Tragedia folle - Maciej Bielawski

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Tragedia folle - Maciej Bielawski
Maciej Bielawski
Tragedia folle
Mondo letterario di Vittorino Andreoli
eMBi
1
Indice
Abbreviazioni
Prima parte: L’OPERA
1.
Giardino di carta
2.
Biblioteca a due piani
3.
Tanti libri, un’opera
4.
Tragedia umana
5.
Lo stile
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11
17
21
24
Seconda parte: LE GENESI
1.
Mondo
2.
Uomo
3.
Carlofania
4.
Dentro una tradizione
5.
Carta e realtà
31
37
52
57
61
Terza parte: I TEMI
1.
Follia
2.
Violenza
3.
Dolore
4.
Eros
5.
Morte
6.
Finemondo
7.
Fragilità
67
76
82
89
97
105
114
Quarta parte: IL DIO
1.
Letteratura e teologia
2.
Andreoli teologico
3.
Alcune esperienze personali
4.
Monastero, monaco, monachesimo
5.
Natura
6.
Iconoclasta blasfemo
7.
Il Dio che forse non c’è
121
123
127
134
140
143
147
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3
Abbreviazioni:
C = Il cardinale, BUR 2009.
CD = Capire il dolore. Perché la sofferenza lasci spazio alla gioia, Rizzoli 2003.
CG = Carlo Zinelli, Catalogo generale, Marsilio Editore, Venezia 2000.
CR = Il corruttore, Rizzoli 2009.
CS = Cronaca dei sentimenti, BRU 2000.
D = Delitti. Un grande psichiatra indaga su dieci storie di crimine e follia, Rizzoli 2001.
DS = Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi, BUR 2005.
FC = Frammenti di cielo, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2010.
FM = Fuga dal mondo, Rizzoli 2003.
FS = Follia e santità, BUR 2010.
GM = I giardini della miseria e altre storie, BUR 2002.
LL = E la luna darà ancora luce, BUR 2005.
LGF = Il linguaggio grafico della follia, BUR 2009.
MB = Maciej Bielawski
MC = Il matto di carta, BUR 2008.
MI = Il matto inventato, BUR 1992.
MM = I miei matti. Ricordi e storie di un medico della mente, Rizzoli 2004.
P = Principia. La caduta delle certezze, BUR 2007.
PC = Una piroga in cielo, Rizzoli 2002.
PP = Un posto in platea. Trame teatrali, BUR 2005.
R = Requiem, Rizzoli 2010.
RP = Racconti perduti, BUR 2010.
RS = Racconti segreti, BUR 2005.
S = Silenzi, Rizzoli 2007.
SF = Un secolo di follia. Il novecento fra terapia della parola e dei farmaci, BUR 1998.
SM = Senza una meta, BUR 2007.
TF = Tra un’ora, la follia, Rizzoli 1999.
UF = L’uomo folle. La terza via della psichiatria, BUR 2007.
UP = Un pellegrino, BUR 2010.
UV = L’uomo di vetro. La forza della fragilità, Rizzoli 2008.
V = La violenza. Dentro di noi attorno a noi, Rizzoli 1993.
VT = Versi sotto la terra, BUR 2004.
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Prima parte: L’OPERA
1.
Il giardino di carta
Dovevo vedere questo posto. Mi sono alzato dalla scrivania di
scatto e pochi minuti dopo camminavo già lungo un vecchio muro,
mezzo crepato, in via San Giacomo in Borgo Roma a Verona. Era
caldo e le macchine che mi passavano accanto creavano un fracasso e
una puzza di gas di scarico incredibili. Per fortuna dopo un centinaio
di metri mi sono trovato di fronte ad un vecchio portone mezzo
rovinato, in cui però erano ancora percepibili le ombre di un passato
maestoso. Era l’entrata del vecchio manicomio di San Giacomo. Sono
passato attraverso un piccolo cancello di ferro arrugginito e
semichiuso che si trovava sulla sinistra. Di fronte a me si apriva un
parco con grandi alberi, diversi sentieri e alcune panchine. Non c’era
nessuno e il luogo sembrava poco frequentato. Sono stato accolto dal
verde, rinfrescato dall’ombra e avvolto da una strana quiete che era in
stridente contrasto con ciò che avevo appena letto e che mi aveva
condotto qui. Guardavo le piante, e tra le chiome intravedevo il cielo,
ma tutto questo era come uno schermo sul quale la mia memoria
proiettava immagini del tutto diverse. Vedevo una cosa, ma ne
percepivo un’altra molto più forte:
“Appena entrati dal portone si incontrava la palazzina della
direzione, e poi, distribuiti entro un grande parco alberato, in perfetta
simmetria, dieci edifici identici. Qui vivevano i matti, da una parte del
parco le donne, dall’altra gli uomini. Ogni padiglione prendeva il
nome dall’aritmetica e così si incontravano in successione il Primo
uomini, il Secondo, il Terzo, il Quarto e il Quinto e di fronte il Primo
donne, il Secondo, il Terzo, il Quarto, il Quinto. Man mano che ci si
addentrava nel manicomio aumentava la gravità dei ricoverati e, di
conseguenza, la loro pericolosità. Dire di un matto: ‘È del Quinto’ (e i
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matti venivano identificati molto più spesso con il numero del
padiglione di appartenenza che con il loro nome) significava dire che
era estremamente pericoloso e certo più grave del Quarto e molto di
più di uno del Secondo.
Ogni edificio era disposto su due piani: quello inferiore
destinato a zona giorno, quello superiore a zona notte. Di notte tutti
sopra a dormire, di giorno tutti nel grande salone al pianterreno.
Centoventi persone – questo era il numero dei malati destinato a ogni
edificio – tenute insieme.
Unico sfogo durante la bella stagione un giardinetto circondato
da una rete di protezione. Nel grande parco, invece, il matto poteva
accedere solo se accompagnato.
Mutavano, tra questi padiglioni tutti uguali, lo scenario umano e
l’armamentario di strumenti di contenimento di cui erano dotati;
strumenti che ovviamente si intensificavano quanto più ci si
avvicinava all’ultimo livello, il Quinto, dove i malati erano
immobilizzati in camice di forza, legati e costretti su sedie fissate alle
pareti; tra urla ma soprattutto in una puzza terribile di feci e di urina.
(…)
Ma la situazione più drammatica era nel Quinto femminile. Un
abominio. Donne private di qualsiasi dignità, ammassi di carne nuda
gettati sul freddo del pavimento, corpi legati alle pareti e lordi di
escrementi: un girone dantesco” (MM 9-10).
Era un frammento dell’appena pubblicato libro I miei matti di
Vittorino Andreoli. Questo testo si è impresso nella mia mente in un
modo così prepotente da non riuscire più a liberarmi di esso. Sapevo
che intorno non c’era nient’altro, solo il parco, gli alberi, sentieri e
panche, perché quasi tutti gli edifici di questo manicomio erano stati
distrutti alcuni decenni fa, quando l’ospedale venne chiuso. Ma avevo
l’impressione che, nonostante la cancellazione fisica, l’atmosfera –
oserei dire “lo spirito” – di questo posto fosse rimasta impressa in
questo spazio. Gli antichi l’avrebbero definita “genius loci”.
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Nei giorni successivi, mentre continuavo la lettura del libro,
sono tornato in quel posto parecchie volte e l’effetto era sempre lo
stesso, anzi sembrava aumentare. Certo, sapevo che una cosa è la
realtà e un’altra il testo. Conosco bene le regole dell’ermeneutica e ho
una mente sufficientemente critica per non lasciarmi stregare. E
nonostante ciò, l’impressione era talmente forte che, ancor prima di
finire la lettura di questo libro, avevo deciso di tradurlo in polacco.
Presi gli accordi necessari con una casa editrice di Cracovia e volli
contattare lo scrittore stesso. Non fu un compito facile. In internet non
c’erano indicazioni. Nelle pagine gialle il suo numero di telefono non
si trovava. Contattare la casa editrice Rizzoli con la quale Andreoli
pubblicava i suoi libri era un’impresa che rassomigliava alle
disavventure del protagonista de Il Castello di Kafka. Ma non volevo
arrendermi. Mi dicevo: ‘lo scrittore dovrebbe essere in qualche angolo
di questa città’. Un giorno mi sembrava di vederlo camminare con la
moglie vicino a Porta Leoni, nel centro storico di Verona, ma potevo
sbagliarmi perché il personaggio intravisto parzialmente si copriva il
volto con uno sciale rosso.
In un gesto quasi disperato chiamai l’ospedale di Soave, l’ultimo
posto in cui il professore aveva lavorato fino ad alcuni anni prima,
come avevo appreso da I miei matti. Colpo di fortuna. La persona che
rispose al telefono sembrava conoscere e stimare Andreoli, e
gentilmente mi fornì il numero di telefono che ho subito chiamato.
Rispose una segreteria telefonica in cui lasciai un breve messaggio.
Due minuti dopo squillò il telefono, e una voce come da lontano
diceva: “Sono il professor Vittorino Andreoli…” Tre giorni dopo, in
una serata d’autunno, entravo in una vecchia casa stile veneziano di
Veronetta e, dopo aver suonato il campanello, sentii dei passi piuttosto
decisi. Venne alla porta Andreoli stesso, che mi condusse attraverso un
labirinto di corridoi fino a un salotto in cui si sedette, lui su un divano
e io su una poltrona. L’arredamento della stanza era piuttosto vecchio,
la luce soffusa:
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«Il professore era un interlocutore ideale per una serata... i suoi
grandi occhi neri e profondi, impenetrabili. Misteriosi, era meglio dire,
perché in quegli occhi ti perdevi e ti impaurivi. Non faceva nulla per
togliersi di dosso l’alone di mistero che gli avevano attaccato. Lui si
atteggiava in modo naturale e del resto uno che si occupa di svelare il
comportamento, al di là delle apparenze, è meglio non si nasconda, e
dunque lasci da parte le formalità e le maschere del perbenismo. Era
letteralmente spettinato e sembrava che al mattino, mentre tutte le
persone comuni si mettono davanti ad uno specchio e usano il pettine
per mettere in ordine i propri capelli, lui li spettinasse, seguisse il
criterio opposto e così li facesse andare in ogni direzione, a raggiera; e
non si può meravigliare se il professore di greco che lo incontrava,
pensasse alla Medusa. Tutto contribuiva a creare un alone strano, e lui
non faceva nulla per opporvi una sua visione, che certo aveva diritto
di essere ritenuta quella vera. Anche le cravatte, possono essere strane,
ma almeno vedi che il nodo rimanga aderente al collo della camicia.
L’abito blu da montanaro, ogni tanto cambialo altrimenti la gente dice:
“Ma è sporco”. Pochi sapevano che ne aveva comperati quattro tutti
uguali e che quindi anche se sembrasse il contrario, li cambiava e si
poteva dire tutto, ma non che fosse trascurato. Ma allora dillo. Così
per i capelli, due parole: “Non amo stare davanti allo specchio e non
ho simpatia per il barbiere”. Capisco, poteva fare imbestialire una
categoria. Giochi di diplomazia: “Amerei tanto sedermi su una
poltrona da parrucchiere, ma mi manca il tempo”. Espressione più
carina rispetto al commento dominante della gente: “Sta ore a
spettinarsi”. Certo alle sopracciglia non poteva fare nulla: erano folte
come dei boschi abbandonati e sovrastavano gli occhi che, così,
apparivano ancora più fondi e neri come il carbone del Transvaal o
come quelli del demonio. Se ti guardava diritto e ti fissava, sentivi le
ginocchia piegarsi e la bocca che automaticamente recitava un
Requiem. (RS 32-33)»
Le ginocchia non mi si sono piegate, non mi sono impaurito e
non ho recitato il Requiem. Al contrario. L’incontro fu piacevole ed
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efficace. La traduzione era stata inviata e durante il lavoro nei mesi
seguenti ci incontrammo spesso, perché avevo bisogno di spiegazioni,
che il professore mi forniva pazientemente. Poi il libro è uscito, e
siamo andati insieme a Cracovia per presentarlo all’università, al
dipartimento di psichiatria. Tutto questo ci ha discretamente legato e
mi ha permesso di conoscere meglio l’autore e i suoi scritti.
Col passare del tempo questa conoscenza è divenuta oggetto di
riflessione e doveva trovare quindi una propria espressione ben
concreta. Così è nata l’idea di scrivere un saggio. Ma è emersa subito
anche la questione: come realizzarlo? La personalità e la storia di
Andreoli mi parevano interessanti, ma non avevo alcuna voglia di
scrivere una biografia per diversi ragioni che non vale qui la pena di
elencare. D’altra parte, c’erano i suoi libri, un “corpus” di notevole
dimensione. Cercavo di tenere distinte queste due realtà, ma non era
facile. Lo stesso Andreoli mi venne in aiuto scrivendo Il matto di
carta (2008) che mi indusse a pensare all’“Andreoli di carta”. Qui
sotto, sulla falsa riga di alcune pagine di questo libro (cfr. MC 58),
attraverso una “variazione sul tema” spiego meglio l’approccio che ho
seguito in questo saggio.
“Andreoli di carta” è un’espressione che mi piace molto. Una di
quelle combinazioni di parole che finisce per assumere un fascino
oscuro, capace di stimolare pensieri e suscitare emozioni. Non è facile
indicarne il perché: forse è altrettanto difficile come spiegare la
particolare colorazione che suscita un verso poetico. Si può tentare di
trovare una spiegazione, ma rimane sempre una parte oscura e strana,
un po’ misteriosa, ma non per questo meno interessante e intrigante.
“Andreoli” è un personaggio da alcuni ben conosciuto, per altri
totalmente ignoto, uno scienziato, uno psichiatra, una personalità
pubblica della TV, uno scrittore, un uomo con la sua storia, la sua
ricerca, le sue imprese riuscite e fallite, uno che è pro e contro e verso
cui si può essere pro e contro, uno che affascina e che spaventa.
L’espressione “di carta” indica una netta contrapposizione
all’Andreoli di carne, che conosco meno di quello di carta. Questo
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secondo esiste nei libri, ha un profilo ben preciso e relativamente
facile a tracciarsi partendo dai testi che egli ha scritto. È un
personaggio che si è fatto racconto e quindi è diventato “l’opera”.
Si può e si deve distinguere l’“Andreoli di carne” dall’“Andreoli
di carta”, tuttavia non si può separarli. È un po’ come con il Giardino
di San Giacomo a Verona, questo reale e, quello descritto da Andreoli,
in cui la realtà e la scrittura mi sembra si sovrappongano e si
completino a vicenda, e io mi trovo tranquillo tra due mondi, il reale e
quello di carta. Ma non mi preoccupo molto di questa tensione, non
devo fare né il filosofo, né il critico letterario. Semplicemente leggo,
guardo, mi muovo tra la realtà e la carta con lo scrivere. Questi due
mondi si rispecchiano reciprocamente, l’uno nell’altro, senza fine,
fanno parte di me e io faccio parte di loro.
2.
Una biblioteca a due piani
Non credo che abbia bisogno di introduzione la seguente
citazione di Andreoli: “Amo i libri, sono un oggetto straordinario. Mi
piace scriverli, leggerli, raccoglierli. Qualche volta ho pensato di
portarmeli a letto. Un oggetto d’amore, di piacere. Provo rispetto e
timore, curiosità e fascino. Un oggetto sacro. Mi commuovo ancora, e
ormai di figli di carta ne ho riempito una biblioteca e di molti mi sono
addirittura dimenticato. Sono attratto sempre dal figlio che non ho, e
abbandono quelli che mi girano attorno. Talora mi infastidiscono,
poiché non si rendono conto che sono occupato a fare un loro fratello.
Si chiama sindrome di Saturno: faccio libri e poi me ne dimentico, li
abbandono” (CS 88). E non credo che sia da commentare. Voglio
semplicemente ricordarla, voglio che sia presente in questo saggio
come un’iscrizione sopra una porta che conduce, per esempio, a una
biblioteca immaginaria, in cui i libri sarebbero collocati su diversi
piani, sale e scaffali, secondo gli argomenti.
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In tale biblioteca alcuni dei testi di Vittorino Andreoli si
troverebbero nel settore della psichiatria, e tra di essi soprattutto Un
secolo di follia. Il novecento fra terapia della parola e dei farmaci
(1991), che può essere considerato una storia divulgativa della
psichiatria del XX° secolo, ossia l’orizzonte dell’intera opera di questo
autore. Accanto a questo volume ci starebbe bene il libro I miei matti
(2004), che riprende la stessa tematica in prospettiva autobiografica:
ottima introduzione per conoscere l’autore, alcune vicende della sua
vita e il modo in cui ha vissuto da psichiatra. Poi Il medico e la droga
(1979), uno fra primi libri scritti in Italia su tale argomento, e in
seguito ripreso, rielaborato e ampliato trent’anni più tardi col titolo La
testa piena di droga (2008). Il quadro andrebbe completato con
L’uomo folle. Terza via della psichiatria (2007), una forma di credo
psichiatrico di Andreoli, e con i trenta volumi della Biblioteca della
mente, usciti con il Corriere della Sera nel 2011/2012, una forma di
canone o di rassegna dei classici per i vari scrutatori dell’anima, della
mente e del cervello.
Nella sala accanto, dedicata alla psicologia, si troverebbero i
saggi più conosciuti del professore, come Giovani. Sfida, rivolta,
speranza, futuro (1995) che è stato venduto in Italia forse in un mezzo
milione di copie, a cui andrebbero aggiunte le famose e non meno
lette “Lettere”, che qualcuno con ironico sorriso ha definito
“Encicliche di Andreoli”: Lettera a un adolescente (2004), Lettera
alla tua famiglia (2005), Lettera a un insegnante (2006), Carissimo
amico. Lettera sulla droga (2009). Un valido bibliotecario nello stesso
scaffale potrebbe collocare: Dalla parte dei bambini (1998), Istruzioni
per essere normali (1999), Capire il dolore (2003), Dietro lo specchio.
Realtà e sogni dell’uomo di oggi (2005), Alfabeto delle relazioni
(2005), La vita digitale (2007), L’uomo di vetro (2008), Le nostre
paure (2010), Il denaro in testa (2011). Sono titoli parlano “da sé” e
messi insieme dimostrano chiaramente l’ambito tematico in cui con
questo tipo di saggistica si muove Andreoli. Tutt’altro discorso è
“come” lo fa, perché è proprio questo “come” che valorizza questi
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testi e ha reso il loro autore così conosciuto e letto. Questo “come” è
un insieme di vari elementi: la passione e la compassione, il desiderio
di aiutare e di condividere le proprie esperienze e le proprie
preoccupazioni, l’erudizione e lo studio arduo della problematica
trattata, l’attenzione a quello che interessa e a ciò di cui c’è bisogno di
parlare, la mente dedicata alla riflessione e l’indubbio talento letterario,
nonché un lavoro tenace, a cui aggiungo anche il misterioso ed
ineffabile “demone” che spinge chiunque lo fa a dedicarsi alla
scrittura.
Ma torniamo alla nostra visita nella biblioteca immaginaria.
Andreoli, che per anni ha lavorato come perito dei tribunali sui crimini
più acclamati della recente storia italiana, ha scritto anche libri come
Voglia di ammazzare (1996), Delitti. Un grande psichiatra indaga su
dieci storie vere di crimine e di follia (2001), Il lato oscuro (2001). Un
bibliotecario attento dovrebbe collocare questi testi nella sala dedicata
alla criminologia. Non intendiamo soffermarci a lungo su questo
punto, notiamo solamente che, accanto all’aspetto “consolatorio” o
“terapeutico” della saggistica di Andreoli, abbiamo a che fare con il
tema inquietante e molto reale della violenza nelle sue forme più
spietate ed inimmaginabili. Riguardo a tale tema segnalo il libro La
violenza. Dentro di noi, attorno a noi (1993); guardo la sua copertina
rossa, ma per ora non lo apro e lo rimetto nello scaffale mentre sfioro
con il pensiero il fatto che questo autore indaghi su casi di violenza
alla maniera di un detective e penetri nella mente come solo uno
psichiatra sa fare, analizzando la questione sociale del crimine come
un ottimo giornalista, e nell’insieme racconta praticamente tutto come
se fosse lui l’autore del giallo, con la differenza che purtroppo parla di
casi veramente accaduti.
Nello scaffale di “Filosofia” c’è un grosso volume: Principia. La
caduta delle certezze (2007), in cui Andreoli presenta la storia e la
filosofia della scienza moderna, le questioni del diritto e della politica,
domandandosi su quali princìpi può ancora poggiarsi oggi la vita
dell’uomo e della società. Nello scaffale accanto, quello della
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“Teologia”, si trova il libro Preti. Viaggio fra gli uomini del sacro
(2009), Follia e santità (2010), in cui sono raccolti nove ritratti di
santi cattolici che in qualche modo hanno sfiorato o realmente vissuto
la follia, e Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e libertini,
esorcisti e libertini (2010), un’antologia commentata, assolutamente
originale, sulla figura del prete nella letteratura italiana.
In una sala intermedia, in cui si trovano i diari e le memorie, il
lettore dovrebbe trovare la Cronaca dei sentimenti (2000), un diario
tenuto da Andreoli nel 1999, la fine del millennio, che nella sua vita
segna il passaggio dalla carriera professionale di psichiatra alla vita
pensionato e scrittore a tempo pieno. Ma passiamo oltre fermandoci
brevemente di fronte allo scaffale della critica letteraria, in cui
notiamo due libri degni di attenzione. Il primo: I segreti di casa
Pascoli. Il poeta e lo psichiatra (2006), da un’angolatura del tutto
particolare racconta la drammatica vita di Giovanni Pascoli. Nel
secondo: Il matto di carta. La follia nella letteratura (2008), Andreoli
analizza il tema del folle e della follia nei grandi romanzieri come
Dostoevskij, Turgenev, Henry James, e nel Novecento Italiano,
incominciando da Italo Svevo e penetrando i testi da lui amati di Carlo
Emilio Gadda e Dino Buzzati.
Continuando il giro nella biblioteca immaginaria alla ricerca dei
libri di Andreoli, saliamo su un altro piano, cioè quello della narrativa
e delle altre forme letterarie che in francese erano chiamate “les belles
lettres”. Di fatti, questo psichiatra e saggista è anche autore di una
quindicina di romanzi, di cui ora non tento di elencare tutti i titoli, la
cronologia, né di riassumere i contenuti; colgo solo con un colpo
d’occhio le scritte sui dorsi: I giardini delle miseria, Camice matto, Il
cardinale, E la luna darà ancora luce, Fuga dal mondo, Una piroga in
cielo, Un pellegrino, Yono-Cho, Senza una meta, Il reverendo, Il
corruttore, Requiem. A questo corpus romanzesco piuttosto imponente
bisogna aggiungere alcune raccolte di racconti come Gli adolescenti
(1985), Tra un’ora, la follia (1999), Racconti segreti (2005) e
Racconti perduti (2010). Non entro qui nella piuttosto complicata
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questione bibliografica, cioè nel fatto che i diversi racconti siano stati
pubblicati da diversi editori, in diversi tempi, nelle versioni che poi
sono state migliorate e riproposte nelle nuove raccolte. Sarebbe
tuttavia una ricerca da fare. Ma se uno volesse le cifre, si potrebbe dire
che Andreoli ha pubblicato circa 150 racconti, senza contare quelli,
numerosi, inclusi nei suoi saggi e considerati come “relazioni vere”, in
cui riporta soprattutto le storie dei suoi matti. Questo autore, anche
quando si dedica alla saggistica, è un ottimo “storyteller”, e dal punto
di vista strutturale e letterario forse le sue pagine migliori sono proprio
i racconti, veri e propri “microcosmi”.
Se il visitatore di questo piano della biblioteca immaginaria ora
si volge dall’altra parte e si ferma di fronte allo scaffale della poesia,
troverà il volume Versi sotto la terra (2004), una raccolta
componimenti poetici che l’autore stesso preferisce definire “esercizi”
o “giochi di parole”. Andreoli per circa vent’anni (1978-1999) ha
scritto centinaia, anzi migliaia (“Una vera furia”) di tali composizioni,
ogni tanto in forma molto sperimentale e persino grafica, che
testimoniano anche la sua ricerca e sensibilità all’interno della
scrittura e della parola. Insomma, nel caso di Andreoli abbiamo anche
a che fare con un afflato poetico, con una ricerca dell’espressione
linguistica, che è presente anche sia nella sua narrativa sia nella sua
saggistica. Apro il volume a pagina 128, dove trovo i versi che lego
lasciandomi trasportare dal gioco delle lettere che subito muta in
quello delle parole e dei sensi:
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Rimetto il libro al suo posto e subito alla mia destra noto sullo
scaffale dedicato al teatro un grosso volume: Un posto in platea.
Trame teatrali (2005), una rassegna di oltre trenta “pezzi per teatro”
scritti sia in un italiano letterario sia in dialetto veronese, di cui alcuni
sono stati rappresentati sul palcoscenico. Dietro questo volume sta
tutto il modo di concepire la vita come teatro e la tensione esistenziale
tra la maschera e l’esistenza nuda: una chiave per capire anche alcune
scene dei suoi romanzi, dove spesso appare la “nudità”, come ad
esempio ne Il cardinale, in cui il protagonista (un ecclesiastico) ad un
certo punto si sveste e si presenta nudo di fronte allo specchio dicendo
onestamente a se stesso di non credere in Dio.
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A questo punto il visitatore della biblioteca immaginaria,
giustamente, potrebbe essere stanco e nauseato a causa della
sovrabbondanza della produzione letteraria di Andreoli. Discretamente
si domanda: “Abbiamo finito? Abbiamo visto tutto?”. No, ma senza
inoltrarci più nei diversi piani e stanze, diciamo soltanto che tra gli
scaffali sull’arte si può trovare il libro Il linguaggio grafico della follia
(2009), come anche quello sulle opere artistiche di Carlo Zinelli, o
anche il saggio sullo scultore Ilario Fioravanti. Nella sezione dedicata
alla fotografia vanno presi in considerazione con particolare
attenzione gli album con le fotografie (e i testi meditativi o semipoetici) di Andreoli come Frammenti dell’infinito (2009), che con foto
e parole racconta il mistero dell’acqua, del fuoco, del cielo, della terra,
e Frammenti del cielo (2010), un poema in fotografia e parole sul
cielo. La fotografia sembra essere un’arte praticata con gusto e piacere
da questo scrittore.
Ma bisogna ancora menzionare centinaia di articoli scientifici,
pubblicati da Andreoli in riviste specializzate, le interviste e gli
interventi in TV, oggi almeno in parte accessibili su internet, e di
sicuro un immenso “archivio privato” dell’autore con le sue
produzioni non (ancora) pubblicate. Insomma, nel caso di Andreoli
abbiamo a che fare con un autore imponente e un’opera piuttosto
estesa, che vale la pena di contemplare nel suo insieme e di
rintracciarne alcune caratteristiche.
3.
Tanti libri, un’opera
Ora immagino che in questa biblioteca ideale, dove le opere di
Andreoli si trovano sparse in diversi scaffali su due piani, ci siano
alcune belle stanze addette allo studio, nelle quali uno può raccogliersi
per leggere e scrivere. C’è anche una gentile bibliotecaria che non solo
mi permette di usufruire di tale spazio, ma anche mi porta tutti i libri
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di questo scrittore conservati nella biblioteca. Li dispongo su uno
scaffale di quattro metri, li guardo, apro a caso un volume o un altro.
Resisto alla tentazione di ordinarli cronologicamente o dividerli tra
saggistica e narrativa. Resisto anche al desiderio di contarli tutti,
anche perché molti sono solo copie di un unico esemplare, altri hanno
diverse edizioni, ed alcuni mancano. Non voglio fare il bibliografo, né
l’enciclopedista. Mi basta sapere che ho di fronte una cinquantina di
volumi di questo autore e che sono stati scritti nell’arco di quasi
mezzo secolo.
All’inizio non sapevo nulla di tutto questo e ricordo che, dopo
aver letto qualche saggio di Andreoli, sono rimasto sorpreso di
scoprire che scriveva anche romanzi, racconti, poesie e testi per il
teatro. Col tempo ho anche appreso che in Italia questo scrittore è
conosciuto proprio come saggista, o piuttosto come uno psichiatra che
scrive saggi. Il titolo “psichiatra” che appare sulle copertine dei suoi
libri aggiunge ai suoi testi una certa aura di mistero, legato al mito
secondo cui lo psichiatra scruta miracolosamente i segreti dell’uomo.
Andreoli “romanziere” è meno conosciuto e meno apprezzato. Ma
dopo aver frequentato sia i suoi saggi, sia i suoi romanzi, mi sono reso
conto che in fondo questa divisione è piuttosto formale. Andreoli
stesso ha vissuto dolorosamente e a lungo questa scissione.
Riflettendo sui fatti ritengo che lo scrittore romanziere precede il
saggista. Da giovane dedito alla medicina, prima di esprimersi nei
saggi che lo hanno reso famoso, più o meno venticinquenne Andreoli
compose il suo primo romanzo I giardini della miseria. E dopo averlo
scritto, vergognandosi di questo fatto, visto che riteneva non
combaciasse con l’immagine di futuro medico e scienziato, l’ha tenuto
nascosto per più di vent’anni. I giardini della miseria, romanzo sul
pittore-matto Carlo Zinelli, scritto tra il 1962 e il 1966, fu pubblicato
soltanto nel 1988 da un piccolo editore veronese, perché i grandi
editori non volevano sentire parlare di un “Andreoli romanziere”, anzi
ne erano disgustati, ritenendolo questo un capriccio che avrebbe
potuto danneggiare la sua immagine di autore saggista che pian piano
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si andava affermando sul mercato del libro. Invece Andreoli stesso, ad
una giusta distanze di tempo, ha commentato la cosa in questo modo:
«Io faccio sempre la stessa cosa, una sola: mi occupo dell’uomo,
lo studio nel suo comportamento, in azioni che talora si fanno estreme
e giungono a uccidere un altro uomo. Un comportamento che si fa
follia e che pure parla dell’umanità. Anche il folle è un uomo.
Continuo a parlare dell’uomo usando ora il linguaggio della scienza,
ora quello della narrazione. Il primo permette di capire l’Uomo, di
stabilire delle leggi, dei meccanismi. Il secondo si lega al singolo e
può narrare i suoi sentimenti, i vissuti che sono sempre individuali.
Insomma è come se ora parlassi dell’uomo e della sua sofferenza
guardando al microscopio, ora mettendomi su un baobab per osservare
dall’alto più uomini insieme. Una modalità permette di vedere meglio
certi particolari ma perde altre specificità che invece la seconda aiuta a
descrivere e a capire». (GM 15).
Nel caso di questo autore abbiamo a che fare con una e unica
opera, che sussiste in varie forme letterarie e che deve essere trattata
come tale – e ancora non conclusa. Riferendomi alla nostra cultura si
può parlare di “bibbia andreoliana”. La Bibbia è una raccolta di oltre
settanta scritti di vario tipo, composti da diversi autori nell’arco di
almeno sette-otto secoli. Curioso è già lo stesso nome “la bibbia”.
L’articolo “la”, singolare, indica un libro, mentre il sostantivo “bibbia”
(dal greco “biblìa” - libri) è al plurale (dal singolare biblos - libro).
Dunque la Bibbia è un libro-dei-libri, un libro fatto di libri, ossia una
biblioteca. Definendola allora “bibbia andreoliana” voglio sottolineare
la struttura di tale opera: una biblioteca dei libri di Andreoli, un’opera
fatta di diversi libri. Se uno mettesse insieme tutti i testi di questo
autore, otterrebbe un grosso volumone, un corpus, un canone, un’opus.
Di solito si pensa ad Andreoli come lo scienziato, l’esperto, il
saggista, e gli si “permette” il capriccio di scrivere anche i romanzi. Si
considera il suo essere un romanziere come hobby, qualcosa di
marginale o persino di poco serio. Ma permettiamoci un momento di
fantasia. Come la gente avrebbe reagito alla scoperta che Freud o Jung
19
avessero scritto anche loro dei veri romanzi? Ancora più difficile
immaginare un Tommaso d’Aquino o un Kant che si dedicano alla
composizione di racconti. O un Platone… ma in questo caso le cose si
fanno più complicate, perché i suoi “dialoghi” in fondo sono romanzi
o testi che potrebbero essere benissimo rappresentati in teatro. D’altra
parte, alcuni romanzi dell’Ottocento non sono forse veri e propri
trattati filosofici? Dove la letteratura oltrepassa la frontiera tra la
saggistica e la narrativa, tra la fantasia e la scrittura del vero…
Conoscendo i testi di Andreoli oserei parlare di una “rivoluzione
copernicana”. Propongo di immaginare che in questa “opera” i saggi
formino una cornice, nella quale il quadro vero è costituito dalla
narrativa. Bisogna leggere entrambi, perché i romanzi e i saggi si
completano a vicenda. Bisogna leggere gli uni alla luce degli altri e
viceversa. Andreoli stesso direbbe che i suoi saggi sono scritti come
“un dono” per gli altri, con il “dovere” di comunicare qualcosa agli
altri, per aiutarli; invece nei romanzi si sente più libero, meno
condizionato dalle esigenze del pubblico, più se stesso. Ma affermare
che questo autore scrive saggi per gli altri e romanzi per se stesso
sembrerebbe un’esagerazione e di nuovo creerebbe una polarità
all’interno di questa opera, polarità che in realtà non esiste né nei testi
né nello stesso autore. La distinzione è puramente formale, utile solo
fino a un certo punto, ma non è radicale, non deve generare, in uno
che contempla quest’opera, una separazione.
Ancora più importante di tutto ciò è il fatto che qui abbiamo a
che fare con un vero autore. In un’epoca in cui i libri vengono
pubblicati e venduti come film; in cui conta solo l’ultimo perché per
una o due settimane eccita un pubblico limitato, per essere poi
rimpiazzato da un altro “best-seller” all’ultimo grido; quando ogni
settimana abbiamo un nuovo “libro dell’anno”, di cui importa solo il
titolo sconvolgente, la copertina scioccante e la pubblicità chiassosa e
ben pagata dagli editori, che tuttavia pochi giorni dopo viene sostituito
da un’altra novità, nel caso di Andreoli abbiamo a che fare con un
autore che non solo scrive libri, ma crea un’opera.
20
4.
Tragedia umana
Riflettendo su quest’opera e cercando qualche paragone,
spontaneamente mi viene in mente la Comédie humaine di Honoré de
Balzac. Lo scrittore francese ideò e realizzò un immenso progetto
contenente 137 opere, tra cui 95 romanzi accompagnati da racconti,
saggi di vario tipo e studi analitici. È una grande architettura letteraria
che unisce l’autore, la sua opera e la sua epoca. In effetti, costituisce
un grande affresco della società francese dell’Ottocento. Nonostante il
fatto che ogni analogia presenti più differenze che somiglianze, porre
l’opera di Andreoli accanto a quella di Balzac è di un certo aiuto. Non
lo facciamo per valutare quest’opera e affermare: Andreoli è grande
come Balzac, è meglio, o peggio. Si tratta solo di un’analogia. Anche
l’opera letteraria dello psichiatra veronese, se pur non così grande
come la Comédie humaine di Balzac, è assai ampia. Anche essa offre
un vasto e variopinto ritratto della società contemporanea,
prevalentemente quella italiana, e anche in essa troviamo libri scritti in
diversi stili letterari. Nella Comédie humaine appaiono gli stessi
protagonisti, centinaia di piccoli e grandi personaggi, che sono come i
passanti che sostano in una grande piazza. Nell’opera di Andreoli
cambiano i personaggi, ma rimangono gli stessi temi, anzi si potrebbe
dire che i protagonisti delle sue opere sono proprio questi temi: morte,
dolore, follia, violenza, sesso, potere, fine di una civiltà, Dio, fragilità,
tenerezza, ecc. Questi sono i protagonisti dell’opera di Andreoli, la cui
caratteristica sta proprio nel fatto che egli ha trasformato questi temi
in veri e propri protagonisti. Se l’opera di Balzac è caratterizzata dal
così detto “realismo visionario”, l’opera di Andreoli si caratterizza per
qualcosa che si potrebbe definire “realismo tragico”. Di fatti, quella di
Andreoli è più tragica dell’opera di Balzac e potrebbe essere chiamata
“tragedia umana” o “tragedia folle”.
L’Andreoli di carta può essere situato tra la tragedia e la follia, al
punto da poter parlare di tragedia folle e di follia tragica. Ma forse
bisogna considerare questi due sostantivi, questi due nomi, questi due
21
protagonisti della sua opera senza caratterizzarli, solo osservando
come si riferiscono l’uno all’altro e come dipingono tutta l’opera.
Ogni tanto la follia risulta una via d’uscita dalla tragedia, ma pur
sempre un’uscita tragica.
Andreoli non è un filosofo che crea un sistema tragico, non è un
teologo che minuziosamente costruisce una dottrina tragica. La sua
opera piuttosto è artistica, perciò la tragedia che la segna è variopinta
e ha diversi volti. Inutile cercare in essi una gerarchia, perché il
tragico ne risulterebbe sconvolto e non vale la pena soffermarsi sulle
contraddizioni tra le sue diverse maschere. Le sue opere formano una
vera “sinfonia tragica” in cui il lettore – e forse anche l’autore – cerca
una “armonia nascosta”, ma non so se sia possibile trovarla. Lo vedo
così: Andreoli, quasi folle, o almeno fuori di sé, scrive seguendo un
intuito misterioso che va a zigzag tra cacofonia e armonia; il lettore lo
segue anche con la speranza di fermarsi finalmente all’una o all’altra
di queste estremità, ma la corsa sembra non avere una fine. E questo
stesso infinito possiede un tratto tragico.
Fratel Severino, nel romanzo Sogni d’eremita, si getta dalla
Rocca del Garda. In Yono-cho Corrado Olmi in ultimo uccide la donna
creata ad immagine e somiglianza dei suoi sogni e desideri, ammazza
il proprio amore. Angelo Spina di Fuga dal mondo, nel suo isolamento
diventa folle. Similmente impazziscono Pëtr Razanov e Anna Brigani,
protagonisti de Il reverendo, e finiscono la loro avventura in un
manicomio. Il protagonista de Il Cardinale si impicca nella Cappella
Sistina. La giovane e piccola Marianna, del romanzo Silenzi, vive fino
alla morte il suo dramma in una solitudine spaventosa. Antonio
Antiquo ne Il corruttore non regge all’impatto con il maligno Angelo
Ratti e si suicida. E così via. Insomma, tutti i romanzi e i racconti di
Andreoli praticamente finiscono in modo tragico, tutti formano diversi
atti tragici della sua “tragedia umana”.
Il tragico “è la rappresentazione della vita nel suo aspetto
terrificante. Il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo
della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei
22
giusti e degli innocenti ci vengono presentati da essa: sicché essa
costituisce un segno significante della natura propria del mondo e
dell’essere”. Queste parole scritte da Schopenhauer (Die Welt, I & 51)
caratterizzano perfettamente l’opera di Andreoli e potrebbero essere
poste quale motto dell’intera sua opera pensata come “tragedia
umana”. Si potrebbero elencare altri tratti che confermano questa
dimensione tragica. Una onnipresente ed inevitabile determinazione
che governa il mondo, i sentimenti e le relazioni umane. Tutto è già
deciso prima che i protagonisti si mettano in moto sulla scena della
vita. La libertà non esiste. Tutto dipende dal passato e tutto è solo la
sua conseguenza, il futuro non esiste. Unico fine è la fine della civiltà
e di un certo mondo, come emerge dalla raccolta di saggi I principia
(2007) e dal romanzo Requiem (2010) che si commentano e
completano a vicenda, e che è consigliabile leggere insieme. Alla fine
rimane solo il fallimento e la morte – in Andreoli non esiste, mai – e
sottolineo mai –, un happy end. Rimangono solo le ceneri, un deserto,
una follia. Nella visione di Andreoli anche il mondo e l’uomo devono
essere rifatti – questa è la tesi catastrofica del Nuovo Genesi (2010).
Tutto è troppo tardi. I protagonisti dei suoi romanzi sono eroi solitari –
isolati dal mondo, isolati dalle relazioni con gli altri, isolati da loro
stessi, senza un Dio, perciò impazziti, lacerati dalle passioni, mossi da
una volontà folle.
E nonostante ciò, nell’opera di Andreoli troviamo un libro come
Alfabeto delle relazioni, che all’interno del mondo tragico dischiude
l’orizzonte alla tenerezza propria delle relazioni umane; e vicino vedo
Dalla parte dei bambini e le sue Lettere, che prendono in
considerazione, anzi combattono, per il futuro. Accanto a L’uomo folle
(2007) sta L’uomo di vetro (2008) che fa l’elogio della fragilità e della
precarietà della condizione umana, nelle quali, come in un vuoto
buddhista, si può cercare rifugio. In questo paesaggio il viandante
continua il suo errare, avanza “come fa ogni pellegrino in questo
mondo” (UP 207). Lo scrittore stesso, in attesa dell’anno nuovo, che
23
per lui è il simbolo della fine imminente del mondo e della vita,
contemplando il fuoco che consuma la legna di rovere, nota:
«Qualche volta però anche nella mia mente c’è soltanto fuoco e
così non penso ma brucio, sentendo piacevole il calore che sa di
natura e di campagna. Una sensazione contadina dove si annida il mio
passato. Il fuoco non può certo morire mentre inizia un nuovo anno. È
anzi di buon auspicio che una volta acceso mantenga continuamente la
fiamma. La mia abilità non pone in pericolo quella liturgia, come un
sacrestano garantisce che nel turibolo l’incenso bruci lento ma
costante riempiendo il freddo della cattedrale di profumo divino. Poi
di nuovo mi distendo sul divano e aspetto che il tempo invecchi.
Vicino a lei come sempre. In silenzio, attenta a non interrompere i riti
che sente anche se non è facile condividerli. Guarda il fuoco e talora
sposta la mano sul mio braccio. Così si riattiva un legame che ormai si
perde nella nostra giovinezza. (…) La mano di lei si fa stretta alla mia,
la sua testa si è adagiata sulla mia spalla. La liturgia continua, la
cerimonia non è mai solo di corpi ma si uniscono pensieri e mistero»
(CS 8-9).
5.
Lo stile
Andreoli è artista della parola, così pratica diversi generi
letterari: articoli scientifici per le riviste specializzate, scritti nel gergo
professionale; libri accademici, eseguiti con rigore e arricchiti da
centinaia di note a piè di pagina; saggi scientifici nello stile
divulgativo; commenti a testi classici e alle mostre d’arte; introduzioni
e postfazioni a testi di altri; analisi; sintesi; critiche letterarie; romanzi;
racconti; lettere; diari; dialoghi e monologhi sia per il teatro che come
parte dei romanzi; poesie; forme sperimentali di racconto o della
stessa poesia, in cui la grafica si mescola con le lettere che insieme
varcano la soglia di un testo scritto, ecc. Questo scrittore è come un
24
pittore che pratica diverse tecniche: olio e acquarello, schizzo a matita
e acquaforte, pastello e acrilico, collage e tempera, passando nella sua
pittura dal ritratto al paesaggio, da un grande panorama all’attenzione
del particolare, da uno studio paziente a lungo termine alla tela fatta
velocemente, di getto, da un monumentale affresco a uno schizzo
minuscolo in un taccuino.
Andreoli pratica anche una tecnica mista. Come un pittore
unisce l’acquarello alla tempera, così egli unisce un saggio e un
racconto. Anche nei suoi libri più “scientifici” non resiste alla
tentazione di inserirvi dei racconti. Basta prendere in mano Un secolo
di follia, praticamente una storia della psichiatria del XX° secolo, per
trovarvi una decina di veri e propri racconti che danno forma ad una
bellissima rassegna di ritratti dei matti. È importante osservare che,
così come in certi pittori, nonostante il variare delle tecniche e dei
soggetti, la pennellata è sempre la stessa e facilmente riconoscibile,
anche la scrittura di Andreoli possiede un suo carattere, un timbro
caratteristico che si stende in varie direzioni e non è riconducibile ad
un’unica “formula”. È uno “stile”, lo stile di Andreoli.
Uno dei tratti caratteristici di tale stile lo definirei, tanto per dare
un’etichetta, “la sinfonia fenomenologica”. Andreoli, non subito ma
col tempo, è diventato un fenomenologo sia come psichiatra, sia come
uomo dentro l’esistenza, sia come scrittore: “Ero diventato
l’osservatore di uomini dentro l’ambiente… (…). Mi trovai ad
appartenere a un filone di cui sapevo poco: la fenomenologia. Ero
divenuto senza saperlo un fenomenologo” (CS 220). Un
fenomenologo non sa, ma osserva. Vede un cucchiaino rotto nel
bicchiere pieno d’acqua. Non sa se il cucchiaino è rotto, ma sa che lui
lo vede così. Sospende il suo giudizio su “come è” e osserva ciò che
gli si presenta, cioè il fenomeno. Il dubbio è il tipico atteggiamento di
un fenomenologo: non sa se e in quale modo qualcosa “è”, è solo certo
di quello che vede. Non è detto che ciò che vede veramente sia o sia
solo una illusione. Perciò, ad un certo momento questo psichiatra
afferma che non sa che cosa sia la follia, ma osserva i matti, e li ama.
25
Non riesce a definire la follia, ma percepisce le sue maschere. E
facendolo si rende conto che non è solo un osservatore, ma un
partecipe, perché tra il matto e lui esiste una relazione che influisce
sulla sua visione. Tante volte nelle sue riflessioni sulla psichiatria
afferma che questa è una disciplina e una scienza del dubbio. Tale
atteggiamento non riguarda solo la psichiatria e la follia, ma
caratterizza il suo stesso modo di esistere, di percepire la realtà, e
quindi anche di scrivere.
Con la parola “sinfonia” invece evidenzio un’altra caratteristica
legata alla fenomenologia di Andreoli. Si potrebbe dire che egli sia un
osservatore vorace e impazzito. Quando è preso da qualche problema
la mente, l’occhio, i sentimenti, le parole e le descrizioni vanno in
tutte le direzioni, senza freni e senza sosta, forse fino all’esaurimento
di se stesso, ma di sicuro all’esaurimento del lettore. Andreoli tratta
ogni tema con passione tale da esserne ossessionato, o forse viceversa:
perché ne è ossessionato, il tema lo appassiona. Prendo, ad esempio, il
suo libro Capire il dolore. È una “sinfonia fenomenologica” sulla
sofferenza, che inizia in un modo che immediatamente fa emergere lo
spirito dell’autore: “Io non so se il dolore sia definibile, certo è inutile
farlo. Ogni definizione deve astrarre dal caso concreto, di un singolo,
per racchiudere il dolore di tutti o almeno i suoi connotati comuni. È
una sorta di purificazione del dolore, che può renderlo irriconoscibile,
magari rivestendolo di eleganti parole o costringendolo in formule.
Definirlo è inutile anche perché ciascuno di noi ha conosciuto il
dolore, lo ha incontrato e vi ha convissuto. Basta dunque evocarlo per
ottenere la percezione, per far scaturire il materiale vissuto da cui poi
ogni astrazione definitoria parte” (CD 9). Dopo di ciò, Andreoli
immediatamente, come impazzito, si inoltra nella terra del dolore. La
mente e la scrittura corrono in tutte le direzioni senza freni. Nel testo
passa in rassegna le epoche e i continenti, parla di uomini di diverse
età, della loro vita e di diversi mestieri, dei posti di dolore e del dolore
nelle diverse età della vita. Il pregio di un tale atteggiamento, riversato
sulla carta, sta nel fatto che il lettore, come se fosse preso per mano
26
dallo scrittore, attraversa gli spazi del dolore conosciuto e ignoto, che
vuole approfondire e da cui, consapevole o no, sfugge. È una forma di
crudele terapia della paura nei confronti del dolore. Il negativo, che si
sperimenta lungo questo percorso, è che dopo un po’ il lettore non c’è
la fa più. È troppo. Andreoli ha una resistenza nel guardare e una forza
nel descrivere, che spesso sommergono il lettore. In tutto questo c’è
una “armonia”, perciò si può parlare di “sinfonia”, ma di solito non ci
sono soluzioni, conclusioni consolanti. Il libro non è una panacea.
Nelle ultime frasi di questo testo l’autore confessa: “mai mi metterei a
scrivere un libro sulla gioia, mentre ho trovato il coraggio di farne uno
sul dolore. Sono anzi certo che se decidessi di scriverlo parlerei solo
del dolore. Come Francis Bacon, il pittore dei volti distrutti,
frammenti della mostruosità delle espressioni e persino
dell’irriconoscibilità. Il quale un giorno scrisse: ‘Ho tentato per tutta la
vita di dipingere un sorriso’” (CD 313). Ma grazie al testo di Andreoli
si può approfondire la propria consapevolezza del dolore e della
sofferenza, ma di sicuro non la si “capisce” e non se ne “esce”.
Andreoli è un fenomenologo, non un taumaturgo, per questo la sua
opera è tragica anche nello stile.
Lo stesso procedimento riguarda i temi salienti della sua opera.
Tutti sono trattati, vissuti e descritti nello stesso modo: la follia, la
morte, il sesso, il potere, il denaro, la paura. Prendendo ad esempio un
tema, Andreoli si guarda intorno, annota gli avvenimenti e osserva le
persone che vede accanto, attinge ai documenti del passato, sfrutta la
storia, prende in mano la letteratura, la cinematografia, la pittura, la
sociologia, la cronaca quotidiana. Non esclude niente, non si tira
indietro nei confronti di nulla, non conosce né tabù, né censura. Per
questo ogni tanto sconvolge, è scioccante e blasfemo. Ma va detto che
egli è un fenomenologo, non un insegnante di una qualche disciplina.
Riguardo alla sua esperienza all’interno della psichiatria scrive: “Io
non ho fondato una scuola e non ho lasciato allievi preoccupati di
raccontare da eroe la vita del loro Maestro con la speranza di trovare
un po’ di gloria riflessa. (…) C’erano i matti, quelli che potrebbero
27
fare la mia storia di psichiatra come io ho fatto la loro di malati” (CS
218). Lo stesso vale per tutti gli altri temi, e anche per Andreoli come
scrittore. Anche per questo la sua opera sfugge alle definizioni, alle
classificazioni, e di conseguenza alle classifiche.
Un altro tratto dello stile può riassumersi nella parola
“espressionismo”. Andreoli è un espressionista della scrittura, scrive
di getto. Certo, tra le sue opere ci sono libri e altri testi che hanno
richiesto una lunga preparazione, uno studio arduo e attento, e il
lettore può anche godere della sua erudizione, trovare piacere nelle
analisi specialistiche e gioire delle sintesi stupende. Ma il vigore e il
fascino di tutto ciò in fin dei conti proviene proprio da queste
“pennellate di getto” che uniscono questi collage di erudizione e di
studio.
Questo vale ancor più per i suoi romanzi e racconti. Leggendoli
si sente che l’autore scrive con una passione quasi fuori controllo, il
che poi non è vero perché in questa scrittura c’è una disciplina e
un’esperienza proprie del mestiere di scrittore. Ho l’impressione che
Andreoli sia come uno di quei pittori che di solito fissano una tela e la
coprono di colore con pennellate decise e energiche e, finito un quadro,
quasi subito passano ad un altro. Non lo vedo come uno che lima e
corregge i suoi testi all’infinito. So che alcune volte l’ha fatto, ma
generalmente il suo stile è segnato dalla velocità. Già da maturo
scrittore di romanzi confessa: “... un romanzo, lo si scrive, lo si
modifica una volta due e poi tre e se si è convinti di poterlo sempre
migliorare e rendere più efficace, ci si accorge che nelle volte
successive le correzioni che si fanno sono esattamente le stesse su cui
in precedenza si sono portati dei mutamenti. Il che significa che uno
scritto non è mai perfetto, anche perché ci sono molti modi
equipollenti di esprimersi e in qualche momento e con un certo stato
d’animo sembra meglio l’uno dell’altro” (R 54).
L’accento espressionista sottolinea ancora un’altra caratteristica:
l’esagerazione, ovvero una voluta deformazione. Generalmente questo
scrittore, nel raccontare una storia e nel descrivere una situazione o
28
una persona, non va per il sottile: esagera, usa colori forti, delinea le
sagome con linee spesse. Colpi di scena sorprendenti. Da qui proviene
un suo humor qualche volta grossolano, espressioni di rabbia che non
badano a censura o a una qualsiasi “political correctness”, anzi la
denuncia incominciando proprio dai politici; scrive ad esempio:
“Dentro la politica ci sono gli uomini peggiori e dal dopoguerra in poi
la selezione è peggiorata. Il risultato è la corruzione, la bancarotta del
bilancio dello stato. Ogni atto amministrativo dovuto è diventato un
atto venduto per ricavarne vantaggio personale o per il partito. Un
sistema di idioti che ha ucciso la morale dello Stato e ha promosso nel
cittadino dapprima la voglia di imbrogliare, poi la necessità di farlo
per sopravvivere. I politici hanno costruito la più grande
organizzazione criminale della nazione, ben più detestabile delle mafie,
non fosse altro perché lo Stato mercanteggia il buon governo; la mafia,
il profitto a qualsiasi costo. La gabella non si distingue affatto dal
pizzo: è solo più odiosa. Ho conosciuto uomini che fuori della politica
erano accettabili, ma quando vi sono entrati sono diventati detestabili.
Rubano tutti e tutti sono convinti di non aver rubato. Lo fanno in
modo così raffinato che ritengono di non aver mai toccato banconote.
(…) La mia personale considerazione pone il politico dopo la
demenza, dopo la follia, dopo il grande handicap. Il comportamento
del politico è, sul piano psicologico, l’espressione più drammatica
della perversione e della disumanità” (DS 60-62).
La scrittura di Andreoli non conosce alcun freno e varca diverse
frontiere in vari modi, è libera. Ma questi colpi di scena e
cambiamenti di clima all’interno di una narrazione possono pure
sbocciare in pagine o interi capitoli colmi di tenerezza, delicatezza e
fragilità, soprattutto quando parlano degli affetti o quando lo scrittore
si incanta di fronte alla natura. In tali casi cambia la tecnica. Alcune
pagine, che trovano il loro continuum anche in alcune sue fotografie,
sono quasi gli acquarelli delicati di un impressionista, come ad
esempio quella che descrive un airone:
29
“Quando il mattino mi sveglio, vado subito sul terrazzo a vedere
il mare, lo cerco con la stessa attesa con cui mi aspetto di rivedere
questa conca di paradiso. Esco furtivo, in silenzio, senza nemmeno il
rumore di una porta che si apre e di passi, che scivolano sulle assi del
mio palco sulla natura, per non distoglierlo dalle sue occupazioni e dai
suoi pensieri. È sempre solo. Silenzioso, procede nel velo d’acqua che
copre la baia, con una grazia che sconvolge. Immobile come una
statua del Canova, bianco con strie scure che davanti disegnano una
marsina lungo il collo infinito e poi ancora sul dorso, nella parte che
giunge alle penne della coda. (…) Uno sguardo severo, dignitoso, un
becco funzionale, ma prima di tutto bello. Il più bel becco del creato.
(…) Mi guarda e io mi sento imbarazzato. Nota i miei limiti e forse se
ne dispiace, ma non dice nulla perché il suo silenzio sa di nobiltà e di
saggezza” (RP 75).
Insomma, lo stile, come ha detto bene Bachtin, è l’uomo. E
l’opera di Andreoli è lui stesso. Basta vederlo mentre ascolta o parla,
per rendersi conto della sua personalità. La stessa personalità traspare
anche da ogni pagina della sua opera letteraria. Parlo dell’Andreoli di
carta, ma è pur sempre Andreoli.
30
Seconda parte: LE GENESI
1.
Mondo
Collocare l’opera di Andreoli in un determinato contesto sembra
essere un capitolo indispensabile. Andreoli in space and time. È una
operazione che si fa nei libri di critica. Si passano in rassegna i grandi
e piccoli eventi che hanno potuto influire sull’autore di cui si parla e si
presentano i diversi posti in cui lo scrittore si trovava e che ne hanno
modellato l’immaginario e la scrittura. Insomma, si costruisce un
orizzonte su cui con la maggiore chiarezza possibile si staglino le
caratteristiche di un artista. Nel caso di Andreoli si dovrebbe dunque
parlare della seconda guerra mondiale in Veneto e dell’evoluzione
culturale di questa regione nel dopoguerra, del “boom” economico che
al “nord italiano” ha aggiunto l’aggettivo “ricco”. Bisognerebbe
passare in rassegna i governi italiani che sono caduti e si sono
riformati, la DC e il PC, Di Pietro e Berlusconi; il cinema di Fellini, di
Antonioni e di Moretti, la pittura di Morandi e la scultura di Manzù, la
musica di Morricone ma anche dei Nomadi, senza dimenticare la
poesia di Ungaretti e il teatro di Dario Fò. Si potrebbero pure scegliere
altri fatti e nomi. Inoltre bisognerebbe entrare nel campo della
medicina e della psichiatria e parlare della loro evoluzione,
affiancando anche lo sviluppo della tecnologia con la Fiat
Cinquecento e i voli low cost, la macchina da scrivere Olivetti e gli
iPad di Apple di ultima generazione. Insomma bisognerebbe scrivere
una panoramica del Novecento e poi, attraverso la nascita della
Comunità Europea (1957), il crollo del Muro di Berlino (1989) e la
creazione dell’Unione europea (1992), passando per l’11 Settembre
2001, arrivare alla seconda decade del “terzo millennio”, ecc. Tutto
questo in qualche modo risuona, come un’eco, nei libri di Andreoli.
Ma sebbene tale operazione intellettuale possa risultare interessante,
31
rimarrebbe sempre incompleta, imperfetta e soprattutto noiosa, perché
ovvia.
Preferisco rovesciare la prospettiva e dedicarmi per un attimo ad
un gioco mentale che sa di science fiction e che risulta sempre
proficuo per abbordare qualsiasi autore. Immagino così che in un
futuro difficile da definirsi i libri di Andreoli, messi in un baule o
registrati su un file digitale, arrivino a un lettore che non sa niente
della Terra e della storia umana, ma incuriosito comincia a leggere e si
domanda: “Ma di che mondo parlano questi testi?” Lentamente, col
trascorrere della lettura, nella mente di questo lettore emerge
l’immagine della terra, i luoghi, le storie, ovviamente viste nella
prospettiva e con la sensibilità dell’autore stesso. Lentamente il lettore
arriva a crearsi in testa un filmato che progressivamente si estende
nello spazio e nel tempo, offrendogli una “imago mundi”.
All’inizio su una collina vicino a un paesino di nome Novaglie
sulle colline veronesi c’è una strana casa: “Una dimora certo
affascinante ma che non venne mai chiamata villa… Geometricamente
la casa era un cubo perfetto, e fin qui poteva esprimere l’amore per la
geometria solida che aveva antesignani illustri, e in particolare il cubo
era un simbolo oltreché una realtà concreta per stabilità, e nel caso
specifico era anche in cemento armato con muri in faccia a vista, a
mostrare proprio i ‘muscoli’, la forza di questo materiale ottenuto
mettendo insieme cemento, sabbia e ferro… La cosa veramente strana
si legava al fatto che il cubo era posto su un vertice, appoggiato in
maniera da rendere i suoi 45 gradi esatti e poiché le dimensioni del
‘cubo storto’ erano di tutto rispetto, l’impressione immediata era della
massima instabilità possibile. (…) Ma come non bastasse il cubo era
collocato sul bordo di una valle, e camminando nel salone si aveva
impressione di dirigersi verso il vuoto e di cadervi dentro. Nella parete
a valle c’era una grande vetrata che pareva in realtà priva di ogni
corporeità e dunque gettata sul vuoto. Insomma, inutile insistere, era
una casa da matti” (R 16). Si comprende come questo sia il centro, la
casa, in cui sono nati tanti scritti di Andreoli, e, anche se lo scrittore si
32
andava spostando e scriveva altrove, si capisce come questo sia
sempre rimasto il primo punto di riferimento dell’“imago mundi”,
presente nell’insieme dei suoi libri, il centro da cui parte ed a cui torna
la sua immaginazione.
Non lontano da questa casa, andando in direzione sud-est, si
trova un agglomerato di case, strade, e piazze, costruite lungo un
fiume, insomma una città da secoli chiamata Verona, che appare
spesso nelle pagine dello scrittore come ad esempio in questo
frammento: “Verona è una città stupenda e si è attratti dall’Adige che,
una volta incontrato, lo si segue come farebbe un mastino con una
cagna in calore. E così si passano i ponti e poi, senza accorgersi, si
gira in un ansa e si va alla riva opposta e lo si segue di nuovo e sembra
un altro. Di tanto in tanto si giunge in piazze fantastiche, intime e in
cortili di case patrizie e dei grandi Signori della Scala, con
l’impressione di essere stati invitati e di godere di un privilegio di un
grande lignaggio. Tutto sa di antico e di elegante. Ti senti signore,
anche se sei un morto di fame. L’Adige ti entra in testa e ascolti quel
fruscio delle acque, quel senso di vita anche se tutto è morto,
imbalsamato. I ponti sono pieni di fascino e si può andarvi sotto e
pisciare guardando in alto le ampie arcate e poi le case che si
arrampicano sulle colline fino a farsi castelli. Io sono nato a Verona e
ho l’impressione di essere appena giunto e di dovermi organizzare per
conoscere la città prima di andarmene. Non me ne sono mai
allontanato per sempre, pur avendolo detto molte volte” (RP 634).
Intorno a questo nucleo con la casa e la città di Verona,
emergono dagli scritti di Andreoli altre città e regioni, altri paesi e
continenti, in cui è stato per breve tempo o più a lungo e che rivivono
descritti nei suoi libri: Padova e Venezia, Torino e Milano, Roma e
Palermo, Veneto, Umbria, Toscana e le Dolomiti. Insomma, è un
ritratto dell’Italia. Ma poi tutto si allarga ancora: Francia, Inghilterra,
Germania, Danimarca e Russia, con le loro città come Parigi, Londra,
Copenaghen e Mosca. E ancor più: Stati Uniti con New York, Alaska e
New Mexico, Giappone con Tokyo, Costa d’Avorio con Abidjan e
33
Mali con Tirelli. Negli scritti tardivi di Andreoli si nota anche una
forte presenza della Scozia con Aberdeen, Ullapool, Durness, e
soprattutto con la baia di Inverkirkaig che, come afferma lo scrittore:
“è il teatro della mia esistenza, e io mi muovo in un frammento di
terra che osservo da un posto privilegiato, da una casa a ridosso del
mare, sulla costa di questa baia. Mi sembra di essere in prima fila
all’interno di un teatro straordinario e talora divento io stesso parte
delle scena e dunque in qualche modo attore. Con una parte limitata
perché qui l’uomo è una semplice comparsa. In questo angolo di
Scozia non esiste una civiltà dell’uomo, sono solo, in questa casa
fissata sulle rocce su cui sbatte il mare che quando si unisce a un forte
vento raggiunge una veemenza che sa di urlo e non ha nulla di gentile
e invitante” (RP 77).
Importante è vedere questo scrittore come su un precipizio e
immedesimarsi nello stesso momento con il suo pensiero, perché è
proprio così che lui vede non solo se stesso, ma ogni posto della terra
e il mondo intero: da sempre sull’orlo di un precipizio.
Operazione analoga a questa, spaziale, può eseguirsi sempre a
proposito di Andreoli, ma con riguardo alla dimensione del tempo e
della storia, che vanno dal piccolo al grande, si estendono da un
singolo attimo a un’intera vita, a tutta un’epoca, per raggiungere infine
l’eternità. Nei suoi scritti, nel diario tenuto nel 1999 e in alcuni
romanzi e racconti (soprattutto nella raccolta Racconti perduti), ci
sono riflessioni sulla situazione o il pensiero del momento: un volto,
una circostanza, un oggetto, un sentimento, una connotazione: “Mi
sono fermato al Caffè Caselli. Sulla parete di fronte a me c’è una
lapide che ricorda Giovanni Pascoli: veniva qui a conversare con il
proprietario e amico Carlo Caselli. Un cappuccino e una fetta di torta
della nonna con crema squisita. Il locale è vuoto se si eccettua una
coppia di giovani che certo desidererebbero trovarsi in un’alcova,
stando agli sguardi e al toccarsi le mani. Nessun altro. La musica
fastidiosa, segno della diffusa incapacità di sopportare il silenzio” (CS
363). Partendo solo da questo frammento si potrebbe subito parlare
34
del libro di Andreoli su Pascoli e del suo interesse per la poesia, delle
sue riflessioni sul mondo dei giovani, dei suoi testi sulla musica a
partire da Mozarterapia (2010), e sull’enigmatico intreccio tra la
parola e il tacere, tra il chiasso e il silenzio diffusamente presente nei
suoi libri. In lui quasi ogni momento si fa immediatamente storia e
subito diventa un racconto: “Sono andato a rendere visita alla vedova
Trabucchi, la moglie dello psichiatra con cui ho passato anni della mia
vita e con il quale mi sono confrontato erigendo muri insormontabili.
Nella ricostruzione della storia del manicomio di Verona, occorre
disegnare un capitolo sul suo regno” (CS 379). E parte il racconto di
Andreoli, che poi rimanda ai molti altri suoi libri in cui appare il
professor Cherubino Trabucchi, direttamente come ne I miei matti, o
sotto un nome inventato, come ad esempio il dottor Bertucco ne I
giardini della miseria, fino all’anonimo “re dei matti” ne Lo
psichiatra era matto. Qualsiasi incontro o evento fa parte della storia e
genera un racconto. Quasi ogni situazione è letta nella prospettiva del
passato grazie al ricordo. Come testimone Andreoli non riesce a
svincolarsi dal passato, o forse lo fa proprio attraverso la scrittura.
Poi abbiamo i periodi di tempo più estesi, racchiusi nella sua
scrittura. Intere biografie di persone che ha conosciuto direttamente e
attraverso gli scritti: i matti e i medici, gli artisti e i politici, persone
famose e conosciute da tutti, ma salvate dall’oblio proprio grazie a lui.
Andreoli è dunque anche uno storico, un cronista della sua epoca, e
non soltanto perché ha scritto Un secolo della follia, in cui nelle prime
pagine si legge: “Il secolo della follia che parte dal 1895 forma
tuttavia una unità dentro di me. La mia esistenza lo giustifica, la mia
pratica clinica si muove entro i suoi limiti, vi appartiene. Un secolo
stampato nella mia memoria e in quella di molti psichiatri della mia
generazione. (…) È il momento di iniziare il racconto, e di partire per
un viaggio straordinario, sia pure chiuso nel labirinto del tempo” (SF
17-18). È ben chiaro che Andreoli non si è limitato a scrivere solo di
psichiatria, ma che l’insieme dei suoi scritti offre un panorama storico
molto più ampio. Si può leggere dunque Andreoli nel contesto della
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storia del Novecento e del primo decennio del terzo millennio, ma si
può anche partire dai suoi testi proprio per avere un’idea del tempo in
cui lui ha vissuto. Imparare e ricostruire la storia moderna e
contemporanea iniziando dagli scritti di Andreoli sarebbe una impresa
intrigante ed educativa.
Non mancano panoramiche storicamente ancora più estese,
come ad esempio le considerazioni, presenti nel Requiem, in cui si
discute sulla civiltà occidentale che, secondo lo scrittore veronese,
inizia in Mesopotamia 8000 anni fa: “È qui che facciamo nascere la
civiltà, in quella zona geografica tra il Tigri e l’Eufrate, intorno 6000
a.C.” (R 82), e che ora, sempre secondo lui, sta per finire: di tale fine
lo scrittore stesso si fa testimone e portavoce. L’opera di Andreoli si
muove dunque anche all’interno di questo orizzonte millenario, e
d’altra parte lo propone.
Ma per Andreoli non finisce qui. C’è ancora un altro orizzonte,
un’altra prospettiva temporale, che si potrebbe definire “metafisica” e
che, come ogni vera metafisica, si mescola con questa “poetica”. In
tale poetica infatti la mente si sforza di raggiungere il principio
assoluto, il principio senza principio, per poi volare verso la fine oltre
ogni fine: “Nulla, nulla. Silenzio. Nulla. Il silenzio del nulla, nulla
attorno, nulla dentro. Il nulla che nasce. Dal nulla. Suoni flebili,
timorosi. Tremano come una foglia sbattuta dal vento, nel nulla. Suoni
puri. Il balbettare di un bambino che dal nulla, vede nulla. Muto l’aere,
non ancora fatto. Il nulla. Non esiste nulla. L’origine del mondo. Si
sentono solo sibili, puri, come corde d’acciaio che si tirano su un
violino. La nascita del tempo. (…) Nasce il mondo e nessuno lo sa.
(…) Suoni, silenzi sconfinati. Silenzi suoni parole non dette. Pensate.
Un violino senza corde, un silenzio infinito. Nessuno con nessuno.
Nessuno esiste da sempre, non è mai nato e nemmeno dovrà nascere.
Da sempre. Sempre. Sempre. Sempre. Il tempo non è mai nato. Muore
soltanto. Muore senza essere nato mai” (FM 163). Questo è
l’orizzonte in cui si iscrive la vicenda di Angelo Spini, il protagonista
di Fuga dal mondo, e questo è l’orizzonte in cui va letta l’intera opera
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di Andreoli che, come un ultimo accordo di una sinfonia, si collega
alla meditazione Per sempre dei Racconti perduti: “Nel nulla delle
tenebre, tra ombre inzuppate di cenere e pianto, nel ricordo lontano di
un’alba misteriosa… Nella pace di un silenzio senza memoria, di una
morte che conosce solo la morte. Anche il tempo si spegne e un attimo
si fa eterno e il desiderio immobile… Per sempre” (RP 725). La
sagoma dell’Andreoli di carta, con tutti i suoi racconti, romanzi e
saggi, si staglia su questo sfondo, emerge da questo orizzonte e lo
propone al lettore.
2. Uomo
Un’altra risorsa dell’opera di Andreoli è la sua stessa vita con le
proprie tappe. Lo scrittore continua a raccontarla da diverse
angolazioni. Si ripete, ma aggiunge sempre qualche nuovo particolare.
Come Monet dipingeva la stessa cattedrale di Rouen, ma sempre in un
modo diverso, così anche Andreoli ritorna ad alcuni momenti della sua
vita. Nella sua opera si trovano tratti autobiografici, sebbene questa
non sia un’autobiografia.
Nato a Verona nel 1940 durante la seconda guerra mondiale,
Andreoli della sua pubertà e adolescenza parla relativamente poco,
forse perché fu per lui un periodo piuttosto infelice, che gli faceva,
come afferma a distanza di tempo, “uno schifo”. Di sicuro egli non
appartiene alla schiera di quegli scrittori che considerano il loro
periodo giovanile come un paradiso del tempo perduto, una terra
felice da cui sono stati esiliati per sempre nel momento in cui hanno
varcato la soglia della maturità. Da alcune pagine dei suoi scritti si
può intuire come il rapporto con la madre non sia stato facile o felice,
fatto sì di attenzioni ma soprattutto di doveri più che di sentimenti, e
così è sempre rimasto. Ecco come lo scrittore sessantenne descrive il
37
suo incontro con lei, ormai vecchia e cieca, all’inizio del 1999 – poche
ma dense frasi nelle quali è incluso tutto un romanzo mai scritto:
“Un bacio freddo, un augurio pieno di doveri e le solite frasi che
accompagnano l’ora non tarda in cui siamo andati a dormire (…) Mi
siedo tra quei mobili della vecchia casa che sanno ancora del mio
passato. Il caffè come piace a me. L’uva bianca, la fetta di una torta
preparata con la fatica di chi ormai non vede più nulla ma difende la
propria autonomia. Quel suo bastone bianco all’ingresso, stemma
della sua vecchiaia. I capelli tenuti a crocchia come un tempo. Un
sorriso che subito si fa tristezza. Una frase che va sempre tradotta. Un
sospiro, un commento sugli anni che appaiono troppi. Il riferimento al
cimitero, ma anche ai suoi compiti legati ora all’uno ora all’altro dei
componenti della vasta famiglia. (…) Ho verso di lei un’attenzione
straordinaria poiché non tollero di farle mancare qualche cosa, un
rispetto che sa di paura, non d’amore. Non ha nulla della passione,
della necessità, del calore. Mi accompagna alla porta, si commuove,
mi esprime la sua fierezza. Forse sente che non la amo. (…). Un
incontro che si svolge con un protocollo rigido. Un ringraziamento per
il caffè, per quella torta che sa della mia fanciullezza. Poi la porta si
chiude alle mie spalle con un ripetuto saluto, un’evocazione del mio
nome, come se fosse l’ultima volta”. (CS, 11-12).
Le pagine che riguardano la madre mostrano qua e la lo stesso
clima. Lasciamo al lettore la curiosità di cercarle e di interpretarle.
Aggiungo solo che questo “epicentro materno” si allarga e spesso si fa
pesante quando Andreoli parla delle madri in generale, delle donne,
del sesso; ciò a qualcuno o qualcuna, soprattutto a chi ha una
maggiore sensibilità femminile, sarà suonato sicuramente come
offensivo o antifemminista ma, come dice lui stesso, “L’infanzia non
si cancella anche se molti episodi vengono dimenticati o addirittura
rimossi per non vergognarsi del proprio passato. Rappresenta una
parte della costruzione di un uomo e certo le basi condizionano i piani
successivi e lo stile, l’adeguatezza o la instabilità dell’intera vita. Per
questo nulla va perduto e ogni dolore lascia traccia, ogni ferita
38
continua a sanguinare anche se viene sovrapposta da altri mali e altro
dolore” (UV 76).
Tutt’altra era invece la relazione con il padre, un semplice
impresario dell’edilizia di povere origini, che con fatica si era
emancipato. Il piccolo Vittorino ha amato e adorato il padre e la sua
venerazione verso di lui ha abbracciato tutta la sua vita e visione del
mondo. Lo scrittore ormai maturo confessa: “Io non ho una religione
vera e propria, la mia religione è la religione del padre”. Per lui il
padre, anche, o soprattutto, dopo la morte, “È il mio piccolo Dio.
Colui che è nei cieli. Mi guarda e mi segue e mi aiuta. Un padre, ora
celeste” (SC 10). Questa relazione col padre è dunque molto forte e
viene letta da Andreoli con la chiave della tragicità, come del resto
quasi tutto. Forse che le origini del tragico di Andreoli siano proprio
radicate nella sua relazione con il padre?
La prima scena tragica in questo dramma si svolse quando
Vittorino, invece di prendere in mano l’azienda edilizia del padre e di
svilupparla in una fiorente impresa famigliare, scelse la via della
medicina. Il senso di tradimento e di colpa non l’ha mai abbandonato.
La seconda scena del dramma: Vittorino non arriva in tempo per
salutare il padre che muore. Si trovava a Milano, occupato, come
riferisce, con la sua carriera e, arrivato a Verona, aveva trovato suo
padre già morto. Un altro assalto del senso di colpa: “Avessi ancora
cinque minuti per stare con mio padre e dirgli quello che gli avrei
detto se avessi aspettato qualche ora ancora, almeno il tempo perché io
tornassi e potessi stargli vicino, tenergli la mano mentre se ne andava:
invece ero occupato nel mondo per il mio futuro, per il mio successo,
e sono tornato che non c’era più. Sono andato nella sala mortuaria ed
era freddo. Mi pareva che mi guardasse con un po’ di rimprovero e io
non gli ho detto il bene che gli volevo” (CD 33). Il padre, la religione,
il senso di colpa e la morte creano nella mente e nella creatività
letteraria una particolare “quaternitas tragica”, sparsa in tanti punti
della sua opera.
39
Oltre tutto ciò, il tempo dell’adolescenza e il periodo delle
scuole fu “classico”. Andreoli ha fatto il suo percorso da bravo
ragazzo, anzi da secchione: “Ero un ‘secchione’, un ‘secchione’
orrendo” (MM 5). Poco prima della maturità conobbe il manicomio e
il mondo della follia. Mediatore di questo incontro era stato lo
psichiatra veronese Cherubino Trabucchi e il luogo il già menzionato
manicomio di San Giacomo di Verona. L’impatto fu così forte che
Andreoli all’età di diciannove anni si iscrisse alla facoltà di medicina
dell’Università di Padova con il chiaro intento di diventare uno
psichiatra. Praticamente nessuna esitazione: una decisione chiara, uno
scopo preciso, un progetto realizzato. Del resto sono i tratti del suo
carattere.
Ma dovranno passare quasi quindici anni prima di avere la
possibilità di occuparsi dei malati come medico. All’inizio subisce il
fascino e la seduzione del mondo scientifico, diventando uno studioso,
uomo di laboratorio e topo di biblioteca. I posti e le tappe cruciali di
quest’avventura, oltre la già menzionata facoltà di medicina
dell’Università di Padova, sono l’Istituto di farmacologia
dell’Università di Milano; il Department of Biochemistry a Cambridge,
dove ancora si coglie una forte presenza di James Watson e Francis
Crick, padri della nuova genetica grazie alle loro scoperte sul DNA; il
Cornell Medical College di New York e poi l’Harvard University,
dove lavorò con il professor Seymour Kety, direttore degli Psychiatric
Laboratories e titolare della Cattedra di Biological Psychiatry,
considerato il fondatore della biochimica del comportamento. Alla
fine di questo percorso Andreoli si specializzerà in psichiatria e
neurologia, ottenendo la libera docenza in farmacologia e tossicologia.
Tra le tante cose da studiare Andreoli si è venuto concentrando,
fin quasi dall’inizio dei suoi studi ancora a Padova, sul cervello. Un
ruolo in questa scelta fu giocato dal suggerimento del suo professore
di filosofia Arturo Pasa, sufficiente per determinare gli interessi del
giovane studente e poi studioso. Andreoli, con tutta la sua passione e
ogni capacità, si cimentò nelle scienze del cervello e presto divenne un
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esperto in materia, facendo in questo campo le sue piccole-grandi
scoperte e aggiungendosi così grazie ad esse alla “tribù” o “casta”
degli illuminati biochimici. Da notare sono almeno tre punti. Il primo
riguarda il linguaggio. Va infatti ricordato che in questo caso abbiamo
a che fare con uno scrittore che, pur parlando di tragedia esistenziale o
di sentimenti umani, pensa anche in termini di serotonina,
cloropromazina, extraencefalo, encefalopatia letargica, fenilchetonuria,
omocistinuria, porifuria, mixedema, dopamina, noradrenalina,
prostglandine, transmetilazione, ecc. In altre parole, Andreoli possiede
nel proprio bagaglio un linguaggio scientifico molto specializzato,
particolare e affilato. Non deve usarlo, ma anche quando scrive le
pagine più liriche, la struttura del suo pensiero è intessuta, anche se
parzialmente, di linguaggio scientifico. Linguaggio che rispecchia
ovviamente una visione del mondo.
Il secondo punto riguarda l’immaginazione. Mi spiego. Molto
spesso leggendo i testi di Andreoli ho pensato: ho a che fare con un
uomo che, quando sente, pensa o scrive, possiede una particolare
visione della realtà. Quando una persona per migliaia di ore ha
studiato, cioè sperimentato, “visto”, immaginato, riflettuto sulle
cellule del cervello, del sistema nervoso, dei processi biochimici, ciò
influisce sul suo modo di pensare. Immaginare l’uomo a partire dalla
considerazione del cranio e del cervello nel senso materiale del
termine, è un fatto piuttosto particolare. Si perde l’innocenza del modo
tradizionale e scontato di dire mente, noùs, ragione, dianous, anima,
psychè, cuore, ecc. Si tocca il mistero da un’altra prospettiva. Si
immagina se stesso e gli altri in un modo particolare. Questo vale
anche per l’Andreoli di carta.
Il terzo punto è più specifico e riguarda il cervello stesso dal
punto di vista scientifico. Senza inoltrarci troppo nei meandri delle
neuroscienze si può affermare che Andreoli nella sua gioventù ha
vissuto un periodo di vera rivoluzione scientifica, un cambiamento di
paradigma riguardo al cervello. Dalla visione dei positivisti che
consideravano il cervello, e anche l’uomo e le sue cure, come un
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cristallo o una macchina che basta “aggiustare” poiché si è “rotta”, si è
passati a quella del cervello “plastico”. Andreoli, per primo, ha legato
la follia alla plasticità del cervello, ritenendo quale campo della
psichiatria l’encefalo plastico. Ecco come ricorda questa sua scoperta:
“So che l’antropologia non è la storia di uno spirito ma l’evoluzione
della carne e per questo sono stato biologo della follia Affascinato dal
cervello e del suo meccanismo d’azione. Sono entrato nei laboratori
della scienza per capire la follia. Una lotta tra determinismo della
meccanica e libertà degli spiritelli che avevo abbandonato. (…) Avevo
preso un lungo periodo di ferie nel 1983 e chiuso a Pradelle scrivevo e
pensavo, immaginavo e rifacevo, fino a quella mattina quando al rito
del caffè ho avuto l’intuizione della follia come espressione della
plasticità del cervello. Provai una gioia indescrivibile perché ora
sapevo che i dualismi erano separati, non vi era più incompatibilità tra
biologia e libertà, ma si poneva una biologia della libertà. Non più
incompatibilità tra follia e ambiente e tra follia e codice genetico, ma
la follia come l’espressione di un cervello nel suo incontro con
l’ambiente. Non era possibile più, d’ora in avanti, occuparsi di uno
soltanto dei fattori. (…) Spetta a me la teoria del legame tra psichiatria
e cervello plastico, tra plasticità e comportamento dell’uomo” (CS
219). Fu una scoperta notevole, ma di nuovo qui non si tratta di
sottolineare i suoi meriti indiscutibili all’interno della psichiatria.
Importante è piuttosto ricordare che vivere all’interno di qualsiasi
rivoluzione ha le sue conseguenze sulla vita. Ogni rivoluzione
distrugge e costruisce, in ogni rivoluzione si è perdenti e vincitori.
Ma al vertice della sua carriera scientifica e con tutte le strade
aperte per continuare questo affascinante lavoro e forse diventare
veramente famoso, Andreoli “fa la grande rinuncia”, lasciando il
mondo della scienza e dedicandosi alla cura dei matti. Così riassume
la sua odissea di scienziato:
“Appena laureato in medicina e in chirurgia, mi dedicai al
cervello totalmente. (…) Mi sono dedicato a lungo allo sviluppo di
particelle contenute dentro la cellula nervosa del ratto particolarmente
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ricche di serotonina, una sostanza che regola sia la conduzione dello
stimolo da una cellula a un’altra, sia il comportamento. Ma risalire da
quelle osservazioni minute all’agire del ratto e trarne addirittura
conclusioni sul cervello dell’uomo equivaleva a costruire una
bicicletta e poi pretendere di volare per raggiungere Marte. Insomma,
il legame tra quei miei studi e il cervello dell’uomo e tra il cervello e
uno dei possibili comportamenti umani, la violenza piuttosto che
l’attaccamento e l’amore, era del tutto fantastico, e la distanza con la
follia abissale. Rimasi sette anni nei laboratori, a Cambridge in
Inghilterra, a New York, fino a Harvard. Ero ormai uno specialista
delle particelle contenenti serotonina e quando il direttore, Seymour
Kety, mi propose di restare in quei laboratori per la vita, offrendomi il
posto all’università, fuggii. Dissi di no…” (CS 21-22).
Nel periodo qui trattato, cioè gli anni 1959-1972, dedicati
all’educazione e alla ricerca, ossia alla carriera scientifica, accaddero
anche alcuni fatti che bisogna almeno menzionare per avere un quadro
più completo del nostro autore. Il primo avvenimento ebbe luogo nel
1961. Andreoli, giovane studente di medicina, si recò, con le opere
artistiche di alcuni matti del manicomio di Verona, a Parigi dove riuscì
ad incontrare e a convincere delle sue idee personaggi come Jean
Dubuffet e André Breton. Un ragazzo di Verona entrava nel grande
mondo. Il secondo avvenimento accadde nel 1966, anno in cui
Andreoli aveva finito di scrivere il suo primo romanzo I giardini della
miseria – il testo rimarrà chiuso “sub secretum” in un cassetto per
oltre vent’anni, ma la maledizione della pagina bianca era stata sfatata
e il desiderio di riempire le pagine con le proprie storie, la voglia di
raccontarle e di creare la sua visione del mondo, forse anche per
esorcizzare i proprio demoni, aveva sedotto lo studioso. È un inizio
nascosto e discreto, che però col tempo si farà sempre più dominante
nella sua vita.
Altri due avvenimenti di questo periodo riguardano la sua vita
privata e famigliare. Nel 1968 Andreoli si sposa con Laura Migliarese
creando una famiglia che presto verrà arricchita con la nascita di tre
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figlie: Chiara, Silvia e Valentina. Anche questi avvenimenti famigliari
e personali contribuiscono a influenzare la sua decisione di tornare in
Italia, a Verona, per iniziare una nuova tappa della sua vita. Insomma,
all’età di trentadue anni, Andreoli, come dice lui stesso, si era
“ricoverato” al manicomio, cioè aveva appeso il camice dello
scienziato e indossato quello del medico, professione che durerà ben
ventisette anni. Non sto qui a raccontare tutto ciò che è successo in
tutti questi anni, perché l’ha fatto già lui stesso nei suoi scritti. Non
andrò neanche a presentare le sue tesi che riguardano la psichiatria.
Limitandomi all’essenziale, dirò che da medico psichiatra Andreoli
lavorò prima nel manicomio di San Giacomo e, quando questo venne
chiuso, si trasferì a Marzana e poi all’ospedale di Soave. Questa
sarebbe la geografia. Ma in questo arco di tempo si è svolta una storia
piuttosto tragica, o almeno come tale è stata vissuta e considerata da
Andreoli. Un’intera biblioteca scritta a tale proposito non sarebbe in
grado di raccontare questa storia in modo adeguato. In parole povere
Andreoli visse in quel periodo di nuovo una rivoluzione, o piuttosto
più rivoluzioni, perché se una riguardava la riforma ospedaliera e
sociale della psichiatria, la seconda toccava la sua autoconsapevolezza
del suo essere egli stesso uno psichiatra.
Il 3 maggio del 1978 venne introdotta in Italia la cosiddetta
legge Basaglia, in base alla quale in un relativamente breve arco di
tempo vennero chiusi tutti i manicomi. Andreoli, pur comprendendo
bene le istanze di Basaglia, non ne fu entusiasta, ma si adattò cercando
di agire e di continuare a curare i pazienti in mezzo a tali cambiamenti
per circa vent’anni. Era convinto che il vecchio modello, quello di un
“classico e tradizionale manicomio” non poteva continuare, ma anche
che la “legge Basaglia” non fosse la soluzione migliore. Perciò aveva
proposto la “terza via della psichiatria”, che spiega così nel suo libro,
appunto La terza via della psichiatria:
“La psichiatria uscita dalle istituzioni e dalla stretta cerchia degli
psichiatri è diventata un fatto culturale. La follia è stata rielaborata in
interpretazioni nuove rispetto al filone tradizionale che ne faceva un
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ramo, anche se anomalo, della biologia. All’appropriazione della follia
da parte degli esperti, espressa nel riduzionismo a lesioni celebrali
(psichiatria biologica), è seguita la sua incorporazione nella dinamica
sociale diventando psichiatria sociale: le due grandi vie storiche di
interpretazione della follia. Due vie che si combattono e che, pur
diverse, si fondano entrambe su uno schema riduzionistico e dualistico,
che vede il periodico rimando da una all’altra. (…) Esiste una via
diversa? Ecco La terza via della psichiatria o meglio un’altra via, fra
le tante possibili. Una terza via che si propone come superamento dei
dualismi e come necessità di instaurare l’unità del sistema encefalostoria, premessa allo studio e alla comprensione del comportamento.
(…) Una via, dunque, che prevede uno sforzo di integrazione di
sistemi biologici e sociali per una lettura nuova del fenomeno umano e
dei suoi comportamenti. (…) Questa visione apre prospettive per una
nuova definizione della follia e soprattutto per una nuova lettura
(semeiologia) e trattamento. Un lavoro che si apre in questo volume e
che potrebbe trovare fruttuoso sviluppo. Una via, dunque, aperta, ma
ancora tutta da percorrere” (UF 37-38). Lascio questa parte senza
commento, aggiungendo soltanto che le opere scientifiche, saggistiche
e di narrativa di Andreoli sono piene di osservazioni e racconti pro o
contro i vecchi e nuovi sistemi di cura psichiatrica.
Il secondo elemento di questo periodo riguarda Andreoli stesso e
si riassume nella parola “dubbio”. Ci sarebbe un bel po’ da indagare
per scoprire e descrivere cosa e perché. Ma per farla breve basta dire
che ad un certo punto, dopo circa 25 anni di lavoro nei manicomi, in
Andreoli sono sorti dei dubbi che riguardavano egli stesso all’interno
della psichiatria. Si è consumato il combustibile del suo entusiasmo?
La stanchezza ha preso il sopravvento? Un’altra tappa della sua vita
era finita e doveva iniziarne un’altra? Era un eccesso di lucidità o una
mancanza? Ecco una delle sue meditazioni scritte in quel periodo:
“Un tempo sapevo definire il folle, curarlo anche quando gli
strumenti dell’intervento erano ancora più ridotti. Ora non ho più la
voglia di farlo, mi pare di non esserne più capace. E sono uno degli
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psichiatri più famosi, subissato da richieste d’aiuto che provengono
dalle città della disperazione, dalla voglia di uscire da un male
tremendo, per cui si tenta di tutto e si riesce a inventare persino la
celebrità. Temo di non saperlo più fare, poiché non so nemmeno che
cosa sia giusto fare e come. Nel dubbio si può amare un matto, ma non
curarlo con quel senso di sicurezza di cui il guaritore ha bisogno. Non
me lo metto più il camice. Mi è diventato d’un tratto stretto, corto, e
mi sembrava ridicolo. Io stesso un pagliaccio bianco. Vado da loro
vestito normalmente, non saprei fare altro, mi fermo a parlare, talora
senza una parola: toccandoli. (…) Voglio che i miei collaboratori
indossino il camice e curino, ma li spingo a lasciarsi guidare dal
dubbio e a fuggire ogni verità, ogni sistema che accampi certezza: la
psichiatria è la scienza del dubbio e credere di possedere la verità e di
essere psichiatri onnipotenti significa tormentare il matto, rovinarlo,
manipolarlo. Voglio che curino dentro il dubbio, che anzi il dubbio
rappresenti il tentativo della cura” (CS, p. 15-17).
Alcune settimane dopo aver scritto queste parole lo psichiatra
veronese ha dato le sue dimissioni ed è andato, prima del necessario e
al culmine della sua carriera, in pensione. Era il 1999, l’ultimo anno
del secolo, del millennio, l’anno della fine del mondo, almeno di un
certo mondo per il nostro psichiatra.
Per ventisette anni Andreoli ha lavorato, ha servito la società –
un aspetto importante per il suo modo di stare nel mondo, per colmare
dentro di sé la sete di responsabilità e per giustificare la sua esistenza.
In questo lungo periodo ha visto e vissuto il tremendo e il fascinoso
della follia, ha partecipato attivamente al cambiamento del paradigma
della cura psichiatrica e dell’intero sistema psichiatrico, in alcuni
ambienti è diventato famoso. Oltre ad essere medico e direttore di
ospedali, è diventato un’autorità pubblica, autore di saggi di successo,
una celebrità dei giornali e un volto frequentemente presente nella TV.
Ma un bel giorno lo psichiatra si è reso conto che anche questa
tappa della sua vita era finita. Azzardo qualche spiegazione in
proposito. La prima la chiamo “sovrabbondanza” di tutto questo: di
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matti, di medici, di teorie, di problemi, di notorietà, di lavoro; non ne
poteva più. Andreoli, come una calamita, ha attirato nella sua vita tanti
fattori, elementi e persone che prendevano su di lui il sopravvento:
“La mia testa è un manicomio, sempre. Anche quando non vado in
ospedale porto con me i casi speciali, i casi estremi” (CS, p. 15).
Troppa pressione che doveva trovare uno sbocco. Il primo passo era
uscire fisicamente da questo girone, e così ha dato le sue dimissioni.
La seconda spiegazione la definisco “potere”. È un tratto del carattere
di questo uomo. Quando sente di essere arrivato ad avere troppo
potere – che può avere diversi nomi, modi e forme, ma che alla fine
dei conti è sempre un potere –, Andreoli semplicemente fugge. La
terza spiegazione ha nome “scrittura”. Uno dei modi che Andreoli
aveva a disposizione per scaricare tutta la pressione accumulatasi in
lui in tutti questi anni era proprio lo scrivere. Ritengo che una delle
dimensioni del suo scrivere sia infatti il tratto auto-terapeutico. È una
cosa ben conosciuta e spesso praticata: scrivere per guarire.
Prendo l’esempio di un’altra persona. Wanda Półtawska, famosa
per il suo epistolario “intimo” con papa Wojtyła. Dopo gli anni passati
nel campo di concentramento a Ravenbrück non riusciva più a
dormire. I demoni del passato la facevano impazzire. Un giorno un
medico le consigliò semplicemente di descrivere tutto ciò che aveva
vissuto e visto. La Półtawska, come impazzita, quasi in trance, si era
dunque seduta e aveva incominciato a scrivere. Riempiva una dopo
l’altra pagine e pagine, senza sosta. Soltanto quando giunse alla fine,
quando riuscì a “sputare” sulla carta tutto, esaurita, poggiò la testa sul
tavolo di lavoro e per la prima volta si addormentò. Il suo libro si
chiama E ho paura dei miei sogni (Edizioni del Orso, 2010). Colgo in
Andreoli un simile atteggiamento, che infatti si collega al suo
desiderio di scrivere che l’ha accompagnato per tutta la vita. Credo
che la scrittura sia la sua Itaca, la terra in cui placare i suoi demoni per
continuare a vivere:
“Scrivere è il mio desiderio più forte e insistente, ma è faticoso
farlo. Talora mi piace pensarmi come un masochista che in questo
47
modo si infligge punizioni alla ricerca di un piacere che però non
riesce a cogliere. Un uomo affascinato da un compito a cui si accinge,
con la voglia di lasciare di sé qualche pagina che esprima il suo modo
si sentire, quella sensibilità talora estrema che lo dispone a capire il
dolore, a condividerlo. Una voglia di stampare pensieri che possono
suonare utili e certo anche belli a chi li legga oggi e domani.
Una voglia che difficilmente si riesce a razionalizzare e a
giustificare, una follia così necessaria che si rinuncia a qualsiasi cosa
pur di raggiungerla. Una ragione di vita, il senso possibile alla mia
esistenza. Non è una scelta, dunque, ma un imperativo che si è ormai
radicato e che nessuno riuscirà ad estirpare. Un Super-Io tremendo che
si impone, avaro di soddisfazioni.
Mi sono dedicato alla scrittura ogni volta che i miei compiti
professionali me lo permettevano. Ritagli di tempo che venivano
pianificati utilizzando i giorni di vacanza, ma anche quelle pause che
mi davano la possibilità di chiudermi qui in campagna, di bloccare
quel cancello e mutare atmosfera del mondo. Il mio nuovo mondo di
cui le parole scritte costituivano i mattoni. Talora mi sembrava si
alzasse un muro storto, talora una bella forma ma inutile e senza
significato.
Qui portavo le idee che a volte mi giungevano nella mente
correndo in automobile o durante una silenziosa seduta in cui cercavo
di scoprire le radici della follia o della violenza. Una sorta di luogo
arcano e misterioso, capace di magie, di alchimie che avrebbero fatto
clamore, trasformando un pezzo di carta e una matita in un libro
stampato che la gente avrebbe letto in treno o la sera a casa insieme ai
personaggi nati in questa stanza del mistero.
Da tempo pensavo al giorno in cui avrei potuto dedicarmi
totalmente allo scrivere, agli esperimenti nel mescolare le parole e
trovare nel caleidoscopio una frase celebre, un periodare cadenzato.
Insomma, passare dai frammenti del tempo e della corsa per non
perderne, a un tempo pieno dove poter giocare senza paura di un
attimo fuggevole a cui si aggrappa la speranza” (CS 13-14).
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All’età di sessant’anni dunque Andreoli si dedica totalmente alla
scrittura. Anche se la legge dell’inerzia continua ancora riguardo ad
alcuni dei suoi vecchi modi di essere e agire. Ogni tanto riprende le
vecchie maschere e si presta al gioco. Partecipa ancora ai convegni
scientifici di diversi enti di cui è membro e pubblica articoli su riviste
più o meno specializzate. Non rifiuta di fare il perito presso i tribunali
e nei processi in cui è richiesta la diagnosi di uno psichiatra riguardo
all’accusato. In certi periodi appare in TV e scrive sui giornali. Ogni
tanto esercita la professione di psichiatra, ma non ha mai aperto uno
studio privato, fermamente convinto che il servizio medico debba
essere pubblico e gestito dallo Stato. La sua attività di psichiatra
diventa dunque occasionale e ridotta al minimo. Nonostante ciò tutti
lo sentono e lo considerano esclusivamente e principalmente uno
psichiatra. È targato. L’etichetta di “psichiatra” va bene per alcuni suoi
libri e per le apparizioni pubbliche, ma non sempre per la sua
creatività letteraria e per il profilo di “pensatore” che lentamente
emerge dalla sua vita e dai suoi scritti. Tante volte, parlando di lui e
dei suoi romanzi, ho colto nella voce e nello sguardo del mio
interlocutore ignoranza, sorpresa e ironia: “Andreoli scrive dei
romanzi?!” E quando rispondevo: “Se mettete su un scaffale tutti i
suoi saggi e su un altro tutte le sue opere letterarie, cioè i romanzi, i
racconti, le poesie, il teatro, ambedue gli scaffali saranno riempiti più
o meno dalla stessa quantità di libri”, sentivo subito la risposta: “Devo
fare un giro in libreria”. Solo con pochi riuscivo ad aggiungere:
“Bisogna leggere la sua narrativa insieme alla saggistica per capirlo
veramente. Questi due generi letterari si completano e commentano a
vicenda e nell’insieme creano un’unica opera”.
Per quasi dieci anni Andreoli stesso, insieme al suo editore,
Rizzoli, si è impegnato a creare questa visione d’insieme. Di fatto è
riuscito, nel bene o nel male di questa operazione, a raccogliere e
riunire praticamente tutti i suoi “scritti maggiori” in una “collana” che
possiede una forma grafica ben riconoscibile e che comincia a
comparire nelle librerie e su internet. È stato un lavoro importante e
49
immenso sia per lo scrittore, che all’occasione ha rivisto i suoi testi
scritti tanti anni prima, sia per l’editore, che deve avere avuto un certo
coraggio e un progetto ben preciso. Andreoli ha scritto sempre molto e
con una certa facilità, ma negli ultimi undici anni abbiamo a che fare
con una vera esplosione che il lettore quasi non riesce a seguire,
perché questo scrittore sforna almeno tre, quattro libri ogni anno.
Meditando sul percorso della sua vita sono riuscito ad cogliere
una caratteristica che mi pare importante: la “fuga”. Del resto è questo
uno dei temi salienti dei suoi romanzi, tra cui uno dei più significativi
si intitola proprio Fuga dal mondo. Un ragazzo, invece di seguire la
tradizione di famiglia e l’azienda creata dal suo adorato padre, rompe
con questa tradizione e sceglie la medicina. Si tratta proprio di una
fuga. Arrivato all’apice della sua carriera scientifica, il giovane,
apprezzato e promettente “professore” che ha preso famigliarità e si è
appassionato alla ricerca nei laboratori e alla vita accademica,
abbandona la carriera in modo brusco e radicale, scegliendo una vita
“sporca” e faticosa all’interno delle strutture statali di cura mentale.
Diventato uno dei più famosi psichiatri d’Italia, senza neanche
aspettare di raggiungere il numero necessario di anni di lavoro per
ricevere una pensione più sostanziosa, improvvisamente si ritira dal
lavoro e continua la propria vita come scrittore, relativamente famoso,
letto e apprezzato. E c’è da aspettarsi – se per esempio ricevesse un
importante premio per la letteratura – che lo stesso Andreoli smetta
non solo di pubblicare, ma anche di scrivere, lasciando semplicemente
tutto dietro le spalle, come il professore del suo romanzo filosofico
Requiem, che, dopo aver organizzato in casa l’intero “symposion”
sulla fine della civiltà, decide di abbandonare la propria abitazione e di
fuggire prima dell’arrivo degli invitati:
“Aveva pensato a quelli che arrivavano, ma non a se stesso che
partiva. Era a lui stesso misterioso il dove si sarebbe recato, come se
non valesse la pena di prevederlo e di programmarlo, tanto gli doveva
apparire inutile. (…) Se avesse dovuto usare un verbo adatto, non
avrebbe certo scelto ‘andare’, ma ‘sparire’. (…) Lui non aveva
50
preparato borse o valigie, non aveva neppure pensato di portare fuori
del cancello l’auto. E se ne sarebbe andato a piedi guardando così
allontanarsi la sua casa lentamente, passo passo, senza fretta, come se
a muoversi fosse il destino che non ha mai dubbi, anche se tutti lo
ignorano o almeno non conoscono il proprio” (R 80).
In ogni caso la dinamica della fuga è una delle caratteristiche, e
forse uno dei principali motori, della sua creatività letteraria. Lo
scrivere può essere visto non solo come creatività e conquista, ma
anche come liberazione e fuga. Si scrive anche per liberarsi da qualche
problema, per fare i conti con una questione, per andare oltre, e così
un giorno forse si va anche al di là dello scritto.
Si può però avere un’idea sbagliata del suo percorso, se si
considerano le diverse tappe della vita di Andreoli come
compartimenti completamente stagni che si succedono l’uno dopo
l’altro in una processione lineare e cronologica. Come se l’Andreoli
psichiatra non avesse niente a che fare con l’Andreoli scienziato, o lo
scrittore non fosse anche lo psichiatra. Questo non è vero, anzi è
fuorviante. Questo uomo anche come scienziato è letterato e pur
praticando come medico non ha rotto i legami con il mondo della
scienza. Preferisco dunque pensare a dei binari paralleli su cui
Andreoli continua il viaggio della propria vita spostandosi da un treno
a un altro. Ancora meglio, mi piace pensare ad un artista che lungo la
strada impara diverse arti e tecniche. Ogni tanto passa dalla scultura
alla pittura, e poi ancora all’architettura e alla musica ed usa
mescolare tutte insieme opere ed esecuzioni. D’altra parte, pur
cambiando il materiale, il modo di esprimersi, e perfezionando le
tecniche, in ogni opera si riconosce la mano, la mente, l’orecchio e il
tocco dell’artista. Insomma, Andreoli mi si presenta in modo
polifonico, come una persona dai diversi volti o maschere. Credo che
Andreoli stesso sarebbe in grado di scrivere diverse sue autobiografie,
ma essendone consapevole forse non ne scriverà nessuna, e dietro tale
decisione non sta solo la consapevolezza che ogni autobiografia è
falsa oppure la voglia di non rivelarsi. Certo, si potrebbe anche dire
51
che tutta la sua opera è una grande autobiografia, e spesso scrivendo
queste pagine rimanevo preso da tale idea, ma solo fino a un certo
punto. Di Andreoli si potrebbero scrivere diverse biografie e
probabilmente così sarà in futuro. È superfluo aggiungere che tutto ciò
che qui scrivo è solo uno degli sguardi possibili.
3.
Carlofania
Nel percorso biografico di Andreoli scelgo ora un aspetto, o
piuttosto una persona: Carlo Zinelli. Va tuttavia sottolineato che la
scelta di un punto non vuol dire ridurre tutto ad esso. Indicare una
delle risorse non spiega il tutto. Il mistero non può essere ridotto a una
sua origine.
Nella primavera del 1959 il diciannovenne Vittorino entra per la
prima volta nel manicomio di San Giacomo di Tomba a Verona e
questa visita cambia il suo modo di percepire la realtà e la propria vita.
Per sempre. In questo incontro c’è qualcosa di sacro, e come ogni
evento sacro è segnato dalla tensione tra mysterium tremendum e
mysterium fascinosum; tensione che si concretizza e concentra nella
figura di Carlo Zinelli, un pittore matto. Quarant’anni dopo questo
incontro Andreoli scriverà: “Ogni matto si lega ad uno psichiatra,
Adolf Wolfi a Morghentaler, Aloyse a Forel, Carlo Zinelli ad Andreoli
e nasce una storia di coppia: una sorta di folie à deux. (…) Abbiamo
costituito una coppia speciale, perché da Carlo ho imparato molte cose:
non solo che un matto è un uomo, ma anche che un matto può arrivare
alle vette dell’espressione artistica” (CG XV).
Basta passare in rassegna gli scritti di Andreoli da questo punto
di vista per esserne profondamente impressionati. La prima
pubblicazione scientifica in assoluto dello psichiatra veronese (in
collaborazione con A. Pensa) è l’articolo “Arte e Psicopatologia:
l’Atelier di Verona”, stampato in Rassegna Medica e Culturale, 39
52
(1962), pp. 23-33. Poi seguono decine di altri articoli, scritti e
pubblicati nell’arco di decenni, che neanche mi sforzo di citare,
parzialmente rielaborati e raccolti ne Il linguaggio grafico della follia
(Bur 2009). Come è stato già ,detto nel 1966 Andreoli conclude la
stesura del suo primo (anche in questo caso bisogna ripetere “in
assoluto”) romanzo I giardini della miseria, che non è altro che il
romanzo su Carlo Zinelli. Il testo sarà pubblicato soltanto ventidue
anni dopo (1988), e dopo altri vent’anni Andreoli stesso, nella raccolta
di saggi Il matto di carta. La follia nella letteratura (2008), scriverà
una sua analisi di questo romanzo. Sfogliando la raccolta dei testi per
il teatro Un posto in platea. Trame teatrali (2005), si trova “Atto unico
con due scene”, intitolato Carlo, el mato, testo scritto in dialetto
veronese in cui viene pure riportato il modo, del tutto particolare, di
parlare di Carlo: “Eh cari, lè stipoli, cópoli, cavàpoli sti tirampoli di
merigo, merigoni, merigati. Tutti gatti che i core varda come i core. I
core casso i va, dove ’ndasio puoareti, e dopo i magna. Magna caro se
non te magni no te arfi e te amani, amina, manetta, manoerona, la
siora la cima e lue l dise cara iè i todeschi e i sbara, pum, tira fora le
caramele e dai e dai, su bela, su cara, femoghene na montagna” (PP
689), e così via. In I miei matti (2004) si trova un lungo ricordo di
Andreoli su Carlo Zinelli. Aggiungo che durante le conferenze e i
dibattiti, a cui ho partecipato, la figura e l’esempio di Carlo
ritornavano spesso.
Carlo Zinelli nasce nel 1916 a San Giovanni Lupatoto in una
famiglia misera da tanti punti di vista. Nel 1939, arruolato nel
battaglione Trento degli Alpini, parte per la guerra civile di Spagna,
dove esplode la sua crisi schizofrenica che gradualmente lo porterà ad
un ricovero permanente nel manicomio di Verona. Carlo sprofonda
nella follia, nell’inferno del manicomio, nel distacco dalla realtà con
cui però inizia ad riallacciare un fine contatto attraverso i graffiti fatti
con pezzi di mattone sui muri. La cosa è più complessa ma, per farla
breve, diciamo che periodicamente nel manicomio di San Giacomo
era stato ricoverato, per alcolismo, anche uno scultore scozzese,
53
Michael Noble. È lui a notare questa attività “artistica” di uno dei
matti, e con l’aiuto della ricca moglie, Ida Borletti, facilita la
creazione di un atelier all’interno del manicomio dove il quarantenne
Carlo inizia regolarmente a dipingere i suoi quadri. È l’anno 1956. Tre
anni più tardi nell’atelier del manicomio arriva Andreoli che
letteralmente ne rimane come fulminato. Carlo per circa dodici anni
continua a dipingere, creando nell’insieme circa 2000 quadri. Andreoli
lo accompagna e lo osserva in questa attività. Carlo sarà per il giovane
Vittorino un accesso al mondo della follia, ma anche una via d’uscita
da questo funesto girone. Il giovane adepto alla psichiatria inizia a
“studiare” Carlo, facendolo conoscere non solo oltre le mura del
manicomio, ma anche nel vasto mondo delle più famose aste e gallerie
d’arte. Giustamente può scrivere ad un certo momento: “Carlo Zinelli
è ora un pittore, io l’ho conosciuto che era soltanto un matto” (CG
XV). Il matto-pittore, grazie a questo sensibile giovane psichiatra, è
diventato un pittore-matto. Invece Andreoli, grazie a Carlo, non solo è
entrato nel mondo della follia da una porta del tutto particolare, ma
anche grazie a questo lavoro si è aperto la strada oltre lo stretto mondo
veronese e italiano, conoscendo grandi personaggi dell’epoca e
diventando, tra altro, presidente della Session on Psycophatology of
Expression della World Psichiatric Association. Si potrebbe dire: un
incontro provvidenziale, un nodo karmico. Ma qui ci interessa non
tanto Carlo, di cui Andreoli ci ha lasciato vari ritratti, testimonianze,
studi stupendi e importanti. Non ci interessa neanche Andreoli stesso,
ma la sua opera letteraria e una delle sue più forti e più significative
ispirazioni. Tracce di tale ispirazione le troviamo sparse nei suoi scritti.
Questa ispirazione è un insieme di fattori: la personalità di Carlo, che
per Andreoli è un’icona, il suo modo di lavorare e di rapportarsi al
mondo, che diventa per lo psichiatra un paradigma dello stare nel
mondo; per cui l’opera del pittore-matto sarà da questo psichiatra
ammirata e studiata. Il rapporto tra i due si prolungherà oltre la morte
di Zinelli avvenuta nel 1974. Prendendo un’espressione di Konrad
Lorenz, direi che Andreoli nei confronti di Carlo ha subito un
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particolare “imprinting” che l’ha segnato per sempre sia come uomo,
che come psichiatra e artista.
Il primo fondamentale aspetto di questo “imprinting” è il fascino.
Andreoli dice: “Non voglio essere ricordato come chi ha scoperto
Carlo o ha curato Carlo, ma semplicemente come chi lo ha incontrato
e ne ha sentito un’attrazione: è diventato un bisogno” (CG XXXV).
Usando il linguaggio teologico o filosofico oserei parlare di
rivelazione, illuminazione, “antropofania”, o forse “Carlo-fania”.
Un’esperienza di tale tipo è ultra-verbale, cioè inesprimibile, perciò
non può essere inclusa in un discorso, ma da essa dipendono tutti i
discorsi. In Carlo c’era qualcosa di affascinante e di attraente: era un
matto ma pienamente realizzato, e che per giunta creava opere
artistiche meravigliose. Ma anche nello stesso Andreoli c’era qualcosa
che gli ha fatto percepire questo fascino: “Mi sono dedicato alle sue
opere con l’entusiasmo (…) perché sentivo che là dentro c’era un po’
di mistero, un grande significato e soprattutto la vita completa di un
uomo” (CG XXXV). Ecco tutto Andreoli: il tragico del manicomio e
la bellezza dell’arte, la follia e la pienezza della vita, e lo psichiatrascrittore che ne costruisce un ritratto iconico in cui è inclusa la sua
visione del mondo e dell’uomo:
“Andavamo a spasso assieme, lo portavo a casa mia e in giro per
la città: il matto e lo psichiatra. Aveva un look che lo definiva matto
senza analisi clinica. Con quel suo berretto che teneva anche la notte,
quella giacca piena di oggetti dentro le tasche. In una teneva degli
uccelli trovati morti nel parco e degli insetti. Con quell’aria trasognata,
fuori del mondo. Un’assenza che ti permette la serenità e che puoi
perdere se sai come funziona il mondo, la sua cattiveria, la sua
stupidità” (CG XXX).
Ci sono altri aspetti della vita e dell’atteggiamento di Carlo
Zinelli, descritti da Andreoli che, se letti oggi sulla base della
conoscenza del nostro psichiatra, sembrano quasi un inconsapevole e
idealizzato autoritratto dello scrittore. Quando leggo in uno scritto di
Andreoli che Carlo Zinelli, ancora prima di impazzire, “non odiava gli
55
uomini, ma amava di più la natura e la solitudine”, mi dico: questa
frase potrebbe essere stata scritta a proposito dello scrittore da parte di
qualcuno che lo ha conosciuto o ha letto bene le sue opere. Andreoli,
che si presenta in TV e interagisce con il pubblico durante le
conferenze, in fondo è una persona riservata e sa ben praticare l’arte
della fuga. Basti pensare alle sue lunghe assenze estive in Scozia,
dove “c’è nessuno” e dove lui stesso rimane sconosciuto agli altri.
Basti prendere in mano qualche suo racconto dove lo scrittore si
espande descrivendo la natura, il cielo, le pietre, la solitudine. Non
dico che tutto ciò sia stato preso da Carlo, che di vita nei grandi spazi
della natura ne sapeva ben poco, ma intravedo un profondo legame tra
Carlo e Vittorino che ha influenzato l’intera loro vita.
Ancora un testo su Carlo: “ha dedicato quindici anni della sua
vita a dipingere: otto ore al giorno, da quando arrivava all’atelier fino
al momento in cui era accompagnato nel suo reparto. Dipingere era
per lui vivere, e questo vale più di un giudizio artistico o di un prezzo
economico per le sue opere. Un vero artigiano. Aveva bisogno solo di
carta e di colore e così riempiva il foglio delle sue immagini… Non si
stancava mai, era il suo lavoro, il suo desiderio, il suo destino. Solo
talvolta si interrompeva per bere qualche cosa, per fumare una
sigaretta, per lanciare una delle sue prediche incomprensibili ma piene
di significato. E così viveva, così consumava la sua vita in un modo
che sembrava sereno e forse felice, poiché non accettava compromessi
e seguiva la volontà anche se non era certo programmata al successo,
ma solo al consumo del tempo che scorreva inconsapevole” (CG
XXX). Pagine degne di Giorgio Vasari. Un’immagine eroica, un’icona.
Carlo è un artista totalmente perso nella sua creatività, come un dio, e
in questa opera è sereno e felice.
Ignoro il modo tecnico e pratico in cui Andreoli scrive i suoi
libri, sono segreti del mestiere che bisogna lasciare in pace, ma se si
prende in considerazione solo la mole della sua produzione letteraria,
si arriva semplicemente alla costatazione che Andreoli lavora come…
un matto, perso nel suo scrivere. Forse anche in questo imita il suo
56
“maestro Carlo”. Si possono notare sicuramente le differenze: mattodottore, schizofrenico-psichiatra, pittore-scrittore, quindici-cinquanta
anni di creatività, ecc., ma forse in ultima analisi contano poco.
Andreoli lavora come Carlo, o almeno è questo per lui l’ideale.
Trovo in tutte queste descrizioni anche una nota di ammirazione
che si fa gelosia. Andreoli si è dedicato al suo lavoro, ma non si è
perso in esso come un matto. Ricordo che, quando una volta mi dette
le 70 pagine della sua bibliografia medico-scentifica con 633 titoli dei
suoi scritti, mi disse con un leggero sorriso: “Ecco un’altra
testimonianza della mia follia”, ma io sapevo che questa era una delle
sue fughe, dovute a una certa ossessiva e ovvia passione per lo
scrivere; queste note bibliografiche indicano anche la fatica, il lavoro
duro e consapevole. Andreoli vorrebbe essere libero, sereno e
distaccato nel suo lavoro letterario come lo era Carlo nella sua pittura,
ma semplicemente non è matto a tal punto. Forse avrebbe voluto
esserlo, ma di fatto non lo è stato. E non è così distaccato dal desiderio
di notorietà e dal voler essere veramente compreso come artista. Una
tale libertà, un tale perdersi nella sua creatività non gli è accessibile.
Lo considera come un ideale, raggiunto solo dal matto-pittore Carlo,
ma inaccessibile a lui, uno psichiatra-scrittore.
4.
Dentro una tradizione
Non mi azzardo a indagare sulle cosiddette “fonti” o “ispirazioni”
letterarie di Andreoli, anche se è sempre intrigante cercare di scoprire
perché qualcuno scrive. Quando ha iniziato a scrivere? Quali scrittori
hanno avuto un maggiore influsso su di lui? Ha avuto qualche maestro?
L’Andreoli di carta non risponde a tali domande in modo
soddisfacente. Bisognerebbe chiederlo all’Andreoli di carne, e forse
un giorno egli stesso lo rivelerà per soddisfare la curiosità dei suoi
lettori o per completare qualche aspetto dell’autoritratto che emerge
57
dai suoi scritti. Nella sua famiglia ci fossero degli scrittori e non penso
che in casa sua ci fosse una buona biblioteca. Ma di sicuro già da
giovane egli scriveva, e lo faceva spontaneamente. Abbiamo allora a
che fare con uno “scrittore nato”, che non ha mai potuto fare a meno
di scrivere, e in seguito, seguendo e coltivando questa aspirazione, è
diventato uno scrittore sempre più consapevole. Non credo che in
questo suo percorso abbia avuto qualche maestro o che si sia
sottomesso ai suggerimenti dei suoi editori. Ha fatto tutto di testa sua,
e forse oggi, guardando in dietro alla “biblioteca” che ha realizzato,
egli stesso si meraviglia chiedendosi ogni tanto: “come mai?”.
Il suo giovanile desiderio di scrivere ha incontrato, durante il
periodo dei suoi studi e del suo lavoro professionale di psichiatra, vari
ostacoli, che ha però trasformato in spinte. Erano di due tipi: uno
molto banale, il tempo. Andreoli fino a sessant’anni ha scritto solo nel
tempo libero, cioè era scrittore “part time”; il secondo ostacolo è stato
di tipo mentale e metodologico: non sempre è facile infatti conciliare
una mentalità scientifica e medica con la scrittura letteraria, creativa.
Ciò nonostante, Andreoli l’ha fatto. In tale prospettiva cade l’ipotesi
secondo cui egli scrivesse per sfogarsi e scaricare la tensione
accumulata durante il lavoro in manicomio. Il suo scrivere non sgorga
da questa esperienza. Andreoli scrive sia prima sia dopo. Allora forse
bisognerebbe modificare anche la sua immagine pubblica e non
parlare dello psichiatra che scrive e neanche dello psichiatra scrittore,
oppure dello scrittore psichiatra, ma piuttosto dello scrittore che nella
sua vita ha fatto anche l’esperienza della psichiatria.
Lo scrivere proviene dal leggere e al leggere rimanda. Almeno
per alcuni, il leggere è solo un intervallo tra lo scrivere e lo scrivere.
Tutto dipende dai punti di vista. Uno pensa che la gallina nasca
dall’uovo per produrre le uova, un altro invece è convinto che la
gallina sia solo un intervallo tra le uova. Insomma, riflettendo
sull’opera letteraria di Andreoli ci si domanda spontaneamente: che
cosa ha letto e che cosa legge quando non scrive? E l’unica risposta da
dare, per non rispondere banalmente che legge “tutto”, è che ha letto e
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legge “molto”. La letteratura scientifica, medica, psichiatrica e
psicoanalitica da Ippocrate a Freud e Feyerabend; la poesia da Catullo
a Pavese; la filosofia dai pre-socratici e Platone a Hegel e Nietzsche;
le tragedie da Euripide a Shakespeare a Pirandello e Beckett; i teologi
dalla Bibbia, a San Tommaso d’Aquino fino a Rahner; i romanzieri da
Cervantes, a Dostoevskij a Calvino e Gadda. Insomma, la sua
biblioteca è piuttosto estesa e una delle sue particolarità sta nel fatto
che contiene sia opere “scientifiche” che “letterarie”. Nell’insieme
essa si colloca all’interno del “canone occidentale” con una punta, del
tutto ovvia, della sua italianità. Quasi assente in questo bagaglio è la
letteratura orientale induista, buddhista, taoista, giainista, ecc.
Andreoli è un occidentale e un italiano, il suo cantiere si trova
all’interno della cultura italiana.
In questo contesto vale la pena di menzionare le figure di due
scrittori e psichiatri italiani: Corrado Tumiati e Mario Tobino, a cui
Andreoli stesso ha dedicato un saggio: Il matto di Carta. La follia
nella letteratura (2008). Tumiati (1885-1967), che appartiene alla
generazione dei nonni di Andreoli, dopo gli studi medici, fino all’età
di quarantasette anni praticò la professione di psichiatra nei manicomi
di Pesaro, Siena e San Servolo a Venezia, ma a causa delle divergenze
politiche fu costretto a ritirarsi dedicandosi esclusivamente alla
scrittura e al giornalismo. Autore di una quindicina di libri di narrativa
e di saggistica, traduttore di scrittori e poeti francesi, il suo lavoro più
famoso è il suo primo romanzo I tetti rossi. Ricordi di manicomio
(1931), con cui l’autore vinse il Premio Viareggio. Secondo Andreoli
si tratta del “romanzo per mezzo del quale il manicomio entra per la
prima volta nella letteratura italiana” (MC 170).
Mario Tobino (1910-1991) invece appartiene alla generazione
dei padri di Andreoli ed è anche un caso “a sé”. Psichiatra con una
forte creatività letteraria, ha coltivato la scrittura parallelamente alla
sua vita professionale, svolta fino all’età della pensione
principalmente nel manicomio di Magliano, vicino a Lucca. È stato un
autore di successo che ha lasciato testi di poesia e più di venti romanzi,
59
di cui alcuni sono stati portati persino sul grande schermo: Per le
antiche scale di Mauro Bolognini (1975), Scemo di guerra di Dino
Risi (1985) e Le rose del deserto di Mario Monicelli (2006). Questo
autore, secondo Andreoli, “nella sua veste di scrittore, ha senza dubbio
contribuito a trasferire nella cultura e nell’opinione pubblica una certa
immagine del mondo manicomiale e delle problematiche della
psichiatria contemporanea” (MC 169). Ma pur riconoscendo questi
meriti, Andreoli è piuttosto critico nei confronti di Tobino, almeno
quando questi parla del manicomio e della follia considerandoli
riduttivi, troppo esteriori e persino voyeuristi: “sembra quasi che i
matti (descritti da lui – MB) facciano spettacolo per un osservatore
privilegiato qual è lo psichiatra. Sia nella visione generale sia nei
singoli ritratti vengono trascurati aspetti della follia che pure, in quegli
anni, cominciano a essere oggetto di un’attenzione particolare, come
la struttura del pensiero, l’affettività del linguaggio, la comunicazione
non verbale, la creatività” (MC 177).
Questi due scrittori e psichiatri italiani in qualche modo hanno
preceduto Andreoli e hanno fondato una tradizione nella quale poi si è
potuto iscrivere e sviluppare. Il confronto con il passato fa capire
meglio che cosa, anche come scrittore, ha fatto e fa Andreoli sia dal
punto di vista contenutistico che formale. Certamente Andreoli ha
scritto molto di più, è andato più a fondo e ovviamente non si è
limitato ai temi della follia. Ma il giudizio spetta alla critica letteraria
che finora, a proposito di Andreoli è piuttosto scarsa. Sarà compito del
futuro, visto che l’opera letteraria di Andreoli non è ancora conclusa.
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5.
Carta e realtà
“Io non sono capace di inventare niente”, così una volta si è
espresso il professore quando gli ho chiesto in che modo scrive le sue
storie. Con questa frase entriamo nel tema immenso della relazione tra
realtà e letteratura. Riflettendo sulla genesi dell’opera di Andreoli
bisogna soffermarsi un attimo sul suo modo di trasformare la realtà in
scrittura. Nel suo caso, forse come nel caso di ogni arte, abbiamo a
che fare con un’alchimia tra la materia della realtà e lo spirito della
creatività artistica. Lui stesso, a circa quarant’anni dal suo I giardini
della miseria, afferma: “Il Carlo del romanzo richiama pur sempre
quello conosciuto nella realtà ma, nello stesso tempo, perde
progressivamente le sue caratteristiche per divenire un caso
paradigmatico. L’intento dichiarato è infatti di allontanarsi dalla
cronaca di un’esperienza clinica per arrivare a una storia
‘fantasticamente reale’. Un paradosso, se vogliamo, che però sta
opportunamente a indicare come sulla realtà si sia inserita la fantasia,
una libertà di racconto che può anche inglobare frammenti di altre
storie” (MC 186).
In questo frammento c’è l’intero programma artistico che
evidenzia alcuni elementi rielaborati dallo scrittore nel suo lavoro:
realtà, fantasia, intento di allontanarsi dalla cronaca per arrivare a una
storia “fantasticamente reale”, libertà dell’immaginazione che dà la
possibilità di inglobare altre storie, creazione di un caso emblematico.
Si può prendere la vera storia di Carlo e paragonarla col
romanzo I giardini della miseria: ne uscirebbe una bella tesi di laurea.
Si può prendere la biografia stessa di Andreoli e vedere come la sua
figura, trasformata, compaia nei suoi scritti, incominciando da Vito
Anderlini, il protagonista del romanzo Camice matto (1995); sarebbe
un’altra tesi di laurea. E ciò vale per tanti altri personaggi della sua
narrativa, andando a individuare i loro prototipi nella realtà. Ho già
detto che la figura del dottor Bertucco ne I giardini della miseria è
stata ispirata dallo psichiatra Cherubino Trabucchi. Probabilmente
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dietro Giovanni Aceto, personaggio che appare nel quinto capitolo di
Fuga dal mondo, si nasconde il famoso imprenditore veronese dei
tortellini, Giovanni Rana. Ma chi è il Commendatore del racconto La
fine del nulla (1991)? Chi sta dietro alla figura del Cardinale del
romanzo omonimo? Chi è Angelo Ratti de Il corruttore? Sarebbe un
lavoro di investigazione a sé stante. In base a tutto ciò si comprende
come l’opera di Andreoli sia una vera e propria “tragedia umana” che
offre un ampio affresco della società italiana degli ultimi decenni.
Brevemente accenno al romanzo Il reverendo, perché in questo caso
posso parlare per esperienza. Perciò mi si perdoni il leggero tratto
personale, ma in questo modo ritengo di essere più efficace.
Durante la traduzione de I miei matti, alcune volte ho dovuto
contattare e incontrare il professore per avere spiegazioni e
chiarimenti. Ci siamo conosciuti e, a titolo di presentazione, gli ho
raccontato brevemente la mia storia: “Cresciuto nella Polonia
comunista, all’età di vent’anni sono fuggito dal mondo in monastero
facendomi monaco. Dopo una decina di anni di clausura, mi hanno
mandato a Roma dove, dopo anni di studio, sono diventato professore
di teologia, autore di libri sulla spiritualità patristica e bizantina,
consultore teologico della Santa Sede per le questioni dell’Oriente
Cristiano, pittore di icone. Poi ho abbandonato tutto e mi sono
stabilito a Verona lavorando come traduttore, scrittore e pittore”. Il
mio racconto è stato breve e denso come un resoconto, e il professore
non ha fatto né commenti, né domande. Quando ci incontravamo,
discutevamo di fede, di Dio, della Chiesa, ma in tutto questo non c’era,
per così dire, niente di personale. Andreoli non ha voluto della mia
storia sentire assolutamente niente di più, e quando volevo dirgli
qualcosa in proposito si tappava le orecchie. Nei mesi che successivi
soltanto alcune volte al professore è scappata una domanda o
un’osservazione, dal che intuivo che in qualche modo stava riflettendo
o scrivendo qualcosa a proposito della mia storia. Ma quando gli
chiedevo su cosa stava lavorando, diplomaticamente evitava la
risposta. Solo col tempo ho imparato che questa era la sua regola di
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lavoro: delle cose che si scrivono non si parla, per non rompere
l’incanto.
Più o meno un anno dopo, quando ci siamo nuovamente
incontrati, Andreoli mi ha regalato, ancora fresco di stampa e caldo di
sudore, il suo nuovo romanzo Il reverendo, dicendo: “Mi piacerebbe
che Lei lo leggesse e poi mi dicesse cosa ne pensa”. Tornato a casa mi
sono immerso nella lettura seguendo le vicende del giovane russo Pëtr
Rosanov, che si fa monaco nel periodo in cui esiste ancora l’Unione
Sovietica. Poi, quando i tempi cambiano e tra l’Ortodossia e il
Cattolicesimo si stabiliscono contatti ecumenici, Rosanov si
trasferisce a Roma, dove insegna spiritualità orientale ed iconografia,
e si dedica alla causa dell’unità tra le Chiese. Qui conosce una suora
carmelitana, Anna Brignani. Ambedue si innamorano e per vivere
questo amore lasciano i loro monasteri. Segue il periodo della
passione, ma ben presto Anna e Pëtr si rendono conto di trovarsi in
una situazione paradossale: sono fuori delle loro Chiese e per loro non
c’è posto nella società, per giunta scoprono di non potersi amare
pienamente perché amano Dio che tuttavia, almeno per loro, non
esiste. Così fondano un monastero per non credenti sui Monti Sibillini,
dove Pëtr dipinge i suoi strani quadri simbolici, e poiché non possono
appartenere né al mondo, né alle Chiese, né a Dio, praticamente
impazziscono entrambi finendo il loro percorso nel manicomio di
Perugia.
Durante la lettura scoprivo facilmente che cosa in questo
romanzo proveniva da me e faceva parte della mia storia, e che cosa è
frutto della fantasia artistica dello scrittore. Questo romanzo mi
riguarda, e non mi riguarda in un modo assoluto. Fare di un polacco
un russo è come fare di un irlandese un inglese. Ho vissuto abbastanza
a lungo in Italia per capire che per Andreoli, come per tanti
“occidentali”, l’Est europeo era “informe” e praticamente viene
identificato con la Russia. Sapevo anche che Andreoli era stato in
Russia durante il comunismo, e ovviamente aveva coltivato in sé il
fascino e “il mito dell’idea russa”. Tutto questo è confluito nella
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fantasiosa libertà del racconto per creare il retroscena del romanzo.
Abbastanza fedeli sono i miei tratti di teologo universitario: ho
insegnato spiritualità orientale ed iconografia cristiana e mi sono
occupato di ecumenismo. Andreoli ha persino citato nel suo romanzo
alcuni brani del mio libro Il cielo nel cuore (2002) su Niceforo
Esicasta e sulla mistica bizantina. Tuttavia la storia di Rozanov con
suor Anna non è la mia “ad litteram”, e ovviamente non sono finito in
un manicomio. Ma confrontando la mia storia con il romanzo Il
reverendo ho capito perfettamente che cosa intendesse Andreoli
quando affermava di voler arrivare in letteratura a una storia
“fantasticamente reale”, e di voler creare “un caso paradigmatico”. Mi
sembra sia riuscito a “dipingere” molto bene alcune caratteristiche
esistenziali, affettive, sociali, teologiche delle persone che lasciano i
monasteri o lo stato clericale.
Quando, per esempio, Pëtr e Anna abbandonano Roma e
prendendo il treno per l’Umbria, Andreoli descrive il loro stato
d’animo: per loro lasciare questa città “Significava allontanarsi dalla
Chiesa, scappare dal suo cuore pulsante, anche se pieno di
contraddizioni. C’erano giunti per ubbidienza, entrambi erano felici.
Ora, era come se fossero stati espulsi, mandati al confino. E non si
potevano usare finzioni per convincersi dell’opposto. Erano legati alla
Chiesa come un bambino alla propria madre. Fosse anche puttana, un
bambino non ne può fare a meno e vede in lei una cosa indispensabile
e non sa affatto che il latte lo si trova anche al supermercato. La
Chiesa è veramente una madre: pur non dandoti la ricchezza, ti
assicura la sopravvivenza; pur non mettendoti in un palazzo, ti dota di
luoghi in cui puoi sopravvivere. Non hai nulla, ma accedi dappertutto.
Con quell’abito, con quella lettera, con quella telefonata sei accettato,
non importa se con entusiasmo o obtorto collo.
Non avevano più nulla e non sapevano cosa avrebbero fatto, era
inutile chiederselo. Non potevano contare su nulla e anzi, se la loro
identità fosse venuta alla luce, avrebbero trovato il deserto. Erano
poveri nel deserto, nel deserto sconfinato, ed era inutile parlare di
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un’oasi: se veramente fosse esistita, per loro non ci sarebbe stato posto,
non vi avrebbero potuto nemmeno sostare per un po’. Dovevano
continuare a camminare nel deserto. Lui, senza le funzioni
ecclesiastiche, non sapeva fare nulla, fuori della Chiesa non esisteva
neppure, e lei, Anna? Chi è una carmelitana scalza senza abito
monacale, senza la cuffia che le circonda il viso e ne fa cammeo
prezioso e santo? A cosa servono le lezioni e lo studio delle icone
nella vita quotidiana? A cosa servono la teologia e conoscere il volto
di Dio? Figuriamoci se non avevano parlato dell’essere monaco dentro
e dell’esserlo invece all’apparenza, dal di fuori e in virtù dell’abito. Se
non si erano detti che sarebbero rimasti legati al loro Dio come prima
e per sempre” (RV 211-212).
All’interno di queste frasi, così acute e penetranti, possono
ritrovarsi tante persone che hanno vissuto tale esperienza e ormai
fanno parte anche del mondo della letteratura. Basta prendere in mano,
per esempio, i romanzi di Iris Murdoch: praticamente in tutti si
trovano personaggi del genere.
Ne abbiamo parlato io e il professore, ed egli ha fatto diversi
commenti di cui riporto qui solo un pensiero: “Io non ho voluto sentire
molto sulla sua vita, non ho voluto conoscere i particolari della sua
storia per non lasciarmi influenzare troppo, volevo essere libero per
elaborare le mie fantasie sulla base di uno spunto preso dalla realtà”.
Mi sembra che questo chiarisca abbastanza bene una delle diverse
genesi della sua scrittura, cioè la relazione che esiste tra i fatti e la
fantasia di un artista, tra la realtà e la carta. I suoi romanzi sono storie
“fantasticamente reali”, una realtà di carta. Questo vale praticamente
per tutta la sua narrativa, di cui non mi sforzo ora di moltiplicare gli
esempi, perché lascio la ricerca, piuttosto interessante e divertente, ai
lettori.
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66
Terza parte: I TEMI
Leggendo i libri di Andreoli il lettore si può dunque divertire a
cercare il legame tra i fatti e i testi, a costruire nel pensiero i ponti che
collegano la realtà alla carta. Si parte dalla carta, si arriva alla realtà e
poi si ritorna alla carta. Ormai è chiaro che il lettore può praticare un
altro gioco, oltre all’inoltrarsi nel “corpus” degli scritti di Andreoli e al
leggere insieme e in un modo complementare la narrativa e la
saggistica. Questo terzo gioco sta nell’osservare e evidenziare i diversi
temi che si ripetono e vengono approfonditi nei suoi scritti, temi che si
potrebbero anche definire principali o fondamentali per questo
scrittore. Se tutta la sua opera è un ponte tra la realtà e la carta, questi
temi sono i pilastri su cui il ponte si regge. Immaginando ogni libro di
Andreoli come un filo che possiede colore e lunghezza propri, tutti
questi fili, gettati sul tavolo, si incrociano in diversi punti formando
dei nodi, cioè i temi che si ripetono e ritornano, importanti e
fondamentali, e di cui è fatta la rete della sua opera. Dopo aver girato
nel labirinto delle opere di Andreoli leggendole, ho prima lasciato che
frullassero liberamente nella testa e ne ho quindi evidenziato sette
pilastri, nodi o temi, che mi sono sembrati i più importanti e forti. Ma
aggiungo subito che questa è solo una mia scelta. Avrei potuto
indicare altro, e naturalmente qualcuno può anche leggere Andreoli in
modo diverso e mettere in rilievo altri temi.
1.
La follia
Andreoli è scrittore della follia. La follia è il tema centrale da
cui tutto parte e intorno a cui tutto gira nella sua opera. L’intera vita di
quest’uomo ruota intorno alla follia, e d’altra parte è la follia che gira
intorno a lui. La sua opera è una sinfonia della follia, e forse anche
una sinfonia folle. Le pagine più importanti e impressionanti dei suoi
libri riguardano proprio la follia. Le pagine più belle ed orribili
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parlano di follia, le più tenere e violente sono impregnate sempre di
follia. Egli è il bardo e la vittima della follia: “Ho amato la follia, le ho
dato tutto me stesso e l’ho fatto standovi in mezzo, in manicomio,
dove non c’è né tempo né spazio per teorie, ma solo per correre e
condividere ora un crisi ora un desiderio incoercibile di morire o di
ammazzare” (CS 14).
Quando ormai, stanco di manicomi e pieno di dubbi a proposito
della psichiatria, abbandona l’attività, trova la follia nel mondo che lo
circonda e anche dentro se stesso: “Ho trovato il manicomio fuori del
manicomio, una follia all’aperto e nel travestimento ho continuato a
fare, con un linguaggio nuovo e in piazza, lo psichiatra. Uno psichiatra
che non ha più il coraggio di curare la follia e la vuole raccontare,
quasi fosse ancora troppo misteriosa per poterla ‘giustiziare’: parte
ineliminabile dell’uomo, di questo strano animale che cammina sul
pianeta. (…) Resto uno psichiatra, circondato dappertutto da follia;
forse, folle io stesso” (MI 8-9).
La scrittura è uno dei suoi modi di convivere con la follia, un
suo metodo per fuggirla senza abbandonarla veramente. La scrittura è
il suo modo di rimanere in contatto con essa, in una strana dinamica di
avvicinamento e distanza, perché scrivendo allo stesso tempo ci
avviciniamo e ci allontaniamo dall’esperienza che riportiamo sulla
carta. Alla follia Andreoli ha dedicato la maggior parte dei suoi studi
scientifici, buona parte dei saggi, molti dei romanzi, racconti e altri
generi letterari che ha praticato. Proprio la sua ricerca, anche come
artista della parola, si è concentrata nell’inventare dei modi di
raccontare il mondo misterioso e inesprimibile della follia.
Con il tema della follia Andreoli sin dall’inizio si è trovato in
compagnia di grandiosi autori di ogni epoca e diversi nel
comprenderla e raccontarla. Da una parte, per motivi ovvi legati alla
formazione e al percorso professionale, si tratta di studiosi, scienziati,
psicologi, psicoanalisti e psichiatri: Freud, Jung, Lombroso, Kraepelin,
ecc. La lista è infinità, e dalle stesse opere di Andreoli si può ricavare
e ricostruire la storia della follia e della psichiatria, che va ben oltre e
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più in profondità della memorabile Storia della follia nell’età classica
(1961) di M. Foulcault. D’altra parte, si è reso conto relativamente
presto che il linguaggio scientifico, medico e specialistico è troppo
angusto per questo “mistero”, perciò ha cambiato registro e linguaggio:
“Tutti i libri di psichiatria sono finiti in cantina sostituiti da opere
letterarie, di poesia” (MI 7). Cosi si è trovato immediatamente in
compagnia di altri grandi come Cicerone, Miguel de Cervantes,
William Shakespeare, Fiodor Dostoevskij, i mistici e i così detti “folli
di Dio” di diversi tempi e religioni, Luigi Pirandello, ecc. Anche qui la
lista è sterminata. Ormai sappiamo che il cambiamento di registro in
Andreoli non è avvenuto in senso cronologico – e cioè che dopo lo
scienziato è venuto il letterato –, perché questo psichiatra è entrato nel
mondo della follia attraverso la porta dell’arte.
Diamo dunque un rapido sguardo alle opere dello psichiatra di
Verona soffermandoci soltanto sui titoli: Un secolo di follia, L’uomo
folle, La terza via della psichiatria, Il matto di carta, La follia nella
letteratura, Istruzioni per essere normali, Comprendere le follie
quotidiane, Il linguaggio grafico della follia, La follia del mondo, Per
una psichiatria della storia, Follia e santità, Tra un’ora, la follia. Non
aggiungendo altri titoli che girano intorno allo stesso tema sostituendo
la parola “follia”, o “folle”, con “il matto” o con altre varianti.
Nell’insieme è un opus sulla follia, immensa e variopinta, che
conferma la centralità per Andreoli di questo tema.
Con la matita scrivo su un foglio bianco nel centro “la follia” e
intorno ad essa, seguendo, tanto per cominciare da qualche parte, i
contenuti presenti nel libro Istruzioni per essere normali (11-20),
incomincio, come in un mandala, a disegnare e scrivere nei quattro
angoli del foglio i quattro diversi concetti, ossia le dimensioni della
follia. Primo angolo: morbus sacer, cioè la visione per cui la follia è
legata al divino e il folle può venir considerato persino la voce di Dio.
Un dio folle. Un santo visto come pazzo, come uno che senza dubbio
dovrebbe essere ricoverato in manicomio. E la religione dunque vista
come qualcosa in forte contrasto con il mondo, perciò non si sa chi è
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normale, chi impazzito e chi santo. I libri di Andreoli sono pieni di
persone che soffrono a causa del divino che trovano o non trovano.
Nei confronti della follia del mondo, i matti possono essere più sani e
più felici. I monasteri sono visti come manicomi, i manicomi come
monasteri, e Andreoli annota il suo desiderio: “Una tendenza a
nascondermi, a chiudermi in un monastero della follia” (CS 25).
Nel secondo angolo scrivo “il demone, il male”. La follia vista
come una malattia che bisogna curare, esorcizzare, isolare. I folli che
uccidono e che si uccidono. Il demone del sesso che si fa peccato. La
donna come demone e il male per eccellenza. Mi vengono in mente le
pagine in cui Andreoli parla di se stesso come di un ragazzo, nel quale
si svegliano gli ormoni e si sente abitato da un demone. Le pagine dei
suoi libri sono abitate da una folla immensa di persone sfigurate e
terribili, che soffrono e fanno paura, che fanno soffrire: “Il manicomio
è il luogo della paura, di una paura che può farsi incontenibile,
moltiplicandosi fino a romperti e fino a distruggere la sensibilità per
non percepirla più. Allora sei un uomo rotto, incapace di riconoscerti.
Dentro la follia ho conosciuto la paura” (CS 19).
Nel terzo angolo scrivo “macchina umana rotta” che bisogna
“aggiustare”. Una visione riduttiva, indegna dell’uomo e della follia. Il
sistema psichiatrico che si è sviluppato a partire dall’Ottocento e
dentro cui sono state praticate cure terribili: l’elettroshock, le iniezioni
di insulina, i corpi imbottiti di sostanze chimiche, un orrore, un
crimine legalizzato a cui Andreoli ha partecipato, dal quale col tempo
si è svegliato, contro cui poi ha combattuto. I romanzi e i racconti di
Andreoli sono anche forme di denuncia contro questo crimine. Basta
pensare alla raccolta di racconti Lo psichiatra era matto, che si apre
con il capitolo “Il re dei matti”, ritratto spietato di un sistema e delle
persone che ci lavoravano; o al romanzo Camice matto, in cui a un
certo punto i ruoli tra lo psichiatra e i suoi pazienti si invertono.
Nel quarto angolo scrivo: “una visione particolare del mondo”.
In questa visione il matto è solo diverso, e poiché ogni uomo ha una
visione del mondo diversa da quella dell’altro, ogni uomo è per certi
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versi “un idiota”, cioè diverso dagli altri. Qui le frontiere tra la pazzia
e la normalità incominciano a vacillare. La pazzia va contemplata e lo
psichiatra diventa un testimone di questi “altri” modi di essere nel
mondo e di vederlo. Andreoli, descrivendo “i suoi matti”, in fondo ci
offre un affresco dell’umanità, e la sua opera stessa è una visione
“particolare” o “diversa” della realtà, un’“alternativa” che però fa
parte di ogni persona, perciò afferma: “Quella che noi consideriamo
follia può essere vita per gli altri” (MC 238).
Dire “la follia” equivale per Andreoli a dire “l’uomo folle”. Dire
la “mattia” (termine raro nella lingua italiana ma pur esistente),
significa per lui dire il matto, dire la pazzia vuol dire il pazzo. Del
resto, parole di solito disprezzate o negative, per lui, al contrario,
amate e stimate. In questo suo atteggiamento linguistico egli va oltre,
o piuttosto, si contrappone ad alcune tendenze di qualche political
correctness che per un falso pudore non vuole più sentire parlare di
matti o di pazzi, o pur facendolo forse fa finta che il problema non
esista. Eliminando le parole ci si illude che anche il problema sia
scomparso. Andreoli invece con insistenza dice: matto, folle, pazzo.
Per lui il matto è spesso più simpatico del cosiddetto normale. Non
esita e non si vergogna di definirsi e chiamarsi, lui stesso, un matto, un
folle, un pazzo. Nella sua prospettiva inversa spesso i cosiddetti
normali, cominciando dai politici e dai potenti di questo mondo, sono
spesso i veri folli, i più matti dei matti con un certificato medico.
Giovane Andreoli, ribellandosi all’anonimità, insufficienza e
stupidità delle cartelle cliniche, ha incominciato a descriverli. Egli è
un ritrattista dei matti, grazie al quale le persone che erano condannate
a essere dimenticate dentro il recinto della follia, sono diventate
protagoniste dei suoi libri. Egli, con la sua scrittura, ha scolpito i loro
volti sulla carta. Nei suoi libri si trova una vera galleria di ritratti di
folli.
Il primo di questi, mi si perdoni se lo dico, è Andreoli stesso. Sì,
egli osa essere folle e osa dirlo. Tantissimi dei suoi romanzi e racconti
possiedono uno sfondo autobiografico, sono piccole scene vissute
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dall’autore, autoritratti, non sempre, ma spesso, folli. Non ci vuole
molta fantasia per scoprire che lo psichiatra Vito Anderlini, il
protagonista del romanzo Camice matto, o Angelo Spini della Fuga
dal mondo, che sfiorano la follia, possiedono tantissimi tratti
dell’autore di questi romanzi. Anche se la distinzione, come abbiamo
già visto, è molto formale, passiamo alla saggistica. Indimenticabile
rimane la scena de I miei matti, in cui Andreoli racconta di Arrigo, un
matto del suo ospedale che si chiude nella stanza e cominci a spaccare
tutto. Il personale impaurito non sa che fare. A quel punto entra in
scena “il direttore”. Velocemente legge la cartella del malato, comanda
di aprire la stanza del matto pericoloso, e mentre tutti si ritirano
impauriti Andreoli entra nella stanza, chiude la porta… Ma lasciamo
la parola allo scrittore perché ne vale la pena: “Ho solo il tempo di
percepire il disastro. È tutto spaccato. E allora, imprevedibilmente,
comincio a spaccare anch’io, prendo le cose che sono per terra e
distruggo tutto, come fa lui. Per terra vedo il lavandino divelto e allora
lo afferro e lo sbatto contro il muro. All’improvviso quel matto guarda
me che spacco; io non smetto, continuo e, a un certo punto lui si ferma.
Ansima, lo guardo con una sorta di complicità, lo prendo sottobraccio,
usciamo e lo porto nel mio studio. Tremo, ho una paura terribile dopo
quello che è successo; lo faccio sedere, gli chiedo se vuole un caffè e
cominciamo a chiacchierare. (…) Da quel momento in poi, Arrigo, il
matto spaccatutto, mi aspettava ogni mattina e, quando arrivavo,
parlavamo un po’ ”(MM 122).
Quando ho letto questa scena, dopo una lunga risata, mi sono
detto: “Questo Andreoli è un vero matto”, e ovviamente mi sono
chiesto: “ma è veramente così o quando scrive esagera?”. La risposta è
arrivata presto. Dopo la pubblicazione di uno dei suoi libri in Polonia
siamo andati insieme per presentarlo a Cracovia. E dopo gli incontri
all’università e al dipartimento di psichiatria, ci siamo recati – perché
è vicino e fa parte dei classico giro per turisti – al museo di Auschwitz.
All’inizio andava tutto bene, poi a un certo punto il professore è
scoppiato ed è come impazzito: si è staccato da noi ed è andato per
72
conto suo urlando e gesticolando. Non tento neanche di ripetere le sue
parole; dico soltanto che per fortuna in giro non si trovava alcun
malcapitato turista tedesco, perché Andreoli avrebbe potuto prenderlo
a pugni. Nel capitolo seguente, dedicato alla violenza, vedremo perché
e come sia possibile che il professore scoppi e poi trasformi questo in
letteratura.
Stupendo è il ritratto del pittore-matto Carlo Zinelli ne I giardini
della miseria. Ma lo stesso si deve dire dei ritratti di Un secolo di
follia: l’angosciato e impaurito Paolo; l’anoressica Chiara; gli
schizofrenici Elena e Angelo; il maniacale Mario; Marta presa dalla
voglia di morire; Giulio che, paralizzato dalla paura, non permetteva
di essere toccato né voleva toccare niente. Raccolte analoghe, ancora
più elaborate, si trovano nel Capire il dolore e ne I miei matti. In
questo secondo libro è stupendamente descritto il ritratto di una
ragazzo della Toscana. Doveva arrivare allo studio del professore
insieme ai suoi genitori alle undici. La segretaria riferisce che stanno
per arrivare, il professore aspetta, ma non arriva nessuno: “Così esco
dallo studio e nel corridoio che lo collega alla sala dell’attesa vedo un
ragazzo con due persone che lo stanno incitando. Il ragazzo sembra di
piombo. Non appena mi vede con indosso il camice, si blocca, si
irrigidisce ancora di più. Noto che alza una gamba per fare un piccolo
passo, ma la tiene sospesa a mezz’aria, come afflitto dal dubbio se
poggiare a terra quel piede o tirarlo indietro. Oscilla tra queste due
soluzioni, non sa decidersi. Comprendo che queste persone stanno
cercando di arrivare nel mio studio, ma che il tutto stava avvenendo a
una velocità tale per cui dovrò attendere ancora un paio d’ore prima
che lo raggiungono.
Mi avvicino, saluto il giovane e gli porgo la mano. Lui, che ha il
braccio lungo il corpo, lo solleva lentamente, come fosse pesantissimo.
Lo osservo in questo spostamento millimetrico, e lui mi guarda. È
come se a questa mano lui impartisse ordini contrapposti. Vai avanti,
torna indietro… e la mano non arriva mai. Mi guarda e ha il volto
della sofferenza. Una sofferenza cerea, immobile, fortissima. Mi
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ricorda le movenze del teatro No, che ho visto tanti anni prima quando
mi trovavo in Giappone. (…)
Mi trovo davanti al caso di fobia e ossessività più grave che
abbia mai visto (e a tutt’oggi continua ad esserlo). Ricordo che
arrivammo nel mio studio e lui fu preso da una sensazione di dramma.
Aveva paura di tutto, di respirare, di vivere, entrato in questa
stanza si era come paralizzato. Aveva preso a muovere gli occhi
lentamente, a esplorare centimetro per centimetro questo spazio ignoto,
probabilmente ostile, che cercava di sopraffarlo. (…)
Davanti a me avevo seduta la paura pietrificata. Ne fui
affascinato. Rimasi immobile a pensare cosa può essere la paura.
Avevamo gli occhi puntati l’uno sull’altro, e anch’io rimanevo di
pietra. Volevo sentirlo parlare, e assistetti a una delle espressioni più
estreme dell’ossessività. Era come se facesse delle prove, e anche in
questo caso fosse annichilito dal gioco di comando opposti, dire o non
dire. Muoveva le labbra con lentezza estenuante, ma da quella bocca
non usciva una sola parola. (…) Cercavo di intuire che cosa volesse
dirmi muovendo le labbra e a mia volta non osavo parlare, e mi
chiedevo cosa pensasse, se pensasse che volessi dirgli qualcosa e non
la dicevo, oppure che non desideravo dirgli nulla. Lui, a me, voleva
forse dire cose che non aveva il coraggio di dirmi, ma era come se io
le sentissi e gli rispondessi in silenzio. Fu una delle più ‘belle’ sedute a
cui abbia partecipato” (MI 220-223). Finì alle quattro del pomeriggio.
Ho riportato solo frammenti di un esempio, ma bisogna
sottolineare che l’opera di Andreoli è come il taccuino di un pittore,
pieno di ritratti, una volta in forma di schizzi, un’altra più elaborati,
ma sempre belli e inquietanti. Questo scrittore ha trovato il linguaggio
adatto e il modo eloquente per raccontarli. Nella sua opera la follia
possiede volti concreti e indimenticabili. In ogni angolo della mia
carta annoto dunque i nomi dei protagonisti della follia.
Nonostante tutte queste storie particolari e tutti questi ritratti il
protagonista assoluto dei libri di Andreoli è la follia stessa. Lo
scrittore realizzando la sua opera, svelando pian piano i diversi volti
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della follia, ne ha approfondito il significato, ha allargato la
comprensione, ha educato i sentimenti, ha sensibilizzato i lettori. Ora
la follia stessa è la protagonista della letteratura e il matto di carta
finalmente esiste.
Preso da un’altra angolatura Andreoli ha espresso il tema della
follia nella sua vita e nel suo pensiero in Requiem, in cui l’anonimo
padrone di casa, con i chiari tratti di Andreoli stesso, dice: “Non
voleva più ritornare sul suo passato di psichiatra, ma non poteva
dimenticare che proprio qui erano nate le sue idee forti, quelle che lo
avevano caratterizzato e qui si era fermato a meditare sul senso della
follia e persino su quello della follia dentro la civiltà del chiaro e
distinto, e della democrazia. La follia come parte del senso dell’uomo,
del suo mistero. E si era dedicato allo studio delle Pitie di Delfo e al
loro potere dentro la società antica come voce degli dèi che gli uomini,
attraverso i loro sacerdoti, dovevano interpretare. La follia come
rappresentazione dell’uomo, raccontata con la voce degli dèi. E qui
aveva capito il rispetto che le si doveva, perché l’uomo folle è
semplicemente un uomo che indossa una maschera ancor più
inquietante e ancora più difficile da interpretare. La follia come
mistero dell’uomo, come voce degli dèi, come confronto per capire
l’uomo, che pure sembra folle, mentre vaga per il mondo talora
compiendo gesti che fanno male a un altro uomo. Il mistero della
violenza, il mistero della morte e degli assassini” (R 77).
Pensando al tema della follia in Andreoli mi viene il paragone
con un certo tipo di icone. Nel centro è presentata la figura del santo e
intorno, si potrebbe dire sulla cornice che nelle icone di solito manca,
sono dipinte le scene della sua vita. O ancora: nel centro il Cristo o la
Madonna, e intorno, sulla cornice, più piccole le figure dei santi. Così
nell’Andreoli di carta, al centro della sua opera si può collocare la
follia stessa, e intorno ad essa tantissimi ritratti di folli, matti e pazzi,
da lui descritti.
Alla fine collego tutte queste quattro visioni della follia, che ho
distribuito agli angoli del mio mandala insieme ai ritratti dei matti,
75
perché ne sono solo le rappresentazioni simboliche, che si completano
a vicenda assolutamente non esaurendo il quadro. Sul filo che collega
queste quattro dimensioni scrivo: “la follia è una delle forme di dolore,
la follia è supplizio, la follia è sofferenza”.
2.
La violenza
Il racconto Una lettera (RS 223-236) inizia in un modo del tutto
innocente. Il lettore pensa che si abbia a che fare col ricordo di un
amore giovanile del protagonista, Francesco De Maria, verso una certa
Federica a cui scrive una lettera che si fa racconto. Siamo a Parigi
dove Francesco sta passando qualche giorno di riposo con sua moglie,
e il lettore ha come l’impressione che fra qualche istante verrà
introdotto in qualche mistero, tra “imprinting” del primo e gli altri
amori di Francesco, quello coniugale incluso, e che tutto finirà con un
happy end. Ma presto, a causa di una stupidaggine, un pacco spedito
da Parigi a Milano ma che non arriva al destinatario, l’atmosfera
cambia e col tempo si fa sempre più assurda e nevrotica. Francesco
diventa folle e violento – tutto “solo” per un pacco che andato perduto:
“Nella mia testa c’era un intero bordello in agitazione, nel furore,
e sentivo mia moglie dirmi cose che di fatto forse non mi diceva in
quel momento, ma mi aveva detto in passato. Mi dava fastidio, la mia
ragione sentenziava come un giudice togato senza capire nulla dei
sentimenti e delle motivazioni anche violente. Parigi era diventata un
inferno e io ero peggio di quando avevo lasciato Verona, di quando
lanciavo piatti per aria. Quell’appartamento in rue du Pot de Fer era
ormai un angusto scantinato, e a nulla valeva guardare fuori della
finestra e accorgersi dei tetti di Parigi. La sentivo urlare anche quando
probabilmente aveva smesso di farlo, ma io ho aperto la finestra e l’ho
buttata di sotto” (RS 235).
76
Il racconto è un viaggio dalla normalità alla follia, dalla
tenerezza alla violenza. Un’analisi di come un uomo del tutto normale
impazzisce per nulla e in un attimo diventa un omicida. Alla fine del
racconto si scopre che Francesco scrive a Federica dalla prigione di
Parigi.
Questo racconto potrebbe essere un soave avvio, per non
spaventare un eventuale lettore, al tema della violenza negli scritti di
Andreoli che abbondano in scene crudeli, macabre e brutali. I
protagonisti dei suoi romanzi e racconti molto spesso soffrono o fanno
soffrire, si uccidono o ammazzano gli altri. Per questo scrittore la
violenza, soprattutto nelle forme più estreme, è una delle espressioni
del dolore e dell’angoscia.
Il tema della violenza, così diffuso nella sua narrativa, è trattato
anche in alcuni suoi saggi. Nella narrativa abbiamo a che fare con
immagini e sentimenti, nei saggi con ragionamenti e spiegazioni. I
racconti e i romanzi di solito sono spietati, crudeli e finiscono in modo
tragico, nella saggistica lo scrittore è più indulgente, analizza, cerca di
capire, indica le vie d’uscita e adopera toni consolatori.
Non mi inoltro nella vita di Andreoli per indagare quando, dove
o perché è scattato in lui questo interesse per la violenza. Solo
intuitivamente elenco la guerra, il manicomio, il lavoro nelle Corti
d’Appello, l’osservazione attenta della vita sociale. Di sicuro abbiamo
a che fare con una personalità particolarmente sensibile al tema della
violenza, con un coraggio di guardare la realtà in faccia e con del
talento letterario nel descrivere la violenza.
La violenza. Dentro di noi attorno a noi (1993) è
cronologicamente il primo saggio, e allo stesso tempo il più completo
sul tema. È una rassegna di impressioni, osservazioni e riflessioni fatte
nello stile, tipico di Andreoli, della “sinfonia fenomenologica”.
L’autore parla delle diverse forme di violenza che nota intorno a sé e
nella storia, aggiungendo anche un capitolo-confessione in cui tratta
della violenza dentro di sé. Abbiamo qui a che fare principalmente con
Andreoli fenomenologo o fotografo, che descrive il paesaggio
77
violento della vita umana. A questo saggio va aggiunto un altro,
pubblicato tre anni dopo: Voglia di ammazzare. Analisi di un desiderio
(1996), che collega la violenza alla morte. Anche in questo caso
abbiamo a che fare con una ricca raccolta di materiale distribuito nei
capitoli Come si uccide?; Perché si uccide?; Chi uccide? Il libro
finisce con un “accordo positivo”, cioè col capitolo Non uccidere che
propone alcune riflessioni sulla cultura non violenta, sulla personalità
disarmata e su un encefalo per non uccidere.
Ma le riflessioni più interessanti non sono tanto sulla violenza,
ma sul perché egli ne scrive, e Andreoli lo spiega nel suo successivo
libro, sempre sulla violenza e intitolato Delitti. Un grande psichiatra
indaga su dieci storie di crimine e follia (2001). In questa opera, come
riporta il sottotitolo, lo scrittore racconta proprio dieci grandi omicidi
compiuti da Piero Maso, Nadia Frigerio, Marco Rancani, Elia Del
Grande, Alessandro Montanaro, Luigi Chianti, Adriano Fabian e altri,
che sconvolsero la società italiana negli ultimi decenni. Sono dieci
piccoli storie di “serial killer”, descritti in modo sobrio e crudo, in cui
il ruolo dell’investigatore non è svolto da un tenente o da un
commissario, ma dallo stesso psichiatra e scrittore Andreoli. Le
riflessioni più importanti, riguardanti il legame di questi crimini
realmente accaduti con l’Andreoli di carta, cioè che spiegano in
qualche modo il nesso tra la violenza e la sua scrittura, si trovano
proprio in questo libro.
All’origine c’è una misteriosa attrazione: “Sono affascinato dai
casi estremi, da quelle vite al limite della possibilità. Storie che
sembrano consumarsi senza mezzi termini, senza applicare mai quelle
strategie di sopravvivenza che segnano compromessi con la vita e con
la morte. I casi estremi sono quelli di chi è stanco di vivere e allora
decide di ammazzarsi, o tenta di farlo. Ma è anche di chi decide di
uccidere una persona vicina o, al contrario, anonima, espressione
dell’esistenza senza volto” (D 9). Questa attrazione, che poi si esprime
nella scrittura, principalmente è un legame inseparabile tra la vita e la
morte. Scrutare il desiderio estremo della morte, di uccidere se stesso
78
o gli altri, vuol dire scrutare il desiderio della vita. D’altra parte, non si
può scrutare la vita senza immergersi nella morte. Il fascino della
violenza è in fin dei conti il fascino della vita-morte, che in Andreoli
poi si fa carta, diventa letteratura, si traveste in racconto.
Le storie di violenza sono affascinanti perché parlano di noi:
“Certi omicidi si insinuano dentro la nostra testa fino a diventare
ossessivi, colpiscono i sentimenti poiché paiono possibili
all’esperienza tragica di ognuno. Sono omicidi che, almeno
inconsapevolmente, parlano di noi, di noi come possibili bersagli e
vittime” (D 7).
Andreoli dunque segue le tracce di questo fascino, analizzando e
poi descrivendo diverse storie di violenza estrema, ma lo fa non come
un curioso, ma come un investigatore che vuole capire per fare poi
capire: “Ogni delitto ha rappresentato per me un laboratorio, che
racchiudeva un uomo che aveva ucciso e uno psichiatra che cercava di
capire, di parlare, di ascoltare, senza limiti di tempo, senza fretta di
giungere a una conclusione definitiva. Così sono entrato dentro la
testa di chi ha ucciso e persino dentro a quel suo desiderio estremo: la
voglia di ammazzare. Che tante volte c’è ma non si realizza per pure
coincidenze. Che, pur se in angoli nascosti, si può trovare anche in
ciascuno di noi” (D 11).
A questo punto possiamo tornare al racconto Una lettera da cui
ho iniziato questo capitolo. È facile immaginarmi Andreoli stesso che,
durante le vacanze a Parigi, invia al suo editore milanese un pacco con
un manoscritto (per esempio il saggio sulla violenza di cui qui si
parla), e il manoscritto che va perduto. Intanto lo scrittore ha iniziato a
scrivere un racconto in forma di lettera alla ragazza di cui si era
innamorato in gioventù, e dunque va indagando sul passato, si
immerge nei ricordi, medita sul mistero delle strade della vita che si
incrociano e si separano, si diverte a descrivere Parigi e il suo
gradevole soggiorno in questa città con la moglie. Ma presto viene a
sapere che il pacco non è arrivato a Milano. Comincia a indagare e
quasi immediatamente si trova in una situazione assurda: non si sa se
79
il pacco, e dunque il suo lavoro, sia andato perso o no, dove si trovi, se
e come si possa ritrovarlo. Si arrabbia, diventa quasi folle. Il clima
della vacanza è rovinato. La moglie cerca di parlargli, ma egli vede in
lei solo un altro aspetto dell’assurdo. In un momento di rabbia sente in
sé il desiderio di ammazzarla, di buttarla giù dalla finestra pur di non
sentirla più parlare. In questo momento in Andreoli si attiva lo
scrittore. Non ammazza (per fortuna) la moglie, ma sentendo dentro di
sé questa momentanea, irrazionale e fortissima voglia di uccidere, si
figura di averlo fatto e si mette a scrivere cambiando totalmente
l’originario intento del suo racconto che finisce in un modo inaspettato
e brusco: “L’ho ammazzata. Ho chiamato la polizia, mi sono venuti a
prendere e, giunto al commissariato, ho raccontato al comandante
della stazione, proprio in place Monge, per filo e per segno, la storia
incominciata il 30 ottobre, quando mi sono recato a spedire la busta
all’ufficio postale, in rue des Ecoles” (RS 235-237).
Nella vita il filo tra desiderare di uccidere e farlo è sottile e
Andreoli lo dimostra perfettamente in questo racconto. Scrivendo si
sfoga, comprende se stesso e fa capire al lettore come funziona il
meccanismo della violenza. È anche un ottimo esempio per meditare
sulla relazione tra l’Andreoli di carne e l’Andreoli di carta.
Poiché questo racconto, come quasi tutti, finisce in modo tragico,
nella saggistica lo scrittore vuole essere anche un educatore, il
costruttore di una possibile cultura non violenta; perciò, dopo aver
“compreso” la violenza, cerca di spiegarla forse con la speranza che,
facendolo, diminuisca: “L’omicidio insomma (…) è una questione
sociale, un tema che deve uscire dall’ambito ristretto della giustizia e
degli operatori che agiscono nei tribunali e per i tribunali. Deve
diventare materia di cultura popolare: non certo finalizzata a roghi di
piazza – la pena spetta solo alla giustizia, per quanto imprecisa possa
essere –, ma tesa a uno sforzo serio e documentato per comprendere”
(D 9). Ecco le ragioni per cui Andreoli descrive la violenza e scrive su
di essa spesso in modo crudo e sconvolgente.
80
Un anno dopo il saggio Delitti esce Una piroga in cielo (2002),
uno tra i romanzi meglio costruiti e in alcune sue pagine forse il più
violento di Andreoli. È un intreccio di tre fili che nel racconto
confluiscono intessendo una trama praticamente perfetta. Da una parte
c’è la descrizione dei giorni sempre più cupi, tristi e tragici di Kouniò
Baràm, un Dogon, che vive come un topo in una stanzetta del
quartiere di Verona chiamato Veronetta, diventato un vero ghetto di
extracomunitari in questa città del “ricco nord”. Questo Africano,
come in un ultimo sogno, rievoca la propria storia che lo ha portato da
Tirelli sulle alture del Mali, attraverso l’oceano, fino a Marsiglia, e poi
a Milano e a Verona: questo è il secondo, ben sviluppato e molto
pittoresco, filo del romanzo. Il terzo è invece l’analisi e la descrizione
di alcuni “bravi ragazzi” della borghesia di Verona che, dopo il lavoro
nelle istituzioni più prestigiose della città, cercano emozioni sempre
più forti, con le loro moto e le teste piene di odio per “i negri” e di
violenza; durante la notte arrivano, come dei draghi, nel ghetto di
Veronetta, e massacrano letteralmente gli “sporchi negri”: aprono con
le lame i ventri delle donne africane incinte, lasciano ai bambini neri
giocattoli con esplosivo, mutilano con i coltelli le membra, ficcano
con l’aiuto di martelli grandi chiodi nelle loro teste nere, e quindi
ripartono sulle moto per riprendere la mattina seguente il loro lavoro,
impeccabilmente vestiti in giacca e cravatta, con le loro orgogliose
teste bianche impeccabilmente rasate e profumate.
“Quella sera avevano rapito un donna. Era gravida. Gigantesca:
obesa. Il sovrappeso, in Africa, è segno di salute e di rango elevato.
(…) L’avevano condotta sulla collina in una casa disabitata, un
vecchio maniero. Le radio gridavano riti satanici, disperati, ossessivi.
Avevano acceso il fuoco. (…) Era nuda e crocifissa. Una pancia
enorme e nera tremava al fuoco. Le moto riposavano in cortile. La
donna si imponeva maestosa e terrificata. Tra le gambe una vagina
enorme, rasata, impregnata di muco e di paura. Infilata dagli occhi di
quei bianchi come antichi inquisitori. Una ragazza bianca si era
avvicinata alla croce e con rabbia si era attaccata alle grandi labbra,
81
tirando tra urla di morte. Aveva infilato le dita, uncinava quella carne.
Si era attaccata a quel luogo di piacere, ridotto a un calvario nero. (…)
Si era illuminato un pube nero. In quell’apertura nuda penetrò una
lama. Erano ubriachi di sangue” (PC 21-22). Risparmio al lettore le
altre descrizioni presenti nel romanzo e lascio tutto senza commento,
segnalando solo che un simile clima si respira anche nel libro Vestiti
d’ignoto (2009) che, come tutta la narrativa di Andreoli, si ispira a
fatti veramente accaduti. Le storie dei suoi libri sono, come dice lui
stesso, “storie di vita. Mi auguro che il loro racconto aiuti a capire
qualcosa di più dei protagonisti di cui si parla, per poter pensare al
dolore delle famiglie delle vittime, per comprendere meglio l’umanità
di ciascuno di noi” (D 19).
3.
Dolore
La follia e la violenza sono per Andreoli le forme o le maschere
del dolore. Lo stesso vale per altri temi che mi accingo ora a
sottolineare. Dolorose sono tutte le dimensioni dell’eros; dolorosa è la
morte perché l’uomo ne ha paura; la fragilità, proprio perché
consapevole del tessuto doloroso dell’esistenza è l’unica condizione
degna dell’uomo. Per lo scrittore “il dolore non è intermittente ma
costante, sia pure con variazioni di intensità” (CS 31). Bisogna però
precisare che, quando questo scrittore parla del dolore, principalmente
pensa al dolore esistenziale, che include il dolore fisico ma non si
riduce ad esso. Del resto è proprio questo, il dolore esistenziale, ciò
che lui conosce meglio, in cui si riconosce e di cui può parlare. Come
scrive in qualche passo della sua opera, il dolore fisico in gran parte
gli è stato risparmiato e, a parte qualche malattia piuttosto leggera,
come il mal di denti o il fastidio della prostata, egli per tutta la vita
riferisce di aver goduto di un’ottima salute.
82
Ma ciò non l’ha protetto dalla percezione dolorosa dell’esistenza,
che infatti gli ha strappato frasi come: “Il dolore è la condizione
umana, è inutile fingere di dimenticarsene chiamandolo con nomi
diversi e con diagnosi di sapienti o di mostruosità. (…) Sono un uomo
che conosce il dolore e si riconosce nel dolore” (GS 55). Dunque,
nella sua opera il dolore, anche se non è il protagonista numero uno
come la follia, di sicuro è l’orizzonte dominante che non tramonta mai
e domina come un sole nero. Non è necessario passare in rassegna i
romanzi di Andreoli per fornire gli argomenti a sostegno di questa tesi.
Lascio anche da parte la sua summa, quasi un’enciclopedia, cioè un
giro intorno a questo tema: Capire il dolore. Perché la sofferenza lasci
spazio alla gioia (2003), in quanto è un libro che non richiede alcun
commento o critica. È un testo che bisogna attraversare e che sul
lettore esercita un effetto del tutto inesprimibile. L’ho tradotto, ne so
quasi troppo, perciò mi è impossibile parlarne. Lo conservo in me
come uno sfondo di ciò che qui vado scrivendo a proposito del dolore
in Andreoli.
Una piccola scena riportata nel diario rivela la sua sensibilità, il
modo di percepire la sofferenza, le sue reazioni nel confronto, che
spesso poi si fanno scrittura. Tutto inizia in un modo banale e
innocente: “Camminavo per una via del centro, ieri sera: alle dieci.
Non c’era nessuno e mi dirigevo a recuperare l’auto in un parcheggio.
Una madre spinge la carrozzina, un uomo un po’ più avanti rincorre un
bambino. Un ceffone nel silenzio produce pianto e disperazione. È
come se avesse colpito me. Quella disperazione nel buio. Avrà avuto
due anni e non sapeva far altro, piangendo, che chiamare la madre,
quella stessa che non lo aveva difeso” (CS 255). E il commento dello
scrittore: “Di fronte al dolore occorre provare dolore e un senso di
rivolta quando magari lo si lega a un’ingiustizia o comunque a nulla di
necessario. Il dramma del dolore non lo avverti solo quando
appartiene a te, ma sempre. Ha una dimensione sovraindividuale e
persino cosmica. Non accetto il dolore della violenza e cerco di fare
83
qualsiasi cosa, col rischio consapevole di sbagliare, per prevenirlo o
eliminarlo. Un dolore che non può lasciare insensibili” (CS 255).
Un ceffone e l’immediata percezione cosmica del dolore come
se di esso fosse fatto il tessuto della realtà. Una percezione e una
sensibilità presenti nell’umanità da sempre, forse in un modo più
profondo, più sintetico e più elaborato sono state espresse dal
buddhismo con la famosa frase “sarvam duhkham”, cioè “tutto è
dolore”. E si conosce la risposta del principe Siddhartha che,
paralizzato dalla sofferenza che sconvolge l’intera realtà, si mette a
ricercare le cause di questa situazione e le vie per uscirne: trova la
soluzione nella rinuncia a qualsiasi desiderio, incluso il desiderio del
nirvana.
Anche Andreoli, a modo suo, da occidentale, medico e
psichiatra, ha cercato le cause della sofferenza pensando così di
riuscire forse a fermarla. Ma sembra che il dolore sfugga alla legge
“causa-effetto”, o almeno questo è il risultato delle ricerche di
Andreoli, che a sessant’anni confessa: “Non ho più voglia di ricercare
le cause del dolore, di trovarne la sorgente se mai esiste. Non ho più
voglia di perdermi in ipotesi che mi allontanano dal dolore per
difendermi nel sapere e nella speranza del sapere. Le lunghe corse
dentro la prima infanzia, le immagini della poppata, di un capezzolo
negato, di un biberon mostruoso che alimenta mentre la madre dà il
proprio corpo in un letto mercenario. Sempre cercando dentro la storia
dell’uomo e del singolo uomo si incontra il dolore e lo si può porre
all’origine del dolore successivo e così si costruisce una corona di
dolore, una serie infinita di misteri dolorosi, fatti di Getsemani e di
Calvario. Sono preso dentro al dolore, lo partecipo, lo abbraccio e così
mi sporco di dolore” (CS 255). Per questo considera il mondo come
una “osteria della sofferenza”, e stando all’interno si avvia
automaticamente in lui un meccanismo teologico: “Nella sofferenza io
credo in Dio padre onnipotente e ignoro se a crearlo siano il mio
bisogno e il mio dolore oppure esista come ente supremo e creatore”
(CS 258). E in secondo luogo, proprio la presenza del dolore ha spinto
84
Andreoli ad opporsi al dolore, a combatterlo sia come medico che
come scrittore. Si potrebbe dire che egli, avendo una profonda
consapevolezza dell’onnipresenza del dolore, non si è lasciato
paralizzare da questo “demone” e non ha sviluppato in se nessun
atteggiamento masochista, anzi ha sottolineato chiaramente: “io non
amo il dolore, né ho inteso farne un elogio. Mi manca ogni vena
romantica per fingermi in questa parte. Credo che il dolore vada
combattuto, anche se quello dell’esistere mi sembra ineliminabile.
Voglio gridare (…) che il mondo deve allontanare il dolore inutile,
quello che dipende da un modo di vita modificabile, da un potere che
si fa violenza. Io aspiro a una gioia possibile, a una vita che abbia
sapore quanto meno della serenità. Ho parlato del dolore per
comprenderlo e persino per condividerlo, ma anche per vincerlo e
desiderando che scompaia e lasci lo spazio alla gioia. Un progetto che
sopprima almeno il dolore inutile e ridondante: penso alle guerre,
all’odio, alla mancanza del perdono e alla voglia di vendetta. Penso
alle ingiustizie. Un progetto di felicità, per un mondo che oggi mi
appare privo di senso” (CD 307).
Tra i testi di Andreoli esistono, difficili da catalogare per una
mente rigida e abituata alle definizioni manualistiche dei generi
letterari, forme che si potrebbero chiamare meditazioni, confessioni o
soliloquia. Andreoli le inserisce tra i suoi racconti, ma esse
rassomigliano di più alle meditazioni o agli aforismi dei filosofi.
Alcune sono scritte in prima persona, altre in terza. Parlare in terza
persona offre al pensiero il lusso della distanza e una certa anonimità,
come se lo scrittore parlasse di qualcun altro, non di se stesso, e
tuttavia si sa che è solo un gioco letterario. Nella raccolta Racconti
perduti (2010) si trova un breve testo, una meditazione, intitolato
Momenti di gioia (RP 672-676), che voglio usare in modo insolito
trattando il tema del dolore sempre in Andreoli. Suppongo che in
questo testo il nostro psichiatra, pur parlando di una terza persona,
parli di se stesso. In altre parole si confessa. Allora entro in questo
gioco e pongo al testo alcune domande. Come se mi sedessi al tavolo
85
con Andreoli stesso e parlassi con lui di qualcun altro. Ambedue
facciamo finta che qui non parliamo di lui, e il lettore è invitato a
partecipare a questo nostro dialogo. Le domande sono mie,
ovviamente scritte apposta per avere quelle risposte che conoscevo
prima di formularle. Sembra che si parli di felicità, ma nel fondo si
pensa al suo opposto, cioè al dolore. Il dialogo svela i meccanismi
della mente e delle emozioni di Andreoli:
Mi scusi professore, ma ero distratto e non ho sentito bene ciò
che mi stava dicendo di questo personaggio. Potrebbe gentilmente
ripetermi le parole che ha appena a pronunciato a proposito di lui?
“Non conosceva la gioia e sembrava a lui negata. Come se il
dolore fosse garanzia di una vita spesa adeguatamente e nel miglior
modo a lui possibile. Temeva più la gioia della sofferenza, più la
felicità che l’insoddisfazione perenne”.
Ma perché tutto ciò? Da dove gli derivava questo atteggiamento?
“Come si fa a essere felici quando girandosi attorno si vedono
ingiustizie che giungono fino ai bambini violentati per il piacere
sessuale di qualche perverso? Come si fa a essere sereni quando il tuo
vicino è affetto da una malattia terminale e attende solo di morire?”
Dunque niente felicità? E anche se caso mai arrivasse,
bisognerebbe negarla?
“Secondo il suo teorema, la felicità era roba da incoscienti, da
idioti, da stabilmente felici. Da maniacali che vivono nella
onnipotenza e quindi senza limiti di nessun genere.”
Allora la felicità sarebbe qualcosa di malato e di indegno
dell’uomo. Ma tali teorie sembrerebbero fatte da un malato, nessuno
vorrebbe sentirle!
“Inutile dire che si trattava di una posizione poco popolare e
piuttosto strana, perché di solito la gente ha momenti di gioia e gode, e
altri di dolore che si spera passino il più presto possibile e si dà da fare
attivamente per il loro superamento. Lui, se era preso da un momento
di gioia, si preoccupava tanto da diventare infelice”.
86
Ma era un “uomo a rovescio”! E la sua era dunque una “vita a
rovescio”!
“La vita è un’esperienza infelice e, se vivi, devi vivere infelice,
altrimenti meglio la morte”.
Ma questo è perversione, il peggior caso di spiritualità malata di
cui gli psicologi ormai ci hanno spiegato tutto.
“In certe espressioni del cristianesimo pessimista è proprio così.
La vita è una valle di lacrime in attesa della morte, della vita eterna
che è gioia perpetua”.
Ma mi diceva che egli non era un credente, un cristiano del
catechismo e della messa domenicale. E nonostante ciò viveva in
questo orizzonte di una trascendenza e di un paradiso?
“Anche nel paradiso, lui avrebbe costituito una sezione del
dolore”.
Una teologia piuttosto particolare, se non proprio perversa.
Meglio lasciarla da parte. Ma mi dica, lei che l’ha conosciuto bene;
com’era nella vita quotidiana?
“Aveva sempre un’aria preoccupata, ricercava il silenzio per
potersi dedicare agli impegni con maggior concentrazione e quindi
sbrigarsene più presto e certamente si trattava di cose che non
corrispondevano ai suoi desideri. Scappava dai momenti di gioia e poi
si lamentava per non avere mai nemmeno un attimo di serenità, per
non poter pensare a nulla e questa forse era la gioia desiderata. Ma
non pensare a nulla è roba da folli”.
Anch’io l’ho conosciuto un po’ e non mi dava questa
impressione, ma se è vero questo che lei dice, era una persona
piuttosto particolare e un po’ fissata.
“Aveva certamente una sensibilità esagerata e vedeva il nero
anche dove non c’era, ma per lui poteva esserci o accadere, e allora
tutto diventava enorme e poi pensava di peggio e il male è una fonte di
tristezza, di mestizia”.
87
Forse qui si trovava la sorgente della sua energia, della sua
creatività. Forse da qui partiva la spinta per tutti i suoi impegni, il
bene che faceva da medico e poi questa passione per la scrittura?
“Se qualcuno gli faceva notare quante cose avesse fatto,
rispondeva di essersi accorto di aver percorso in modo agitato il
sentiero sbagliato, rispetto a quello che doveva prendere”.
E nonostante ciò, nonostante questa consapevolezza che
comunque sbagliava, si dava da fare, era sempre puntuale,
responsabile, perfetto. Devo dire che mi piaceva questo suo tratto, era
bello collaborare con lui, almeno in quelle poche occasioni che ho
avuto. Purtroppo, finito il lavoro, lui partiva, non voleva fermarsi
troppo a discutere, a perdere tempo, a parlare di niente davanti ad un
bicchiere di vino.
“A parte che non perdeva tempo per parlare del più o del meno.
Se incontrava qualcuno, subito definiva l’agenda, i punti prioritari e si
lavorava correndo per lasciare qualche secondo alle famose
occupazioni del piacere. Se incontrava una donna invitante, se la dava
a gambe, per via della fretta. Si potrebbero moltiplicare i riferimenti a
questo stile di vita, a una regola rigida per soffrire e tutta la sua
esistenza era coerente all’imperativo del dolore”.
Uno stile di vita proprio particolare.
“Un caso davvero strano e patetico che illustra la sindrome della
mancanza di gioia, l’impossibilità di godere”.
E lei, professore, che è suo amico e per giunta anche psichiatra,
non poteva offrirgli qualche spiegazione o mandarlo da qualche buon
psicoterapeuta o guru della meditazione?
A questa domanda il mio interlocutore non ha risposto, ha fatto
solo cenno alla cameriera di portarci un altro bicchiere di vino. E ho
pensato che per l’Andreoli di carta riguardo al dolore le cose stanno
proprio così e la sua visione del dolore si collega bene a quello che ho
sentito riguardo a lui stesso in questo colloquio. Riflettevo anche
sull’Andreoli ancora più recente, che trova una certa serenità
guardando le nuvole e perdendosi nella natura. Pensavo a lui che si
88
identifica con il pellegrino del suo romanzo omonimo e sembra di
essere sempre di più affascinato del silenzio.
4.
Eros
Dai diversi frammenti strappati ai libri di Andreoli si potrebbe
costruire una bella antologia di testi erotici. Il sesso ritorna spesso
nelle sue pagine di narrativa, in un modo forte, ogni tanto ossessivo.
C’è di tutto: scene di accoppiamento tenero e violento, orgasmo e
impotenza, sesso orale e anale, etero e omosessuale, solitario e di
gruppo, vissuto con gioia innocente e segnato dal senso di colpa che si
fa pazzia, situazioni grottesche e comiche, cupe e tragiche, descritte
una volta con delicatezza sublime, un’altra volta con una volgarità
sconvolgente, belle e scandalose. Basti vedere con quale abilità lo
scrittore dipinge una signora che a New York seduce Angelo Spini, il
protagonista del romanzo Fuga dal mondo: “Donna Lodovica
indossava un abito elegante, lungo che si apriva con grande spacco
sulla gamba sinistra, imponendole un incedere maestoso. Ai piedi
scarpe coi tacchi, che la elevavano ancor più e innalzavano il sedere
come un grattacielo del desiderio. Un culo che sembrava confezionato
per un regalo d’eccezione e doveva possedere una morbidezza e
passione. Sulle spalle portava una stola di ermellino che staccava sul
rosso infuocato dell’abito. Un capello ampio copriva la testa di fili
rosa” (FM 49). In questo frammento, che è solo il preludio alle scene
amorose descritte in seguito, c’è tutto l’Andreoli di carta erotico, fatto
di sensibilità e sensualità, agilità linguistica capace di ottenere
quell’effetto letterario che colpisce il lettore, umorismo e ironia che
possono essere tenere per qualcuno e volgari per altri. Senza dubbio
questo aspetto dello scrittore colpisce, seduce, inquieta e richiede un
attimo di riflessione.
89
La prima osservazione che mi viene in mente è di tipo formale e
riguarda il genere letterario. Nell’opera di Andreoli ci sono romanzi e
racconti che si potrebbero definire “erotici”, ma non esiste, almeno
finora, nessun libro della sua saggistica dedicato in modo esclusivo a
questo tema. In altre parole esiste il sesso nella trasformazione
artistica, ma non in quella informativa che tende all’oggettività e alle
definizioni. È un po’ come nel caso del dolore, quando Andreoli
descrive le forme, le esperienze e le espressioni della sofferenza, ma
non vuole inoltrarsi in riflessioni filosofiche sul problema del male.
Anche qui lo scrittore si comporta come un fenomenologo e non tenta
di comporre una “metafisica del sesso”. Si lascia guidare dai
sentimenti, dalle ossessioni, dalle connotazioni linguistiche, dalle
fantasie e non razionalizza troppo, non scrive un manuale o una guida
al “sesso felice”, come avrebbe potuto fare. In ogni caso il sesso
nell’opera di Andreoli è segnato dalle contraddizioni.
Riflettendo sulla vita dello scrittore, che poi in qualche modo si
manifesta nei suoi scritti, si può ricostruire un percorso. Tutto inizia
dalla sua educazione e crescita nella “Verona cattolica”. In questo
mondo la sessualità era semplicemente repressa, vista e vissuta
all’interno di un onnipresente e potente paradigma cattolico in cui un
ruolo importante era giocato dal clero. L’eros era legato al theos dal
filo chiamato clero, su cui era scritto hamartia, cioè peccato. Quando
nel giovane Vittorino si risvegliarono gli ormoni e si fecero presenti le
prime esperienze autoerotiche e poi eteroerotiche, suo padre gli
consigliò la bicicletta, poi il problema passò al confessore. La
masturbazione voleva dire demone, peccato, colpa, confessione. Il
tema, probabilmente vissuto in un modo doloroso, ritorna spesso nella
sua prosa.
Ne I giardini della miseria abbiamo il giovane Carlo, il suo cane
Boby e il parroco don Giulio che in qualche modo inculca nel ragazzo
“il peccato della masturbazione”. La scena ha qualcosa di perverso,
ma tipico di questo mondo e di questa mentalità. Carlo “aveva undici
anni e don Giulio lo aveva tenuto a lungo nel confessionale. Lo aveva
90
rimproverato di non accostarsi a quel sacramento di penitenza con la
dovuta umiltà. Affermare che non ‘aveva nulla da dire, che non aveva
peccato’, dimostrava di essere il più grande dei peccatori. Solo Dio è
senza peccato. Chi si ritiene privo di colpa era un superbo, un
peccatore talmente incallito da non saper riconoscere più le azioni
cattive da quelle buone. Una confessione drammatica perché Carlo
non sapeva più cosa pensare di sé. La sua sensazione di non aver
peccati era grave peccato, e dunque desiderò peccare. Bisognava
peccare per non trovarsi nella medesima situazione d’accusa, la
prossima domenica. Don Giulio insisteva su un peccato che nemmeno
Boby riusciva a capire: la masturbazione” (GM 39). Così Carlo inizia
dunque a masturbarsi, per potersi sentire peccatore, per ottenere la
penitenza, per recitare le preghiere che lo legano al Dio di don Giulio:
“Carlo era contento. Quella domenica era un peccatore che
riconosceva di esserlo, che si pentiva di esserlo, che chiedeva aiuto
per non esserlo più. Non era superbo. Era un grande masturbatore”
(GM 40). Ma questo legame tra la masturbazione, vista come una
grande offesa che crocifigge Dio, la confessione e le preghiere
penitenziali da recitare, lo portano allo scrupolo e sulla soglia della
pazzia.
Poi nella vita di Andreoli arrivano gli studi di medicina in cui la
“fisiologia mistica” è sostituita dalla “anatomia fisica”, e la psichiatria
possiede l’inevitabile impronta freudiana centrata sulla misteriosa
libido, il lavoro nei manicomi percepisce la realtà sessuale da un’altra
angolatura e nella società sta avvenendo la rivoluzione sessuale che
svela i comportamenti e il linguaggio. Così lo scrittore si sfoga con la
prosa. Il culmine di questa creatività lo raggiunge secondo me nel
romanzo Yono-Cho (1994), che dodici anni più tardi l’attore Renato
Pozzetto porterà sul grande schermo col titolo Un amore a misura. Ma
il film è una interpretazione comica della tragedia cupa ed
estremamente grottesca di Andreoli. Alcune scene del romanzo,
soprattutto quelle erotiche, non sono riproducibili nel cinema e le
riprese sono solo una pallida eco del linguaggio dello scrittore.
91
Il romanzo che potrebbe essere catalogato come “erotic science
fiction” è la storia dell’ingegnere Corrado Olmi che, chiuso nella sua
solitudine esistenziale, si fa costruire dalla ditta giapponese Yono-Cho
una bambola erotica capace, secondo i produttori, di soddisfare tutte le
sue esigenze sessuali e psicologiche. All’inizio va tutto alla grande: il
sesso è stupendo, la compagnia della bambola che lo aspetta sempre a
casa, pronta a soddisfare tutte le sue richiese, è gratificante, le
apparizioni nella società con questa sexy bomba (parafrasando la
canzonetta) riempiono l’ingegnere Olmi di orgoglio. Ma presto, dai
più oscuri meandri della sua mente, escono a galla sentimenti di
gelosia. Olmi impazzisce, diventa violento e uccide il suo amore fatto
a sua misura. Nel fondo questo romanzo è una triste parabola sulla
solitudine, da cui si cerca di uscire attraverso la porta delle fantasie
erotiche.
Il sesso nei testi di Andreoli non è mai sereno, ma piuttosto
drammatico e problematico. O porta alla pazzia, come nel caso delle
monache isteriche e sessualmente non soddisfatte dei suoi racconti, o
è il frutto della pazzia che si fa violenza, come nel caso di Corrado
Olmi in Yono-Cho. Ogni tanto si colora di vuoto, come nel racconto
L’impotente (RS 162-169), in cui il protagonista, un uomo di media
età, non riesce a portare al compimento il rapporto sessuale con una
vedova perché diventa impotente ad ogni minimo accenno della morte.
Ecco l’ultimo frammento del racconto: “Lui era impazzito e divorava
la preda, la stordiva con le mani tentacolari, la stringeva e ormai non
aveva nulla di segreto. Una lotta senza nemico, con una vedova che
sapeva bene cosa fare di un pensionato, basterebbe dire dove aveva
infilato il suo indice che possedeva, tra l’altro, un’unghia che cresceva
secundum naturam. Era una lotta greco-romana geriatrica. Lui era
agitato e lei veniva e veniva e ringraziava il marito e, non sapendo
distinguere pensiero e azione, recitò a voce alta un Requiem. Lui capì.
L’affare era caduto anche questa volta e solo la rabbia si fece amore.
Lei lo guardava con un sorriso che sapeva di prostituzione e di morte.
Lui cercava di ricordare il nome dell’andrologo che gli aveva
92
suggerito il pensionato amico del ministero. Era forse un disturbo
dell’età, una sorta di presbiopia che non prende solo gli occhi anzi, gli
disse quello in una rapida consultazione e aggiunse: i primi a soffrirne
sono gli uccelli. Le pauvre oiseau. L’oiseau tombé. L’oiseau tombant”
(RS 168-169). La genialità letteraria di questo racconto sta tutta nel
suo tono comico e grottesco, che però nel fondo è triste e tragico.
Forse l’unica scena erotica serena e descritta con delicatezza da
Andreoli si trova in Una piroga in cielo, quando una sera Kuniò
Balàm vede, come in visione, una bellissima ragazza sulla riva del
lago di un paradiso dell’Africa. Il mondo si ferma, tutto sparisce, sono
solo loro: “Quando la vide, Kuniò Baràm non riuscì più a notare
nessuna barca, nessun pescatore: erano spariti anche i pesci. Vedeva di
lato quella silhouette: elegante, bellissima, nera, stupendamente nera.
Il seno precipitava nell’acqua, trattenuto dall’abito che lo rendeva
ancora più turgido e desiderabile. Di tanto in tanto alzava il capo e lo
roteava veloce, sprizzando intorno zampilli come una fontana animata
da una Madonna nera. Poi di nuovo si piegava, per immergersi ancora.
La veste bagnata aderiva al corpo seguendo linee che sapevano di
verginità. Incantato come da una visione sacra, Kuniò Baràm sentì il
desiderio crescente sotto la tunica con bisogno di emergere, di crearsi
un varco” (PC 45). Poi i due si vedono: “Lo guardò immobile:
sembrava un’icona della bellezza. Sorrise, sorpresa. Anche lui la
guardava. E non pensava. Si alzò, sistemò la tunica e a piccoli passi si
mosse verso di lei. Quella visione intanto era uscita dall’acqua con la
veste attaccata alla pelle. Le scendeva fino ai piedi, nascondendo una
meraviglia, esaltando quel corpo di dea. Si fermò di fronte a lui, con le
mani tra i capelli, per ordinarli. Kuniò Baràm non aveva nulla da dire.
Forse nemmeno parlava il suo stesso linguaggio. Non poteva stare
così, immobile e muto. Alzò la tunica e si mostrò, con l’imbarazzo di
un bambino, animato da una forza titanica. Lei impietrì: le mani sui
capelli si fermarono. Si guardarono in silenzio. Anche lei aveva
qualcosa da mostrare. Sollevò la gonna e gli offrì un ventre turgido,
bagnato d’acqua di lago. Mentre continuavano a fissarsi, si
93
avvicinarono e si unirono in una danza sublime, che finì in un
profondo lamento. Il sole cadeva a picco dietro l’orizzonte. La guardò,
mentre si allontanava nell’indefinito” (PC 44). Un incanto, naturalezza
stupenda, purezza assoluta che, anche se durano solo un attimo e
possiedono il sapore di un sogno sfuggevole, hanno una dimensione
sacra senza ombra. Tuttavia anche qui rimarrà qualcosa di incompiuto
e sospeso…, ma mi fermo qui, lasciando ai lettori scoprire il segreto
finale.
Con la scena d’amore segnata da una tenerezza infinita e da un
tragico unico, che vanno altre ogni “legge”, ma trovano la
comprensione nello spazio dell’amore, finisce il romanzo I giardini di
miseria. Carlo, il pittore-matto, è ormai alla fine del suo percorso.
Perso, esausto e stanco della vita, abita nella povera casa di sua sorella
Lucia, che fa la prostituta. Tra fratello e sorella nasce un tenero amore
che nella loro miseria esistenziale porta un raggio di felicità. Ma la
fine è ormai vicina. Quando una mattina Lucia torna a casa da lavoro,
trova Carlo a letto, in un bagno di sangue che esce dalla bocca. Senza
capire percepisce tutto e sa che le è rimasto da compiere l’ultimo rito,
un congedo che solo lei poteva fare:
“Toccò il letto e iniziò lento un cammino di esplorazione pieno
di incognita. Una ricerca sulla vita e sulla morte. Una spedizione
sull’esistenza, sul suo significato. Ogni tanto immobilizzava la mano,
quando i pensieri chiedevano che cosa sarebbe stata la vita se sul letto
vi fosse la morte. Il primo incontro fu con la gamba. Immobile, d’ossa.
Risalì ancora più lenta. Raggiunse la coscia. Ritrovò il pene che sentì
già sepolto. Avvertiva rumoroso il proprio respiro. I pensieri si erano
anestetizzati su quel ritmo monotono del suo esistere. Cercava il cuore
di Carlo. La sua mano doveva essere vicina. Avrebbe dovuto sentirlo.
Si mosse di paura, d’un tratto, rapidamente e confusamente. Forse
aveva cessato di battere. I pensieri si animavano di pianto. Carlo ruppe
il silenzio con un colpo di tosse che portò insieme vita e morte. Con la
forza di una cannone insanguinò l’uscio e bagnò la mano di Lucia. Si
alzò confusa, accese la luce e vide un nuovo campo di battaglia. Carlo
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respirava nel sangue. Fu presa d’angoscia, di terrore, di morte. Lucia
piangeva, poi d’un tratto rideva. Poi gridava. Si spogliò. Portò il suo
seno sul viso di Carlo in attesa che lo succhiasse. Era tutto quello che
aveva. Era la sua vita. Si mescolò nel sangue aderendo al corpo freddo
di Carlo. Fu presa da grande pace, d’un tratto, vedeva attorno a sé un
giardino verde con alti abeti, solenni e giganteschi. Passeri cantavano
il Dies irae e Vergini spargevano profumi e doni sul suo corpo e su
quello di Carlo. Un cimitero dell’amore. Quando si riaprì l’uscio,
Carlo e Lucia erano abbracciati nel sangue. Lucia sorrise. Carlo
guardava profondo nel nulla, con gli occhi in cielo, come i caduti della
valle” (GM 144).
La dimensione sacra del sesso appare soprattutto nei “romanzi
teologici” di Andreoli, come Il reverendo e Il cardinale, anche se in
questi testi la linea d’ombra che si stende sulla sessualità è più fitta,
perché segnata dalla trasgressione dovuta alla mentalità moralistica
propria del cattolicesimo. In ambedue i casi abbiamo a che fare con
esperienze sessuali intense, fatte da monaci, preti, monache e suore,
che viste in una certa prospettiva hanno qualcosa di scandaloso. In un
attimo l’arciprete, il protagonista che poi diventerà cardinale e papa, si
unisce in una chiesa con suor Clotilde. Sotto la penna di Andreoli tutto
diventa molto colorito. In queste pagine c’è qualcosa di comico e
scandaloso, ma non mancano anche sublimi tocchi di delicatezza, e lo
scrittore individua la strada, piuttosto rara, che unisce eros e theos:
“Gli abiti non avevano più nessuna grazia, sembravano
ostacolare una cerimonia che sapeva di cielo e allora lui tolse quelli di
lei e li baciò, lei lo spogliò e li mise in ordine, piegati come faceva
sempre in sagrestia per gli indumenti sacri, quelli della celebrazione
dell’Eucarestia. E così rivestiti solo di buio, lei lo prese per mano e lo
portò davanti all’altare della Madonna. E qui si persero ancora tra
preghiere e piacere sotto gli occhi della Vergine che sorrideva come
sempre e distribuiva grazie copiose, come solo lei sapeva fare. Il
corpo bianco di Clotilde e la sua bellezza avevano reso chiaro il buio e
così sembrava uno spirito che vagava sulla terra. Lui era magro come
95
un Cristo in croce, ma non altrettanto disperato perché non chiamava
il padre, ma voleva solo restare per sempre in quel paradiso. Entrò in
quella porta segreta e vi trovò fede e amore, sentì più vicino il cielo, e
per la prima volta capì la grandezza della creazione e delle creature.
Capì che un uomo solo è incompleto e che la volontà di Dio è che
l’uomo si unisca alla donna e insieme riconoscano l’Amore che è
ancora più grande se nasce sull’amore umano. Niente era più sublime
di Clotilde e più sacro di quella preghiera ora fatta movimento, di
contorsioni e di lamenti che sapevano di bambino e forse di Genesi”
(C 86-87).
Nel romanzo la descrizione va avanti, ma basta questo per
rendersi conto dello stile e del pensiero che sta dietro. Nell’intero
romanzo, piuttosto tragico, che parla di un ecclesiastico che fa una
carriera strepitosa fino al papato, ma è sprovvisto da sempre e per
sempre della fede in Dio, questo atto trasgressivo è praticamente
l’unico momento nella sua vita in cui sperimenta qualcosa di divino. E
il mio pensiero va ad Andreoli stesso e al suo lungo viaggio, dal
ragazzo, pieno di senso di colpa nei confronti del sesso, allo scrittore
ormai anziano che riesce a pensare e a descrivere la sessualità in cui
eros e theos non si escludono né si condannano a vicenda, anche se
per alcuni il suo testo può suonare blasfemo e sacrilego.
Andreoli nella sua prosa esplora il legame, classico per la
psicologia, tra eros e thanatos, come si è visto nel frammento de I
giadini della miseria. Nel romanzo Il cardinale invece l’arciprete e
suor Clotilde raggiungono entrambi l’orgasmo estatico nella chiesa
trasformatasi non solo in paradiso, ma anche in una tomba: “Ritornò il
silenzio, i corpi erano tramortiti da una luce celeste troppo intensa,
una illuminazione. Giacevano scomposti a terra, nudi, come a
significare che adesso i segreti della terra erano svelati e si poteva
persino morire. Forse si erano addormentati entrambi, forse erano in
estasi uniti a Dio” (C 87). Questo legame tra eros e morte, in un modo
tragico, è presente nel romanzo Silenzi, dove tutto inizia nei paraggi
del cimitero e tutto, dopo essersi compiuto il suo funesto periplo,
96
finisce lì. La giovane Marianna conosce l’amore di Dario all’ombra
del cimitero; poi, incinta e infelice, lo cerca passeggiando tra le tombe,
per morire alla fine insieme con il bambino appena partorito sotto il
muro del cimitero. Il simbolismo e il legame tra eros e thanatos in
questo testo sono tremendi, soprattutto se si prende in considerazione
che tutto parla dell’esperienza di una ragazza che praticamente nella
vita non ha avuto tempo per vivere. Una cosa simile, ma con una
tonalità diversa perché molto allegorica, è presente nel fantasioso e
gotico romanzo Dialoghi nel cimitero di Durness (2006) che racconta
la relazione tra Mary e Alastair.
Mentre per decenni i temi sessuali e le scene erotiche sono stati
presenti praticamente “di regola” o in un modo quasi ossessivo nei
romanzi e racconti di Andreoli, in testi ancora più recenti, come Il
corruttore (2009) o Un pellegrino (2010), questa tematica si fa lontana
o quasi assente. Credo che alcune pagine di questo autore si
iscriveranno nella prosa erotica, e memorabile rimarrà anche il triplice
legame eros – theos – thanatos che modifica e arricchisce il freudiano
e classico binomio eros-thanatos.
5.
La morte
L’Andreoli di carta è pieno di morte e la morte nei suoi testi è
onnipresente. I temi e i protagonisti escono dai suoi libri e, seguendo il
ritmo impazzito delle sue parole, formano nell’immaginazione del
lettore una danza macabra da cui non si riesce a fuggire, a cui anzi si è
costretti a partecipare. La cosa migliore allora è fermarsi per un
momento, chiudere gli occhi e lasciare che questo corteo funebre ci
passi davanti, semplicemente osservandolo.
Ecco Andreoli trentenne nell’obitorio accanto al cadavere del
padre. Preso dalla sua carriera scientifica è arrivato troppo tardi per
salutarlo da vivo ed ora con il filo della colpa crea con suo padre un
97
legame. La morte ne fa parte. Andreoli, che all’inizio di ogni anno, in
una processione rituale, visita le tombe dei suoi vicini. Andreoli, che
in giro nel mondo, ovunque si trovi, visita i cimiteri. Se si interessa a
qualche personaggio del passato fa un pellegrinaggio alla sua tomba.
Questo legame con i morti, così fondamentale per lo scrittore veronese,
fa sì che egli da vivo si senta morto: “Al cimitero vado spesso, perché
ormai vivo di morte e di morti. I vivi mi appaiono sempre più
insopportabili ai morti, anche se fanno rumore e bestemmiano. Amo le
ossa di mio padre, di mia sorella, e voglio anch’io una tomba, magari
per venirmi a trovare e sostare davanti al mio loculo, dove non verrà
nessuno poiché la morte in città si dice porti scalogna e allora è
meglio andare al bar e non al cimitero. (…) Giro per i viali del
cimitero, tristi e vuoti, e leggo nomi e date: il giorno della nascita al
mondo e il giorno della morte. E faccio la differenza e trovo che sarei
già dovuto crepare, e mi viene paura di non uscire più…” (CD 271).
Ma non importa il dato biografico. Nell’Andreoli di carta la morte è
una presenza, un vero e proprio protagonista.
Nel volumetto Versi sotto la terra (2004) le poesie non sono
nient’altro che “urla di morte” (VT 149). La morte è la sua ossessione
che si fa passione. In uno dei primi poemi annuncia: “La morte/ mi
spaventa/ misteriosa/ La vita/ mi tormenta/ inutile” (VT 33). In una
delle composizioni finali confessa: “Vivo per una lapide/ e forse sono
morto per sempre/ Mi seppellirò/ dentro i miei libri/ che già bruciano/
per riscaldare la miseria” (VT 201). In duecento pagine di versi poetici,
chiamati da lui “giochi delle parole”, la parola “morte” è presente
quasi in ogni pagina, e senza dubbio è la più frequente in questa
rassegna poetica. Tutte le altre parole di questi versi e l’intera struttura
del volume gira intorno alla morte.
Tra i diversi suoi pezzi per il teatro subito si nota Voglia di
morire. Atto unico con tre scene (PP 41-58), in cui il professore Giulio
Anderlini si rifiuta di partecipare al teatro della vita, si stende sul letto
e aspetta la morte. I tre atti di El funeral de menega (PP 375-430) o il
98
monologo con un’unica scena El morto (PP 521-554) sono variazioni
teatrali, impazzite, sulla morte.
La rassegna Racconti segreti (2005) si apre con il commovente e
tenero Rio de la Vasta (RS 7-17), che narra l’ultima passeggiata
solitaria di un vecchio che gira tra palazzi, ponti, vicoli e turisti di
Venezia, per morire poi appoggiato a una colonna in piazza San Marco
con negli occhi l’impronta della sagoma della basilica, stagliata sul
cielo scuro. Una descrizione del morire unica, piena di tenerezza e
serenità che sfiorando la felicità nel lettore genera la voglia di morire,
se morire così sia veramente possibile:
“Vedeva ciò che aveva guardato infinite volte, ma mai percepito
con tanta bellezza e magnificenza. Come se si trovasse in paradiso.
Là in fondo il campanile rosso e sullo sfondo il bianco della
Basilica. Una macchia ricamata per un presepio della morte, per un
viaggio nella fantasia e nel sogno. (…)
Piangeva un po’ dal dolore ma soprattutto dalla commozione.
Era felice, felice di essere parte di quell’insieme. In quella piazza che
lo accoglieva con la generosità con cui aveva dato il benvenuto ai
piccioni e sorrideva a quanti giungevano da ogni parte del mondo per
toccare con mano il miracolo, la sua materializzazione. (…)
Gli dispiaceva perché c’erano tante cose belle. Una terra
stupenda che potrebbe essere scaldata dall’amore e che invece spesso
è sommersa di odio. Ma ora vedeva tutto bello. Riuscì ad abbassare gli
occhi e ritrovò i piccioni, parlavano con lui. Li aveva proprio davanti e
non cercavano cibo, avevano capito che lui era solo e che avrebbe
avuto bisogno. Bisogno di carezza, di una parola, di uno sguardo. Di
qualcuno che lo salutasse dicendo che era stato bello incontrarlo.
Pronunciare questa bugia necessaria.
Era felice anche perché a piazza San Marco non si può portare
odio, non si possono evocare ricordi di dolore. (…)
Respirava a fatica ma non se ne accorgeva. Sentiva il suo corpo
pesare, come se nessuno più volesse sostenerlo, nemmeno lui.
99
Percepiva una musica lieve avvolgerlo. Una di quelle
composizioni del barocco veneziano, forse Vivaldi, ancora più leggera
e festosa. Fatta di violini di paradiso e di viole anch’esse senza un
corpo. Strumenti senza strumento.
I suoi pensieri del resto ormai spenti si erano fatti sinfonia.
La piazza divenne ancora più grande, mentre egli si sentiva
ancora più piccolo, talmente piccolo da ricordare un granello di
polvere.
Una polvere felice.
Tirò le labbra per disegnare un sorriso. Voleva ringraziare tutti,
anche chi l’aveva abbandonato. Dire grazie perché aveva imparato
anche dalla solitudine.
Era tempo di andare via. Sapeva di fermarsi non lontano per
poter rivedere ancora piazza San Marco. Magari senza quel dolore al
petto e con un angioletto, o almeno con il papà che certo lo aspettava.
Chissà, lo avrebbe potuto invitare a sedersi insieme a lui,
appoggiato a quella colonna, dove adesso era ancora più solo perché
aveva perduto anche la memoria.
Solo, con stampata negli occhi quella immagine, ora eterna: il
campanile rosso, la Basilica bianca ricamata e il nero del grande
pavimento. Sopra il cielo.
Lui a Venezia non c’era più” (RS 15-17)
La rassegna di questi racconti si chiude invece con Il rumore del
nulla (RS 548-552), un anti-inno cosmico in cui il mare, la terra, il
cielo e l’aria sono avvolti nella morte, emergono dal nulla e nel nulla
spariscono:
“Il vento si inquieta e finisce e così nasce la morte.
Nasce la morte.
La morte viene dal nulla e si fa nulla nelle tenebre.
Un filo di ragno, il rumore del vento, la follia del nulla, la danza
del serpente e tutto si fa nulla e il nulla va nel vuoto e precipita per
100
sempre morto. E resterà per sempre, per sempre, il nulla, per sempre il
buio nel mondo avvolto di silenzio” (RS 459).
Si ha l’impressione di assistere al rito di un sciamano, che in
trans recita un inno fatto di mistero e che tocca l’enigma della vita e
della morte, dell’esistere e del nulla. In questo Andreoli mi pare
proprio un sciamano della parola e del mistero. Ma poi il suo scrivere
sulla morte si fa concreto, umano, corporeo, storico.
I protagonisti dei suoi romanzi muoiono, uccidono, si uccidono
e sono uccisi o vivono essendo morti. La già menzionata Marianna,
appena quindicenne protagonista di Silenzi (2007), incinta per caso e
inconsapevole della sua gravidanza, pellegrina in diversi luoghi di
Verona solo per morire insieme con il suo bambino proprio lì dove, in
un momento di amore, era stata fecondata: “Una madre morta di un
bambino che aveva vissuto giusto il tempo per morire. Morire insieme
al muro di cinta del cimitero monumentale. Un luogo che sapeva
ancora d’amore” (S 133-134). L’ingegnere Corrado Olmi del romanzo
Yono-Cho (1994) uccide Angela, l’amore dei suoi desideri. Il
professore Antonio Antiguo de Il corruttore (2009), non sapendo
come gestire il conflitto con il prepotente Angelo Ratti, disgustato
dalla stupidità e dall’ingiustizia di questo mondo, si impicca. Con il
suicidio del protagonista finiscono anche Sogni d’eremita (1988) e Il
cardinale (2009). Angelo Spini di Fuga dal mondo (2003) per tutta la
vita fugge dalla vita stessa, dalla morte, dal mondo, da Dio, insomma
vive morto, spaventato e affascinato dall’onnipresente o onnipotente
Nulla. Il romanzo si conclude con queste frasi: “La morte della
coscienza non è morte. La morte non è mai nata. E ora taccio: il
silenzio si addice alla morte. Se ne andò come un morto, ma era vivo.
Non se ne accorse nessuno, perché ad ascoltarlo non c’era proprio
nessuno”. E Andreoli come scrittore e studioso alla fine ironicamente
aggiunge una nota a piè di pagina: “Assomiglia a tanti libri scritti per
essere letti, ma che nessuno nemmeno apre. Come non fossero stati
scritti, nati morti, ma vivi” (FM 248).
101
Abbiamo aperto e percorso questi libri molto vivaci e
movimentati di Andreoli per scoprire che sono pieni di morte, un vero
e proprio corteo di morti, una danza macabra che impressiona, un
cimitero di carta, che sconvolge il lettore. Non cerco le ragioni e non
affretto le conclusioni.
Prendo invece in mano, per guardarlo più attentamente, il
romanzo E la luna darà ancora luce (1997), in cui il tema della morte,
grazie a una raffinata struttura, un’operazione retorica notevole e una
visione artistica, è trattato con una distanza che a sua volta si presta ad
una lettura distaccata. Questo breve romanzo è una parabola in cui si
intrecciano orrore con umor nero, l’assurdo con il grottesco. Mi
piacerebbe vedere un cortometraggio basato su questo testo, che
dovrebbe essere girato in bianco e nero, con un pianoforte mal
accordato in sottofondo e le piccole figure che si muovono in modo
accelerato come nei film dei primi decenni del ventesimo secolo.
All’inizio il lettore ha l’impressione che l’azione del romanzo si
svolga in una casa per anziani o malati terminali. C’è un certo
Alessandro che chiede al frate carmelitano Antonio “perché si deve
morire”. Quando il moribondo muore il religioso passa ad un altro
letto. Tutto sembra abbastanza normale: i vecchi capannoni della
ormai non più esistente ditta Rovatti Spa (questa azienda che produce
pompe si trova tuttora a Reggio tra Mantova e Modena) sono stati
trasformati in una clinica, la casa del custode è diventato un convento
nel cui complesso si trova anche una chiesa. Tutto è pulito e ben
organizzato. Ma quando l’autore comincia a parlare di cifre: 4
capannoni, 400 letti in ognuno, 1600 moribondi, circa 50 morti al
giorno, cioè 19.000 morti all’anno, il clima cambia e il lettore rimane
sconvolto. Ha a che fare con un moderno campo di concentramento o
un luogo isolato per le persone infette da qualche pestilenza? Il
richiamo al romanzo La peste di Albert Camus è spontaneo. In questo
momento diventa chiaro che si ha a che fare con una parabola o una
fantasiosa parodia, soprattutto perché Andreoli stesso svela le carte
informando che si tratta della Citta dei morti. Il lettore lentamente
102
riesce a immaginarsi questa città come durante un giro turistico o
mentre emerge gradualmente dalla nebbia. Si apprende che in questa
città c’è la giostra da cui “Talvolta qualcuno non scendeva: durante la
corsa era morto e così avrebbe girato per sempre” (LL 36). Con ciò
tutto diventa prima ridicolo e surreale, e poi orrendo. Si vede dunque
una piazza del mercato in cui i moribondi possono svendere i loro
vestiti, i loro ricordi e persino le dentiere. C’è una palestra per poter
morire in buona salute e il parrucchiere per farsi belli per il proprio
funerale. A tale proposito in questa città lavora la graziosa Mery che
vende le bare e i vestiti per l’ultimo viaggio, e c’è Richy che organizza,
secondo i desideri e le possibilità economiche dei clienti, i funerali.
Nella chiesa tiene le sue assurde prediche Monsignor Terenzi Albino e
nel cimitero lavorano due felici becchini gay, Giacomo e Roberto, che
durante il lavoro, ogni tanto, fanno l’amore tra le tombe. I moribondi
sono consolati dalla bella e graziosa Suor Amelia, e su tutto veglia
l’Amministratore Tony.
La Citta dei morti, cosi dettagliatamente descritta, si trova al di
là della Città dei vivi di cui però non si sa niente oltre il fatto che da lì
provengono gli abitanti di questa prima città, che qui ogni giorno sono
portati con il pullman guidato dal gentile e sorridente autista Albino.
In questo clima surreale tengono i loro discorsi e dialoghi sulla morte
diversi protagonisti. Oltre a quelli religiosi di Frate Antonio e
Monsignor Albino, c’è quello del professore Agostino Pontirolli che
scientificamente spiega: “La morte fa parte dell’esistenza”, ognuno
“Muore perché è uomo, non perché è malato” (LL 22), e “La morte
non è un male, ma un evento dell’esistenza” (LL 23). C’è il
moribondo Francesco che di fronte alla morte ha un’irresistibile voglia
di bestemmiare Dio, e Andreoli con uno stile suo tipico, racconta che
dalla sua bocca “le bestemmie uscivano come un lamento e con il
ritmo di un salmodiare benedettino” (LL 14). C’è il giovane Corrado
che non vuole morire, non desidera un paradiso al di là del paradiso di
questa terra, e c’è anche la ricca contessa che spera proprio di andare
in cielo immaginando che là troverà un casinò bello e grande. Non
103
manca ovviamente anche il filosofo scettico di nome Arturo, che
dubita di tutto. Ognuno di questi personaggi ha il suo modo di vedere,
di pensare e di vivere la morte, e i loro discorsi o dialoghi sono piccoli
trattati sul tema della morte.
Alla fine il grottesco e il surreale mutano in orrore. Primo,
perché si impara che la Città dei morti è circondata da un muro molto
alto, dietro il quale scorre un canale, e dunque da essa non si può
uscire per tornare nella Città dei vivi. Secondo, perché in un edificio
abbandonato, collocato alla periferia della Città dei morti, si celebrano
riti orgiastici e satanici. L’autore non spiega il perché di tutto questo,
semplicemente offre un’immagine. L’ultimo colpo di scena è quando
il primo di aprile del 2000 l’autista Albino torna con un pullman
completamente vuoto perché “nella Città dei vivi erano tutti morti”
(LL 125).
Nell’insieme questo romanzo è un grido di Andreoli contro la
morte e, d’altra parte, anche un’affermazione che tutto, dall’inizio alla
fine, è avvolto nella morte quale unica signora e vincitrice della realtà.
Dunque, bisogna leggere, insieme al sarcasmo, anche le parole
pronunciate da un mistico col codino, imbevuto di teorie orientali, che
recita: “Io non muoio, nessun uomo, nessuna creatura muore. Cambia
solo dimora, anelando a unirsi al Tutto. Come si può pensare che
qualche cosa della natura, di Dio, muoia? L’energia si trasforma e uno
passa da una forma a un’altra. Dio non può morire e Dio è Tutto:
l’insieme di ogni cosa visibile e invisibile. L’uomo si trasforma in
un’altra creatura e poi in un’altra, in un’esperienza cosmica
dell’esistere. Non si muore mai, Dio non può morire e ognuno di noi è
un frammento di Dio. Non si nasce, né si muore” (LL 63). Queste
parole potrebbero benissimo uscire da un guru moderno, come ad
esempio Osho, che sulla sua tomba ha ordinato di scrivere: “Mai nato,
mai morto. Visitò questo pianeta terra dall’11 dicembre 1931 al 19
gennaio 1990”. Ma di sicuro non può essere il credo di Andreoli che
vede l’uomo e forse l’intera realtà circondati dalla morte. Ovunque
l’uomo andrà, qualsiasi strada sceglierà, prima o poi incontrerà la
104
morte. Con la vita e la morte è come con la terraferma e l’oceano.
Vivendo in un continente l’uomo dimentica che da tutte le parti è
circondato dall’oceano e che sulla terra la proporzione tra terraferma
ed acqua è di uno a tre. L’uomo distratto dalle cose di questa vita
dimentica la morte. Si potrebbe dire che Andreoli non si lascia
distrarre, anzi qualcosa lo spinge sempre a contemplare dalla
terraferma l’oceano della morte che all’orizzonte sembra persino
fondersi con il cielo. Una volta, durante un giro su un battello in
Danimarca, ha annotato nel suo diario: “Il mondo visto dall’acqua è
più bello e l’uomo su una barca si sente instabile e forse trattiene
l’arroganza e avverte forte il dubbio. La vera saggezza. Non la verità,
ma il dubbio come unica verità” (CS 280).
La realtà della morte, così prepotente nelle opere di Andreoli, è
il suo modo di guardare la vita dalla prospettiva della morte, come chi
sulla barca guarda la terraferma dalla prospettiva dell’acqua. Tale
prospettiva cambia molto, cambia tutto, e Andreoli scrivendo propone
ai suoi lettori di guardare la vita proprio da questa prospettiva.
6.
Finemondo
Quando, amato e apprezzato da Andreoli, il suo pittore-matto
Carlo Zinelli impazzì, perdendo praticamente ogni legame con il
mondo, ogni tanto dipingendo pronunciava ritmicamente, non si sa
perché o per chi, la parola: “Finemondo” (LGF 382). Forse era un
ricordo delle sue esperienze di guerra, forse una semplice
affermazione della sua incompatibilità con il mondo. L’eco di questo
ritmico mormorio o grido di Carlo risuona sotto un’altra veste verbale,
più colta e sublimata nei libri dello scrittore veronese. Andreoli non
dice “Finemondo”, ma scrive “Dies irae”, quasi sempre legando
queste parole con il Requiem di Mozart, che è anche il titolo del suo
trattato in forma di romanzo proprio sulla fine della civiltà occidentale.
105
Dies irae è un ritornello frequente nella sua prosa e saggistica. Lo
ritroviamo quasi in tutte le sue opere e ha lo stesso sapore del
“Finemondo” di Carlo Zinelli. Tale espressione del vecchio messale
latino è l’esteriorizzazione della consapevolezza nello scrittore di una
fine imminente, che permette di definire almeno una buona parte della
sua scrittura come apocalittica. In altre parole, Andreoli è uno scrittore
apocalittico. La cosa possiede un tale peso nella sua opera ed è così
diffusa, che richiede un’attenzione particolare. La coscienza della fine
imminente è uno dei motori della creatività letteraria di Andreoli, che
da questo punto di vista non è né il primo, né l’ultimo, né l’unico.
Lasciamo da parte il “perché” e accontentiamoci di affermare
che il senso della fine non è solo molto frequente e comune, ma è
proprio una costante della cultura e soprattutto della letteratura.
Bisogna però invertire la prospettiva. Sono convinto che non solo
esistano testi, tanti, tantissimi, che parlano della fine del mondo, ma
che soprattutto il senso di una fine piuttosto imminente generi un certo
tipo di letteratura. La visione della fine, di un annullamento, esplode
nella testa degli uomini in un immaginario e un linguaggio
apocalittico che generano opere dal carattere del tutto particolare.
Basta pensare a tutti i testi apocalittici dell’ebraismo, del
cristianesimo e dell’islam, e al più conosciuto nella nostra cultura, il
Libro dell’Apocalisse di San Giovanni che chiude il Nuovo
Testamento. Il cielo che si arrotola, le stelle che cadono, le bestie che
appaiono, l’esplosione di colori che pitturano persino i cavalli in modo
diverso, il mare che si tinge di sangue, i fulmini spaventosi e
l’apparizione di un sole nero. È un paradiso per i pittori, una terra
feconda per la follia. Gli stoici, per praticare la loro prosoché
(attenzione) e la loro epoché (sospensione), avevano bisogno della
visione di un cosmo che periodicamente è divorato da un grande fuoco
(ekpurōsis). I buddhisti che cercano l’illuminazione vivono con la
consapevolezza del kalpa, il giorno di Brahma che dura 4.320.000.000
anni, seguito dalla “notte di Brahma” della stessa lunghezza, in cui
l’universo scompare. Gli induisti vivono nella prospettiva del
106
Kaliyuga, epoca della Kali, che dura 432.000 anni ed è l’ultima epoca
del mondo che alla fine di tale periodo scomparirà per poi rinascere.
Eccetera, eccetera. Meglio non inoltrarsi nelle speculazioni
“cabalistiche” a tale proposito, col rischio di perdersi in calcoli e
interpretazioni allegoriche delle cifre e immagini apocalittiche. Una
cosa però è sicura: il sentimento della fine e l’immagine di un mondo
annullato generano la letteratura, che in seguito fa nascere altre,
numerosissime, letterature pro e contro.
Anche l’opera di Andreoli si colloca all’interno di questo grande
e costante movimento apocalittico. Egli soprattutto vive nella
consapevolezza della fine della civiltà occidentale, e la annuncia nei
suoi scritti. I suoi testi fondamentali in proposito sono Principia. La
caduta delle certezza (2007) e Requiem (2010). Il primo è una raccolta
di saggi sulla scienza, la politica, la filosofia e la religione, in cui
l’autore svela e analizza la mancanza di princìpi nella civiltà
occidentale. Il secondo è un raffinato romanzo filosofico, in cui la
trama è ridotta al minimo, composto di otto trattati sullo stesso tema
visto dal punto di vista di Andreoli stesso: egli si nasconde dietro la
misteriosa persona del padrone di casa che scrive una lettera sulla fine
della civiltà, invitando a casa sua per parlarne un archeologo,
un’adolescente, un filosofo, un generale, una psicoanalista, un poeta e
un prete. La lettera, vero e proprio trattato su questo tema, inizia nel
modo seguente:
“Mi sono convinto che il momento presente, quello che noi
viviamo, segni la fine di una civiltà, della nostra civiltà. È già capitato
nella storia e almeno in alcuni casi è avvenuto senza che le persone ne
fossero consapevoli. E mi pare che anche oggi non ne abbiamo la
minima percezione e quindi la gente vive come se ne fosse estranea,
come se tutto procedesse dentro l’ordinario e come se anche i segnali
che a me appaiono di fine, fossero espressioni di crisi di una civiltà a
cambiare e a risolversi. Io credo che ci siano invece segni netti di fine,
di fine di una civiltà, e che quindi anche la nostra stia per morire. Mi
pare anche che l’agonia sia avanzata e che dunque la fine sia
107
imminente. È inutile che io sottolinei che fine della civiltà non
significa del mondo; non ha nulla a che fare con apocalissi e con le
profezie di morte che nella storia hanno indicato tante Cassandre e a
cui io non aspiro assolutamente di aggiungermi. (…) Con la fine della
civiltà invece il mondo continuerà con uomini, donne, animali e piante,
ma in una cultura e con uno stile esistenziale nettamente mutati” (R
26).
Dunque l’apocalisse non assoluta, ma relativa, un’apocalisse
piccola; non la fine del mondo, ma la fine di un certo mondo che era
fondato sulla giustizia, sulla democrazia, sulla morale, sull’autorità,
sul principio di non contraddizione, su Dio e sull’eroe. Secondo
Andreoli, nella tempesta dei cambiamenti vissuti dall’Occidente questi
princìpi crollano e con essi crolla anche la civiltà. Lo scrittore
veronese nei suoi scritti indaga sulle cause di questo sgretolamento e
si domanda se sia possibile recuperarli o cambiarli per – nonostante
ciò – poter vivere:
“Da pessimista attivo, quale mi definisco, intendo richiamare
l’attenzione sui principi per verificare la salute di questo fondamento
della nostra civiltà, per verificare non tanto il cambiamento, ma
semmai la possibilità di cambiare, che si lega comunque alla presenza
di recettori, di forme che li possano contenere e avvertire. E con
questo spirito cominciamo un viaggio, certo affascinante, alla ricerca
dei principi per poi tornare all’uomo, per vedere se ciò di cui ha
bisogno non sia proprio una somministrazione molto attenta di
principi vecchi, ma forse anche del tutto nuovi” (P 19).
Dunque una convinzione della fine, un pessimismo attivo
mescolato ad un certo messianismo, cioè la persuasione che l’analisi
attenta, cioè la scrittura, serva e possa fornire alcuni suggerimenti per
una vita futura, cioè per una salvezza. Ecco la forza della mente che,
non trovandosi nel mondo che percepisce, prima fugge e poi dalla
distanza della scrittura riflette per offrire una via d’uscita che nel caso
di Andreoli simbolicamente si riassume nel tema della fragilità, di cui
si parlerà nel capitolo seguente.
108
La fine della civiltà è solo una delle forme della consapevolezza
della fine, ma nei testi di questo scrittore ne troviamo anche altre. Il
momento in cui Carlo Zinelli impazzisce significa per lui la fine di un
certo mondo, quello della società, dell’esercito, della città, ma
coincide con l’entrata nel mondo della pazzia, del manicomio, della
pittura. Per Andreoli la morte di suo padre significa la fine di un certo
mondo, il mondo in cui c’era il padre, e l’inizio del mondo senza il
padre. La sua fuga dal mondo della psichiatria è per lui la fine di un
mondo che, considerata con esagerazione e con un certo sentimento,
quando si sente inutile e senza “ruolo”, senza “posto” nel mondo, è
paragonata nella sua mente alla fine assoluta del mondo. Il suo diario
Cronaca dei sentimenti, che segna proprio questo passaggio, è pieno
di riflessioni del genere. Inizia con una meditazione davanti al fuoco
che consuma tutto: “Ero davanti al fuoco il primo minuto del 1999.
Vicino alla mezzanotte lo avevo realizzato con legna di rovere: si
consuma rapidamente e dà una fiamma che si eleva e schiocca per fare
la festa” (CS 7). Per Andreoli era un anno di passaggio, la fine e
l’inizio, tante fini e qualche inizio. Finiva un secolo, finiva un
millennio, finiva il suo lavoro di psichiatra, iniziava l’esistenza da
pensionato che non si è arreso a questo destino, ma è diventato uno
scrittore che crea in attesa della fine. Il cinque settembre scrive: “Io
non so se ci sarà l’apocalisse quest’anno o in un futuro più o meno
lontano, oppure se questo mondo si trascinerà stanco e dimenticato
anche dagli dei, per sempre. Non so se questo evento sia iscritto
dentro il potere dell’uomo che finirà con l’annientarsi senza bisogno
di dei giusti o cattivi” (CS 242). E conclude l’anno di nuovo a casa di
fronte al fuoco, meditando sulla morte, sulla vita e sull’apocalisse che
non è avvenuta, o forse e paradossalmente sì: “In questo giorno di
passaggio il ciclo vitale e quello mortale si uniscono: un anno nasce
per morire. Anche la morte ha partecipato al rito della genesi, della
genesi di ogni anno. (…) L’apocalisse non c’è stata, sarebbe iniziata
esattamente a mezzanotte. Non l’apocalisse temuta, almeno. Forse la
vera apocalisse è che il mondo continui” (CS 506).
109
Nel racconto La malattia della felicità (RS 129-150) la fine
significa il termine della relazione con il computer dello scrittore che,
come metaforicamente si dice, “è morto”. Questa perdita è vista e
vissuta come “finemondo”, che poi prende forma più drammatica
perché globale nel racconto-meditazione Apocalisse, in cui lo scrittore,
vedendo che nel mondo quando si fermano tutti i computer provocano
un vero disastro, inizia col dire: “È curioso o forse addirittura
drammatico pensare a un’apocalisse non ordinata da Dio, ma prodotta
dai computer, sfuggiti al controllo dell’uomo e capaci di decisioni non
previste e comunque dannose”, poi continua: “Se immaginiamo per un
momento che questo strumento di controllo impazzisca, non possiamo
che avere un’immagine dell’apocalisse”, per finire con queste parole:
“Se mille anni fa era Dio il destino e il regolatore delle condizioni
vitali, quello che teneva in vita l’uomo, oggi almeno molte di queste
funzioni sono passate al computer. A questo suo prodotto, scappato dal
controllo umano, e così persino Dio ha paura” (RP 716-717).
Non poter funzionare in certe relazioni e non poter frequentare
certi spazi viene vissuto dunque come la fine del mondo, cioè la fine
di un certo mondo. La morte di qualcuno che ci è vicino o che amiamo
muta il nostro stare nel mondo al punto che questo cambiamento è
vissuto come la fine del mondo. Lo stesso vale per il guasto di una
macchina da cui si dipende. La “finemondo” vuol dire allora la fine di
una relazione. Ora, se si prende in considerazione il fatto che per una
mente religiosa l’uomo vive tra il mondo e Dio, la “finemondo” può
essere percepita in modi diversi. Un uomo morto deve trovare nella
mente di quelli che vivono la sua collocazione o nel mondo
(decomposizione, trasformazione) o in Dio (resurrezione,
trasmigrazione). L’uomo può pensare la “finemondo”, l’annullamento
dell’universo, il suo ritorno al nulla prima della creazione,
consolandosi che egli (uomo) sopravvivrà al mondo trovandosi “in
Dio” – tutte le apocalissi si perdono in speculazioni di questo tipo.
La fine relativa, cioè la fine di un certo mondo, modifica la
nostra visione dell’uomo, ovvero dei suoi valori e princìpi, perciò
110
Andreoli, come abbiamo visto, vi riflette: cosa deve essere salvato e
cosa deve essere riscoperto, cosa deve essere rifiutato e cosa deve
mutare? Ma la fine del mondo relativo smuove anche la nostra visione
di Dio e ogni tanto persino la rimuove totalmente. La “finemondo”
coincide con la “finedio”, che vuol dire la fine di un certo Dio. A titolo
di esempio prendo il suo racconto-meditazione Il Padre Eterno non ne
poteva più che inizia così: “Nessuno mai, in paradiso, lo aveva visto
così. E il confronto era con il passato eterno. Mai, mai aveva perso la
pazienza e mai aveva bestemmiato. Non sembrava nemmeno dio. Non
ne poteva più dell’uomo e della terra e giurò di non occuparsene mai
più. L’uomo gli aveva rotto l’anima e affermò ex cathedra che non gli
somigliava neanche un po’. Ne era disgustato” (RP 357).
È un testo degno del commento di un Padre della Chiesa come
Gregorio di Nissa o Agostino d’Ippona, o di qualche scolastico come
Anselmo d’Aosta o Tommaso d’Aquino. Sarebbe facile e divertente,
ora, con un pizzico d’ironia, immedesimarsi in ognuno di loro e
commentare questo frammento di Andreoli, ma mi trattengo.
Importante è solamente notare che nella mente dello scrittore veronese
abbiamo a che fare con una situazione senza precedenti, anche a
proposito di Dio. La sua eternità è stata infranta, il Dio è cambiato, il
che indica la fine di un certo Dio o, per essere più precisi, la fine di
una certa visione di Dio da parte dell’uomo. L’uomo si immagina Dio,
ma lo fa a partire dalla sua percezione del mondo, e quando questo
mondo sembra essere molto cambiato e disgustoso, non è più
conciliabile con l’immagine di Dio con cui finora l’uomo aveva
convissuto. Finito un certo mondo, finisce anche un certo Dio, e con
lui l’uomo ha l’impressione di sprofondare nel nulla.
Le frasi che seguono, incise in brevi aforismi, sono l’esempio di
uno stile apocalittico moderno, e abbondano le immagini di guerre, di
violenza, di stupidità: “Aveva chiuso gli occhi in lacrime, il Signore
Iddio, di fronte a quella donna, creata a continuare the procreation, era
a gambe divaricate e un nero la infilava con obici da cento chili,
alternati a ceri pasquali. (…) Non poteva accettare i politici, non erano
111
uomini e nemmeno creature, ma dei satrapi del potere. Il demonio al
loro confronto era un chierichetto che alza la coda e attende d’essere
riempito di Spirito Santo. (…) Le galline facevano le uova quadrate.
(…) Le vacche mangiavano ossa di maiale e bevevano il vino di
Provenza. I curati palpavano il culo di novizi e recitavano le litanie
dello spirito. Le madri partorivano i figli nei cassonetti e la crescita
del Paese era sotto zero. (…) A Palazzo Chigi era in corso una
riunione del Consiglio. Doveva decidere se non fosse il caso di fare un
altro dio, di sostituire il vecchio, e subito il presidente diede la sua
disponibilità” (RP 357-361). E così via.
Come dice il titolo di questo racconto e come viene ripetuto nel
testo tante volte “il Padre Eterno non ne poteva più”. All’inizio questo
Dio, non potendone più, “aveva deciso la fine del mondo” (RP 358), e
qui la meditazione dello scrittore si fa ancora più estrema perché:
“Tutto funziona ormai automaticamente e il mondo va senza Dio. E
Dio desiderava morire. Un suicidio impossibile. Un omicidio perfetto.
Se lo uccidi resta vivo. Il grande mistero. Mentre sulla terra tutti
crepavano per mano dell’uomo o della donna. Dio non serviva
nemmeno alla morte. Il destino era l’uomo e persino Dio era nelle sue
mani. E così Dio si fa vittima sacrificale per sempre e da sempre” (RP
361).
Qui ci vorrebbe forse un bramino capace di commentare queste
meditazioni di Andreoli paragonandole ai versi per esempio del
Śatapatha-brahmana, in cui leggiamo: “il Signore delle creature, dopo
aver generato gli esseri viventi, si sentì svuotato. Le creature si
allontanarono da lui; e non rimasero con lui per la sua gioia e il suo
sostenimento” (III,9,1,1), perciò il Signore dice a se stesso: ‘Suvvia,
mi sacrificherò in tutte le cose viventi e sacrificherò tutte le cose
viventi in me’. In seguito, dopo aver sacrificato se stesso in tutte le
cose viventi e tutte le cose viventi in sé, egli acquisì magnificenza,
splendore e sovranità” (XIII,7,1,1).
Non voglio però né fare il bramino né praticare un eclettismo a
poco prezzo mescolando l’Andreoli di carta con la letteratura vedica.
112
Se mi sono permesso questa comparazione, l’ho fatto solo per
dimostrare che nella letteratura dell’umanità, dallo Śatapathabrahmana, composto circa 2.500 anni fa, a uno scrittore veronese del
XXI secolo, si trovano tracce simili, tendenze, desideri e intuizioni
che riguardano l’annullamento del mondo e l’auto-annullamento di un
creatore. Mi sembra questa una tendenza costante della mente umana,
che in una certa prospettiva, profonda e impazzita, medita sul mondo e
su Dio. La differenza sta forse nel finale: nel Brahmana il Creatore
dopo un auto-sacrificio acquista “magnificenza, splendore e sovranità”,
in Andreoli il Dio semplicemente e soltanto… piange. La “finemondo”
si fa “finedio” e trascina dietro di sé anche l’uomo provocandone la
“fineuomo”. Per cui il legame tra il mondo, Dio e l’uomo risulta fatto
da una collana di lacrime, metafora meravigliosa per tale tipo di
riflessioni.
Ma tutto questo succede, ricordiamoci, soltanto nell’Andreoli di
carta. Si potrebbe dire che non si scrive senza la percezione della fine
di qualche mondo. Il mondo versato nelle parole finisce, questa è la
sua fine, ma d’altra parte il mondo versato sulla carta incomincia a
vivere nelle belle parole. Una morte, una nascita. La scrittura è sempre
un fine e un inizio. È questo un elogio alla scrittura? E perché no?
Niente è più tenero e fragile della scrittura e niente e più forte di essa.
Ma Andreoli nelle sue meditazioni va ancora più lontano e si fa
ancora più raffinato quando nel Requiem, romanzo sulla fine,
immedesimandosi nel poeta, indica la via oltre lo scritto, intuendo così
una dimensione della musicalità della realtà che potrebbe essere
intuizione della fine senza fine: “Il poeta non è colui che scrive versi,
basta soltanto che li pensi, li immagini, li sogni. Non è la scrittura che
definisce un verso, ma la sua musicalità di qualcosa di impalpabile, di
inconsistente, di inesistente, ma vivo. La nascita del poeta è misteriosa.
Egli fa versi e poi li declama e così si spargono nell’aria e per li campi
esulta e intenerisce il core. Il poeta è colui che fa versi e non chi li
scrive. E dove vadano a finire non gliene importa nulla perché la
poetica insegna che il verso non esiste in funzione di dove va a finire,
113
ma per il fatto di essere uscito dalla bocca del poeta che è piccola, con
le labbra sottili rosse, ed emette suoni sottili che ricordano l’usignolo”
(R 480-481). Forse la poesia concepita così potrebbe essere un
rimedio all’ossessione apocalittica. Forse l’intuizione della musicalità
include in sé il desiderio dell’eterno ritorno, della ciclicità della realtà.
Forse questa è anche una spiegazione dell’amore per la musica che
Andreoli spesso confessa nelle pagine dei suoi libri.
7.
Fragilità
Come si dice che tutti i nodi vengono al pettine, così si può dire
che in Andreoli tutto tende al tema della fragilità. Questa è almeno la
mia interpretazione, adatta anche a chi vuole avere una conclusione
“edificante” e spontaneamente rifiuta un finale di tipo tragico-assurdo.
Devo però dire che non è un tema che si presenta in modo ovvio e
immediato. Ogni tanto, leggendo i libri del professore, rimanevo
sconvolto ed esausto dal loro clima cupo, dal pessimismo, dalle
ossessioni che durante la lettura mi sussurravano al pensiero di avere a
che fare con una “mente perversa”. Ovviamente cercavo una qualche
giustificazione o spiegazione, una qualche interpretazione, e la più
frequente era: ha visto troppo, è troppo sensibile, deve liberarsi di
questo in qualche modo e ha trovato la via della scrittura. Devo anche
confessare che sono un lettore che rifiuta o non finisce di leggere, e
soltanto i libri veramente mal scritti e i testi di Andreoli sono riuscito a
portare a termine. Mi sono sempre domandato il perché? Non sempre
mi piacevano, ma col passare del tempo ho notato che li ricordavo
benissimo perché ne ero rimasto colpito. Non si trattava solo di
impressioni forti che si possono avere leggendo le scene di crudeltà, di
violenza, di oscenità pornografica, o anche le scene e le frasi molto
comiche che nei suoi libri paradossalmente non mancano. Ricordo di
una persona che, dopo aver letto Silenzi, aveva chiuso il libro e si era
114
messa a piangere… in silenzio. Una volta un mio amico, persona
piuttosto pia, lesse Il cardinale, e quando gli chiesi cosa ne pensasse,
rispose che per il momento aveva interrotto la lettura perché non ne
poteva più, era troppo pesante e voleva prendersi alcuni giorni di
respiro in modo da poterlo finire. Un’altra persona ancora, che
leggeva accanto a me I giardini della miseria, a metà del romanzo era
letteralmente scoppiata a ridere, quindi mi aveva letto il frammento ed
avevamo riso insieme fino alle lacrime – ovviamente questo era
successo non riguardo alla parte finale dell’opera che è tragica. Ma
nonostante ciò, mi domandavo che cosa, tra il fascino e il rifiuto, la
raffinatezza e la volgarità, rendesse ai miei occhi valide queste pagine?
Non era né il morboso, né il perverso, né il cupo, e neppure una
seducente arte narrativa. Mi rispondevo che quello che “salva” questi
testi è un sottile velo di tenerezza e il valore dei sentimenti umani che
l’autore riesce a introdurvi.
Il mondo della follia è tremendo e ripugnante, ma Andreoli lo
vede e lo descrive con questo “pizzico di qualcosa” che mi commuove
e me lo rende simpatico. Il dolore e la morte si stendono ovunque in
questa opera, rendendola cupa, ma sotto sotto è presente qualcosa che
ammorbidisce la durezza di queste pagine. Le scene erotiche sono sì
sconvolgenti, ma si capisce che oltre la stupidità, il vuoto, e persino
oltre la violenza e l’ossessione, c’è una ricerca disperata d’amore. A
mio uso personale ho elaborato una via di mezzo tra la Cronaca dei
sentimenti e L’alfabeto delle relazioni, una teoria dei “sentimenti in
relazione” sui quali si regge l’intero edificio dell’Andreoli di carta.
Una svolta a riguardo mi è arrivata durante la lettura del
racconto Rio de la Vesta: un vecchio che muore in una via di Venezia
solo, ma sereno. C’è in queste pagine una solitudine tremenda, proprio
perché in contrasto con la bellezza della città e la sua folla umana. C’è
il dolore, che tuttavia non riesce a rimuovere l’ironia sottile dello
scrittore quando parla di veneziani. Ma in tutto ciò c’è anche una
leggerezza che ha il sapore della tenerezza e che avvolge tutto il
racconto come la nebbia la Serenissima. Questa tenerezza si è fatta
115
strada in me quando sono arrivato al punto in cui questo vecchio,
ormai quasi morto, riposandosi sulle scale della chiesa di San Moisè,
prima osserva e poi saluta un gruppo di giapponesi. C’è qualcosa di
commuovente in tutta la scena: “Giunse un gruppo di giapponesi con
una guida che aveva un ombrello rosso, aperto per richiamare
l’attenzione di ciascuno ed evitare smarrimenti non facilmente
risolvibili in questa città. Raccontò la storia di San Moisè, e poi
salirono in gondola e non rimase più nulla di quel nugolo nero di
gondolieri. Un volta saliti a bordo con aiuti, rischi e divertimento, si
misero a salutare e poiché non c’era nessuno altro nei dintorni, tutti si
rivolsero a lui, e lui non volle deluderli, tanto da muovere entrambe le
mani e da alzarsi persino in piedi. Si spostò e li salutò fino a che non
entrarono, perdendosi, nel Canal Grande. Qui, attirati dai palazzi, si
dimenticarono completamente di quel vecchio. A lui dispiacque,
poiché gli era parso di aver stabilito una relazione, sia pure fugace,
con un mondo intero” (RS 13-14). Un vecchio che muore e un gruppo
di turisti giapponesi, le città fatta di palazzi e d’acqua intorno, e un
filo invisibile che lega le mani che si salutano dando senso a tutto ciò.
Incredibile.
E così, in questa luce ho iniziato a percepire e a interpretare tanti
libri di Andreoli, e forse persino tutta la sua opera. Tenerezza.
Leggendo ero consapevole delle trappole ermeneutiche e mi rendevo
conto che questa poteva essere anche e soltanto la mia interpretazione
tendenziosa, che desiderava trovare quello che voleva e non quello
che c’era effettivamente dentro. Mi domandavo: forse proprio a causa
del mio spirito di contraddizione trovo in essa questa tenerezza con
cui l’Andreoli di carta non ha niente a che fare? Ma nonostante ciò, la
tenerezza emergeva nella mia mente quando leggevo queste pagine
cupe, violente e tragiche. Anzi l’intera impresa letteraria di Andreoli, e
in fin dei conti lui stesso, mi apparivano mosse da una tenerezza
parzialmente inconsapevole e tendenti verso una sempre più cosciente.
Ho proceduto così fino a quando Andreoli ha pubblicato il
saggio L’uomo di vetro. La forza della fragilità (2008). In quel
116
momento ho avuto la conferma delle mie intuizioni e ho sostituito la
mia “tenerezza” con la sua “fragilità”. La fragilità è la chiave
interpretativa di quest’opera e del suo scrittore. Fino a prova contraria.
L’uomo di vetro è scritto al ritmo di una litania della fragilità, è
un elogio alla fragilità, è una raccolta di aforismi nascosti dentro uno
stile da saggista, è un credo esistenziale, una confessione dello
scrittore, la sua profezia o l’augurio per il mondo:
“La fragilità è dentro l’anatomia dell’uomo, fa parte della sua
sostanza costitutiva che non è di ferro, ma di carne da macello. (…) Il
dolore è la fonte della fragilità poiché ti rompe e ti senti frantumato.
(…) La fragilità come origine della voglia di legame, di comprensione,
di solidarietà e di amore. (…). I sentimenti sono l’essenza della
fragilità e li genera. (…) La fragilità conosce gli ultimi e non soltanto i
forti. La fragilità non crede alla potenza e sa che è solo infatuazione,
imbroglio: un ballo in maschera per nascondere la paura. (…) La
fragilità non è un difetto, un handicap, ma la espressione della
condizione umana. (…) La fragilità non è incapacità di fare, di
pensare. (…) La fragilità non è una inferiorità nel confronto di altre
situazioni che paiono invece espressione di una ricchezza di
personalità. (…) La fragilità non conduce al male, ma semmai alla
saggezza, di certo non al nichilismo. (…) La fragilità è una visione del
mondo. (…) Una società fragile non è una società debole, semmai è
una società saggia” (UV 20-30).
Da queste pagine risulta chiaramente che l’uomo è
fondamentalmente fragile, può facilmente diventare folle, cioè diverso,
e questa sua potenziale follia lo rende fragile. Questa è la lezione che
Andreoli ha portato con sé dai manicomi. Il dolore fisico ed
esistenziale induce l’uomo a considerare sé e gli altri come fragili. La
morte, anche quella di una civiltà o del mondo intero, induce a quella
visione che i filosofi chiamano “limite”. La vita è fragile perché
limitata. Solo sulla base della fragilità si possono stabilire dei legami
che si esprimono nella sessualità, nell’amore, nell’amicizia, nella
solidarietà. Questi temi in forme diverse appaiono in tutte le tappe
117
della vita dell’uomo, dall’infanzia, attraverso l’adolescenza e l’età
matura, fino alla vecchiaia che Andreoli analizza e descrive nel suo
libro.
L’unica categoria che non può essere inglobata all’interno della
fragilità è il potere che, alleato con il denaro, vuol dire sempre
violenza. Lapidaria è la frase, la quale dovrebbe entrare nella
consapevolezza sociale, che dice: “Occorre ammettere che la guerra
non è una follia, come si tende a sostenere dagli stessi che poi la
coltivano, ma è una conseguenza, logica e necessaria, del potere” (UV
38).
Nella prospettiva della fragilità Andreoli parla anche di Dio che
consapevolmente scrive con la “d” minuscola: “Cerco un dio della
fragilità, un dio minore che sappia capire e amare, ascoltare e
aspettare vicino a me che temo la solitudine e il dolore, nel deserto,
nel mio deserto. Un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che
affermi che questo mondo è malato e quest’uomo non è un uomo. (…)
Il dio dei potenti, il re dei re, è freddo, irritabile, tremendo. Genera
paura, non quiete. Mi terrorizza, non lenisce il mio tremore. Mi fa
sentire indegno, perché la mia dignità si lega alla mia fragilità. Sono
un uomo di vetro non di ferro e ho bisogno di un dio fatto di vetro
ancora più sottile e che può infrangersi al solo batter di vento. Il dio
che è più fragile di ogni uomo, un campione di forza nella fragilità”
(UV 62-63).
In questo libro il lettore trova le stupende confessioni di
Andreoli sul suo essere psichiatra: l’uomo che agli altri doveva
apparire forte, ma che poteva farlo proprio in forza della sua fragilità:
“Sono un uomo fragile che talora ha dato l’impressione di essere un
eroe pieno di sé, almeno così mi ha visto chi non sapeva che agivo per
forza a chi mi aveva chiesto aiuto e che ho rivestito la mia impotenza
di voglia di proteggere e di coraggio di vivere, sia pure dentro il
carnevale della mia paura. La paura di vivere non mi ha lasciato mai
un attimo” (UV 16). Qui si trova anche un trattato vero e proprio sul
matrimonio che “è la più grande delle fragilità interumane, capace di
118
produrre beni e incapace di evitare mali” (UV 104) e che si basa su
quarant’anni di vita matrimoniale dello scrittore. Sono pagine belle e
degne di meditazione.
In fine abbiamo le riflessioni sulla vita sociale che deve essere
fondata proprio sulla fragilità. Andreoli, individuata questa parola
quale chiave dell’esistenza e della visione della realtà, ritiene che, se è
vero che è solo una parola, qualcosa di molto fragile, è tuttavia anche
qualcosa da cui cominciare una nuova storia dell’umanità. Il libro
finisce con questa prospettiva nel modo tipico di Andreoli, con un
pizzico di malinconia che sfuma anche nel pathos: “Non potrò vedere
scritte molte pagine di questa nuova storia, perché mi aspetta la morte
e l’appuntamento mi troverà sconcertato poiché nel vecchio libro
risulta essere la più grave delle ingiustizie e il mistero che più mi
indigna. È il momento in cui anche la fragilità muore. Mi sentirò per
un attimo senza la mia fragilità che ho amato e che mi ha aiutato a
vivere, ma che non mi serve per morire” (UV 179).
Questa visione fragile del mondo, di dio e dell’uomo non
emerge subito nei suoi scritti, ma forse fin dall’inizio giace nel fondo.
Che cosa sono i suoi romanzi su Carlo Zinelli, il racconto Dentro un
barbone su un senza tetto soprannominato Flesh, la storia di Marianna
de Silenzi o la vita di Antonio Antiquo ne Il corruttore, se non
rivelazioni sulla fragilità nella storia tragica di questo mondo? Si
potrebbero passare in rassegna tutti i libri di questo scrittore e
collegarli con il filo della fragilità, da I giardini della miseria fino a
Requiem che si conclude con le parole che potrebbero essere
considerate il manifesto andreoliano sulla fragilità:
“La fragilità (…) non è la debolezza che si confronta con la
forza, con il potere, con il comando, ma è l’espressione propria
dell’uomo, e solo chi sa coglierne il significato comprende quanto sia
bello poter conoscere i limiti, perché è solo dal limite che sorge il
bisogno dell’altro, della relazione. Il bisogno di incontrare chi non
conosci e chi può persino diventare il tuo amore, colui o colei senza
del quale ti sarebbe impossibile vivere, anche soltanto respirare. La
119
fragilità è la base della relazione, è la fonte dell’amore che tu (…)
forse non ricordi nemmeno, e forse non hai mai sperimentato. È quello
stato in cui desideri solo stare con l’altro, di sentirti bisognoso
dell’altro e di sapere che persino te, che sei fragile, dai forza a quel
fragile in cui trovi sicurezza e nelle cui mani poni la tua paura. La
fragilità diventa risorsa per i sentimenti, anzi la fragilità è la madre di
tutti i sentimenti e del piacere di stare con l’altro. (…) Io amo la
fragilità che tu sentivi come difetto e di cui cercavi compenso
mostrandoti forte mentre avevi solo bisogno di un’altra fragilità.
L’uomo è colui che per fragilità cerca un altro uomo per vivere sereno”
(R 594-595).
Nella prospettiva Andreoliana dunque, la fragilità,
paradossalmente, è la forza misteriosa su cui si regge il mondo. La
fragilità è questa silenziosa musica di cui risuona l’intero cosmo e
grazie a cui esso non va in pezzi, anzi possiede un senso profondo e
bello. Scoprendo la fragilità l’uomo trova il senso, vive serenamente,
realizza la pienezza della sua vita. Volendo aprire un orizzonte più
largo, interculturale, si potrebbe dire che la fragilità di Andreoli
possiede quelle connotazioni presenti in parole come agape, caritas,
amore, ausebeia, pietas, misericordia, wu-wei, caruna, maitri,
compassione…
120
Quarta parte: IL DIO
1.
Letteratura e teologia
Il problema di Dio nelle opere di Andreoli è uno dei temi
centrali e più interessanti. La questione religiosa in esse non è meno
presente che la follia, il dolore o la morte, anzi è strettamente legata a
questi temi e fa loro da orizzonte. In Andreoli tante cose incominciano
con la follia e finiscono con Dio, ma non nel senso cronologico.
Questo psichiatra sostiene che, per capire la follia, bisogna sapere chi
è l’uomo, e ciò è strettamente legato con la questione di Dio. La
psichiatria per lui è strettamente legata all’antropologia e questa alla
teologia.
Dunque, Andreoli teologo? E perché no? A lui stesso non
dispiacerebbe un tale titolo – almeno occasionalmente. Non ritengo
che la sua opera sia principalmente teologica, ma senza la dimensione
teologica è incomprensibile. Andreoli non ha scritto una summa
theologiae e non ha praticato quello stile che di solito si usa nella
letteratura teologica, ma questo non vuol dire che ogni tanto non
faccia il teologo e che la sua opera non possieda tratti chiaramente
teologici.
Non voglio perdermi in definizioni rigide e discussioni noiose su
cosa sia la teologia e chi sia un teologo. Do solo alcune coordinate
utili per rimuovere certi pregiudizi che spesso paralizzano la
riflessione in proposito, prima ancora che inizi. Teologia non è la
dottrina di qualche istituzione religiosa che da queste parti, cioè in
Italia, è di solito identificata con la Chiesa cattolica romana. La
teologia non può essere privatizzata da nessuno, non appartiene a
nessuno, anche se ogni tanto, troppo spesso, proprio la Chiesa
cattolica rivendica il diritto di esserne l’unica depositaria. Ne
consegue che il teologo non è necessariamente un ecclesiastico o uno
121
che ha ricevuto la licenza di parlare di Dio da parte di qualche autorità
religiosa. Il teologo è ogni uomo che riflette sulle realtà ultime, tra cui
Dio è tra le prime. Non deve nemmeno essere credente. Un ateo, nella
sua negazione, è per definizione un teologo. La teologia non è
l’inquisizione e non è soggetta a nessun inquisitore. Ripeto: il teologo
non è un funzionario che ha ricevuto il permesso di pensare o di
parlare di Dio da qualche autorità religiosa. In tale prospettiva allora
Andreoli è un teologo e la sua opera è teologica.
La teologia e la letteratura sono strettamente collegate. Si può
parlare di teologia delle opere letterarie leggendo i tragici greci e
Omero, i filosofi stoici o platonici, Dante, Ariosto, Manzoni… o
Andreoli. Pierre Klossowski ha letto in tale prospettiva persino il
Marchese de Sade definendo la sua opera come una porno-teologia.
Ma tutto ciò è sempre troppo stretto, perché riduce la letteratura alla
teologia nel senso di dottrina, e la giudica. D’altra parte, si può parlare
di teologia come letteratura e anche questa è una prospettiva
affascinante. Si può discutere se, come voleva Borges, la teologia sia
un ramo della letteratura fantastica. Forse sì, forse no. Ma di sicuro
ogni libro teologico è soprattutto un pezzo di letteratura. I Veda, la
Bibbia, il Corano, il Canone Buddhista sono monumenti della
letteratura. Forse si dovrebbe in questa prospettiva rileggere pure
Tommaso d’Aquino e considerare la sua summa teologica come un
grande romanzo che con categorie metafisiche racconta l’affascinante
avventura della mente umana. È ovvio ritenere i romanzi di
Dostojewskij dei veri e propri trattati teologici. Insomma, esiste una
teologia della letteratura e una letteratura teologica, e le due
prospettive si fondono in modo creativo. Le opere di Andreoli si
possono leggere anche in questa doppia prospettiva.
122
2.
Andreoli teologico
Incomincio con uno sguardo rapido da questo punto di vista su
l’Andreoli di carta e vedo che la questione teologica attraversa
praticamente tutta la sua attività creativa, e in particolar modo la sua
narrativa. Sogni d’eremita è probabilmente il secondo romanzo di
Andreoli. È stato scritto negli anni sessanta o settanta, anche se
pubblicato più tardi. Il giovane adepto alla psichiatria incontrò in
manicomio un uomo che prima di ammalarsi aveva voluto cambiare il
mondo dedicandosi alla rivoluzione, alla lotta, a quello che poi verrà
definito come terrorismo. Ma quando questo progetto era fallito il
rivoluzionario deluso e impaurito era fuggito dal mondo e si era
nascosto in un eremo tentando di diventare un monaco; era poi
impazzito e quindi finito in manicomio. Andreoli, colpito da questa
storia e dal suo protagonista, scrisse un romanzo che praticamente è il
monologo di un eremita con sé stesso e con il suo Dio che,
ovviamente, non gli risponde; inizia così:
“Se non ci sei. Se non ci sei. La mia tonaca copre solo angoscia.
Se non ci sei. La mia tonaca bianca riveste un cadavere. Se non ci
sei… Non potrei più fare a meno della Tua inesistenza. Se non ci sei…
Il mio dubbio è un segno dell’esistenza del demonio, Tuo nemico,
quindi del tuo esserci. È una tentazione, una prova che esisti, che sei la
salvezza, la speranza del mondo, l’unica intercessione alla sua
salvezza. Signore, fammi mettere le mani nel Tuo costato. Sì, ci sei,
perché sei apparso a Tommaso. Non è possibile Tu non esista. Allora
nemmeno io esisterei. Sei necessario alla mia vita. Ma Ti posso aver
creato io! Ma come avrei potuto farlo? Come potrei essere, se Tu non
fossi. Fatti vedere, mostra il Tuo corpo! Tommaso è stato un grande
apostolo. Peccherei se pensassi d’essere migliore di lui. Desidero
vederTi, proprio per non peccare. Non deve essere faticoso per Te
esaudirmi. Forse non Ti mostri perché io divenga più grande nella fede.
Vuoi che Ti ami, senza averTi visto. Ti dovrei vedere attraverso la mia
fede: occhi più grandi di quelli impietriti dal freddo e dal dubbio del
123
mio volto. Ma gli occhi, li hai fatti Tu. Non chiedo di vedere il corpo
di una donna, ma il Tuo. Mi pentirò, poi, di non aver avuto la fede. Sei
una mia creatura? Forse Ti ha creato il genere umano? La sua
condizione di tragedia esistenziale. Tu, creatura del mondo e non suo
creatore. Ma se il mondo Ti ha creato, ha bisogno di Te, dunque è
insufficiente. Come può esistere un mondo autonomo ma bisognoso di
un Dio. Allora è un mondo creato da Te, che non può esistere senza di
Te. Tu solo lo puoi salvare. E io Ti prego di farlo. Io amo il mondo. Mi
sono allontanato per amore, per salvarlo, attraverso Te” (GS 150).
Lungo tutto il libro fra’ Severino recita preghiere e medita sui
testi sacri intrecciandoli con i ricordi della sua vita, con le sue
riflessioni filosofiche e meditazioni teologiche. Queste elucubrazioni
mentali in solitudine, i suoi soliloquia, lo portano dall’esaltazione alla
disperazione e Fratel Severino, protagonista del romanzo, sembra alla
fine spiccare il volo dalla Rocca del Garda dove, nell’eremo
camaldolese, tutto il romanzo è stato ambientato. Insomma il suo
teologare lo porta quasi al suicidio:
“Raggiunse il limite della rocca. Anche i pensieri erano vigili e
muti. Le gambe tese, (…) Le parole erano ormai uscite dalla sua testa,
per renderla ancor più leggera, e si erano adagiate sulle colline, dove
troneggiavano scolpite di verità. La natura sembrava ancora attendere
quel volo, prima di chiudere gli occhi nella notte.
Fratel Severino era ormai di nuvola. Alzò lente le braccia che
sembravano benedire, maestose, tutte le creature, e con gli occhi di
cielo che vedevano la vita già trasfigurata, leggero si sollevò dalla
terra mentre il suo mantello bianco si adagiava nell’aria imitando una
colomba, d’improvviso apparsa sul lago” (GM 236-237)
Il romanzo finisce con una “suspense” che permette diverse
interpretazioni. In questo testo c’è già tutto l’Andreoli teologico che
strettamente lega l’esistenza umana, l’amore, la solitudine, la fuga dal
mondo, la morte o il suicidio con la questione di Dio.
Nella prima decade del terzo millennio Andreoli era piuttosto
coinvolto con il mondo della chiesa italiana: scriveva regolarmente
124
sull’Avvenire, tenne conferenze in diversi ambienti ecclesiali, tra cui
anche la presentazione dell’enciclica di papa Ratzinger nella Basilica
lateranense (vedi il capitolo “In coena domini” ne Il cardinale), ebbe
contatti frequenti con il clero e con i religiosi. Frutto di tutte queste
relazioni, che dimostrano anche un indiscutibile interesse e fascino del
mondo clericale per lo scrittore, sono i tre volumi di saggistica: Il
mondo dei preti. Viaggio fra gli uomini del sacro (2009), che è una
descrizione fenomenologica, tipica della mentalità dell’autore, del
mondo clericale; Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e
libertini, esorcisti e guaritori (2010), in cui sulla falsa riga de Il matto
di carta, presenta la figura del prete nella letteratura italiana dal
Cinquecento ai nostri tempi, e Follia e santità (2010), contenente i
ritratti di una decina di santi che hanno sfiorato la follia. Bisogna
leggere questi libri insieme al romanzo Il reverendo (2008), di cui
abbiamo già parlato, pubblicato subito dopo Il cardinale (2009) che
racconta la storia di un uomo ferito dalla paura e dalla malinconia, che
si incanala nelle strutture della Chiesa. Il protagonista è un bravissimo
teologo che fa carriera diventando cardinale. Ma al di là del
travestimento in funzionario religioso e dell’armamentario teologico
della sua mente, questo uomo non crede e non conosce Dio. Quando
già cardinale viene eletto papa, non sopporta la tensione tra il suo non
credere e l’essere per certi versi “il Dio sulla terra”, e si uccide
impiccandosi nella Cappella Sistina, così che il suo corpo pende
proprio davanti al punto del grande affresco michelangiolesco dove si
trovano i dannati dell’ultimo giudizio: “Sua eminenza dondolò un
poco, poi si fissò dentro il giudizio universale e per sempre si fece
parte della Cappella Sistina. Una posizione straordinaria, del resto era
avvenuta la sua elezione a papa” (p. 218). Sono le ultime parole del
romanzo.
A questi testi bisogna aggiungere Fuga dal mondo (2003). in cui
Angelo Spini si ritira dal mondo per vivere isolato come un monaco e
la sua figura permette ad Andreoli di sviluppare elucubrazioni
teologiche sulla relazione tra Dio e il mondo, come ad esempio:
125
“Zero è zero e nessuno ne avrebbe potuto cogliere la differenza,
nemmeno un dio, colui che sa ciò che nessun altro sa, che sa quello
che accadrà e quindi anche che, dopo lo zero, verrà l’uno e poi il due.
Ma Dio non e nessuno, anzi è Nessuno. Dio sa che da soli si sta da
cane e allora meglio far nascere un cane e diventare due, Dio e il cane.
Un insieme che non ha nulla della bestemmia, è una possibile
combinazione. Possibile ma non certa. Anzi inimmaginabile, anche se
col senno di poi potrebbe accadere perché è accaduto. Ciò che è,
potrebbe non essere stato, ma anche finire di essere e giungere a un
come non fosse mai stato, che non è distinguibile dal non essere,
soprattutto se nessuno era presente mentre il non essere era. Il
testimone sarebbe già dovuto essere ed essere come Dio che c’è, ma
non c’è senza che qualcuno lo veda. Per esserci ha dovuto mettere al
mondo un altro che ancora non era nato e infatti per il momento il
mondo era pieno di tombe silenziose, tanto che era difficile definirle
tali, ma un nome dovevano pur averlo, altrimenti sarebbero state nulla.
Nel silenzio tutte le cose sono nulla. (…)
Ma allora a cominciare è Dio. A nascere che non è mondo, non il
mondo che non è Dio, anche se occorre che Dio decida poiché dal
nulla non nasce nulla e quindi serve qualcosa che sia diverso dal nulla
e da cui nasce qualcosa che sia diverso dal nulla e da cui nasca
qualcosa che si chiama mondo. Se quel qualcosa che si chiama Dio
non c’è non c’è il mondo” (FM 171-175).
Sono frasi degne di Agostino d’Ippona o degli ancor più antichi
RgVeda, in cui per esempio leggiamo:
“In principio non vi era Essere né Nonessere.
Non vi era l’aria né ancora il cielo al di là.
Che cosa lo avvolgeva? Dove? Chi lo proteggeva?
C’era l’Acqua, insondabile e profonda?
Non vi era morte, allora non ancora immortalità;
di notte e di giorno non vi era alcun segno.
L’Uno respirava senza respiro, per impulso proprio.
126
Oltre a quello non vi era assolutamente null’altro. (…)
Una linea netta separò l’Essere dal Nonessere. (…)
Chi lo sa veramente? Chi può permettersi di dirlo?
Che cosa nacque? Da dove originò questa creazione? (…)
Chi dunque può dire da dove venne in essere?
Da che cosa la creazione è sorta,
se si sia tenuta salda oppure no,
Colui che le contempla nell’alto dei cieli,
Egli sicuramente lo sa – o forse non lo sa!” (RgVeda X, 129)
Mettendo a confronto il testo di Andreoli con questo antico inno
vedico intendo soltanto sottolineare come la mente dello scrittore
veronese nei suoi romanzi si muova all’interno di problemi che si
potrebbe chiamare “eterni” e per eccellenza teologici. Lo stesso
succede nel romanzo Il corruttore, che finisce con un lungo monologo
di Antonio Antiquo, il quale prima di suicidarsi cerca e in qualche
modo riesce a riconciliarsi con Dio che non c’è, e in Requiem (2010),
dove tra sette persone che parlano si trova anche un prete, il cui
lunghissimo monologo che tocca quasi tutti i temi “classici” della
teologia chiude il libro. In tutti questi romanzi la questione teologica è
centrale e il problema del Dio che non c’è è la chiave della loro lettura
e interpretazione.
3.
Alcune esperienze personali
È interessantissimo indagare tra i testi di Andreoli per ricostruire
il suo percorso religioso. Dal punto di vista metodologico rimaniamo
sempre nell’ambito dell’Andreoli di carta, senza varcare la soglia della
sua intimità biografica. Come lui, da fenomenologo, ha analizzato i
matti o i preti di carta, così anch’io analizzo il suo profilo religioso in
127
base a quello che trovo nei suoi scritti, ricordando che lo scritto rivela
e vela, dice qualcosa ma anche lo nasconde, soprattutto se si prende in
considerazione la sfera per definizione ineffabile e misteriosa della
religiosità.
Andreoli cresce in una famiglia cattolica, nella cattolicissima
Verona, su cui si delinea la figura di Giovanni Calabria, definito più
tardi dallo stesso Andreoli “Il santo dell’elettroshock” (FS 371-423). A
distanza di mezzo secolo lo scrittore ricorda: “Ho conosciuto
personalmente don Giovanni Calabria, alla morte del quale io avevo
quattordici anni; ricordo di averlo veduto più volte, quando
accompagnavo a San Zeno in Monte mia nonna Virginia che gli
portava una particolare devozione. Mia nonna, in realtà, non faceva
che esprimere un sentimento diffuso nella città, qualche cosa che
apparteneva strettamente a Verona. (…) Il venerdì, dunque, giorno in
cui don Calabria era solito ricevere i suoi concittadini, spesso con mia
nonna raggiungevo il colle di San Zeno, non lontano dalla via in cui
allora abitavo, in quella Veronetta, che sembrava adagiata ai suoi piedi.
(…) Si entrava poi in un cortile in cui spesso erano radunate molte
altre persone e si attendeva che il ‘Padre’ si mostrasse. Per me, poco
più di un bambino (l’ultima volta avrò avuto dodici anni), si attivava
una specie di affascinante gioco nell’aspettativa di chi dovesse
apparire; un vissuto tra il teatrale e il fiabesco” (FS 371-372).
Insomma il futuro psichiatra e scrittore cresce in un clima
religioso, mostra i segni di una pietà leggermente eccessiva, apprende
il catechismo, ogni mattina serve alla messa come chierichetto, si
iscrive all’Azione Cattolica. Poi le cose cominciano lentamente a
cambiare. Si possono rintracciare alcuni elementi che hanno influito
sul cambiamento religioso di Andreoli: l’interesse per il marxismo, la
questione sessuale, la psichiatria e la cultura scientifica. A tutto ciò si
può pure aggiungere più tardi anche l’incontro con il mondo del clero
cattolico che ogni tanto si mostrava folle (suore e preti impazziti),
corrotto (i soldi) e ipocrita (il clero non credente). Ma vediamo una
cosa alla volta.
128
Siamo alla fine del 1961, Andreoli ha ventun anni e insieme al
suo migliore amico, all’epoca Walter Peruzzi, desidera leggere i testi
di Karl Marx, “il demone del tempo”. Ma i due ragazzi, essendo
membri dell’Azione Cattolica – e Andreoli in questa organizzazione
rappresentava addirittura “la cultura con la delega diocesana per la
stampa cattolica giovanile” (CS 115-116) – per farlo chiedono il
permesso al loro padre spirituale e quando questi lo nega, si rivolgono
al vescovo di Verona, l’allora Giovanni Urbani (più tardi cardinale),
che a sua volta rifiuta di concederlo e ai due ragazzi risponde
solennemente “con una lettera a cui aveva accluso un’ampia
bibliografia dei cattolici che, dietro dispensa speciale, avevano
studiato Marx e scritto le loro riflessioni” (SC 117). Oggi la cosa
sembra ridicola, ma siamo nell’epoca in cui il potere del clero sulla
mente dei giovani, in particolare quelli veronesi, era forte: imponeva
persino cosa si poteva o meno leggere. Ciò però mostra in quale clima
si è andato formando il sentimento e il pensiero religioso di Andreoli.
I due giovani non obbedirono né al loro padre spirituale, né al
vescovo Urbani: “Partimmo il 21 dicembre 1961 con tutte le opere di
Marx caricate sull’auto, assieme alle scatole di carne che la madre di
Walter ci aveva preparato, e fummo accompagnati sulle Torricelle in
una casa abbandonata dei Salvi. Vennero a prenderci il 7 di gennaio.
Avevamo perso fede, speranza e carità. Walter fece da allora il teologo
marxista, io mi dedicai ai matti, nessuno più si occupò di Azione
Cattolica, di Dio e di confessioni. Il vescovo, alla nostra
disobbedienza, rispose sollevandoci dai nostri incarichi e buttandoci
fuori della stessa Azione Cattolica. Abbiamo peccato leggendo
integralmente Marx, e vivaddio, visto che eravamo peccatori, non ci
siamo più confessati” (CS 117-118).
Altra questione riguardava il “triangolo fatale” costituito da Diosesso-confessione. Andreoli, come ogni giovane, era piuttosto vivace
in questo campo. Si masturbava, palpava la sua ragazza, eiaculava per
poi confessarsi. Il classico circolo vizioso di una certa epoca e della
mentalità cattolica. Ecco come lo racconta quarant’anni dopo:
129
“Vedevo la religione come storia del rapporto di ciascuno con Dio.
Una relazione non facile che era meglio accompagnare con la
supervisione di un padre spirituale” (CS 116). Il suo, negli anni 19571962, fu un certo padre Corrà, poi vescovo di Concordia e Pordenone,
che lo studente in medicina spesso incontrava: “Ricorrevo al
monsignore soprattutto per la confessione e, poiché mi piaceva
peccare, correvo spesso a farmi confessare le mie colpe. (…)
consideravo quel suo Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et
Filii et Spiritus sancti un mezzo straordinario per ridarmi sicurezza,
purificarmi da ogni contaminazione col male e con il demonio. Lo
frequentai in maniera quasi ossessiva e forse per lui seccante quando
conobbi una ragazza, Laura, con cui eiaculavo molto precocemente,
talora ancora prima di mettere le mani al suo seno. Correvo
immediatamente a lavare l’anima e poi il corpo” (CS 117). Vale la
pena di leggere ancora qualche riga dell’analisi dello scrittore, così
acuta e significativa: “confessavo i miei peccati, quelli fatti e quelli da
omissione, quelli detti e magari altri non detti perché inconsapevoli.
Era impossibile non peccare, e chi si fosse ritenuto senza peccato
avrebbe commesso, in quello stesso attimo, il più grave dei peccati,
quello della superbia. A me comunque interessava confessare quelli
del pene, che rappresentavano il vero problema. Dovevo esplicitarli
con precisione, seguendo la didattica del pentimento. Il racconto
permette di riviverli mentre compi il peccato, che significa
crocifiggere il Figlio di Dio, mandato al mondo per la nostra salvezza,
per quella del peccatore, di te peccatore. Ripercorrevo quel calvario
passo passo, restando così aderente ai fatti da essere spesso preso da
una forte erezione, che a sua volta dovevo confessare per essere certo
che quel sacramento fosse all’insegna dell’umiltà, conditio sine qua
non della sua efficacia” (CS 118).
Lette dalla prospettiva del tempo queste parole svelano una
follia e una perversione dell’intero sistema in cui si sono trovati
milioni di cattolici. In ogni caso l’intera vicenda, che in fin dei conti
era legata alle idee di qualche filosofo (Marx) e con un po’ di
130
eccitazione sessuale, finisce drammaticamente, tanto che Andreoli
conclude in un modo laconico e ironico: “Dal 1962 ho eiaculato senza
confessione e senza pater ave e gloria” (CS 117). Sei anni più tardi si
sposerà a Verona nella chiesa delle sante Tosca e Teuteria e non di
rado visiterà le chiese e i monasteri, ma d’ora in poi si può parlare di
“trauma teologico” di questo scrittore, che in modo quasi ossessivo
dirà di non conoscere Dio: “Nulla posso dire sul Signore poiché non
so se c’è, in questo caso se si occupa della fede di ciascuno e se si
fosse unito a me, o io a Lui, dal momento che è l’uomo a doverlo
cercare” (CS 116). Con simili espressioni di Andreoli, sparse in tutti i
suoi testi, si può creare un’intera antologia.
Un altro fattore che si sovrappone a tutto ciò è l’esperienza
dell’Andreoli scienziato e psichiatra. Studiando il cervello umano nei
vari laboratori del mondo, chino sopra un microscopio e preso dai
ragionamenti della scienza, di sicuro lui si sarà chiesto: “Dov’è in
tutto ciò il posto per Dio”, entrando così nella tipica tensione moderna
tra scienza e fede. In modo semplice, riassuntivo, ma chiaro Andreoli
sintetizza tale tensione quando parla del suo “maestro” Cherubino
Trabucchi “che sosteneva che la teologia venisse prima della scienza e
che i neuroni dalla periferia andavano al midollo, e dal midollo nel
sistema nervoso centrale, be’, lui aggiungeva ‘un neurone che parte
dalla corteccia e va verso il cielo’. Forse faceva bene a credere più a
Dio che alla scienza, forse no. Ma questa idea di un neurone che
metteva in contatto la corteccia cerebrale con Dio era stupenda” (MM
130).
La questione è più seria di quanto sembri a prima vista e
riguarda qualcosa che si può definire “immaginazione religiosa” e la
sua scomparsa nell’epoca moderna. Mi spiego. Ogni religione è
vissuta all’interno di una determinata visione del mondo e dell’uomo
ed entra in crisi quando questa sparisce. Basta pensare a come la
visione moderna del cosmo fosse messa in discussione dalla religione
che immaginava Dio in cielo sopra le stelle e l’inferno sotto terra. La
situazione non è stata risparmiata neanche dall’ermeneutica, che ha
131
sviluppato la strategia del pensiero simbolico. Lo stesso riguarda
l’uomo. I sistemi religiosi parlano di cuore, reni, chakra, di un’anima,
ecc., che in qualche modo sono in contatto col divino. La religione si
serve dell’immaginazione, di una “fisionomia mistica” che ha poco a
che fare con la vivisezione e l’anatomia scientifica. Si pensi agli
insegnamenti o alle dottrine religiose che parlano di un’anima che
vola via dal corpo o lo trasforma in corpo spirituale; di un’energia che
deve liberarsi dai centri energetici per portare al nirvana, o di un cuore
che deve illuminare la mente, ecc. Per tutto questo non c’è posto nella
visione anatomica dell’uomo. Se nella concezione dell’uomo manca il
posto per una scintilla divina che lo unisce a Dio, scompare la visione
religiosa dell’uomo perché in lui non c’è posto per Dio, e di
conseguenza scompare Dio. Andreoli, che nei laboratori si occupava
di cervello e di sistema nervoso, in questo lavoro si serviva della
visione o immagine dell’uomo riprodotta nei disegni, nelle fotografia,
nelle equazioni matematiche, fisiche o chimiche. Ma dove in tutto
questo si poteva trovare il posto a Dio? Come immaginarlo? Non mi
pare di individuare una qualche riflessione più approfondita e tanto
meno una qualche risposta a proposito di tale questione nei suoi testi.
Esiste solo uno scisma: la visione di Trabucchi e altri, in cui qualche
neurone è in contatto con Dio, e la visione di Andreoli e suoi simili,
puramente scientifica, per la quale non c’è posto per tale
immaginazione.
Come psichiatra Andreoli aveva a che fare anche con donne e
uomini di Dio, preti, religiosi e religiose, impazziti, presi dalla follia,
sofferenti. Un monaco o una suora che impazziscono compaiono
spesso nei suoi libri, principalmente nei racconti. D’altra parte alcuni
matti (cominciando da Carlo Zinelli) ogni tanto vengono percepiti
quasi come dei santi. Insomma, in Andreoli la follia e la religione si
affiancano, il santo e il matto coesistono. Il problema diventa serio se
si considera il fortissimo imprinting che il giovane Andreoli subì
all’interno del contesto cattolico, in cui era cresciuto ed era stato
educato. In questo sistema l’uomo, la sua anima, si unisce a Dio grazie
132
alla mediazione variopinta di un prete. Il prete è l’“elemento” sine qua
non di questa unione. È il garante di una visione gerarchica della
realtà. Ma tale visione salta in aria nel manicomio in cui bisognava
curare anche un prete matto, malato di depressione, di schizofrenia,
preso da attacchi di isteria o di panico, per non parlare di casi ancora
più seri. Nell’ospedale di Marzana, che Andreoli dirigeva, c’era la
chiesa, in cui “il cappellano celebrava ogni giorno una santa messa, e
alla domenica due o tre, a secondo delle esigenze. A quella delle dieci
mi recavo anch’io. I malati, tutti vestiti con divise pulite, erano
ammessi a partecipare alla funzione solo dopo essere passati al vaglio
della suora. Una volta in chiesa si sentivano diversi. Esattamente come
il cristiano che, davanti a Dio, si sente privilegiato in virtù del fatto
che Cristo è lì per lui. Cristo era lì per ogni matto. (…) Al momento
della comunione, naturalmente, si mettevano in fila solo quelli che
erano consapevoli di ciò che facevano e che si erano confessati. E qui
sorgeva un grosso problema: un matto può prendere il corpo di Cristo?
Sa cos’è un peccato? E se tutti i peccati che commetteva, li faceva
senza saperlo? Poteva un oligofrenico, un uomo con poco cervello,
prendere Cristo? E questo povero prete (anche lui matto – MB),
quando si trattava di dare la comunione mi guardava (io stavo lì in
piedi, accanto alla fila dei comunicandi) e allora facevo un gesto di
assenso o di diniego a seconda del caso, e lui dava la comunione
oppure la rifiutava. Si affidava a me per sapere se la quantità del
cervello, e quindi dell’anima, di chi avrebbe dovuto accogliere in sé il
corpo di Cristo era sufficiente” (MM 131-132). Sono questioni che
dovrebbero essere trattate da un nuovo san Tommaso d’Aquino, in una
nuova summa teologica, o da un concilio vaticano terzo, ipotizzabile
ma mai avvenuto finora, e poco possibile se si fa conto sulla risposta
di una qualche autorità religiosa.
Insomma abbiamo nell’impostazione di Andreoli a che fare con
una “quaternitas fatale”, composta in parte da un accenno di filosofia
di stampo marxista, in parte da un accenno al problema affettivo e
morale (sesso), e in parte da un accenno di prassi e teoria scientifica
133
(neurobiologia) e di contesto sociale crollato (preti matti). Tutto
questo genera il tormento teologico del nostro psichiatra scrittore e il
suo discorso sul Dio che non c’è.
4.
Monastero, monaco, monachesimo
“Ho visitato monasteri ovunque” (SM 130), “Sono convinto di
essere un monaco laico” (CS 43), “Il monachesimo esercita su di me
un fascino arcano” (CS 42). Bastano queste tre frasi per affermare che
in Andreoli il monachesimo è uno dei grandi temi a cui si associano
quelli del monastero e del monaco. Sono temi strettamente legati al
problema di Dio, e anzi, il problema di Dio è spesso percepito da
questo scrittore nella prospettiva monastica. Il protagonista di uno dei
primi testi narrativi del giovane Andreoli, Sogno d’eremita, è Fra
Severino, appunto un eremita, e Rozanov, eroe tragico del romanzo Il
reverendo (2008), scritto trent’anni più tardi, è un monaco. Ma nel
frattempo Andreoli ha scritto diversi racconti ambientati in monasteri
e conventi, avendo come protagonisti suore, religiosi, gli stessi
monasteri (Il tabù, La clausura, L’eremo della Rocca, Il monastero dei
non credenti). Non di rado nelle memorie dei lavoro nei manicomi
appaiono pazienti che hanno portato l’abito e il velo, come per
esempio la settima storia de I miei matti, che riguarda una suora
“visitata dal demonio” (cf. MM 214-220). Insomma i monaci, le suore,
i monasteri e i conventi sono componenti forti e importanti per
l’Andreoli di carta, e il monachesimo è uno dei suoi principali
protagonisti a cui lo scrittore si riferisce molto spesso quando parla di
Dio. In altre parole, il monachesimo non solo fa parte del suo mondo
letterario, ma la stessa parlata teologica di Andreoli è spesso
tipicamente monastica. Il Dio a cui si riferisce Andreoli è il Dio che
non c’è proprio perché è un Dio molto monastico.
134
Tutto iniziò quando Andreoli era ancora fanciullo. Intorno
infuriava la guerra e il giovane Vittorino si trovava a Garda nella
residenza dei nonni il cui terreno confinava con quello del monastero:
“Mentre molti dei miei famigliari erano al fronte, io ero sfollato in
campagna, vicino all’eremo della Rocca del Garda. La terra del nonno
materno confinava con quella dei monaci camaldolesi” (CS 42). Il
monastero era un luogo misterioso e mitico e il piccolo Vittorino ci
andava col padre: “Di solito accadeva la domenica, di primavera o
d’estate, quando il tempo era bello e il lago di Garda un’attrazione.
Quel piccolo monastero dava proprio sul lago e di là la vista cadeva a
piombo dentro l’acqua. Bisognava alzarsi presto per poter raggiungere
l’eremo alle sei e seguire la celebrazione della messa, in chiesa, con
gli eremiti nascosti nel coro, da dove proveniva la loro voce che
sembrava di tomba. Non era aperto al pubblico, ma qualche persona
poteva entrare soprattutto se amica e mio padre li conosceva bene e ne
era fortemente affascinato... Da bambino ero attratto da
quell’ambiente come da un teatro pieno di magia e sempre in grado di
mostrare lo straordinario, ciò che ti scuote, appunto” (RS 377). Poi,
per un certo periodo il padre di Vittorino, per sfuggire alle truppe
tedesche, vestì l’abito bianco e si nascose tra i monaci, mentre il figlio
andava ogni tanto all’eremo a trovarlo. Figuriamoci la situazione: la
porta del monastero si schiude e Vittorino corre a buttarsi tra le
braccia di suo padre vestito da monaco. Tutto questo costituisce un
esperienza paradigmatica, un’impronta fortissima, un viatico per
l’intera vita di Andreoli, in cui confluiscono Dio, monastero, monaco,
abito bianco, barba, guerra nel mondo, pace nell’eremo, bellezza della
natura, mistero, segreto, liturgia, il padre che c’è e che non c’è perché
nascosto e travestito da monaco, e il Dio che c’è e che non c’è. Più di
mezzo secolo dopo lo scrittore confessa: “Il monachesimo esercita su
di me un fascino arcano. Persiste nella mia mente come un richiamo
assurdo e meraviglioso” (CS 42). Il monachesimo è per Andreoli un
mito, il monaco un archetipo, il monastero un simbolo.
135
Il giovane Vittorino dunque ne subisce il fascino e vuole farsi
monaco: “Avevo sei anni quando ho preso la prima decisione di farmi
eremita” (SM 130). E ancora, con un tono che si fa sempre più
drammatico e sofferente: “Chiesi a mio padre di entrare in monastero
a tredici anni e sia pure con molto garbo mi disse di aspettare. E
aspetto ancora. Poi mi è parso di non avere la fede sufficientemente
forte… Più semplicemente la chiamata non è giunta. Ho girato
dappertutto nel mondo: dalla Siria alla Cappadocia, dall’Irlanda a
Montecassino. Speravo di incontrare Dio, ma se c’è, evidentemente mi
ha rifiutato” (CS 43). Ma nonostante ciò conclude: “Sono convinto di
essere un monaco laico. (…) Molte volte, in momenti di difficoltà, ho
pensato all’eremo o a un luogo monastico” (CS 43). In altre parole, il
mito è rimasto. Ma di che cosa è fatto questo mito?
Da una parte il monastero è un luogo ideale, idealizzato nel
contrasto radicale con il mondo: “In un monastero fa tutto Dio, a
differenza del mondo esterno dove combina ogni cosa l’uomo e fa
disastri” (CS 43). Il monastero è frutto del teocentrismo estremo,
fiorito sul terreno di un dualismo radicale e non conciliabile: da una
parte Dio, dall’altra il mondo, da una parte il monaco, dall’altra
l’uomo. Dio non è nel mondo, è nel monastero che è fuori dal mondo.
Ma non si può ridurre il mondo al monastero. E se nel monastero fa
tutto Dio e in fin dei conti c’è solo Dio, lì non c’è posto né per il
mondo né per l’uomo. È un ragionamento paradossale, così tipico di
un certo misticismo monoteista e dualista, che da una parte vede
l’unico Dio e d’altra il mondo, e che ritiene che per trovare Dio
bisogna fuggire il mondo. Vale la pena di ricordare che uno dei
romanzi più significativi di Andreoli è intitolato proprio Fuga dal
mondo e il suo protagonista, Angelo Spini, è un monaco laico, un
autoritratto immaginario di Andreoli, almeno dell’Andreoli di carta.
D’altra parte, e di conseguenza, il monastero è un luogo folle:
“Il monastero va letto nella logica del Padre che sta nei cieli e si
svolge così lontano da quella degli uomini che l’eremo camaldolese
sembra un manicomio. (…) La voglia dell’uomo matto come metafora
136
della follia del monastero” (CS 43). In tali frasi ovviamente entra in
scena l’Andreoli psichiatra che spesso paragona il monastero a un
manicomio e il manicomio a un monastero. Sono due cliché che si
sovrappongono l’uno all’altro e l’uno è letto alla luce dell’altro. Il
monastero è retto dalla teologia, come il manicomio dalla follia.
Ricordiamo che quando Andreoli era fuggito dalla carriera accademica,
aveva affermato che si era “ritirato nel manicomio” come se si fosse
ritirato dal mondo nel monastero. Poi egli stesso, quando dopo anni di
lavoro da psichiatra pensa di ritirarsi dalla vita professionale per
dedicarsi alla scrittura, riconosce: “Una tendenza a nascondermi, a
chiudermi in un monastero della follia” (CS 25).
Dunque c’è nell’Andreoli di carta un monastero di Dio, dal
quale poi egli passa al monastero della follia, per finire – e questo è il
passo ulteriore – al monastero dei non credenti. Da una parte c’è in lui
il desiderio di vita monastica, non conciliabile tuttavia con il suo non
credere. D’altra parte, il monastero “classico” gli sembra un posto
folle perché in fin dei conti sprovvisto di vita, fuori del mondo, per
questo egli propone “Il monastero come luogo della vita sulla terra,
non come fuga per l’avvicinamento al paradiso” (CS 44), che
chiamerà il monastero dei non credenti. L’idea nasce durante una
visita al monastero piemontese di Bose, fondato da Enzo Bianchi negli
anni sessanta. Andreoli visita il monastero nel 1999: “Ero affascinato
della omelia del priore e confesso che ne avrei voluto tenere una
anch’io parlando dell’uomo e non di Dio, del mondo e non del cielo”
(CS 45). In qualche modo lo psichiatra è, oltre che affascinato, anche
un po’ infastidito dalla “perfezione” di quel posto dove tutto va alla
grande, è in ordine e con una particolare benedizione di Dio. Andreoli
invece si sente escluso: non ha un Dio con cui condurre una vita così
“perfetta” e conosce solo la “comunità dei matti”. Per reazione allora
fonda nella sua testa il “monastero dei non credenti” che prenderà
forma concreta in uno dei suoi racconti proprio sotto tale titolo (RS
468-479) e poi nel romanzo Il Reverendo, in cui leggiamo:
137
“Il Monastero dei non credenti è il monastero del dio del nulla,
del dio del nulla, del dio che non c’è ancora nella visione del mondo,
ma che forse esiste e allora occorre cercarlo e cercare è bello, come
perdersi in un paradiso in cui non c’è il male, non c’è un futuro
d’eterno, ma dove tutto è nulla e nel nulla si trova quella pace che
nessuna terra e nessun cielo con un Dio potente possono dare” (RV
425).
Questo monastero dei non credenti, nell’immaginazione dello
scrittore prende poi forma nel desiderio della vita concreta familiare a
casa:
“Ho voglia di monastero e il mio sogno è quello di una casa in
cui i miei confratelli siano mio moglie e i miei figli e qualche monaco
vagante che viene a trovarci e che sta per un po’. Una moglie con cui,
oltre a recitare delle preghiere, possa fare anche all’amore, un po’
all’antica in modo che le nostre doti sempre più limitate lo rendano
ancora possibile e battendo antiche vie si possa godere del rinforzo
della memoria. Un monastero dove i figli qualche volta vengono nel
coro e con la bontà nota del Signore recitano preghiere che suonano
stonate alla moda, ma aprono le vie del cielo, di altri cieli. Meglio se il
cielo è questa terra e pregando la si migliora un po’” (CD 286)
Ma l’archetipo del monaco è ambiguo. Da una parte per
Andreoli il monaco è una figura sublime e perfetta. Ecco alcune sue
espressioni: “Il monaco si nasconde in un saio, nel silenzio, con i
pensieri in cielo, senza corsa del tempo” (RS 468); “Il monaco non sa
nulla. Un monaco vero tace e se parla prega, perché questa è la voce
con cui si rivolge a colui che lo ha illuminato. Parole di lode, di Dio
non si può dire nulla se non ‘Sia lodato il Signore Iddio’. Il monaco
non ti spiega Dio perché vive con Dio, è Dio” (RS 471); “Un monaco
non cerca la verità, ammesso sia definibile e afferrabile, il monaco
cerca Dio, una presenza che ne dà la prova assoluta per sé, anche se
potrebbe essere priva di significato per l’altro e per la verità, come
viene codificata nei libri della verità” (RS 472). Queste frasi sembrano
benissimo provenire da qualche Padre del Deserto e paiono adatte per
138
essere raccolte lungo i secoli nei florilegi scrupolosamente copiati e
arricchiti di commentari. Ma sono di uno psichiatra e scrittore
contemporaneo e mi fa tenerezza pensare che forse sono state scritte
in una casa sulle colline veronesi.
Esiste però un’altra immagine del monaco negli scritti di
Andreoli, un monaco folle, impazzito. Tanto il primo aspetto è iconico,
quanto quest’ultimo è una anti-icona. Il monaco impazzito è per
Andreoli un uomo che ha rinunciato al mondo, ma non ha trovato Dio
oppure ha trovato, o si è inventato, un dio e non riesce più con esso a
stare nel mondo. Il monaco impazzito è una persona tragicamente sola
che, presa spesso dai dubbi e dalle passioni erotiche, entra in un
vortice di sofferenza e follia. Diversi suoi racconti narrano le vicende
piuttosto piccanti di monache possedute dal “demone erotico”,
incontrate da Andreoli nella sua carriera di psichiatra. Per esempio:
“Mi sono occupato anche di una suora carmelitana che durante le crisi
isteriche inconsapevolmente introduceva un crocifisso in vagina,
ferendosi gravemente tanto da venir ricoverata” (V 20). Per questo in
fin dei conti, quando il professore pensa ai monaci, alle monache e ai
monasteri, ha davanti a sé “un monachesimo fatto anche di dubbi, di
ambivalenza: il sogno della castità, ma anche la voglia di peccare”
(SM 129).
Questo suo modo di considerare il monachesimo, di vedere il
monaco e il monastero, è tipico di una certa cultura religiosa. Andreoli
ne è un tipico frutto, ma anche una vittima. Nei suoi scritti troviamo il
meglio e il peggio del monachesimo della cultura religiosa cattolica.
La sapienza del monachesimo e la sua follia, la sua bellezza e il suo
orrore sono mescolate nei romanzi, nei racconti e nelle meditazioni.
Un modo di pensare il monachesimo e Dio che sembra appartenere al
passato ed è un richiamo a un ricordo: “Ho nostalgia di quel
monachesimo lontano. Sono andato a cercarlo, ma ho scoperto che è
fatto soprattutto di fantasia e che potrebbe però rinascere: è difficile
rievocarlo, rappresentarlo. Forse è solo un’allucinazione, un delirio
fatto di desiderio, e forse è solo follia” (CM 131). Il suo “forse”
139
sarebbe il monachesimo senza Dio fatto di monasteri per i non
credenti.
5.
La natura
Andreoli è uno straordinario osservatore e poeta del mondo che
lo circonda. Non è solo uno storyteller e un ritrattista di personaggi
che vivono nei suoi libri. Servendomi di una metafora presa dalla
pittura direi che è anche un paesaggista. Nei suoi libri si incontrano
descrizioni molto acute delle città: non mancano le descrizioni di
piazze, palazzi, strade, come anche i panorami incominciando dal
Veneto e l’Umbria, che poi si allargano all’Africa e agli Stati Uniti,
per soffermarsi più di recente anche sull’amata Scozia in cui lo
scrittore periodicamente si rifugia. Sottolineo tutto questo non per dire
che il paesaggio è uno dei protagonisti importanti dei suoi libri, il che
è vero e interessante, ma per mettere in rilievo il ruolo della natura nei
suoi scritti e soprattutto la dimensione teologica che essa gioca.
Senza girare troppo intorno e sfruttare inutilmente la retorica,
direi che la sua percezione della natura è molto monastica e, in quanto
tale, molto teologica. Nella classica spiritualità monastica il monaco
vive tra cielo e terra e fugge la compagnia degli uomini. Deserti,
foreste, montagne sono i tipici posti per i monaci che cercano più una
comunione con il cosmo che con gli uomini. In questi posti, spesso in
una solitudine estrema, conoscono al massimo gli spiriti, i demoni,
molto meno si confrontano con i volti umani e con la storia. Il monaco
è preso da un’estasi cosmica o la cerca. In questa esperienza, che
spesso percepisce come mediazione volta ad unirlo con il suo Dio, il
mondo degli uomini è dimenticato. Il monaco per definizione è
asociale. Usando un’immagine direi che il monaco è trascinato
soprattutto dalla corrente che scende dal cielo, lo attraversa e,
inchiodandolo alla terra, paradossalmente lo rapisce in un’estasi; è
140
molto meno trascinato dalla corrente orizzontale che forma il tessuto
sociale e che è chiamata “la storia”. Il monaco cerca l’eternità e per
questo è affascinato dalla dimensione a-storica.
L’Andreoli di carta da un lato è l’uomo della storia e della
società, ma il mondo degli uomini è tragico, è follia, violenza e dolore.
Egli entra dalla città degli uomini nel manicomio soltanto per scoprire
che il mondo intero è folle. Certo si impegna in questo mondo per lui
piuttosto folle: collabora, scrive, parla in TV, si mette in gioco, ma
solo per essere preso, prima o poi, dall’irresistibile desiderio di fuga in
luoghi solitari dove trasforma le sue esperienze mondane in scrittura
che si dilata in silenzi di spazi vuoti e nel mistero della natura, e ogni
tanto si serve in tali momenti di contemplazione dell’apparato
fotografico.
E, rimasto da solo ai confini della terra, scatta foto e scrive: “La
solitudine ai limiti del mondo non è percepire la propria singola
solitudine, ma è come se il mondo rimanesse solo. Chissà cosa deve
aver provato il Creatore, solo di fronte all’immensità dell’universo.
Forse ha avuto paura e nella paura ha pensato che valesse la pena
perfino di fare un Adamo, che certo ha creato molti guai persino a un
Dio. È sconvolgente la sensazione che si prova ai confini, e quel limite
oltre il quale non si può che sperimentare la solitudine estrema. È
dunque alla ricerca della solitudine, con la paura della solitudine, che
ho attraversato il mondo per toccare i suoi confini” (SM 230-231). Il
testo sembra essere uscito dalla penna di uno dei Padri della Chiesa
(ad esempio Gregorio di Nissa) che spesso meditavano sulla prima
pagina della Genesi e con il pensiero si immedesimavano in Adamo
con l’intenzione di sperimentare almeno in questo modo la sua beata
solitudine. Insomma, in Andreoli c’è una simile tendenza mentale, la
convinzione che per trovare Dio bisogna spingersi in una situazione
estrema, e quindi la capacità e il desiderio di versare tutto questo in
uno scritto. Nei suoi libri si trova un’infinità di tali testi; ne riporto qui
ancora uno che proviene da un album con fotografie del cielo: nuvole,
nuvolette, tramonti, aurore su cui si protendono i rami degli alberi, gli
141
uccelli che migrano da chi sa dove verso l’ignoto, gli orizzonti fatti di
mare, montagne, pianure, campi e foreste. Anche questo è Andreoli
che, guardando le nuvole, così si esprime:
“Vedo mostri, ma anche angeli e quel vecchio, con la barba, che
con una mano alzata benedice la terra e forse saluta anche me che,
stanco di terra, vorrei trovare nel cielo un luogo dove riposare senza
l’angoscia dell’orrore e senza la paura che mi rende fragile come una
foglia d’autunno ormai ingiallita. Osservo il sole che mi obbliga a
chiudere gli occhi, che non posso vederlo nel suo significato profondo
perché li acceca. E poi la luna che gira la notte cercando in vano un
senso e facendo un poco di luce. E ancora le stelle che immobili
luccicano all’infinito. Il cielo diventa il teatro della mia fantasia e io
cerco di guidare i personaggi che lo abitano come fa un regista che
voglia raccontare una storia fatta di bellezza e di paura. Una regia
colorata d’azzurro e sovente nera come una nube carica di pioggia e di
rabbia. E così vago da oriente a occidente, da sud a nord e disegno
continuamente una croce che mi ricorda la ripartizione della spazio,
ma anche il Golgota. E in questo peregrinare, mi ricordo dell’Inno alla
gioia di Schiller quando il poeta invita a girare nel cielo poiché da
qualche parte deve esserci Dio. Il Dio del cielo, il Dio dell’eterno, il
Dio di Abramo, il Dio del mistero, il Dio che forse non c’è ma che io
cerco sempre perché da qualche parte potrebbe esserci. E mi pare di
vederlo talora nella effigie di una nube. Sulla terra, per quanto giri,
trovo sempre l’uomo e mi spaventa, nel cielo posso incontrare Dio.
Non importa se fatto di nuvole e costruito dal desiderio. Se non c’è
sarebbe bene ci fosse e io comunque continuerei a cercarlo, invano”
(FC 7-8).
C’è dunque un Andreoli di carta, disperato e tragico, nei suoi
romanzi e racconti, c’è un Andreoli di carta che ogni tanto consola gli
altri dalle pagine dei suoi saggi, e anche un Andreoli di carta che in
alcune sue meditazioni cosmiche sembra essere rasserenato dai
frammenti di cielo e della natura, e poi c’è un Andreoli di carta
teologico che è un enigma. Si nota però in tutto ciò una forte tensione,
142
e persino una divisione radicale tra cielo e terra, tra Dio e mondo, una
separazione che emerge con forza dall’Andreoli di carta. Non si sa se
questa separazione sia reale o finta, non si sa se sia propria della
mente dell’uomo o forse causata dall’uomo stesso. In ogni caso
nell’Andreoli di carta esiste una forte e irriducibile tensione tra Dio,
mondo e uomo. È una tensione tragica.
6.
Iconoclasta blasfemo
Per non cedere a un tono troppo solenne e rimanere invece più
fedele al clima presente negli scritti di Andreoli, cambio registro, tema
e circostanze. Siamo con lo scrittore sul treno che lo porta da
Copenaghen a Snekkersten in Danimarca. Ecco alcune sue reazioni
preliminari: “Il treno fa schifo perché si muove puntuale: non sbaglia
nemmeno di un secondo. L’annuncio delle stazioni procede
regolarmente, con la voce tranquilla di chi non ha altro da fare che
dare quell’annuncio. E sono su un accelerato” (CS 271). E dopo
qualche istante, avendo dato un’occhiata intorno: “Il treno è talmente
pulito da provocare il vomito” (CS 272). In questo clima nella sua
mente italiana scatta una riflessione, un desiderio: “Ho nostalgia del
casino caloroso e angosciante dell’Italia, al punto da essere tentato di
salire sulla poltrona con le scarpe, estrarre il pene e pisciare recitando
un’ode di Catullo, in latino. Purtroppo nessuno mi farebbe andar fuori
di testa e perdere ogni controllo. Una follia in cimitero” (CS 271-272).
Ecco l’Andreoli di carta casinista. L’Andreoli di carne
solitamente si trattiene, si comporta come un gentiluomo. Invece
l’Andreoli di carta si permette di immaginare e descrivere tante cose,
anche in campo religioso. Sfida i tabù, collega gli opposti, distrugge i
miti, si compiace di eresie ed espressioni blasfeme. I suoi monaci
impazziscono, le monache si sputtanano nel nome di Dio, i cardinali
non credono in Dio, gli orgasmi sessuali e le estasi mistiche si
143
fondono, le preghiere suonano come bestemmie e le bestemmie
diventano preghiere, “Dio è un folle” (CS 43) o non c’è. Si permette
ed è libero di esprimere quasi ogni tipo di associazione mentale,
mentre possiede una soglia della censura interiore e verbale è molto
bassa. Se ai tempi dell’Inquisizione un tale scrittore sarebbe finito
immediatamente sul rogo, e sotto un potere religioso debole verrebbe
accusato di offendere le pie orecchie, nel mondo contemporaneo un
tale atteggiamento si presenta come una sfida ermeneutica, cioè deve
essere compreso e interpretato. Le possibilità interpretative sono più
d’una.
La prima si collega allo stile letterario e al modo di pensare di
Andreoli che ho definito “sinfonia fenomenologica”. Questo scrittore
annota nei suoi testi quasi ogni tipo di associazione mentale e verbale
che riguarda Dio. Dio può essere un Creatore, ma anche un Nulla, un
Padre tenero come anche un individuo offeso, sdegnato e impassibile,
una saggezza suprema e un folle, una realtà come anche una pura
illusione. In altre parole, di Dio si può dire e pensare tutto ed è proprio
questo “tutto” che Andreoli letteralmente esprime nei suoi testi. Da ciò
risulta però che il concetto, la comprensione e la parola non possono
essere luoghi della dimora di Dio, perché ad ogni concetto, pensiero e
parola è possibile contrapporre un altro concetto, pensiero e parola.
Basta leggere a questo proposito il racconto-dialogo Dio e lo
psichiatra, in cui ad uno psichiatra che passa la vacanza sulle
Dolomiti, durante una passeggiata, si affianca qualcuno che è proprio
Dio stesso. La situazione è assurda dall’inizio alla fine. Lo psichiatra
prende questo “qualcuno” che dice di essere Dio come un matto.
Quando l’interlocutore dello psichiatra gli dice: “Io sono il Padre
Eterno, professore”, egli risponde: “Ne ho conosciuti molti e oggi,
fortunatamente, abbiamo degli strumenti abbastanza efficaci per
rendere possibile anche ai Padri Eterni una vita normale, inserita nella
società con un posto di lavoro. Possono mettere su famiglia, se lo
vogliono. Non li guariamo, nel senso di togliere le cause del disturbo,
ma li gestiamo sapendo di imbrigliare la malattia e con i continui
144
controlli minimizzare le manifestazioni. Si rivolga allo psichiatra della
sua zona. Io, e mi dispiace, non mi posso dedicare a lei. Se mi dice
dove abita e conosco qualcuno, potrò suggerirle di andarci a mio nome,
se lei pensa sia utile” (RS 415). Insomma, lo psichiatra è convinto che
bisogna curare Dio dal suo essere Dio.
Non solo lo tratta da matto, ma anche parla liberamente con
questo Dio pur dichiarando che non è credente. In tale tipo di
contraddizioni tutto è permesso, tutto è possibile, e perciò non ne
risulta un bel niente né per questo Dio né per lo psichiatra. Si parla, si
parla, si parla come se si girasse a vuoto. E così per ben venti pagine
di questo testo, la cui lettura è un esercizio divertente sia per un
credente che per un non credente, e forse persino per Dio.
La seconda è una irresistibile voglia di scioccare e sconvolgere
il lettore, seducendolo con i trucchi dell’arte narrativa verso le zone
che giacciono nella mente di molti, ma sono respinte dentro qualcosa
che non si sa cosa sia né dove sia, ma che generalmente viene definito
“inconscio”. Senza dubbio è seducente il racconto Il tabù, una parodia
sia della vita claustrale, sia della psicoanalisi freudiana rigida, in cui
una clarissa di nome Germana si stende sul lettino nello studio di un
professore. Attraverso tale trattamento la fede risulta una fantasia e il
sentimento estatico un orgasmo. La suora, che si sente unita al Signore,
desidera perfino unire a Dio lo psichiatra non credente mediante
un’unione sessuale con lui, perciò a un certo momento, come dice il
testo, “Si spogliò e apparve bella, da poter sedurre persino un puro
spirito. Il seno in eccitazione, un ventre magro e demoniaco, pieno di
passione. Lo psicoanalista prese paura. (…) Si distese sul letto, con
quel corpo magnifico che sapeva di santità, ma anche di perdizione.
Mentre godeva con il suo Signore, aveva un’espressione felice come
si trovasse in un mondo lontano, fatto di angeli e di armonie celesti.
Aprì gli occhi e recitò una preghiera con tale intensità da commuovere
il professore che, perso il controllo, si era inginocchiato in estasi, sia
pure terrestre”. Poi tutto finisce velocemente e in modo comico: “Con
grazia e rapidità lei coprì quel corpo e lo rese sacro come quello di
145
tutte le monache. Il professore era sconsolato e piuttosto confuso. Era
opportuno passare subito dal suo Supervisore per analizzare, in
termini freudiani, quanto gli era capitato” (TF 76-86). È una piccola
fantasia erotica “soft”, che se filmata avrebbe potuto gareggiare con le
piccanti scenette della “commedia erotica all’italiana”. Il testo senza
dubbio seduce, ma può anche scioccare ed offendere. Ma l’Andreoli di
carta permette ai suoi lettori di sognare tali “fantasie proibite”,
regalarsi “un’oretta di follia”.
La terza spiegazione mostra che tali testi possiedono una
funzione catartica. Nell’epoca moderna si è capito che la religione,
con i suoi divieti e precetti, ha contribuito moltissimo alla repressione,
alla nevrosi, alle patologie, alla violenza e al crimine. Andreoli stesso
ne ha subito le conseguenze, ha avuto a che fare con tale problema
nella sua vita professionale di psichiatra, e forse proprio attraverso lo
scrivere ha cercato di uscirne. Di sicuro i suoi testi possono offendere
“le pie orecchie”, ma possono anche essere liberatori. Sono pensieri
che attraversano la mente religiosa e che possono essere considerati
come nuvole che attraversano il cielo azzurro. È una tipica prassi
proposta da alcune scuole meditative in cui i pensieri, tutti e senza
alcuna repressione, vengono lasciati scorrere tranquillamente, sono
osservati – si dice – e così si sperimenta che tali pensieri, nel caso di
Dio, blasfemi, iconoclasti, immorali, impuri, eretici, appaiono e
scompaiono, appunto come le nuvole. In tale processo l’idea di Dio
viene dissociata e purificata da tutto ciò che non è degno di lui e della
fede in lui: “Quando vedo cattolici pieni di sé e ascolto le osservazioni
di cardinali addobbati come ballerine di cancan, non ho dubbio alcuno
sul loro non credere. La fede non è legittimata dall’abito che si
indossa o dalla zono in cui si abita. Ci può essere un vantaggio
secondario di far credere che si crede” (CD 75).
Forse Andreoli scrive proprio per liberare la sua mente. Forse i
suoi testi possono funzionare come percorsi meditativi che uno
attraversa insieme allo scrittore per uscire dalle ossessioni represse
che giacciono nella sua mente e così purificarla. Ovviamente rimane
146
aperta la questione se tali cose stiano veramente così e se tali testi,
oltre a testimoniare il percorso personale dello scrittore, veramente
operino nel lettore. Si tratta forse di una questione personale che non
può essere generalizzata. Di sicuro tale proposta interpretativa sfida le
vie “classiche” della spiritualità dominante in queste latitudini, forse
ne è una via d’uscita. Con quale metro però misurare la forza di questo
“forse”?
7.
Il Dio che forse non c’è
Nel suo saggio Capire il dolore (2003) Andreoli svela il proprio
doloroso sentimento religioso: “Lo affermo per esperienza: il dolore di
non credere è enorme e talora insopportabile. Forse il dolore più
grande che io abbia provato, almeno in questa fase della mia esistenza,
che non è quella dei verdi anni. Non credere è un dolore, poiché il non
credente si trova tra i credenti e si chiede quale sia la differenza, che lo
distingue da quelli amici che stima e con i quali condivide molte
esperienze di vita e molti princìpi. Un dolore che si fa rabbia contro
quel Dio che si mostra sempre all’amico e mai a te. Ogni sera va a
casa sua e da me, che abito nell’appartamento accanto, nulla. E anche
il mio è ben arredato e sono altrettanto gentile e disposto ad
accoglierlo. Se viene e si fa riconoscere, io prometto di credere, ma
non posso credere soltanto perché voglio credere. Lo diceva Pascal in
quei pensieri che hanno il sapore di sentenze eterne: ‘Non basta voler
credere per credere’. Basterebbe che questo Dio bussasse anche alla
mia porta, dietro cui sto a origliare per essere pronto ad aprire, ma non
è mai successo. Qualche sera sono stato davanti all’uscio per
guardarlo mentre entrava dal mio amico, ma si è negato persino a
questo atto di voyerismo. Provo rabbia perché mi prende in giro. Io ci
sono, ma se occorre essere in due, vivaddio, vieni. Mi sembri un
sadico” (CD 76).
147
Dunque un’assenza e una dolorosa esperienza del non credere
“pur volendo credere” (CD 78), che nei scritti di Andreoli trova il suo
culmine simbolico e si riassume nell’espressione “Il Dio che non c’è”,
che spesso appare nei suoi testi. È uno dei suoi ritornelli preferiti che
appare nei suoi libri quando parla di Dio. Così medita su Dio Fra
Severino in Sogni d’eremita, così ne pensano e ne parlano i
protagonisti dei suoi “romanzi teologici maturi”: Pëtr Rozanov de Il
reverendo e il gerarca de Il cardinale. Di solito appare la frase secca e
incisa “Il Dio che non c’è”, ma una volta, in un testo quasi poetico del
libro con le sue fotografie Frammenti del cielo, già citato, lo scrittore
la modifica leggermente e di fronte al fascino del cielo parla del “Dio
che forse non c’è”. In questa espressione è significativa ogni singola
parola come anche l’insieme, con e senza questo intrigante “forse”.
Andreoli ha scritto persino Preghiera al Dio che non c’è,
inserita nella raccolta Racconti segreti. È un pezzo notevole di
letteratura che oserei chiamare mistica e che non si può non
richiamare parlando della teologia di questo scrittore. La leggo, e
intanto mi permetto di commentarla, aggiungendo alle frasi strappate a
questo testo le mie glosse con la speranza di non guastare nulla, di non
mancare il rispetto e di non passare da arrogante o noioso scolastico.
Trovandosi a Inverkirkaig in Scozia e colpito dalla bellezza di
questa “cattedrale della natura, in questo mistero avvolto della
bellezza e di pace”, si inginocchia e nella sua mente scorrono le parole
che immediatamente riversa sulla carta:
“Qui ti chiamo e nel silenzio ti imploro e ti dichiaro mio Dio. Ti
riconosco Signore del mio dubbio, del mio bisogno di pregare e di
lodare, di gridare, di piangere e di amare” (RS 480).
C’è dunque un’irresistibile bellezza, un’esperienza dell’incanto:
il mare, il cielo, la montagna, il colore, l’aria e il silenzio in cui e
grazie a cui nella mente e sulla lingua dello scrittore affiora l’antica
parola “Dio”. Non può farne a meno, ma non può neanche rimuovere
il suo perenne sentimento del dubbio. L’incanto rende il Dio presente e
lo attira, il dubbio copre questa presenza con una foschia mentale. Ma
148
il bisogno di pregare è forte. Però in questo momento la mente di
Andreoli, mente scientifica che non può stare ferma a lungo in questo
incanto, inizia il suo abituale giro secondo lo schema “causa-effetto” o
“inizio-seguito”. Così emerge subito la classica domanda:
“L’hai fatta tu questa baia? Hai disegnato tu questa insenatura di
oceano? Hai scelto tu il colore del cielo e la temperatura da dare alle
acque per riempirle di pesci e al suolo per permettere la vita di questo
giardino?” (RS 480).
Così la mente schiude il discorso sul Creatore. Andreoli,
cresciuto all’interno della tradizione ellenico-semitico-cristiana, non
può non pensare a Dio come a un Creatore e al mondo come alla
“creatio ex nihilo”. Da qui la domanda in cui è inclusa
automaticamente anche la risposta, tanto gloriosa quanto drammatica:
“Tu hai compiuto la creazione e io ti proclamo, io grido la tua
potenza, e ti ringrazio per la limitatezza che mi ha portato ad avere un
Dio e se non c’è, mi ha permesso di immaginarlo” (RS 480).
Tutto ciò è drammatico perché pensare Dio come creatore è
un’impresa
tragica:
tale
Dio
potrebbe
essere
frutto
dell’immaginazione, ed anche se non lo fosse l’uomo non potrebbe
immaginarlo se non a immagine e somiglianza di se stesso, come un
macro-uomo:
“Io non sarei capace, né nessun uomo sa dare vita a questo
stormo di aironi” (RS 480).
È un pensiero giusto ma anche blasfemo, perché in fin dei conti
è antropomorfico. La mini-capacità dell’uomo è la misura della maxicapacità di Dio. Così in gioco entra la categoria della potenza, che
nella storia spesso muta nel concetto di potere. Per questo l’uomo
preferisce fuggirne, consolandosi con il pensiero che tutto ciò è forse
solo la sua immaginazione. E in ogni caso, anche se Dio c’è, in gioco
entra l’immaginazione umana che può essere illusoria. Andreoli
dunque, scosso da questo che lui chiama dubbio, cerca una conferma,
un aiuto nella tradizione. Per non lasciarsi trascinare da qualcosa di
149
tremendo si rifugia col pensiero nella tradizione e nella compagnia di
altri uomini:
“L’uomo nella sua miseria ha composto preghiere straordinarie e
così nasce un Dio. Con l’inno alla bellezza e al mistero, ti ho fatto.
Signore, sento suonare tutte le campane della storia, recitare le litanie
dei monasteri, cantare le Missae Domini che i cuori e la paura di tutti
gli uomini hanno orchestrato e in questa estasi chiudo gli occhi e mi
quieto. Lo sguardo incantato, la voce commossa, pensieri di vita
eterna” (RS 480).
Per il momento, grazie alla forza della tradizione, della
consapevolezza in cui gli altri da secoli hanno creduto e pregato, il
cuore dello scrittore è calmo, il pensiero sfiora l’eternità, cioè esce
fuori del tempo e dunque fuori dai discorsi, dalle distinzioni e dal
cambiamento. Ma poi il dubbio ritorna perché non è mai andato via:
“Cosa importa sapere che ci sei, dimostrarti in maniera
inequivocabile e quindi doverti riconoscere. Io ti lodo non ti dimostro,
io ti prego non vengo a patti. Non voglio decaloghi ma legami. (…) Se
non esisti io ti creo, se non mi senti io ti chiamo, se sei lontano io ti
invoco e ti porto in questo scenario divino che, se non ha un Dio
perché non lo ha fatto un Dio, allora è il tempo di eleggere un Dio, il
Dio del cielo e della terra. Che importa che tu ci sia? È essenziale che
uno ti desideri, che l’uomo senta dal suo limite la tua grandezza.
Senza di te, l’uomo non può stare nemmeno dove Tu non ci sei” (RS
480-481).
Il linguaggio e il pensiero si fanno sempre più paradossali,
costituiti da un “no” negato da un altro “no”, che forse nascondono
entrambi un “sì” inesprimibile. Per un momento sembra che nello
scrittore tutto si sia calmato:
“Dio mio, ti invoco, ti canto, ti supplico, ma non ho nulla da
domandarti, desidero solo contemplarti” (RS 481).
Ma poi subito appare la paura della morte e della solitudine
estrema:
150
“Ho bisogno che tu ci sia per cancellare la paura di scomparire o
di non esserci affatto, perché, perché da solo non ho senso e appaio a
me stesso come una chimera, come una luce tremula sulle onde
dell’oceano. (…) È possibile che tu abbia fatto me e poi te ne sia
scordato? Qui, in questo teatro della natura io sono nulla, uno
spettatore di passaggio. (…) Un nulla capace di pregarti e persino di
inventarti, di cercarti. (…) Sono nulla e un Nulla può fare Dio, ma non
può esserlo” (RS 481).
La preghiera va così avanti e indietro tra ansia e quiete. E io
leggendola mi domando che cosa stia alla base di tutto questo, al di là,
se ciò è possibile, delle emozioni, dei sentimenti, dalle impressioni
che esplodono creando tali ghirlande delle parole. Nel fondo sta
l’immagine di Dio come creatore, come chi fa e disfa. Insomma, un
“theos”. Da qui nasce la visione del mondo e dell’esistenza distesa tra
due nulla, un nulla prima della creazione, o nascita, e un nulla dopo la
fine del mondo, o morte. Da qui nasce anche il desiderio dell’uomo di
fuggire e di disfarsi, seguendo in questo impeto il mito della creazione
dal nulla e facendosi con ciò simile al Creatore che fa e disfa. E se Dio
è ma non è creatore? Come pensarlo allora? E se pensare a Dio come
creatore è solo un modo di pensare il mondo e l’uomo in questo
mondo? Ma qui vado oltre quello che trovo nell’Andreoli di carta.
Anche se in questo mio pensiero trovo una qualche spiegazione alle
sue fughe e tensioni teologiche, torno al testo che culmina con
un’espressione paradossale:
“Mi sento pieno di Dio, di un Dio che non c’è. Il mio Dio c’è
perché non c’è” (RS 482).
Come se leggessi un mistico, ad esempio Maister Eckhart: “Se
dunque io dico: Dio è buono – non è vero; io sono buono, ma Dio non
è buono! […] lontano da Dio sono tutti e tre i termini, buono, migliore
e migliore di tutti: egli è al di sopra di tutto. Se, inoltre, io dicessi: Dio
è saggio – non è vero; io sono più saggio di lui! Potrei aggiungere:
Dio è un essere – non è vero; egli è un essere e un nulla al di sopra
dell’essere! Perciò dice sant’Agostino (a dir il vero lo dice Dionigi –
151
MB): la cosa più bella che l’uomo può dire di Dio, è tacere, per la
saggezza della interiore ricchezza. Taci, dunque, e non borbottare su
Dio, perché, se borbotti su di lui, dici menzogne e commetti peccato.
Se dunque vuoi essere senza peccato e perfetto, non borbottare su Dio!
Neppure devi voler comprendere qualcosa di Dio, perché Dio è al di
sopra di ogni comprensione. […] Se dunque non vuoi diventare
animale, non comprendere niente di Dio, che è inesprimibile in parole!
– Ah, come devo fare allora? – Tu devi sfuggire completamente al tuo
essere tuo, e fonderti nel suo essere suo, e così il tuo “tuo” nel suo
“suo” deve diventare completamente un “mio”, in modo da conoscere
eternamente con lui il suo immutabile essere increato e il suo
indicibile nulla” (Renovamini spiritu mentis vestrae, in: Sermoni..., pp.
255-256). O per esempio Scoto Eriugena che scrive: “Deus propter
excellentiam non inmerito nihil vocatur (Dio per la sua eccellenza,
non senza ragione, sia chiamato Nulla)”, e ancora Tommaso d’Aquino:
“Ille qui melius unitur Deo hac vita unitur ei sicut omnino ignoto”
(Chi si unisce a Dio nella migliore forma in questa vita, gli si unisce
come qualcosa di assolutamente sconosciuto).
Non voglio assolutamente fare di Andreoli uno scolastico o un
teologo attribuendogli qualcosa che lui stesso non vede in sé, ma che
io vedo e dico che in lui c’è. Sarebbe una forzatura. Ho evocato alcuni
esempi della cultura religiosa occidentale solo per mostrare che
Andreoli, nella sua parlata religiosa, si muove nello stesso clima, nello
stesso paradigma che include parole come Dio, Creatore, creatura,
mondo, Nulla, incomprensibilità, paradosso.
In tutta questa tragedia teologica legata a “il Dio che non c’è”, a
un certo momento lo scrittore veronese trova una strana ma
interessante via di uscita, una forma di consolazione che gli accade
mentre va scrivendo Il corruttore (2009). Alla fine del romanzo, il
protagonista Antonio Antiquo, un altro alter ego di Andreoli,
pronuncia parole che sanno di meditazione e di preghiera, e che
potrebbero costituire la sua sintesi teologica, almeno in questa fase
della sua vita:
152
“Non so nulla di te e non posso dire nulla di te. Ma sono felice,
felice, o Dio dell’eterno, proprio perché non so niente, perché ho la
sensazione di una ignoranza che è soltanto parte della logica
dell’uomo e di questo tuo mondo, che ha i limiti del tempo, che muore.
Sono felice perché amo la libertà, anche se la libertà si lega alla
temporaneità, perché all’uomo non può appartenere l’eterno che ti
appartiene come creatore del mondo.
Amo questa piccola libertà, ma anche la certezza che io avrei
fatto tutto ciò che mi avresti potuto chiedere, perché a un Dio non
saprei disubbidire, ammesso che questa conoscenza lasciasse ancora
l’uomo libero. A me pare che scomparirebbe e che l’uomo entrerebbe
nella determinazione che è quella dell’eterno.
Se sono di fatto un infedele, sappi che nello stesso tempo io
sarei tuo fedele se solo avessi saputo che tu hai richiesto ciò che io
non immagino, perché di te non so nulla, nulla al di fuori della tua
esistenza.
Ignoro cosa significhi esistere per chi è eterno e tu solo lo sei e
tu solo lo puoi sapere. Anche se tu me lo indicassi, non potrei capirlo,
perché con la mia mente che è dentro il tempo non si comprende ciò
che sta fuori del tempo, ciò che è eterno: ecco il perché credo che non
si sappia nulla di te e che non lo si possa sapere” (CR 380).
Una volta Henri Le Saux, monaco bretone e cristiano, dopo anni
di vita in India e dopo la sua immersione nel Vedānta, era
profondamente tormentato perché si trovava tra il mondo cristiano,
paradigma in cui era cresciuto e del quale gli era stato detto che non
avrebbe dovuto abbandonare, e il paradigma Vedānta, vecchio in sé
ma nuovo per lui, in cui scomparivano i tanti dilemmi del monaco
bretone cristiano. Un suo amico, Raimon Panikkar, commentando
questa sua tensione, essenzialmente molto razionale, gli disse che la
sua teologia non era all’altezza della sua esperienza. Forse lo stesso si
potrebbe dire anche di Andreoli. Forse la teologia presente nei suoi
scritti non è all’altezza delle sue intuizioni e probabilmente anche
153
della sua esperienza che si potrebbe definire religiosa o mistica. Ma la
teologia non è mai all’altezza della nostra esperienza.
Intuisco che se un giorno Andreoli scoprisse questo suo Dio che
forse non c’è, si ritroverà a non poterlo scrivere, ma finché egli vorrà
scrivere di questo Dio, dovrà almeno trattarsi di un Nulla. Così deve
essere finché Andreoli è l’Andreoli di carta; anche quando con il
proprio nome ha firmato il libro Il silenzio dello psichiatra, di cui ho
saputo che stava per essere pubblicato proprio mentre stavo finendo di
scrivere queste pagine. Purtroppo l’editore (Rizzoli) gli ha imposto il
cambiamento del titolo e così il libro è apparso come Dialogo tra uno
psichiatra e il suo paziente (2011). Il potere delle leggi del mercato
editoriale hanno di nuovo avuto il meglio sopra la forza della verità
silenziosa della parola.
154