioteca”, in cui i proventi della vendita
del romanzo servono a finanziare
l’acquisto di libri e materiali per
scuole nicaraguensi, secondo il
principio che con l’istruzione si
possa migliorare il futuro di un paese. Il Quaderno del destino è una
storia avvincente che ruota attorno
a due personaggi, è un romanzo di
formazione in cui Joaquin, ragazzo
di strada, uno come tanti in Nicaragua, riesce a migliorare la società in
cui vive partendo dalle cose più vicine a lui e, mano a mano, incidendo sul destino degli altri… Sullo
sfondo della storia il Nicaragua, repubblica centroamericana, con la
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
sua storia politica, le sue tradizioni
religiose (cristiane e popolari) e soprattutto con la sua musica, vero filo rosso di tutto il romanzo che si
ricollega, quasi ad anello, con Cacao Amaro.
Nella sala gremita di gente, grazie
alle ottime letture e soprattutto al
suono della chitarra, si è riusciti ad
immergersi, almeno per un secondo, in quell’atmosfera frenetica e rarefatta del Nicaragua.
Un uomo dal pubblico, al termine della presentazione, pone una
domanda con tono ironico: “Perché
mai dovrei comprare questo libro, simile a molti altri?”, Martina, calma
e pacata, risponde brevemente:
“Perché è una storia di un riscatto”, e
noi diremmo di un riscatto che vale
come esempio per tutti.
Chiudiamo con le parole che esprimono al meglio il senso di tutta
la storia: “Nessuna terra vale più
della cultura, ragazzo. Ricorda che
se i campi ti rendono schiavo, l’istruzione ti fa libero. Dimostra al nostro
Paese che anche un lustrascarpe figlio di nessuno può andare all’università. Lo devi a Thalia…”.❧
Fabio Casna
Vita associativa
Le pizze del Furore
I
l nuovo direttivo dell’Associazione negli ultimi mesi ha
sentito la necessità di rafforzare il legame tra soci. Su idea del
IL FURORE DEI LIBRI 2014/12-13
presidente Gottardi, partendo dal
buon ricordo di precedenti esperienze, si è deciso di istituire la “pizza del mercoledì”, ovvero di proseguire in pizzeria il consueto appuntamento del mercoledì in biblioteca, dopo la presentazione di un libro o l’incontro con un autore.
La prima serata si è tenuta appena prima di Natale ed è stata l’occasione per scambiarsi gli auguri e i
buoni propositi “furiosi” per il nuovo anno. Erano presenti una ventina di soci e in quell’occasione si è
optato per un menu completo. Ci
ha ospitato il Ristorante Pizzeria
Tema di Corso Bettini, per una vicinanza sia spaziale alla sede dell’associazione che di intenti (vedi il
progetto di Parole per strada, che
quest’anno viene svolto in collaborazione con l’UCTS di Rovereto).
Dato il buon andamento della serata, l’idea è stata portata avanti anche a gennaio, febbraio e marzo
(quest’ultimo appuntamento abbinato all’Assemblea annuale). In media vi hanno partecipato una quindicina di soci a serata, con menu libero anche se la pizza è stata la più
richiesta.
Le serate si sono trasformate in
un allegro convivio, in cui si è parlato sia delle attività dell’Associazione che dei personali interessi letterari e culturali in generale, non
mancando qualche digressione
sull’attualità, temi sociali, libri letti,
ecc.
Trovarsi in un’atmosfera informale, senza un argomento ben pre-
ciso di conversazione ma con tanti
punti in comune (non per niente
siamo tutti soci de Il Furore dei Libri), è senz’altro il punto di forza di
queste “riunioni” e il modo migliore per conoscersi e pensare insieme
al futuro dell’Associazione.
Il direttivo è entusiasta di questi
nuovi appuntamenti e si augura che
anche i soci apprezzino e vi partecipino numerosi. Buona pizza a tutti!❧
Chiara Ribaga
L’assemblea annuale dei soci
M
ercoledì 18 marzo
2015 alle ore 18.30
presso la Sala multimediale della Biblioteca Civica di
Rovereto si è tenuta l’annuale assemblea dei soci de Il Furore dei Libri alla presenza del Direttivo e di
una ventina di soci. Molti i punti
all’ordine del giorno.
L’assemblea ha preso inizio con la
relazione del presidente Gottardi
sull’anno 2014, sul proseguimento
delle attività ordinarie ed in particolare sul concorso letterario “Parole
per strada” che quest’anno è stato
notevolmente modificato, proprio a
partire dal periodo di svolgimento
(l’inaugurazione infatti avrà luogo il
23 aprile in concomitanza con la
giornata mondiale del libro). Brevemente il consigliere Bruno Zaffoni
ha esposto le nuove linee della mostra e di come si svolgerà.
159
notizie dal furore
L’ultima Pagina
a cura di Carlo Andreatta
Successivamente ha preso la parola la tesoriera Chiara Ribaga, esponendo in linea generale l’andamento economico dell’associazione, spiegando il bilancio 2014 e in
che modo saranno destinati i fondi
per l’anno in corso. L’assemblea ratifica all’unanimità il bilancio 2014.
Inoltre, essendosi reso vacante un
posto fra i Revisori dei conti, su
proposta del Direttivo viene nominato Silvio Sega nuovo revisore. Tale decisione viene messa ai voti per
la ratifica da parte dell’assemblea,
che approva all’unanimità.
La vice-presidente Masciadri relaziona per quanto concerne l’andamento generale dei “Mercoledì del
Furore” e spiega che fino a giugno
siamo coperti con iniziative, ma
che si prevede per la nuova stagione, che inizierà con settembre 2015,
di modificare o comunque di dare
una cerca normalizzazione agli eventi, che potranno essere inferiori
nel numero complessivo ma di
qualità maggiore.
I soci nel contempo esprimono le
loro idee su quali debbano essere le
dinamiche per l’organizzazione e la
conduzione dei Mercoledì del Furore. Inoltre viene presentato da
parte della socia Snezana Petrovic il
progetto che è in corso di sviluppo
in Serbia per la mostra itinerante di
Parole per strada e la socia Mora illustra il prosieguo dell’iniziativa
con la Moldavia, che prevede un
nuovo viaggio in maggio-giugno.
Al termine della riunione viene
presentato da parte del Direttivo il
nuovo staff della rivista e le nuove
linee editoriali su cui si baserà la redazione. Viene spiegato il contenuto del numero 12-13 della rivista
che chiuderà il 2014 e si prospettano grosse novità a partire dal numero 14, in uscita in autunno.
A chiusura il consigliere Casna
legge la mail del consigliere dimissionario Curci, che esprime con vivo rammarico la propria rinuncia a
tale carica per motivi personali. Il
Direttivo al completo esprime un
sentito ringraziamento a Marcello
Curci per quanto fatto in quest’anno di attività. Divenendo vacante
un posto nel consiglio direttivo, ai
sensi dello Statuto dell’Associazione
il Direttivo provvederà alla nomina
per cooptazione fra i soci.
L’assemblea viene sciolta alle
20.40. I soci si spostano per una cena conviviale presso il ristorantepizzeria Tema per continuare a
confrontarsi e scambiare due chiacchiere.❧
Fabio Casna
C
ent’anni di solitudine è certamente il libro in lingua spagnola più importante dopo
il “Don Chisciotte” di Miguel de
Cervantes: il suo autore, Gabriel
García Márquez, è scomparso, a
Città del Messico, il 17 aprile 2014.
Simbolo di un continente, García
Márquez – premio Nobel per la
Letteratura nel 1982 –, è stato narratore, reporter, critico cinematografico, attivista politico. García Márquez, Gabo per chi lo ha frequentato nella sua lunga e intensa vita, era
nato ad Aracatuca, un paesino fluviale della Colombia settentrionale,
il 6 marzo 1927. Nel 1946 si diplomò
al Colegio liceo de Zipaquin. Studiò, a Bogotà, Giurisprudenza e
Scienze politiche, ma presto abbandonò lo studio universitario per dedicarsi all’attività giornalistica. Nel
1958, dopo un soggiorno a Londra,
García Márquez si stabilì in Venezuela. Fece molti viaggi in Francia,
Messico, Spagna e in Italia. Dopo la
vittoria di Fidel Castro, visitò Cuba,
dove conobbe Ernesto Guevara de
la Serna, conosciuto come “Che
Guevara”: la fede in Castro e l’amicizia con il Líder Máximo dureranno per sempre. Nel 1961, García
Márquez andò a lavorare a New
York, per poi trasferirsi in Messico
in seguito alle minacce subite dagli
esuli cubani anticastristi. Il suo
esordio letterario è datato 1955 con
il breve romanzo Foglie morte, anche se il suo primo racconto risale
al 1947. Dopo il trasferimento in
Messico, Gabriel García Márquez si
dedicò in maniera costante alla
scrittura. Nel 1967 pubblicò l’opera
che lo rese celebre: Cent’anni di solitudine. In questo romanzo vengono
narrate le vicende – attraverso diverse generazioni – della famiglia
Buendía a Macondo, città-metafora
della storia e della cultura popolare
colombiana. Come ha precisato lo
studioso Cesare Segre, del libro
“colpiva il tono mitico e insieme
ironico, il senso della ciclicità della
storia, attraversata da profezie e
leggende, il gusto dell’iperbole, la
vivacità dei personaggi (…)”.
García Márquez affermò che quella
di Macondo è “la storia della mia
gente, del mio paese, nutrita delle
memorie provenienti dalla casa di
Aracatuca dove viveva la mia famiglia (…)”. Insomma, Macondo rappresenta il mondo magico della
nonna materna Tranquilina, la
quale sapeva raccontare storie straordinarie, ed era una grande conoscitrice di fiabe e di leggende locali.
“(…) Nei più raffinati microcosmi
immaginari della letteratura c’è più
verità che fantasia: nella Macondo
di Gabriel García Márquez, l’immaginazione è usata per arricchire la
realtà, non per fuggire da essa”, ha
affermato lo scrittore Salman Rushdie. Oltre a Cent’anni di solitudine,
García Márquez ha pubblicato altri
libri: Nessuno scrive al colonnello, Il
generale nel suo labirinto, L’autunno
del patriarca, Cronaca di una morte
annunciata, L’amore ai tempi del colera, per ricordare i più famosi. ❧
Carlo Andreatta
Carlo Andreatta
Gabriel Garcìa Màrquez
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2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
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l’ ultima pagina
Le idee, le opinioni e i giudizi che appaiono in questa Rivista
sono da ascrivere solamente ai loro autori
e non rispecchiano necessariamente quelle dell’associazione «Il Furore dei Libri»
Il Furore dei Libri
rivista quadrimestrale
dell’Associazione culturale
di promozione sociale
“Il Furore dei Libri”
n. 12-13
settembre-dicembre 2014
ringraziamenti
Cassa Rurale di Rovereto
per il sostegno alla Rivista
e a tutte le persone
citate in questa pagina
per aver prestato la loro opera del tutto
volontariamente e gratuitamente.
Direttore responsabile
Giuseppe Gottardi
Responsabile redazione
Fabio Casna
“Fermina Daza rabbrividì, perché riconobbe l’anscritto
tica voce illuminatahanno
dalla grazia
dello Spirito Santo, e guardò il capitano: era lui il destino. Ma il capitano non la vide, perché
era annientato dal treGregory Alegi
mendo potere di ispirazione
di Florentino Ariza.
Carlo Andreatta
‘Parla sul serio?’ gli domandò.
‘Da quando sono
Livio Bauer
nato’ disse Florentino
Ariza,
‘non ho detto una soVladimir
Beşleagă
la cosa che non sia sulItalo
serio’
. Il capitano guardò
Bonassi
Fermina Daza
e videBonassi
sulle Vivaldi
sue ciglia i primi baAlessandra
Barbara Bottazzi
gliori di una brina invernale.
Poi guardò FlorentiRegistrazione n. 1/10
Fabio
Casna
no Ariza, il suo dominio invincibile, il suo amore
Tribunale di Rovereto del
Cerri tardivo che è la
impavido, e lo spaventòDavid
il sospetto
12/05/2010
Diego
Cescotti
Iscrizione
vita, più che la morte, a non avere limiti. ‘E
fin ROC n. 19725
De Venuto
quando crede cheLiliana
possiamo
proseguire questo
Il Furore dei Libri Editore
Giacomo Di Marco
andirivieni del cazzo?’ gli domandò. Florentino 38068 Rovereto
Anna Maria Ercilli
Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré an- Corso Bettini 43
Federica Fortunato
ni, sette mesi e undici giorni con le notti. ‘Tutta la
Renzo Galli
Redazione:
vita’ disse”.
Francesca Garello
[email protected]
Ginevra G. Gottardi
Tipografia:
Giuseppe Gottardi
Redazione
Grafiche
Stile s.n.c.
Maria Grazia Masciadri
Marcello Curci
38068 Rovereto (TN)
Maria Luisa Mora
Chiara Ribaga
via Roggia, 1
Chiara Ribaga
MariodiRolfini
impaginazione
Gabriel
García Márquez, da L’amore ai tempi del colera, traduzione
Angelo Morino, Mondadori
Editore, Milano 1986, pagina 376.
www.ilfuroredeilibri.org
Silvio Sega
Marianna Vettori
Catia Simone
Stefano Tonietto
Copertina
Marta Villa
Bruno Zaffoni
Nicola Zoller
questo numero - composto nei caratteri adobe minion pro, myriad pro, arno pro e ITC edwardian script
è stato stampato su carta fabriano palatina in 300 copie delle quali
10 firmate e numerate da i a x — 40 numerate da xi a l — 250 non numerate
questa è la copia numero
162
2014/12-13 IL FURORE DEI LIBRI
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Cos’è dunque questa magia dell’etnografo?
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Il rogo dei libri
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Il “Pro Arce Rovereti” di Panfilo Sasso
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Note di commiato
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Diego Cescotti
CONVERSAZIONI BIBLIOFILE – IL MESTIERE DI SCRIVERE – NARRARE LA STORIA
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IL FURORE DEL CINEMA – MARGINALIA – E [TRA LIBRO E GIOCO]
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NOTIZIE DAL FURORE – L’ULTIMA PAGINA
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