possiamo imparare dagli Stati Uniti?

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possiamo imparare dagli Stati Uniti?
Economia sommersa e Sistema fiscale: possiamo
imparare dagli Stati Uniti?
Non è possibile dare una precisa definizione tecnico-giuridica del fenomeno
dell’economia sommersa, tuttavia qualche autore l’ha definita come l’insieme di
attività economiche condotte in modo illegale o che hanno finalità illegali e/o attività
economiche legali condotte in modo non controllabile e non rilevabile dalle autorità
pubbliche.
Naturalmente, è proprio quest’ultima definizione che può riguardare l’attività
dell’avvocato, laddove, è difficile negarlo, per ampie porzioni di questa categoria di
professionisti è invalsa l’abitudine di non dichiarare parte dei proventi della loro
attività, omettendo il rilascio della fattura al momento dell’incasso dell’onorario
stabilito come corrispettivo delle propria prestazione professionale.
L’evasione è per certi versi il problema principale del sistema fiscale italiano: con
circa 28 miliardi ed 888 milioni di gettito in meno nell’ultimo anno (fonte: Sole 24
Ore), in Europa l’Italia è seconda solo alla Grecia come livello di economia
sommersa, senza considerare il “settore” dell’economia criminale.
Tuttavia, non è sempre e soltanto malafede quella che spinge gli avvocati, ma come
loro anche altre categorie di professionisti, a nascondere parte dei propri redditi.
Basterebbe dare uno sguardo alle leggi fiscali per rendersi conto dell’intrinseca
difficoltà nella loro esatta applicazione: tasse, spese detraibili, deducibili, detraibili e
deducibili in parte, anticipi, acconti, e così via.
In questo contesto non è neppure semplice per l’avvocato, impegnato giornalmente a
combattere contro le asperità della professione, mettersi a fare tutti i calcoli richiesti
dalla legge per applicare con esattezza la normativa fiscale.
Tanto premesso, sorge spontaneo domandarsi se esista un sistema fiscale alternativo a
quello italiano, che possa in un certo qual modo incentivare i professionisti a
dichiarare i reali proventi della loro attività lavorativa, senza che una tale operazione
porti loro via, tra le altre cose, interi pomeriggi di lavoro sacrificati a lunghe
operazioni di calcolo delle percentuali.
Concentrando la nostra attenzione sul regime fiscale negli Stati Uniti d’America,
scorgiamo, di primo acchito, che l’imposizione presenta più “voci” che in Italia, dal
momento che alle imposte federali vanno aggiunte le imposte statali, che differiscono
da Stato a Stato, e quelle di alcuni comuni, a loro volta tra loro variabili a seconda
della città di riferimento.
Le imposte sul reddito “federali” sono pagate da chiunque produca reddito nel Paese.
La c.d. “Federal corporate income tax” varia dal 15 % al 39 % in base al totale degli
utili generati, più una quota fissa che varia anch’essa in base al predetto totale.
Secondo una recente relazione dell’Istituto per il Commercio Estero (ICE), le persone
fisiche residenti “fiscalmente” negli USA sono soggetti a tassazione del loro reddito
qualunque ne sia la fonte ed in qualunque parte del mondo. Le persone fisiche non
residenti sono invece tassate soltanto sul reddito di fonte statunitense come
remunerazione per servizi prestati negli Stati Uniti, interessi su conti bancari aperti
negli States, etc.
Le diverse categorie di imposte che vigono nel sistema americano, tuttavia, non
devono far credere che al di là dell’Oceano Atlantico la pressione fiscale sia maggiore
che in Europa, anzi.
Da uno studio apparso sul Wall Street Journal, ad opera di Edward Prescott,
Professore di Economia e Premio Nobel nel 2004, è emerso che, contrariamente a
quello che succedeva negli ultimi decenni del secolo scorso, quando in molti Paesi
dell’Europa continentale si lavorava di più rispetto agli Stati Uniti, adesso gli europei
lavorano complessivamente di meno dei nordamericani, anche a causa delle tasse ed
imposte sul lavoro e sulle attività produttive, rese progressivamente più elevante e
consistenti.
Nello stesso articolo si cerca di mettere in evidenza quali possano essere la cause di
un’imposizione fiscale generalmente più alta nei Paesi europei: a parità di spesa
pubblica, se si lavora di meno è inevitabile che le aliquote medie debbano aumentare
affinché i conti pubblici non ne risentano; va da sé che, se le tasse agiscono
negativamente sull’offerta di lavoro, questa sarà ancora minore quando la pressione
fiscale raggiunga livelli elevati, finendo alla lunga per compromettere le capacità di
crescita di lungo periodo.
E’ da qui che prendono forma tutti quegli incentivi all’evasione, e quindi al lavoro in
nero, che si vengono a determinare in situazioni analoghe come risposta economica
razionale finalizzata alla minimizzazione dei costi ed al risparmio fiscale.
Dal quadro economico-fiscale sin qui descritto per sommi capi, emerge che gli USA
hanno da sempre avuto più a cuore il mantenimento dei livelli di pressione fiscale
complessivamente entro limiti accettabili, e, in definitiva, relativamente più bassi
rispetto agli standard europei.
Da un punto di vista americano, la più grande lezione che può venire da questi dati
sembra riguardare il sostanziale fallimento del nostro Paese nell’obbiettivo del
contenimento della spesa pubblica.
E’ interessante, inoltre, soffermarsi sul programma di auto-denuncia fiscale introdotto
dalle autorità americane, finalizzato ad incentivare gli evasori ad uscire scoperto in
cambio di una riduzione delle pene e delle ammende: tale programma, avviato
dall’Internal Revenue Service nel 2009 ha fatto scegliere la strada dell’ammissione a
circa 15 mila contribuenti che avevano aperto, in passato, conti correnti offshore;
analoga iniziativa è stata introdotta anche l’anno successivo, ed ha raggiunto e
superato la stessa cifra.
E’ il caso di evidenziare come quello adottato negli Stati Uniti non sia un condono: a
chi ha ammesso la propria colpevolezza è stato offerto uno sconto solo sulle multe
previste, mentre il quantitativo delle tasse da pagare è stato pari al 100 % del dovuto.
Tuttavia, una cosa è certa: dai circa 30 mila statunitensi che sono “emersi” grazie a
questi programmi volontari, fra tasse arretrate e sanzioni ridotte, circa 2,7 miliardi di
dollari sono rientrati nelle casse pubbliche americane, una vera manna dal cielo se
fosse successa la stessa cosa alla casse pubbliche del nostro Paese.
In conclusione, per tentare di dare una risposta al quesito che ci siamo posti, se a
qualcuno venisse da chiedersi se l’attuale sistema italiano abbia o meno qualcosa da
imparare o, al più, da mutuare dal modello americano, la risposta non potrebbe essere
in alcun modo netta ed inequivocabile, stante le tante diversità economiche, politiche
e sociali fra i due Stati.
Ad avviso di chi scrive, servirebbe forse più un reciproco venirsi incontro fra le parti
in causa: lo Stato, da un parte, e i contribuenti dall’altra. Il primo, con un intervento
teso a rimodulare l’imposizione fiscale che, in un momento storico così delicato per
le finanze dei contribuenti italiani, allenti la pressione fiscale sul professionista, il
quale, a sua volta, si dimostri in certo qual modo più maturo, dichiarando i suoi
redditi nella maniera più trasparente, corretta e veritiera possibile.