Moses I. Finley L`economia degli antichi e dei moderni

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Moses I. Finley L`economia degli antichi e dei moderni
Storia
Moses I. Finley
L’economia degli antichi e dei moderni
1973
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
L’economia degli antichi e dei moderni è l’opera più importante del professor Moses I.
Finley, storico statunitense di origine russa poi naturalizzato britannico. Finley, che è stato
uno dei massimi esperti della società antica, mette in luce le differenze tra le concezioni e
le pratiche economiche dell’epoca greco-romana e quelle dell’epoca moderna. A suo
avviso l’antichità classica non ha prodotto una riflessione scientifica sull’economia, e non
è stata in grado di sviluppare un sistema capitalistico avanzato come l’Europa medievale e
moderna. Secondo l’impostazione di Finley, non è possibile analizzare l’economia antica
con gli strumenti teorici dell’economia moderna, perché a quel tempo non esisteva la
scienza economica separata dalla politica o dalla morale. Nel mondo antico le azioni
economiche erano infatti determinate da ragioni sociali, come il perseguimento di un
determinato status, e non dalle esigenze della produzione. La rovina dell’impero romano
si verificò quindi anche a causa all’impossibilità di rendere più efficiente il sistema
economico per affrontare le crescenti sfide esterne.
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PUNTI CHIAVE

Il mondo antico non realizzò una riflessione scientifica sull’economia

La ricchezza era considerata indispensabile per una vita libera e dignitosa

Il lavoro produttivo era considerato socialmente degradante

La povertà e le disuguaglianze non destavano scandalo

La politica era la via principale all’acquisizione della ricchezza

La schiavitù ebbe la massima diffusione nell’epoca classica, per poi declinare nel
tardo impero

Le città erano centri di consumo, non di produzione

Il mondo greco-romano non riuscì a sviluppare le istituzioni dell’economia
capitalistica

Nel mondo antico le innovazioni tecnologiche furono poco numerose

L’impero andò in rovina principalmente per ragioni economiche
RIASSUNTO
Gli antichi e la loro economia
Lo studio del professor Finley prende in considerazione l’economia della civiltà antica
greco-romana che ha gravitato intorno al Mediterraneo dal 1000 a.C al 500 d.C.. Egli
esclude espressamente le altre importanti civiltà antiche del Vicino Oriente (come i
sumeri, gli assiro-babilonesi, gli egizi e i persiani) perché la loro struttura politica ed
economica centralizzata era molto diversa da quella greco-romana. L’autorità politica
ruotava attorno al palazzo o al tempio, era proprietaria della maggior parte del terreno
coltivabile e monopolizzava virtualmente tutto ciò che riguardava la produzione
industriale e il commercio estero, compreso il commercio tra città e città e non soltanto
quello con gli stranieri. L’intera vita economica, militare, politica e religiosa della società
era pianificata da una complessa burocrazia di scribi.
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Nel Vicino Oriente esistevano anche proprietà terriere private ed artigiani e
commercianti privati, in particolare nelle città fenicie sulla costa della Siria, tuttavia nel
complesso questi soggetti non costituirono mai il modello prevalente di economia.
Viceversa il mondo greco-romano era caratterizzato dalla proprietà terriera privata, che
andava dagli appezzamenti di pochi ettari fino alle tenute enormi dei senatori e degli
imperatori romani; era un mondo caratterizzato anche dal commercio privato e dalle
manifatture private. Solo negli ultimi secoli il governo dell’impero romano divenne
autocratico e burocratico come lo era stato in Egitto quello dei Faraoni e poi quello dei
Tolomei, anche se non in tutti i suoi aspetti.
La parola “economia” viene dal greco oikos, casa, e dalla radice –nem, che significa
amministrare. Il mondo antico tuttavia non realizzò né un’economia definibile come
capitalistica, né una scienza economica degna di questo nome. I concetti fondamentali
che utilizza la scienza economica moderna nella forma astratta richiesta dall’analisi
teorica, come lavoro, produzione, capitale, investimento, reddito, circolazione, domanda,
imprenditore, utilità, sono intraducibili in greco e in latino. I risultati della letteratura
antica sulla “gestione della casa”, scrive Finley, furono nulli rispetto alla storia dell’analisi
o della teoria economica.
La via politica alla ricchezza
Gli antichi davano una valutazione positiva della ricchezza, perché l’indipendenza
personale e gli agi erano ritenuti condizioni indispensabile per condurre una vita libera e
dignitosa. Cicerone nel De officis espone “la concezione più o meno accettata da tutti”
sulle occupazioni elevate e quelle meschine. Tra le seconde mette quelle di coloro che
lavorano in cambio di retribuzione, che è “il simbolo della schiavitù”; l’attività dei
mercanti che comprano e rivendono “perché non potrebbero ricavare un profitto senza
mentire sfacciatamente”; tutti gli artigiani “perché nessuna bottega può avere la qualità
degne di un uomo libero”; tutti i mestieri che provvedono ai bisogni del corpo come
pescivendoli, macellai, cuochi, pollivendoli e pescatori. L’idea che il lavoro fosse di per sé
qualcosa di dignitoso era quindi completamente assente. Al contrario, solo chi poteva
vivere senza lavorare era considerato un uomo libero.
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Molto più onorevole era considerato il guadagno realizzato mediante la politica. La parte
più cospicua del denaro che affluiva a fiumi dai bottini di guerra, dalle indennità, dalle
tasse riscosse nelle province, infatti, non finiva nel tesoro pubblico, ma nelle mani private
dei nobili e poi, in misura decrescente, dei cavalieri (equites), dei soldati e persino della
plebe della città di Roma. Tacito scrive che la strada più breve per acquisire le ricchezze
era quella di ottenere la procura per l’amministrazione degli affari dell’imperatore:
Cicerone, ad esempio, guadagnò una somma favolosa per un solo anno in cui esercitò la
carica di governatore della Cilicia, mentre Seneca accumulò un immenso patrimonio come
senatore e maestro di Nerone.
Nel mondo antico era rarissimo che una persona povera o di condizioni oscure potesse
assumere un ruolo importante nella vita politica. Il “beati i poveri” non rientrava affatto
nel mondo ideologico greco-romano, e l’apparizione di questo motto evangelico segnala
l’affermazione di un altro sistema di valori. I poveri nel mondo antico destavano poca
simpatia e nessuna pietà: lo dimostrano ad esempio le leggi di eccezionale durezza contro
i debitori. La carità e la generosità dei ricchi generalmente non era rivolta verso i
bisognosi presi individualmente o in gruppo, ma verso l’intera comunità.
La società antica era quindi divisa in ordini ben distinti: patrizi e plebei a Roma, cittadini e
non cittadini in Grecia. Tra le classi elevate, i senatori e gli equites, non c’erano mercanti o
imprenditori. Queste attività erano svolte quasi sempre da liberti o da stranieri. Le èlite
detenevano i mezzi finanziari e il potere politico, ma i valori prevalenti della loro società,
spiega Finley, gli impedivano di esercitare in prima persona queste attività economiche.
Tutte le fonti confermano infatti l’inferiore condizione sociale dei mercanti e degli
industriali di professione durante l’intero arco della storia romana.
Ascesa e declino della schiavitù
Mentre nei periodi arcaici della storia greca e romana la schiavitù non ebbe molta
importanza (prevalendo la clientela, la servitù per debiti e altre situazioni intermedie), nei
grandi periodi classici finì con il sostituire quasi tutte le altre forme di lavoro dipendente.
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Finley ritiene che durante l’età classica in Grecia e in Italia il numero dei proprietari
di schiavi era proporzionalmente maggiore del 25 per cento rispetto agli stati sudisti
americani. Negli ultimi secoli dell’impero romano però la schiavitù tornò a perdere
importanza. Come si spiega questo fatto?
Secondo alcuni studiosi la schiavitù decadde perché meno produttiva del lavoro libero.
Finley non trova convincente questa ipotesi, perché gli schiavi hanno sempre garantito
cospicui guadagni ai loro padroni. Non è plausibile nemmeno la tesi dell’influenza delle
idee stoiche o cristiane, dato che non esiste traccia di una legislazione volta ad abolire la
schiavitù ispirata a queste concezioni filosofiche o religiose. Ad avviso di Finley la ragione
principale fu lo sfacelo dell’equilibrio politico imperiale, che fece precipitare una larga
parte dei lavoratori liberi ad un livello quasi servile. Questo sconvolgimento sociale fu
causato dal costante aumento della tassazione imperiale, soprattutto delle imposte
fondiarie.
Nei primi due secoli dell’impero la tassazione si era mantenuta a livelli sopportabili, ma
successivamente le spese per l’esercito e la burocrazia ebbero un aumento costante. Le
accresciute esigenze, spiega Finley, possono essere attribuite alla legge ferrea della
burocrazia assolutista, che tende sempre a crescere tanto nel numero quanto nella
dispendiosità del proprio stile di vita: «A partire dalla corte imperiale e scendendo verso il
basso, con il passare dei decenni, uomini sempre più numerosi dovevano essere
mantenuti con il denaro pubblico ed esibivano un lusso sempre maggiore» (p. 131).
Vanno poi aggiunte le somme assai notevoli che non giungevano alle casse del tesoro
imperiale, ma erano fagocitate da un’orda di esattori e di funzionari, in parte sotto forma
di diritti legali, in parte come esazioni illegali.
Verso la fine del secondo secolo, inoltre, d.C. le tribù germaniche stanziate ai confini
settentrionali tornarono ad essere minacciose ed aggressive. La loro pressione durò a
lungo, fino a provocare il crollo della parte occidentale dell’impero. Le esigenze militari e
le spese per l’esercito divennero pertanto la preoccupazione permanente e dominante
degli imperatori. Per finanziare le accresciute attività militari gli imperatori ricorsero
all’aumento delle tasse, delle requisizioni forzate e del lavoro coatto. Ne fece le spese la
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popolazione contadina, sulla quale la pressione fiscale divenne talmente
insostenibile che gran parte degli agricoltori liberi preferirono abbandonare le proprie
terre per diventare coloni nelle terre di un grande proprietario terriero, oppure per
accalcarsi tra le plebi mantenute delle città, o addirittura per rifugiarsi nelle terre dei
barbari invasori.
Per contrastare questo fenomeno la legislazione di Diocleziano legò i contadini alla terra.
La condizione dell’agricoltore libero quindi praticamente scomparve, per trasformarsi
nella condizione servile del colono. Un fenomeno analogo si verificò per gli artigiani delle
città. In definitiva, in epoca tardo-imperiale la schiavitù declinò perché le élite politiche
ora avevano a disposizione le classi subalterne, e pertanto non avevano più, come un
tempo, la necessità di importare schiavi per soddisfare le proprie esigenze.
Campagne e città
Nelle città-Stato dell’antichità la terra era in linea di principio esente da regolare
tassazione. Per i greci l’imposta diretta sulla terra era un segno distintivo della tirannide, e
la maggior parte delle spese pubbliche venivano sopportate dai cittadini più ricchi con
donazioni volontarie alla comunità dette “liturgie”, che erano fonte di grandi onori. «Mi
sembra – commenta Finley – che l’esenzione delle tasse fosse un importante fondamento
per l’integrazione del contadino quale membro di pieno diritto alla comunità politica, un
fenomeno nuovo, caratteristico dell’antichità classica e ripetutosi ben di rado» (p. 140141). Gli imperi antichi, al contrario, traevano le loro entrate maggiori dalla terra. Non
sorprende quindi che i contadini, soggetti a contratti d’affitto annui, tributi e tasse,
fossero sempre al limite della sopravvivenza. Questa pressione sulle campagne spiega
perché negli imperi antichi i miglioramenti nelle tecniche agricole furono marginali. I
modelli di sfruttamento della terra e i metodi di coltivazioni rimasero praticamente
immutati per molti secoli.
Che rapporto economico c’era tra le città e le campagne? A seconda del modo con cui le
città pagavano quello che prendevano dalle campagne, la gamma possibile delle
situazioni spaziava dal parassitismo totale al rapporto “simbiotico” di mercato. La città
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parassita pagava i prodotti agricoli semplicemente restituendo le tasse e i fitti che
prelevava dalle campagne circostanti; quando invece il pagamento avveniva sotto forma
di produzione urbana e di servizi si aveva un rapporto di mercato. Roma, nota Finley, era
una città totalmente parassita, perché nessuno potrebbe sostenere che pagasse sotto
forma di produzione una sia pur minuscola frazione delle sue enormi importazioni. Altre
città, invece, consideravano gli agricoltori come cittadini e pagavano le proprie
importazioni con il surplus della produzione agricola.
L’apporto delle manifatture, però, fu sempre trascurabile. Nessuno pensava a tentativi
per aumentare i redditi urbani attraverso la produzione di tipo industriale. Per quanti
possedevano il capitale potenziale necessario non c’erano incentivi finanziari né
possibilità di mercato; erano anzi presenti potenti pressioni contrarie di natura sociale e
psicologica. Per queste ragioni le città antiche furono soprattutto centri di consumo, non
di produzione e di commercio come le città medievali europee.
Il mancato sviluppo capitalistico
Lo stesso tipo di disincentivo era presente nelle pratiche d’affari. Il mondo antico non
creò mai forme di denaro fiduciario o altri strumenti creditizi. Tutti i pagamenti e i prestiti
avvenivano in contanti. Praticamente inesistenti erano i prestiti di denaro a fini
d’investimento per l’agricoltura, per il commercio o per le manifatture. L’unica eccezione
erano i prestiti marittimi, ma si avvicinavano più alle polizze d’assicurazione che alle
forme di credito. In ogni caso le “banche” dell’antichità non compaiono mai in questo
genere di transazioni. I prestiti erano quindi generalmente a fini di consumo, non
d’investimento. Mancavano inoltre le società a responsabilità limitata e le società a lungo
termine. In breve, osserva Finley, il forte impulso all’acquisizione di ricchezze non si
tradusse in un impulso alla creazione di capitali: la mentalità prevalente era acquisitiva e
non produttiva.
Sul piano tecnologico i greci e i romani apportarono numerosi perfezionamenti e
migliorie, ma le invenzioni e le scoperte furono poche: la ruota dentata, la vite, la macina
rotante, il mulino ad acqua, la soffiatura del vetro, il cemento, le matrici per gli oggetti in
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bronzo, la vela latina e poche altre cose, «ma dopo il IV o il III secolo non si
verificarono molte autentiche innovazioni e anzi vi furono al contrario parecchi arresti di
notevole portata» (p. 227). Le fonti d’energia rimasero essenzialmente muscolari, umane
o animali. Gli antichi navigavano con il vento, ma un mulino a vento non lo costruirono
mai.
«Dobbiamo sempre tener presente – commenta Finley – che l’esperienza europea, a
partire dal tardo Medioevo, nell’economia, nella tecnologia e nei sistemi di valori che le
accompagnarono, fu un caso unico in tutta la storia umana, sinché ebbe inizio la recente
tendenza all’esportazione» (p. 228). Nei tempi antichi il progresso tecnico, lo sviluppo
economico, la produttività e l’efficienza non sono mai stati obiettivi significativi. Fino a
quando fu possibile mantenere un tenore di vita accettabile, comunque esso era definito,
rimasero in primo piano altri valori.
Le cause economiche della fine del mondo antico
Questa incapacità degli antichi di aumentare la propria produttività fu la ragione
principale del fallimento dell’impero romano nell’affrontare le crescenti sfide esterne. Già
Edward Gibbon aveva notato che gli eserciti di Luigi XIV erano più numerosi di quelli che
qualunque imperatore antico avrebbe potuto mettere insieme. A partire dalla metà del III
secolo era evidente l’insufficienza numerica degli eserciti che dovevano opporre una
resistenza continua alle incursioni sempre più frequenti dei germani e dei persiani, ma
non era possibile far nulla: la produzione e il trasporto dei generi alimentari non potevano
reggere un onere maggiore di quello imposto da Diocleziano quando raddoppiò le sue
forze armate.
Crebbero quindi le tasse e i servizi obbligatori, il cui peso ricadeva soprattutto sui ceti
produttivi più poveri, ma in nessun modo i romani riuscirono ad aumentare la produttività
del sistema, perché a questo scopo sarebbe stata necessaria una completa
trasformazione strutturale. La condizione dell’agricoltura, al contrario, si aggravò proprio
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a causa delle accresciute esigenze militari, creando un circolo vizioso di circostanze
negative. Il mondo antico, conclude Finley, corse ancor più rapidamente verso la rovina a
causa della sua struttura sociale e politica, del suo sistema di valori e dell’organizzazione e
sfruttamento delle sue forze produttive. In questi elementi risiede la spiegazione
economica della sua fine.
CITAZIONI RILEVANTI
I contadini romani dalla libertà alla servitù
«Il paradosso, qui, è profondo. Quanto più da un punto di vista poetico l’antico contadino
era libero, tanto più la sua posizione era precaria. Il cliente del periodo arcaico o il colonus
del basso impero erano per vari aspetti certamente oppressi; il patrono tuttavia li
proteggeva dagli espropri, dalle durissime leggi sui debiti, e in complesso anche dal
servizio militare, che così spesso conduceva all’inevitabile abbandono del podere e al suo
conseguente esproprio. Il contadino veramente libero non era protetto da una serie di
raccolti scarsi, dal servizio militare obbligatorio, dagli interminabili saccheggi causati dalle
guerre sia civili sia esterne. Ciò spiega le varie reazioni dei contadini, dalla richiesta di altra
terra … all’esodo dalla campagna alle città, al darsi alla macchia, alla ribellione aperta;
sino infine all’accettazione di una condizione di dipendenza che divenne la regola
nell’impero romano» (p. 160-161).
L’espansione delle classi parassitarie urbane durante l’impero
«Forse non è una semplice coincidenza che tale periodo di urbanesimo crescente, di
incremento numerico, assoluto e relativo, delle classi economicamente parassitarie, e di
stili di vita sontuosi, fosse anche il periodo che vide crescere enormemente l’importanza
della distinzione tra honestiores e humiliores: un sintomo della degradazione della
condizione sociale del libero povero, artigiano o contadino che fosse» (p. 217).
Lo statalismo degli antichi
«L’autorità dello Stato era totale, tanto nelle città quanto nelle autocrazie, estendendosi
su chiunque risiedesse dove i suoi decreti avevano valore. I greci di età classica e i romani
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di età repubblicana possedevano in misura considerevole libertà di parola, di
discussione politica, di attività di affari, persino di religione. Tuttavia erano privi di diritti
inalienabili, che anzi li avrebbero sgomentati. Non esistevano limiti teorici al potere dello
Stato; non esistevano attività, non esistevano sfere del comportamento umano dove lo
Stato non potesse intervenire legittimamente, purché la decisione fosse presa in modo
appropriato, per una qualsiasi ragione ritenuta valida da una autorità legittima. “Libertà”
significava dominio della legge e partecipazione agli atti decisionali. All’interno di tale
definizione, c’era spazio infinito per l’intervento statale, non minore di quanto ve ne fosse
sotto i tiranni greci, i sovrani ellenistici e gli imperatori romani» (p. 239-240).
L’AUTORE
Sir Moses I. Finley (1912 – 1986) nasce il 20 maggio 1912 a New York col nome di Moses
Israel Finkelstein. Dopo gli studi alla Syracuse e alla Columbia University ottiene un master
in diritto pubblico, ma i suoi interessi futuri si rivolgeranno quasi esclusivamente alla
storia antica. Nei primi anni Cinquanta insegna in diversi college di New York, e viene
influenzato dagli esponenti della Scuola di Francoforte in esilio in America. Nel 1952,
all’epoca del maccartismo, viene sospettato di idee comuniste e licenziato dal suo
impiego alla Rutgers University. Nel 1954 viene convocato dal Sottocomitato per la
sicurezza Interna del Senato, che vuole sapere se è mai stato membro del Partito
Comunista degli Stati Uniti d'America. Finley si rifiuta di rispondere appellandosi al quinto
emendamento. Nel 1955, non riuscendo più a trovare un impiego negli Stati Uniti, emigra
in Inghilterra dove per molti anni si dedica all’insegnamento della storia antica
a Cambridge. Nel 1962 diventa cittadino britannico, e nel 1979 cavaliere dell’Ordine
dell’Impero Britannico. Muore a Cambridge il 23 giugno 1986.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Moses I. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 277,
traduzione di Iole Rambelli.
Titolo originale: The Ancient Economy
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