w w w .m a s s im ilia n o m a rra ffa .c o m

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w w w .m a s s im ilia n o m a rra ffa .c o m
Arrivo a Parigi
alla metà degli anni 90.
L’incontro con André Rouillé e i seminari di
Dominique Bacqué permettono, senza dubbio,
di chiarire le difficoltà che sta traversando
la mia fotografia, ma non mi conferiscono, a
questo punto, che una capacità di elaborazione
teorica. Comunque sia, la rottura con l’ideologia
della « caccia » si é ormai consumata. Mi sono
ritrovato, come molti altri, a rivendicare una
fotografia del « reale », lavorando intorno al
passaggio «dall’istante alla durata”.
Questa volontà, che mettevo nel mio lavoro
universitario, dovevo trasferirla in immagine.
Abbandonare l’avvenimento, era rompere con
la composizione drammaturgica, con una certa
trama narrativa. Ho inizialmente immobilizzato
i personaggi, messo in un certo senso l’istante
nella durata. Poi i personaggi sono scomparsi
dalle mie fotografie.
In Habiter les images la presenza dei
personaggi sembra suggerita: sono appena
andati via ; hanno lasciato la stanza ; finiranno
più tardi quello che hannno incominciato. La
questione del « realismo » è, in un primo
tempo, limitata all’omologia tra la dimensione
del soggetto rappresentato e quella della
stampa. Lo spettatore, nel momento in cui é
coinvolto, può ricostituire l’azione, immaginare
una fine, la cosa da compiere eventualmente :
servirsi di nuovo da mangiare o sparecchiare la
tavola ; finire di lavare i piatti ; soffiarsi il naso
oppure guardare l’ora. Nulla é straordinario,
ma
tutto può ridiventare significante. In
ogni modo, il dispositivo dell’immagine
gioca sempre con il limite al di qua o al di
là del quale si deve stabilizzare : l’estetismo
proprio della natura morta o il simbolismo.
Si é reso necessario quindi che l’immagine
della colazione fosse altro che il simbolo
della famiglia, che i piatti non raffigurino,
sui generis, la vita quotidiana. Ho proposto
dunque che ossorvandola l’immagine possa
essere abitata, percorsa con un’esperienza
propria, senza sapere d’altra parte con cosa
l’immagine in questione potesse entrare in
risonanza. Per far si che l’immagine si lasci
interpretare piuttosto che essa imprigioni lo
spettatore nella sua intima ragione, come cio’
avviene per l’immagine shock.
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Ho cominciato a praticare la fotografia all’età
di tredici anni, a Cecina, in Italia. Mio padre
mi aveva regalato una Olympus. La domenica
facevo delle foto che il giornale locale cominciò
a pubblicarmi. Diventato giornalista, sono
andato a caccia dell’avvenimento, del « non
ordinario ». Tuttavia, a meno di un incidente,
alla vita locale piace vedersi rappresentata
da messinscene prestabilite che rimandano
generalmente alla sua futilità piuttosto que
esaltarne il valore. Fu il cacciatore di immagini
a farne le spese. Non ero semplicemente
stanco, incapace di realizzare la fotografia
da reporter, non trovandoci più gusto, ma
piuttosto sfinito, incapace di « possibilizzare »,
un po’ come i personaggi di Beckett descritti
da Gilles Deleuze. Come fare per andare a
vedere altrove ? Non per inseguire « l’istante
decisivo » ma al contrario, per esplorare
questa realtà sbiadita, proprio là dove la
esaurisce, l’ordinario, il quotidiano, il banale.
Era proprio là l’oggetto della mia ricerca,
una possibilità che implicasse di lavorare
nell’immagine stessa e non di rapportarsi ad
una realtà presunta esterna.
Bruits de fond si é iscritto nella continuità di
Habiter… ho zoommato sui parassiti : la cenere,
il calcare, l’impronta, il rilievo, lo schizzo
fuori dall’acquaio, il deposito, la schiuma che
galleggia. Non per vedere meglio, o più da
vicino, ma per vedere qualcos’altro. Necessità
si é imposta a cominciare una ricerca - ma di
cosa ? - , come se lo sguardo dovesse fare la
sua inchiesta a partire da una traccia lasciata
da un passaggio, da un indizio provocato da
uno spostamento, da un deflusso…
Con Seine Arche ho lasciato l’appartamento
per percorrere la città. Ho pensato di costruire
una carta, e percorrere il territorio di questa
carta. Ma daltronde che cos’é un territorio ?
Come definirlo, circoscriverlo, cosa mostrare
su questa superficie? E’ l’idea che la carta di
una città, che possiamo procurarci ovunque,
non basta per raffigurare la città e il suo
territorio. Il rapporto che si stabilisce tra
il territorio e la carta non può funzionare
senza l’intervento di un esploratore. E’ per
questo che divento esploratore, per provare a
produrre un’immagine del territorio, stabilendo
al contempo la mia guida, e il piano che
corrisponda veramente al progetto di mettere
un territorio in immagine. Partire alla scoperta
della città era quindi partire alla ricerca di un
tracciato che precisasse, strada facendo, dei
modi di abitare (abitare le immagini / abitare
le città). Se avessi fatto una croce sulla
normale carta della città, avrei poi potuto
tranquillamente riportare questa croce sulla
mia carta, e prenderla come primo itinerario,
tanto per mettere alla prova il potenziale
di questo tracciato a un tempo simbolico e
arbitrario.
Contemporaneamente,
volevo
che l’itinerario fosse tracciato conoscendo
lo spazio e le sue frontiere. A Nanterre, ho
dunque scelto di ricostituire in superficie
l’asse che traccia l’autostrada sotterranea che
traversa la regione parigina: è questo asse
« reale » che la carta raffigura, l’itinerario
da seguire in superficie là dove é invisibile. Il
La risonanza delle briciole
C’è
una
distanza
invalicabile
tra
la
rappresentazione e il reale, ma la tensione è
massima, il che permette alla nostra tradizione
di sfruttare tutte le figure della presenza e
dell’assenza. Cio’non avrà mai dunque fine?
Conoscevamo due maniere di mettere il reale
in scatola. Il passaggio della forma è, in una
frazione di secondo, per Cartier Bresson una
tecnica dell’occhio : è la soggettività del
fotografo che produce degli effetti di verità
a partire da un’operazione di cattura nella
quale il mondo resta un’ esteriorità oggettiva.
Al contrario, si può pensare che il reale e
l’oggettività siano una sorta di verità propria
dell’immagine, un lavoro interiore all’immagine
stessa, nella durata che essa instaura (si può
dire allora che un’immagine lavora allo stesso
modo in cui si dice che un legno lavora). Nei
due casi si è potuto fare un’immagine più vera
del vero, a forza di strasfigurazione. Andava
bene cosi. La « fotografia del reale », oggi,
propone forse un ritorno al passato, una sorta
di neo-naturalismo ? No. C’è piuttosto l’idea
che la fotografia del reale non è né nella
rappresentazione dell’autentico, una tecnica
da fotografo
dell’intantanea,
né
nell’autenticità
della
rappresentazione, una fotogenia in un certo
senso autoreferenziata la cui pretenzione oggi
si sta visibilmente degradando.
Si è potuta cercare nella fotografia la traccia
del mondo oggettivo. Poi l’immagine ha
coltivato la pretenzione di erigere un nuovo
mondo oggettivo. Un’altra oggettività a cui si
rifaceva in special modo il dispositivo proposto
da Jean François Chevrier e James Lingwood
(Parigi-Prato, 1989, Idea-Books). Habiter
les images di Massimiliano Marraffa ricorda,
d’altra parte, il disordine ordinario di un JeanLouis Garnell (Pluidor, 1987, 54 x 70 cm ;
La veranda, 1987, nove fotografie a colori,
23,5 x 29,5 cm), con la differenza che non ci
si ritrovano né la stessa distanza né, alla fine,
questo ordine di mess’in scena.
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territorio che si percorre è allora una specie
di spazio dove la foresta, i terreni incolti,
gli immobili, si succedono senza soluzione
di continuità. Questo spazio è eterogeneo.
Mi sono concentrato su tutti quei luoghi
dove la carta immaginaria, cioè l’autostrada
sotterranea, comunica con il territorio di cui
essa fornisce la pianta : la uscite di soccorso.
Queste sono costruzioni senza qualità, delle
erezioni regolamentari ad uso funzionale, che
bisogna prendere in caso di bisogno. Guardate
l’uscita di soccorso : sbuca curiosamente in
un non-luogo. Come riuscire a orientarsi e
scavalcare le recinzioni, le pozze fangose, le
erbe incolte e in ogni modo questo disordine
da cantiere ?
A un altro capo dello spettro, I Bruits de fond
di Massimiliano Marraffa possono far pensare
alle Nature morte di Yves Trémorin (D’ar ger,
Rennes, Musée des Beaux Arts, 1999). Ma
precisamente Trémorin imposta una ricerca
« di genere » con la quale Marraffa propone
di rompere. Trémorin é d’altronde troppo
vicino al soggetto che ritaglia e distacca
dal mondo in vista di innalzare « l’essere »
inanimato dalla natura morta. Piuttosto che
un approfondimento, Massimiliano Marraffa
cerca un superamento del metodo riflessivo
proprio di questa corrente oggettivante. Né
ritorno all’oggettivismo, né ritorno ai processi
ormai classici dell’oggettivazione, il suo lavoro
sembra interessarsi all’obiezione che sembra
sorgere dalla scena stessa, una specie di
resistenza alla sua appropriazione da parte
dell’immagine.
Vuol dire insomma, che le immagini ritengono
l’obiezione del mondo. Ed è questa ritenzione,
questa riserva che è presente nell’immagine
sotto forma dei resti, delle tracce. In più
dell’immagine della cosa fotografata, lo scatto
rappresenta, attraverso un indizio, la resistenza
della cosa alla prova fotografica, alla prova
che la fotografia è capace di farle subire. La
fotografia di Massimiliano Marraffa porta così
un’attenzione sostenuta a tutto quello di cui
non si può rendere conto precisamente ; essa
ne cerca, in modo ponderato, degli equivalenti
funzionali, allo scopo precisamente di far
lavorare l’immagine.
La fotografia non rappresenta il reale, nè
lo deve fare. Come giocare allora con la
forza dell’immagine per attaccare la nostra
percezione del mondo ?
Bisogna, ci dice
Massimiliano Marraffa, che ci sia un legame,
interiore all’immagine, con il « di fuori »
dell’immagine che divenga il suo rivelatore. Le
teorie dell’informazione non sarebbero state
più interessanti se avessero fatto del rumore
il rivelatore del messaggio ? La traccia umida
lasciata dalla melanzana sulla piastra del
forno è ancor più della melanzana stessa, una
scena completa. Ci troviamo in piena azione.
Come contrario, io penso alle nature morte
di Point it, al « picture dictionary » edito da
DieterGraf Verlag dall’ingenuità deittica così
caratteristica.
Nelle fotografie di Massimiliano Marraffa,
invece che tutto sia perfetto, é necessario
che un granello di sabbia impedisca di fare la
« bella immagine ». Così facendo, il macchiato
o lo sporco non hanno la funzione che avevano
Laurent Duclos, sociologo
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quando si ricercava un’altra oggettività. Alla
fine, non si è più di tanto ossessionati dalla
rottura con la bella immagine ; sebbene
Marraffa sia cresciuto in questa rottura. Non
c’è niente di nuovo a mostrare nello sporco,
ma piuttosto qualcosa da far funzionare con
il macchiato, che è del registro dell’azione, lo
abbiamo detto, ma che, uscendo dal quadro,
esprime soprattutto l’al-di-là dell’immagine.
Il granello di sabbia è spesso letterale : dei
piccoli rilievi, le briciole, dicono dell’azione
del mangiare e dello sbriciolamento del pasto.
Non si mangia in effetti, semplicemente
apparecchiando una tavola, ma mangiando,
cosa che degli oggetti troppo appariscenti,
come la tazza in in primo piano, non saprebbero
esprimere da soli.