Della pop art ha l`alfabeto, i colori e lo sguardo sul

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Della pop art ha l`alfabeto, i colori e lo sguardo sul
Londra
Stuart Semple
Oltre il pop
Della pop art ha l’alfabeto,
i colori e lo sguardo sul mondo.
Sconfina spesso e volentieri in
musica e moda, ma è quando
usa il pennello che Stuart
Semple racconta le emozioni
Testo: Giovanni Cervi · Foto: Mattia Zoppellaro
S
tuart Semple è un enfant prodige del movimento
chiamato Neo Pop Art e a soli 28 anni è divenuto
un punto di riferimento della scena artistica
contemporanea. Stuart vive a Londra, ha un innato
istinto comunicativo, che lo porta spesso alla ribalta
delle cronache internazionali, è un pittore raffinato
e di forte impatto emotivo (dal 25 febbraio al 4 marzo, durante
le sfilate della Settimana della Moda, nel flagstore Moncler di
Milano saranno esposte alcune sue tele e il suo esclusivo Moncler
Toy). Ciò che maggiormente distingue Stuart è la capacità
di usare un linguaggio universale, mantenendo un approccio
estremamente intimo. Parla a tutti, ma sembra sempre si stia
rivolgendo soprattutto a te. Senza dimenticare la sua voglia
di imparare, sperimentare e lanciarsi in incursioni in mondi
apparentemente lontani da quello della pittura, come la regia
di videoclip per le Subliminal Girls o le incursioni nel fashion
system.
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“A volte penso che il mio stile sia come
una canzone pop visiva. E i miei quadri piccoli
racconti su come sento la cultura popolare”
Iniziamo dal tuo modo di dipingere…
È una domanda veramente difficile. Penso che il
mio stile sia semplicemente il mio modo di dare un
senso alle cose, a quello che ho intorno, è come un
linguaggio che ho sviluppato nel corso del tempo.
A volte penso che sia come una canzone pop visiva.
I miei quadri sono piccoli racconti su come sento la
cultura popolare.
Nelle tue tele recenti si nota uno spirito cupo,
meno colori e più solitudine. Sembra che tu stia
cercando di sondare gli individui, oltre che questo
mondo di plastica...
Mi interessa molto l’effetto che la cultura pop ha su
di noi. C’è scambio tra la cultura individuale e quella
di massa. Una è passiva e l’altra è la forza dominante.
O almeno questo è ciò che penso. È facile credere nel
sogno che il pop ti offre, la promessa di divertimento
e fuga dal semplice essere vivi. Il problema è la visione
di egoismo e isolamento che comporta. Quella
promessa non parla di comunità ma di una singola
persona isolata. Di un qualcuno atomizzato. A volte
nelle passioni della mia gioventù, la musica e i film,
non trovo la stessa forza emotiva di prima. Subito ho
pensato che fosse una specie di nostalgia, poi ho capito
che hanno già trasferito in me quello che potevano e
ora non hanno più molto da comunicarmi. Mi sento
solo perché non riesco a interagire.
Che cosa ti spinge ad avere così tanti progetti collaterali (Noiwear, la collaborazione con la band Subliminal Girls, quelle con Moncler e Ju$t Another
Rich Kid, per esempio)? La pittura non ti basta? La
tua creatività non ha confini?
Cerco di essere il più vicino possibile alla cultura
popolare, lavorarci direttamente è parte di quello.
Non cambio mai chi sono, sono solo io che faccio cose
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diverse. Se sono un artista e lavoro con una casa di
moda lo faccio da artista, non mi trasformo in manager
o art director o designer. E tutto quello che faccio ha
qualcosa che rispecchia il mio percorso artistico. Penso
anche che l’atto di collaborare sia una cosa molto
potente perché ti fornisce prospettive diverse, da solo
ne avrei una e basta e sarebbe un limite. Lavorare
con altri fa esplorare nuovi campi creativi, quando
torno alla pittura mi sembra di aver fatto un viaggio
dal quale ho riportato consigli preziosi. Dipingere è
qualcosa di solitario e abbastanza frustrante da fare. Ci
riesco per molto, finché non mi arrabbio perché la mia
testa diventa vuota. Così esco e incontro persone, entro
in contatto con la cultura di massa e la vivo veramente,
coinvolgendomi in questi progetti paralleli. Non potrei
fare cose vere se sedessi tutto il giorno nel mio studio.
Poi mi annoio facilmente e ho bisogno di sfidarmi. Mi
piace sentirmi goffo e affacciarmi all’orlo del nuovo.
Il 14 febbraio esce appunto la terza collezione del
tuo brand di t-shirt, Noiwear: ci anticipi qualcosa?
È ispirata a un immaginario circense, un po’ distorto
e morboso, si chiama Carnival of Fear. Lo stile è
abbastanza grafico e street, abbiamo lavorato con veri
talenti e grandi illustratori, anche il team creativo che
si è occupato del sito e delle foto non è secondo a
nessuno. Sono davvero eccitato dall’idea di lanciarla.
Penso che il richiamo circense sia interessante,
storicamente c’è una lunga tradizione di freak show e
di attrazioni un po’ sinistre oltre al divertimento e ai
riflettori. Si adatta ai tempi che stiamo vivendo e poi
c’è un’eredità di immaginari davvero ricca alla quale i
designer possono attingere.
Il design della prima collezione Noiwear era tuo,
nelle successive hai collaborato con altri artisti,
come mai?
Non ho mai pensato di dover fare tutto da solo. L’idea
di fondo di Noiwear è di essere simile a una casa
discografica, che fornisce supporto per la produzione
e per la distribuzione del lavoro di ottimi artisti. Mi
piace occuparmi del design, ma stavolta me ne sono
tenuto fuori. Tornerò nella prossima collezione però!
Mi è piaciuto vedere come gli altri artisti hanno risposto
al brief che ho sottoposto loro e mi sono divertito
moltissimo a esplorare tutte le submission arrivate e a
scoprire nuovi talenti.
Nei tuoi lavori si sentono le influenze della street art.
Penso di aver qualche punto in comune con gli artisti
street, sono outsider e hanno una visione critica della
società. Suppongo che molti di loro abbiano posizioni
critiche o anti-pop. Visivamente in comune abbiamo
l’uso di simboli e icone, ma mi piace pensare che la mia
ricerca sia più rivolta al lato umano. Comunque credo
che, tra molti impostori e imitatori, la street art esprima
una certa avanguardia.
Come riesci a far convivere il tuo lato artistico con
quello da uomo marketing?
Sono sempre stato così. Penso che entrambi i mondi
abbiano un modo di pensare simile; sta tutto nel
comunicare un’idea. Il marketing a volte è come l’arte,
non ci sono regole da seguire. Quello che mi piace di
più è il marketing creativo, i visual, il lato umoristico e
divertente. Molti di quelli che lavorano in questo campo
potrebbero essere bravi artisti, perché hanno lo stesso
modo trasversale di ragionare sui problemi. Il marketing
può essere un mezzo per fare arte e per condividere
idee. Gli artisti possono imparare molto dalle analisi
sociologiche e psicologiche utilizzate nel marketing.
Negli ultimi anni i confini sono sempre più labili.
Molti artisti non saranno d’accordo con te, invocando l’arte per l’arte...
Sì, è vero. Molti artisti rifiutano l’idea che il marketing,
i soldi e la finanza si mescolino all’arte, ma è sempre
stato così e difficilmente la situazione cambierà. Il
mio approccio è di non vivere la contaminazione
passivamente ma di sfruttarla per valorizzare il mio
lavoro. Se c’è bisogno di una specifica piattaforma,
per esempio, la realizzo. Se ho bisogno di vendere per
far sopravvivere un’idea, è proprio quello che faccio.
Mi rattrista che per molte persone la pubblicità e il
marketing abbiano una connotazione così negativa.
Ci sono grandi giacimenti di creatività anche in questi
mondi.
Quali sono i posti di Londra che t’ispirano di più?
L’osservatorio Reale a Greenwich, progettato da
Christopher Wren in cima a una grande collina: si
vede tutta Londra e ha anche un fantastico planetario,
ti dà nuove e bellissime prospettive sull’universo. Poi
Claridges, per il tè e per le torte, che è anche una
meravigliosa costruzione in stile art déco: i bagni sono
splendidi. Il giardino giapponese a Regent’s Park, adoro
farci passeggiate e ci sono i cigni neri.
Per ultimo Hampton Court Palace, è un po’ fuori
Londra ma la stanza di Enrico VIII è incredibile. Inoltre
il palazzo è infestato dai fantasmi e ha un gigantesco
labirinto: non è cool?
“Dipingere è qualcosa di solitario e abbastanza
frustrante da fare. Ci riesco per un po’, finché non mi
arrabbio perché la mia testa diventa vuota”
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