Tragedia folle - Maciej Bielawski
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Tragedia folle - Maciej Bielawski
Maciej Bielawski Tragedia folle Mondo letterario di Vittorino Andreoli eMBi 1 Indice Abbreviazioni Prima parte: L’OPERA 1. Giardino di carta 2. Biblioteca a due piani 3. Tanti libri, un’opera 4. Tragedia umana 5. Lo stile 6 11 17 21 24 Seconda parte: LE GENESI 1. Mondo 2. Uomo 3. Carlofania 4. Dentro una tradizione 5. Carta e realtà 31 37 52 57 61 Terza parte: I TEMI 1. Follia 2. Violenza 3. Dolore 4. Eros 5. Morte 6. Finemondo 7. Fragilità 67 76 82 89 97 105 114 Quarta parte: IL DIO 1. Letteratura e teologia 2. Andreoli teologico 3. Alcune esperienze personali 4. Monastero, monaco, monachesimo 5. Natura 6. Iconoclasta blasfemo 7. Il Dio che forse non c’è 121 123 127 134 140 143 147 2 3 Abbreviazioni: C = Il cardinale, BUR 2009. CD = Capire il dolore. Perché la sofferenza lasci spazio alla gioia, Rizzoli 2003. CG = Carlo Zinelli, Catalogo generale, Marsilio Editore, Venezia 2000. CR = Il corruttore, Rizzoli 2009. CS = Cronaca dei sentimenti, BRU 2000. D = Delitti. Un grande psichiatra indaga su dieci storie di crimine e follia, Rizzoli 2001. DS = Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi, BUR 2005. FC = Frammenti di cielo, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2010. FM = Fuga dal mondo, Rizzoli 2003. FS = Follia e santità, BUR 2010. GM = I giardini della miseria e altre storie, BUR 2002. LL = E la luna darà ancora luce, BUR 2005. LGF = Il linguaggio grafico della follia, BUR 2009. MB = Maciej Bielawski MC = Il matto di carta, BUR 2008. MI = Il matto inventato, BUR 1992. MM = I miei matti. Ricordi e storie di un medico della mente, Rizzoli 2004. P = Principia. La caduta delle certezze, BUR 2007. PC = Una piroga in cielo, Rizzoli 2002. PP = Un posto in platea. Trame teatrali, BUR 2005. R = Requiem, Rizzoli 2010. RP = Racconti perduti, BUR 2010. RS = Racconti segreti, BUR 2005. S = Silenzi, Rizzoli 2007. SF = Un secolo di follia. Il novecento fra terapia della parola e dei farmaci, BUR 1998. SM = Senza una meta, BUR 2007. TF = Tra un’ora, la follia, Rizzoli 1999. UF = L’uomo folle. La terza via della psichiatria, BUR 2007. UP = Un pellegrino, BUR 2010. UV = L’uomo di vetro. La forza della fragilità, Rizzoli 2008. V = La violenza. Dentro di noi attorno a noi, Rizzoli 1993. VT = Versi sotto la terra, BUR 2004. 4 5 Prima parte: L’OPERA 1. Il giardino di carta Dovevo vedere questo posto. Mi sono alzato dalla scrivania di scatto e pochi minuti dopo camminavo già lungo un vecchio muro, mezzo crepato, in via San Giacomo in Borgo Roma a Verona. Era caldo e le macchine che mi passavano accanto creavano un fracasso e una puzza di gas di scarico incredibili. Per fortuna dopo un centinaio di metri mi sono trovato di fronte ad un vecchio portone mezzo rovinato, in cui però erano ancora percepibili le ombre di un passato maestoso. Era l’entrata del vecchio manicomio di San Giacomo. Sono passato attraverso un piccolo cancello di ferro arrugginito e semichiuso che si trovava sulla sinistra. Di fronte a me si apriva un parco con grandi alberi, diversi sentieri e alcune panchine. Non c’era nessuno e il luogo sembrava poco frequentato. Sono stato accolto dal verde, rinfrescato dall’ombra e avvolto da una strana quiete che era in stridente contrasto con ciò che avevo appena letto e che mi aveva condotto qui. Guardavo le piante, e tra le chiome intravedevo il cielo, ma tutto questo era come uno schermo sul quale la mia memoria proiettava immagini del tutto diverse. Vedevo una cosa, ma ne percepivo un’altra molto più forte: “Appena entrati dal portone si incontrava la palazzina della direzione, e poi, distribuiti entro un grande parco alberato, in perfetta simmetria, dieci edifici identici. Qui vivevano i matti, da una parte del parco le donne, dall’altra gli uomini. Ogni padiglione prendeva il nome dall’aritmetica e così si incontravano in successione il Primo uomini, il Secondo, il Terzo, il Quarto e il Quinto e di fronte il Primo donne, il Secondo, il Terzo, il Quarto, il Quinto. Man mano che ci si addentrava nel manicomio aumentava la gravità dei ricoverati e, di conseguenza, la loro pericolosità. Dire di un matto: ‘È del Quinto’ (e i 6 matti venivano identificati molto più spesso con il numero del padiglione di appartenenza che con il loro nome) significava dire che era estremamente pericoloso e certo più grave del Quarto e molto di più di uno del Secondo. Ogni edificio era disposto su due piani: quello inferiore destinato a zona giorno, quello superiore a zona notte. Di notte tutti sopra a dormire, di giorno tutti nel grande salone al pianterreno. Centoventi persone – questo era il numero dei malati destinato a ogni edificio – tenute insieme. Unico sfogo durante la bella stagione un giardinetto circondato da una rete di protezione. Nel grande parco, invece, il matto poteva accedere solo se accompagnato. Mutavano, tra questi padiglioni tutti uguali, lo scenario umano e l’armamentario di strumenti di contenimento di cui erano dotati; strumenti che ovviamente si intensificavano quanto più ci si avvicinava all’ultimo livello, il Quinto, dove i malati erano immobilizzati in camice di forza, legati e costretti su sedie fissate alle pareti; tra urla ma soprattutto in una puzza terribile di feci e di urina. (…) Ma la situazione più drammatica era nel Quinto femminile. Un abominio. Donne private di qualsiasi dignità, ammassi di carne nuda gettati sul freddo del pavimento, corpi legati alle pareti e lordi di escrementi: un girone dantesco” (MM 9-10). Era un frammento dell’appena pubblicato libro I miei matti di Vittorino Andreoli. Questo testo si è impresso nella mia mente in un modo così prepotente da non riuscire più a liberarmi di esso. Sapevo che intorno non c’era nient’altro, solo il parco, gli alberi, sentieri e panche, perché quasi tutti gli edifici di questo manicomio erano stati distrutti alcuni decenni fa, quando l’ospedale venne chiuso. Ma avevo l’impressione che, nonostante la cancellazione fisica, l’atmosfera – oserei dire “lo spirito” – di questo posto fosse rimasta impressa in questo spazio. Gli antichi l’avrebbero definita “genius loci”. 7 Nei giorni successivi, mentre continuavo la lettura del libro, sono tornato in quel posto parecchie volte e l’effetto era sempre lo stesso, anzi sembrava aumentare. Certo, sapevo che una cosa è la realtà e un’altra il testo. Conosco bene le regole dell’ermeneutica e ho una mente sufficientemente critica per non lasciarmi stregare. E nonostante ciò, l’impressione era talmente forte che, ancor prima di finire la lettura di questo libro, avevo deciso di tradurlo in polacco. Presi gli accordi necessari con una casa editrice di Cracovia e volli contattare lo scrittore stesso. Non fu un compito facile. In internet non c’erano indicazioni. Nelle pagine gialle il suo numero di telefono non si trovava. Contattare la casa editrice Rizzoli con la quale Andreoli pubblicava i suoi libri era un’impresa che rassomigliava alle disavventure del protagonista de Il Castello di Kafka. Ma non volevo arrendermi. Mi dicevo: ‘lo scrittore dovrebbe essere in qualche angolo di questa città’. Un giorno mi sembrava di vederlo camminare con la moglie vicino a Porta Leoni, nel centro storico di Verona, ma potevo sbagliarmi perché il personaggio intravisto parzialmente si copriva il volto con uno sciale rosso. In un gesto quasi disperato chiamai l’ospedale di Soave, l’ultimo posto in cui il professore aveva lavorato fino ad alcuni anni prima, come avevo appreso da I miei matti. Colpo di fortuna. La persona che rispose al telefono sembrava conoscere e stimare Andreoli, e gentilmente mi fornì il numero di telefono che ho subito chiamato. Rispose una segreteria telefonica in cui lasciai un breve messaggio. Due minuti dopo squillò il telefono, e una voce come da lontano diceva: “Sono il professor Vittorino Andreoli…” Tre giorni dopo, in una serata d’autunno, entravo in una vecchia casa stile veneziano di Veronetta e, dopo aver suonato il campanello, sentii dei passi piuttosto decisi. Venne alla porta Andreoli stesso, che mi condusse attraverso un labirinto di corridoi fino a un salotto in cui si sedette, lui su un divano e io su una poltrona. L’arredamento della stanza era piuttosto vecchio, la luce soffusa: 8 «Il professore era un interlocutore ideale per una serata... i suoi grandi occhi neri e profondi, impenetrabili. Misteriosi, era meglio dire, perché in quegli occhi ti perdevi e ti impaurivi. Non faceva nulla per togliersi di dosso l’alone di mistero che gli avevano attaccato. Lui si atteggiava in modo naturale e del resto uno che si occupa di svelare il comportamento, al di là delle apparenze, è meglio non si nasconda, e dunque lasci da parte le formalità e le maschere del perbenismo. Era letteralmente spettinato e sembrava che al mattino, mentre tutte le persone comuni si mettono davanti ad uno specchio e usano il pettine per mettere in ordine i propri capelli, lui li spettinasse, seguisse il criterio opposto e così li facesse andare in ogni direzione, a raggiera; e non si può meravigliare se il professore di greco che lo incontrava, pensasse alla Medusa. Tutto contribuiva a creare un alone strano, e lui non faceva nulla per opporvi una sua visione, che certo aveva diritto di essere ritenuta quella vera. Anche le cravatte, possono essere strane, ma almeno vedi che il nodo rimanga aderente al collo della camicia. L’abito blu da montanaro, ogni tanto cambialo altrimenti la gente dice: “Ma è sporco”. Pochi sapevano che ne aveva comperati quattro tutti uguali e che quindi anche se sembrasse il contrario, li cambiava e si poteva dire tutto, ma non che fosse trascurato. Ma allora dillo. Così per i capelli, due parole: “Non amo stare davanti allo specchio e non ho simpatia per il barbiere”. Capisco, poteva fare imbestialire una categoria. Giochi di diplomazia: “Amerei tanto sedermi su una poltrona da parrucchiere, ma mi manca il tempo”. Espressione più carina rispetto al commento dominante della gente: “Sta ore a spettinarsi”. Certo alle sopracciglia non poteva fare nulla: erano folte come dei boschi abbandonati e sovrastavano gli occhi che, così, apparivano ancora più fondi e neri come il carbone del Transvaal o come quelli del demonio. Se ti guardava diritto e ti fissava, sentivi le ginocchia piegarsi e la bocca che automaticamente recitava un Requiem. (RS 32-33)» Le ginocchia non mi si sono piegate, non mi sono impaurito e non ho recitato il Requiem. Al contrario. L’incontro fu piacevole ed 9 efficace. La traduzione era stata inviata e durante il lavoro nei mesi seguenti ci incontrammo spesso, perché avevo bisogno di spiegazioni, che il professore mi forniva pazientemente. Poi il libro è uscito, e siamo andati insieme a Cracovia per presentarlo all’università, al dipartimento di psichiatria. Tutto questo ci ha discretamente legato e mi ha permesso di conoscere meglio l’autore e i suoi scritti. Col passare del tempo questa conoscenza è divenuta oggetto di riflessione e doveva trovare quindi una propria espressione ben concreta. Così è nata l’idea di scrivere un saggio. Ma è emersa subito anche la questione: come realizzarlo? La personalità e la storia di Andreoli mi parevano interessanti, ma non avevo alcuna voglia di scrivere una biografia per diversi ragioni che non vale qui la pena di elencare. D’altra parte, c’erano i suoi libri, un “corpus” di notevole dimensione. Cercavo di tenere distinte queste due realtà, ma non era facile. Lo stesso Andreoli mi venne in aiuto scrivendo Il matto di carta (2008) che mi indusse a pensare all’“Andreoli di carta”. Qui sotto, sulla falsa riga di alcune pagine di questo libro (cfr. MC 58), attraverso una “variazione sul tema” spiego meglio l’approccio che ho seguito in questo saggio. “Andreoli di carta” è un’espressione che mi piace molto. Una di quelle combinazioni di parole che finisce per assumere un fascino oscuro, capace di stimolare pensieri e suscitare emozioni. Non è facile indicarne il perché: forse è altrettanto difficile come spiegare la particolare colorazione che suscita un verso poetico. Si può tentare di trovare una spiegazione, ma rimane sempre una parte oscura e strana, un po’ misteriosa, ma non per questo meno interessante e intrigante. “Andreoli” è un personaggio da alcuni ben conosciuto, per altri totalmente ignoto, uno scienziato, uno psichiatra, una personalità pubblica della TV, uno scrittore, un uomo con la sua storia, la sua ricerca, le sue imprese riuscite e fallite, uno che è pro e contro e verso cui si può essere pro e contro, uno che affascina e che spaventa. L’espressione “di carta” indica una netta contrapposizione all’Andreoli di carne, che conosco meno di quello di carta. Questo 10 secondo esiste nei libri, ha un profilo ben preciso e relativamente facile a tracciarsi partendo dai testi che egli ha scritto. È un personaggio che si è fatto racconto e quindi è diventato “l’opera”. Si può e si deve distinguere l’“Andreoli di carne” dall’“Andreoli di carta”, tuttavia non si può separarli. È un po’ come con il Giardino di San Giacomo a Verona, questo reale e, quello descritto da Andreoli, in cui la realtà e la scrittura mi sembra si sovrappongano e si completino a vicenda, e io mi trovo tranquillo tra due mondi, il reale e quello di carta. Ma non mi preoccupo molto di questa tensione, non devo fare né il filosofo, né il critico letterario. Semplicemente leggo, guardo, mi muovo tra la realtà e la carta con lo scrivere. Questi due mondi si rispecchiano reciprocamente, l’uno nell’altro, senza fine, fanno parte di me e io faccio parte di loro. 2. Una biblioteca a due piani Non credo che abbia bisogno di introduzione la seguente citazione di Andreoli: “Amo i libri, sono un oggetto straordinario. Mi piace scriverli, leggerli, raccoglierli. Qualche volta ho pensato di portarmeli a letto. Un oggetto d’amore, di piacere. Provo rispetto e timore, curiosità e fascino. Un oggetto sacro. Mi commuovo ancora, e ormai di figli di carta ne ho riempito una biblioteca e di molti mi sono addirittura dimenticato. Sono attratto sempre dal figlio che non ho, e abbandono quelli che mi girano attorno. Talora mi infastidiscono, poiché non si rendono conto che sono occupato a fare un loro fratello. Si chiama sindrome di Saturno: faccio libri e poi me ne dimentico, li abbandono” (CS 88). E non credo che sia da commentare. Voglio semplicemente ricordarla, voglio che sia presente in questo saggio come un’iscrizione sopra una porta che conduce, per esempio, a una biblioteca immaginaria, in cui i libri sarebbero collocati su diversi piani, sale e scaffali, secondo gli argomenti. 11 In tale biblioteca alcuni dei testi di Vittorino Andreoli si troverebbero nel settore della psichiatria, e tra di essi soprattutto Un secolo di follia. Il novecento fra terapia della parola e dei farmaci (1991), che può essere considerato una storia divulgativa della psichiatria del XX° secolo, ossia l’orizzonte dell’intera opera di questo autore. Accanto a questo volume ci starebbe bene il libro I miei matti (2004), che riprende la stessa tematica in prospettiva autobiografica: ottima introduzione per conoscere l’autore, alcune vicende della sua vita e il modo in cui ha vissuto da psichiatra. Poi Il medico e la droga (1979), uno fra primi libri scritti in Italia su tale argomento, e in seguito ripreso, rielaborato e ampliato trent’anni più tardi col titolo La testa piena di droga (2008). Il quadro andrebbe completato con L’uomo folle. Terza via della psichiatria (2007), una forma di credo psichiatrico di Andreoli, e con i trenta volumi della Biblioteca della mente, usciti con il Corriere della Sera nel 2011/2012, una forma di canone o di rassegna dei classici per i vari scrutatori dell’anima, della mente e del cervello. Nella sala accanto, dedicata alla psicologia, si troverebbero i saggi più conosciuti del professore, come Giovani. Sfida, rivolta, speranza, futuro (1995) che è stato venduto in Italia forse in un mezzo milione di copie, a cui andrebbero aggiunte le famose e non meno lette “Lettere”, che qualcuno con ironico sorriso ha definito “Encicliche di Andreoli”: Lettera a un adolescente (2004), Lettera alla tua famiglia (2005), Lettera a un insegnante (2006), Carissimo amico. Lettera sulla droga (2009). Un valido bibliotecario nello stesso scaffale potrebbe collocare: Dalla parte dei bambini (1998), Istruzioni per essere normali (1999), Capire il dolore (2003), Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi (2005), Alfabeto delle relazioni (2005), La vita digitale (2007), L’uomo di vetro (2008), Le nostre paure (2010), Il denaro in testa (2011). Sono titoli parlano “da sé” e messi insieme dimostrano chiaramente l’ambito tematico in cui con questo tipo di saggistica si muove Andreoli. Tutt’altro discorso è “come” lo fa, perché è proprio questo “come” che valorizza questi 12 testi e ha reso il loro autore così conosciuto e letto. Questo “come” è un insieme di vari elementi: la passione e la compassione, il desiderio di aiutare e di condividere le proprie esperienze e le proprie preoccupazioni, l’erudizione e lo studio arduo della problematica trattata, l’attenzione a quello che interessa e a ciò di cui c’è bisogno di parlare, la mente dedicata alla riflessione e l’indubbio talento letterario, nonché un lavoro tenace, a cui aggiungo anche il misterioso ed ineffabile “demone” che spinge chiunque lo fa a dedicarsi alla scrittura. Ma torniamo alla nostra visita nella biblioteca immaginaria. Andreoli, che per anni ha lavorato come perito dei tribunali sui crimini più acclamati della recente storia italiana, ha scritto anche libri come Voglia di ammazzare (1996), Delitti. Un grande psichiatra indaga su dieci storie vere di crimine e di follia (2001), Il lato oscuro (2001). Un bibliotecario attento dovrebbe collocare questi testi nella sala dedicata alla criminologia. Non intendiamo soffermarci a lungo su questo punto, notiamo solamente che, accanto all’aspetto “consolatorio” o “terapeutico” della saggistica di Andreoli, abbiamo a che fare con il tema inquietante e molto reale della violenza nelle sue forme più spietate ed inimmaginabili. Riguardo a tale tema segnalo il libro La violenza. Dentro di noi, attorno a noi (1993); guardo la sua copertina rossa, ma per ora non lo apro e lo rimetto nello scaffale mentre sfioro con il pensiero il fatto che questo autore indaghi su casi di violenza alla maniera di un detective e penetri nella mente come solo uno psichiatra sa fare, analizzando la questione sociale del crimine come un ottimo giornalista, e nell’insieme racconta praticamente tutto come se fosse lui l’autore del giallo, con la differenza che purtroppo parla di casi veramente accaduti. Nello scaffale di “Filosofia” c’è un grosso volume: Principia. La caduta delle certezze (2007), in cui Andreoli presenta la storia e la filosofia della scienza moderna, le questioni del diritto e della politica, domandandosi su quali princìpi può ancora poggiarsi oggi la vita dell’uomo e della società. Nello scaffale accanto, quello della 13 “Teologia”, si trova il libro Preti. Viaggio fra gli uomini del sacro (2009), Follia e santità (2010), in cui sono raccolti nove ritratti di santi cattolici che in qualche modo hanno sfiorato o realmente vissuto la follia, e Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e libertini, esorcisti e libertini (2010), un’antologia commentata, assolutamente originale, sulla figura del prete nella letteratura italiana. In una sala intermedia, in cui si trovano i diari e le memorie, il lettore dovrebbe trovare la Cronaca dei sentimenti (2000), un diario tenuto da Andreoli nel 1999, la fine del millennio, che nella sua vita segna il passaggio dalla carriera professionale di psichiatra alla vita pensionato e scrittore a tempo pieno. Ma passiamo oltre fermandoci brevemente di fronte allo scaffale della critica letteraria, in cui notiamo due libri degni di attenzione. Il primo: I segreti di casa Pascoli. Il poeta e lo psichiatra (2006), da un’angolatura del tutto particolare racconta la drammatica vita di Giovanni Pascoli. Nel secondo: Il matto di carta. La follia nella letteratura (2008), Andreoli analizza il tema del folle e della follia nei grandi romanzieri come Dostoevskij, Turgenev, Henry James, e nel Novecento Italiano, incominciando da Italo Svevo e penetrando i testi da lui amati di Carlo Emilio Gadda e Dino Buzzati. Continuando il giro nella biblioteca immaginaria alla ricerca dei libri di Andreoli, saliamo su un altro piano, cioè quello della narrativa e delle altre forme letterarie che in francese erano chiamate “les belles lettres”. Di fatti, questo psichiatra e saggista è anche autore di una quindicina di romanzi, di cui ora non tento di elencare tutti i titoli, la cronologia, né di riassumere i contenuti; colgo solo con un colpo d’occhio le scritte sui dorsi: I giardini delle miseria, Camice matto, Il cardinale, E la luna darà ancora luce, Fuga dal mondo, Una piroga in cielo, Un pellegrino, Yono-Cho, Senza una meta, Il reverendo, Il corruttore, Requiem. A questo corpus romanzesco piuttosto imponente bisogna aggiungere alcune raccolte di racconti come Gli adolescenti (1985), Tra un’ora, la follia (1999), Racconti segreti (2005) e Racconti perduti (2010). Non entro qui nella piuttosto complicata 14 questione bibliografica, cioè nel fatto che i diversi racconti siano stati pubblicati da diversi editori, in diversi tempi, nelle versioni che poi sono state migliorate e riproposte nelle nuove raccolte. Sarebbe tuttavia una ricerca da fare. Ma se uno volesse le cifre, si potrebbe dire che Andreoli ha pubblicato circa 150 racconti, senza contare quelli, numerosi, inclusi nei suoi saggi e considerati come “relazioni vere”, in cui riporta soprattutto le storie dei suoi matti. Questo autore, anche quando si dedica alla saggistica, è un ottimo “storyteller”, e dal punto di vista strutturale e letterario forse le sue pagine migliori sono proprio i racconti, veri e propri “microcosmi”. Se il visitatore di questo piano della biblioteca immaginaria ora si volge dall’altra parte e si ferma di fronte allo scaffale della poesia, troverà il volume Versi sotto la terra (2004), una raccolta componimenti poetici che l’autore stesso preferisce definire “esercizi” o “giochi di parole”. Andreoli per circa vent’anni (1978-1999) ha scritto centinaia, anzi migliaia (“Una vera furia”) di tali composizioni, ogni tanto in forma molto sperimentale e persino grafica, che testimoniano anche la sua ricerca e sensibilità all’interno della scrittura e della parola. Insomma, nel caso di Andreoli abbiamo anche a che fare con un afflato poetico, con una ricerca dell’espressione linguistica, che è presente anche sia nella sua narrativa sia nella sua saggistica. Apro il volume a pagina 128, dove trovo i versi che lego lasciandomi trasportare dal gioco delle lettere che subito muta in quello delle parole e dei sensi: 15 Rimetto il libro al suo posto e subito alla mia destra noto sullo scaffale dedicato al teatro un grosso volume: Un posto in platea. Trame teatrali (2005), una rassegna di oltre trenta “pezzi per teatro” scritti sia in un italiano letterario sia in dialetto veronese, di cui alcuni sono stati rappresentati sul palcoscenico. Dietro questo volume sta tutto il modo di concepire la vita come teatro e la tensione esistenziale tra la maschera e l’esistenza nuda: una chiave per capire anche alcune scene dei suoi romanzi, dove spesso appare la “nudità”, come ad esempio ne Il cardinale, in cui il protagonista (un ecclesiastico) ad un certo punto si sveste e si presenta nudo di fronte allo specchio dicendo onestamente a se stesso di non credere in Dio. 16 A questo punto il visitatore della biblioteca immaginaria, giustamente, potrebbe essere stanco e nauseato a causa della sovrabbondanza della produzione letteraria di Andreoli. Discretamente si domanda: “Abbiamo finito? Abbiamo visto tutto?”. No, ma senza inoltrarci più nei diversi piani e stanze, diciamo soltanto che tra gli scaffali sull’arte si può trovare il libro Il linguaggio grafico della follia (2009), come anche quello sulle opere artistiche di Carlo Zinelli, o anche il saggio sullo scultore Ilario Fioravanti. Nella sezione dedicata alla fotografia vanno presi in considerazione con particolare attenzione gli album con le fotografie (e i testi meditativi o semipoetici) di Andreoli come Frammenti dell’infinito (2009), che con foto e parole racconta il mistero dell’acqua, del fuoco, del cielo, della terra, e Frammenti del cielo (2010), un poema in fotografia e parole sul cielo. La fotografia sembra essere un’arte praticata con gusto e piacere da questo scrittore. Ma bisogna ancora menzionare centinaia di articoli scientifici, pubblicati da Andreoli in riviste specializzate, le interviste e gli interventi in TV, oggi almeno in parte accessibili su internet, e di sicuro un immenso “archivio privato” dell’autore con le sue produzioni non (ancora) pubblicate. Insomma, nel caso di Andreoli abbiamo a che fare con un autore imponente e un’opera piuttosto estesa, che vale la pena di contemplare nel suo insieme e di rintracciarne alcune caratteristiche. 3. Tanti libri, un’opera Ora immagino che in questa biblioteca ideale, dove le opere di Andreoli si trovano sparse in diversi scaffali su due piani, ci siano alcune belle stanze addette allo studio, nelle quali uno può raccogliersi per leggere e scrivere. C’è anche una gentile bibliotecaria che non solo mi permette di usufruire di tale spazio, ma anche mi porta tutti i libri 17 di questo scrittore conservati nella biblioteca. Li dispongo su uno scaffale di quattro metri, li guardo, apro a caso un volume o un altro. Resisto alla tentazione di ordinarli cronologicamente o dividerli tra saggistica e narrativa. Resisto anche al desiderio di contarli tutti, anche perché molti sono solo copie di un unico esemplare, altri hanno diverse edizioni, ed alcuni mancano. Non voglio fare il bibliografo, né l’enciclopedista. Mi basta sapere che ho di fronte una cinquantina di volumi di questo autore e che sono stati scritti nell’arco di quasi mezzo secolo. All’inizio non sapevo nulla di tutto questo e ricordo che, dopo aver letto qualche saggio di Andreoli, sono rimasto sorpreso di scoprire che scriveva anche romanzi, racconti, poesie e testi per il teatro. Col tempo ho anche appreso che in Italia questo scrittore è conosciuto proprio come saggista, o piuttosto come uno psichiatra che scrive saggi. Il titolo “psichiatra” che appare sulle copertine dei suoi libri aggiunge ai suoi testi una certa aura di mistero, legato al mito secondo cui lo psichiatra scruta miracolosamente i segreti dell’uomo. Andreoli “romanziere” è meno conosciuto e meno apprezzato. Ma dopo aver frequentato sia i suoi saggi, sia i suoi romanzi, mi sono reso conto che in fondo questa divisione è piuttosto formale. Andreoli stesso ha vissuto dolorosamente e a lungo questa scissione. Riflettendo sui fatti ritengo che lo scrittore romanziere precede il saggista. Da giovane dedito alla medicina, prima di esprimersi nei saggi che lo hanno reso famoso, più o meno venticinquenne Andreoli compose il suo primo romanzo I giardini della miseria. E dopo averlo scritto, vergognandosi di questo fatto, visto che riteneva non combaciasse con l’immagine di futuro medico e scienziato, l’ha tenuto nascosto per più di vent’anni. I giardini della miseria, romanzo sul pittore-matto Carlo Zinelli, scritto tra il 1962 e il 1966, fu pubblicato soltanto nel 1988 da un piccolo editore veronese, perché i grandi editori non volevano sentire parlare di un “Andreoli romanziere”, anzi ne erano disgustati, ritenendolo questo un capriccio che avrebbe potuto danneggiare la sua immagine di autore saggista che pian piano 18 si andava affermando sul mercato del libro. Invece Andreoli stesso, ad una giusta distanze di tempo, ha commentato la cosa in questo modo: «Io faccio sempre la stessa cosa, una sola: mi occupo dell’uomo, lo studio nel suo comportamento, in azioni che talora si fanno estreme e giungono a uccidere un altro uomo. Un comportamento che si fa follia e che pure parla dell’umanità. Anche il folle è un uomo. Continuo a parlare dell’uomo usando ora il linguaggio della scienza, ora quello della narrazione. Il primo permette di capire l’Uomo, di stabilire delle leggi, dei meccanismi. Il secondo si lega al singolo e può narrare i suoi sentimenti, i vissuti che sono sempre individuali. Insomma è come se ora parlassi dell’uomo e della sua sofferenza guardando al microscopio, ora mettendomi su un baobab per osservare dall’alto più uomini insieme. Una modalità permette di vedere meglio certi particolari ma perde altre specificità che invece la seconda aiuta a descrivere e a capire». (GM 15). Nel caso di questo autore abbiamo a che fare con una e unica opera, che sussiste in varie forme letterarie e che deve essere trattata come tale – e ancora non conclusa. Riferendomi alla nostra cultura si può parlare di “bibbia andreoliana”. La Bibbia è una raccolta di oltre settanta scritti di vario tipo, composti da diversi autori nell’arco di almeno sette-otto secoli. Curioso è già lo stesso nome “la bibbia”. L’articolo “la”, singolare, indica un libro, mentre il sostantivo “bibbia” (dal greco “biblìa” - libri) è al plurale (dal singolare biblos - libro). Dunque la Bibbia è un libro-dei-libri, un libro fatto di libri, ossia una biblioteca. Definendola allora “bibbia andreoliana” voglio sottolineare la struttura di tale opera: una biblioteca dei libri di Andreoli, un’opera fatta di diversi libri. Se uno mettesse insieme tutti i testi di questo autore, otterrebbe un grosso volumone, un corpus, un canone, un’opus. Di solito si pensa ad Andreoli come lo scienziato, l’esperto, il saggista, e gli si “permette” il capriccio di scrivere anche i romanzi. Si considera il suo essere un romanziere come hobby, qualcosa di marginale o persino di poco serio. Ma permettiamoci un momento di fantasia. Come la gente avrebbe reagito alla scoperta che Freud o Jung 19 avessero scritto anche loro dei veri romanzi? Ancora più difficile immaginare un Tommaso d’Aquino o un Kant che si dedicano alla composizione di racconti. O un Platone… ma in questo caso le cose si fanno più complicate, perché i suoi “dialoghi” in fondo sono romanzi o testi che potrebbero essere benissimo rappresentati in teatro. D’altra parte, alcuni romanzi dell’Ottocento non sono forse veri e propri trattati filosofici? Dove la letteratura oltrepassa la frontiera tra la saggistica e la narrativa, tra la fantasia e la scrittura del vero… Conoscendo i testi di Andreoli oserei parlare di una “rivoluzione copernicana”. Propongo di immaginare che in questa “opera” i saggi formino una cornice, nella quale il quadro vero è costituito dalla narrativa. Bisogna leggere entrambi, perché i romanzi e i saggi si completano a vicenda. Bisogna leggere gli uni alla luce degli altri e viceversa. Andreoli stesso direbbe che i suoi saggi sono scritti come “un dono” per gli altri, con il “dovere” di comunicare qualcosa agli altri, per aiutarli; invece nei romanzi si sente più libero, meno condizionato dalle esigenze del pubblico, più se stesso. Ma affermare che questo autore scrive saggi per gli altri e romanzi per se stesso sembrerebbe un’esagerazione e di nuovo creerebbe una polarità all’interno di questa opera, polarità che in realtà non esiste né nei testi né nello stesso autore. La distinzione è puramente formale, utile solo fino a un certo punto, ma non è radicale, non deve generare, in uno che contempla quest’opera, una separazione. Ancora più importante di tutto ciò è il fatto che qui abbiamo a che fare con un vero autore. In un’epoca in cui i libri vengono pubblicati e venduti come film; in cui conta solo l’ultimo perché per una o due settimane eccita un pubblico limitato, per essere poi rimpiazzato da un altro “best-seller” all’ultimo grido; quando ogni settimana abbiamo un nuovo “libro dell’anno”, di cui importa solo il titolo sconvolgente, la copertina scioccante e la pubblicità chiassosa e ben pagata dagli editori, che tuttavia pochi giorni dopo viene sostituito da un’altra novità, nel caso di Andreoli abbiamo a che fare con un autore che non solo scrive libri, ma crea un’opera. 20 4. Tragedia umana Riflettendo su quest’opera e cercando qualche paragone, spontaneamente mi viene in mente la Comédie humaine di Honoré de Balzac. Lo scrittore francese ideò e realizzò un immenso progetto contenente 137 opere, tra cui 95 romanzi accompagnati da racconti, saggi di vario tipo e studi analitici. È una grande architettura letteraria che unisce l’autore, la sua opera e la sua epoca. In effetti, costituisce un grande affresco della società francese dell’Ottocento. Nonostante il fatto che ogni analogia presenti più differenze che somiglianze, porre l’opera di Andreoli accanto a quella di Balzac è di un certo aiuto. Non lo facciamo per valutare quest’opera e affermare: Andreoli è grande come Balzac, è meglio, o peggio. Si tratta solo di un’analogia. Anche l’opera letteraria dello psichiatra veronese, se pur non così grande come la Comédie humaine di Balzac, è assai ampia. Anche essa offre un vasto e variopinto ritratto della società contemporanea, prevalentemente quella italiana, e anche in essa troviamo libri scritti in diversi stili letterari. Nella Comédie humaine appaiono gli stessi protagonisti, centinaia di piccoli e grandi personaggi, che sono come i passanti che sostano in una grande piazza. Nell’opera di Andreoli cambiano i personaggi, ma rimangono gli stessi temi, anzi si potrebbe dire che i protagonisti delle sue opere sono proprio questi temi: morte, dolore, follia, violenza, sesso, potere, fine di una civiltà, Dio, fragilità, tenerezza, ecc. Questi sono i protagonisti dell’opera di Andreoli, la cui caratteristica sta proprio nel fatto che egli ha trasformato questi temi in veri e propri protagonisti. Se l’opera di Balzac è caratterizzata dal così detto “realismo visionario”, l’opera di Andreoli si caratterizza per qualcosa che si potrebbe definire “realismo tragico”. Di fatti, quella di Andreoli è più tragica dell’opera di Balzac e potrebbe essere chiamata “tragedia umana” o “tragedia folle”. L’Andreoli di carta può essere situato tra la tragedia e la follia, al punto da poter parlare di tragedia folle e di follia tragica. Ma forse bisogna considerare questi due sostantivi, questi due nomi, questi due 21 protagonisti della sua opera senza caratterizzarli, solo osservando come si riferiscono l’uno all’altro e come dipingono tutta l’opera. Ogni tanto la follia risulta una via d’uscita dalla tragedia, ma pur sempre un’uscita tragica. Andreoli non è un filosofo che crea un sistema tragico, non è un teologo che minuziosamente costruisce una dottrina tragica. La sua opera piuttosto è artistica, perciò la tragedia che la segna è variopinta e ha diversi volti. Inutile cercare in essi una gerarchia, perché il tragico ne risulterebbe sconvolto e non vale la pena soffermarsi sulle contraddizioni tra le sue diverse maschere. Le sue opere formano una vera “sinfonia tragica” in cui il lettore – e forse anche l’autore – cerca una “armonia nascosta”, ma non so se sia possibile trovarla. Lo vedo così: Andreoli, quasi folle, o almeno fuori di sé, scrive seguendo un intuito misterioso che va a zigzag tra cacofonia e armonia; il lettore lo segue anche con la speranza di fermarsi finalmente all’una o all’altra di queste estremità, ma la corsa sembra non avere una fine. E questo stesso infinito possiede un tratto tragico. Fratel Severino, nel romanzo Sogni d’eremita, si getta dalla Rocca del Garda. In Yono-cho Corrado Olmi in ultimo uccide la donna creata ad immagine e somiglianza dei suoi sogni e desideri, ammazza il proprio amore. Angelo Spina di Fuga dal mondo, nel suo isolamento diventa folle. Similmente impazziscono Pëtr Razanov e Anna Brigani, protagonisti de Il reverendo, e finiscono la loro avventura in un manicomio. Il protagonista de Il Cardinale si impicca nella Cappella Sistina. La giovane e piccola Marianna, del romanzo Silenzi, vive fino alla morte il suo dramma in una solitudine spaventosa. Antonio Antiquo ne Il corruttore non regge all’impatto con il maligno Angelo Ratti e si suicida. E così via. Insomma, tutti i romanzi e i racconti di Andreoli praticamente finiscono in modo tragico, tutti formano diversi atti tragici della sua “tragedia umana”. Il tragico “è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terrificante. Il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei 22 giusti e degli innocenti ci vengono presentati da essa: sicché essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e dell’essere”. Queste parole scritte da Schopenhauer (Die Welt, I & 51) caratterizzano perfettamente l’opera di Andreoli e potrebbero essere poste quale motto dell’intera sua opera pensata come “tragedia umana”. Si potrebbero elencare altri tratti che confermano questa dimensione tragica. Una onnipresente ed inevitabile determinazione che governa il mondo, i sentimenti e le relazioni umane. Tutto è già deciso prima che i protagonisti si mettano in moto sulla scena della vita. La libertà non esiste. Tutto dipende dal passato e tutto è solo la sua conseguenza, il futuro non esiste. Unico fine è la fine della civiltà e di un certo mondo, come emerge dalla raccolta di saggi I principia (2007) e dal romanzo Requiem (2010) che si commentano e completano a vicenda, e che è consigliabile leggere insieme. Alla fine rimane solo il fallimento e la morte – in Andreoli non esiste, mai – e sottolineo mai –, un happy end. Rimangono solo le ceneri, un deserto, una follia. Nella visione di Andreoli anche il mondo e l’uomo devono essere rifatti – questa è la tesi catastrofica del Nuovo Genesi (2010). Tutto è troppo tardi. I protagonisti dei suoi romanzi sono eroi solitari – isolati dal mondo, isolati dalle relazioni con gli altri, isolati da loro stessi, senza un Dio, perciò impazziti, lacerati dalle passioni, mossi da una volontà folle. E nonostante ciò, nell’opera di Andreoli troviamo un libro come Alfabeto delle relazioni, che all’interno del mondo tragico dischiude l’orizzonte alla tenerezza propria delle relazioni umane; e vicino vedo Dalla parte dei bambini e le sue Lettere, che prendono in considerazione, anzi combattono, per il futuro. Accanto a L’uomo folle (2007) sta L’uomo di vetro (2008) che fa l’elogio della fragilità e della precarietà della condizione umana, nelle quali, come in un vuoto buddhista, si può cercare rifugio. In questo paesaggio il viandante continua il suo errare, avanza “come fa ogni pellegrino in questo mondo” (UP 207). Lo scrittore stesso, in attesa dell’anno nuovo, che 23 per lui è il simbolo della fine imminente del mondo e della vita, contemplando il fuoco che consuma la legna di rovere, nota: «Qualche volta però anche nella mia mente c’è soltanto fuoco e così non penso ma brucio, sentendo piacevole il calore che sa di natura e di campagna. Una sensazione contadina dove si annida il mio passato. Il fuoco non può certo morire mentre inizia un nuovo anno. È anzi di buon auspicio che una volta acceso mantenga continuamente la fiamma. La mia abilità non pone in pericolo quella liturgia, come un sacrestano garantisce che nel turibolo l’incenso bruci lento ma costante riempiendo il freddo della cattedrale di profumo divino. Poi di nuovo mi distendo sul divano e aspetto che il tempo invecchi. Vicino a lei come sempre. In silenzio, attenta a non interrompere i riti che sente anche se non è facile condividerli. Guarda il fuoco e talora sposta la mano sul mio braccio. Così si riattiva un legame che ormai si perde nella nostra giovinezza. (…) La mano di lei si fa stretta alla mia, la sua testa si è adagiata sulla mia spalla. La liturgia continua, la cerimonia non è mai solo di corpi ma si uniscono pensieri e mistero» (CS 8-9). 5. Lo stile Andreoli è artista della parola, così pratica diversi generi letterari: articoli scientifici per le riviste specializzate, scritti nel gergo professionale; libri accademici, eseguiti con rigore e arricchiti da centinaia di note a piè di pagina; saggi scientifici nello stile divulgativo; commenti a testi classici e alle mostre d’arte; introduzioni e postfazioni a testi di altri; analisi; sintesi; critiche letterarie; romanzi; racconti; lettere; diari; dialoghi e monologhi sia per il teatro che come parte dei romanzi; poesie; forme sperimentali di racconto o della stessa poesia, in cui la grafica si mescola con le lettere che insieme varcano la soglia di un testo scritto, ecc. Questo scrittore è come un 24 pittore che pratica diverse tecniche: olio e acquarello, schizzo a matita e acquaforte, pastello e acrilico, collage e tempera, passando nella sua pittura dal ritratto al paesaggio, da un grande panorama all’attenzione del particolare, da uno studio paziente a lungo termine alla tela fatta velocemente, di getto, da un monumentale affresco a uno schizzo minuscolo in un taccuino. Andreoli pratica anche una tecnica mista. Come un pittore unisce l’acquarello alla tempera, così egli unisce un saggio e un racconto. Anche nei suoi libri più “scientifici” non resiste alla tentazione di inserirvi dei racconti. Basta prendere in mano Un secolo di follia, praticamente una storia della psichiatria del XX° secolo, per trovarvi una decina di veri e propri racconti che danno forma ad una bellissima rassegna di ritratti dei matti. È importante osservare che, così come in certi pittori, nonostante il variare delle tecniche e dei soggetti, la pennellata è sempre la stessa e facilmente riconoscibile, anche la scrittura di Andreoli possiede un suo carattere, un timbro caratteristico che si stende in varie direzioni e non è riconducibile ad un’unica “formula”. È uno “stile”, lo stile di Andreoli. Uno dei tratti caratteristici di tale stile lo definirei, tanto per dare un’etichetta, “la sinfonia fenomenologica”. Andreoli, non subito ma col tempo, è diventato un fenomenologo sia come psichiatra, sia come uomo dentro l’esistenza, sia come scrittore: “Ero diventato l’osservatore di uomini dentro l’ambiente… (…). Mi trovai ad appartenere a un filone di cui sapevo poco: la fenomenologia. Ero divenuto senza saperlo un fenomenologo” (CS 220). Un fenomenologo non sa, ma osserva. Vede un cucchiaino rotto nel bicchiere pieno d’acqua. Non sa se il cucchiaino è rotto, ma sa che lui lo vede così. Sospende il suo giudizio su “come è” e osserva ciò che gli si presenta, cioè il fenomeno. Il dubbio è il tipico atteggiamento di un fenomenologo: non sa se e in quale modo qualcosa “è”, è solo certo di quello che vede. Non è detto che ciò che vede veramente sia o sia solo una illusione. Perciò, ad un certo momento questo psichiatra afferma che non sa che cosa sia la follia, ma osserva i matti, e li ama. 25 Non riesce a definire la follia, ma percepisce le sue maschere. E facendolo si rende conto che non è solo un osservatore, ma un partecipe, perché tra il matto e lui esiste una relazione che influisce sulla sua visione. Tante volte nelle sue riflessioni sulla psichiatria afferma che questa è una disciplina e una scienza del dubbio. Tale atteggiamento non riguarda solo la psichiatria e la follia, ma caratterizza il suo stesso modo di esistere, di percepire la realtà, e quindi anche di scrivere. Con la parola “sinfonia” invece evidenzio un’altra caratteristica legata alla fenomenologia di Andreoli. Si potrebbe dire che egli sia un osservatore vorace e impazzito. Quando è preso da qualche problema la mente, l’occhio, i sentimenti, le parole e le descrizioni vanno in tutte le direzioni, senza freni e senza sosta, forse fino all’esaurimento di se stesso, ma di sicuro all’esaurimento del lettore. Andreoli tratta ogni tema con passione tale da esserne ossessionato, o forse viceversa: perché ne è ossessionato, il tema lo appassiona. Prendo, ad esempio, il suo libro Capire il dolore. È una “sinfonia fenomenologica” sulla sofferenza, che inizia in un modo che immediatamente fa emergere lo spirito dell’autore: “Io non so se il dolore sia definibile, certo è inutile farlo. Ogni definizione deve astrarre dal caso concreto, di un singolo, per racchiudere il dolore di tutti o almeno i suoi connotati comuni. È una sorta di purificazione del dolore, che può renderlo irriconoscibile, magari rivestendolo di eleganti parole o costringendolo in formule. Definirlo è inutile anche perché ciascuno di noi ha conosciuto il dolore, lo ha incontrato e vi ha convissuto. Basta dunque evocarlo per ottenere la percezione, per far scaturire il materiale vissuto da cui poi ogni astrazione definitoria parte” (CD 9). Dopo di ciò, Andreoli immediatamente, come impazzito, si inoltra nella terra del dolore. La mente e la scrittura corrono in tutte le direzioni senza freni. Nel testo passa in rassegna le epoche e i continenti, parla di uomini di diverse età, della loro vita e di diversi mestieri, dei posti di dolore e del dolore nelle diverse età della vita. Il pregio di un tale atteggiamento, riversato sulla carta, sta nel fatto che il lettore, come se fosse preso per mano 26 dallo scrittore, attraversa gli spazi del dolore conosciuto e ignoto, che vuole approfondire e da cui, consapevole o no, sfugge. È una forma di crudele terapia della paura nei confronti del dolore. Il negativo, che si sperimenta lungo questo percorso, è che dopo un po’ il lettore non c’è la fa più. È troppo. Andreoli ha una resistenza nel guardare e una forza nel descrivere, che spesso sommergono il lettore. In tutto questo c’è una “armonia”, perciò si può parlare di “sinfonia”, ma di solito non ci sono soluzioni, conclusioni consolanti. Il libro non è una panacea. Nelle ultime frasi di questo testo l’autore confessa: “mai mi metterei a scrivere un libro sulla gioia, mentre ho trovato il coraggio di farne uno sul dolore. Sono anzi certo che se decidessi di scriverlo parlerei solo del dolore. Come Francis Bacon, il pittore dei volti distrutti, frammenti della mostruosità delle espressioni e persino dell’irriconoscibilità. Il quale un giorno scrisse: ‘Ho tentato per tutta la vita di dipingere un sorriso’” (CD 313). Ma grazie al testo di Andreoli si può approfondire la propria consapevolezza del dolore e della sofferenza, ma di sicuro non la si “capisce” e non se ne “esce”. Andreoli è un fenomenologo, non un taumaturgo, per questo la sua opera è tragica anche nello stile. Lo stesso procedimento riguarda i temi salienti della sua opera. Tutti sono trattati, vissuti e descritti nello stesso modo: la follia, la morte, il sesso, il potere, il denaro, la paura. Prendendo ad esempio un tema, Andreoli si guarda intorno, annota gli avvenimenti e osserva le persone che vede accanto, attinge ai documenti del passato, sfrutta la storia, prende in mano la letteratura, la cinematografia, la pittura, la sociologia, la cronaca quotidiana. Non esclude niente, non si tira indietro nei confronti di nulla, non conosce né tabù, né censura. Per questo ogni tanto sconvolge, è scioccante e blasfemo. Ma va detto che egli è un fenomenologo, non un insegnante di una qualche disciplina. Riguardo alla sua esperienza all’interno della psichiatria scrive: “Io non ho fondato una scuola e non ho lasciato allievi preoccupati di raccontare da eroe la vita del loro Maestro con la speranza di trovare un po’ di gloria riflessa. (…) C’erano i matti, quelli che potrebbero 27 fare la mia storia di psichiatra come io ho fatto la loro di malati” (CS 218). Lo stesso vale per tutti gli altri temi, e anche per Andreoli come scrittore. Anche per questo la sua opera sfugge alle definizioni, alle classificazioni, e di conseguenza alle classifiche. Un altro tratto dello stile può riassumersi nella parola “espressionismo”. Andreoli è un espressionista della scrittura, scrive di getto. Certo, tra le sue opere ci sono libri e altri testi che hanno richiesto una lunga preparazione, uno studio arduo e attento, e il lettore può anche godere della sua erudizione, trovare piacere nelle analisi specialistiche e gioire delle sintesi stupende. Ma il vigore e il fascino di tutto ciò in fin dei conti proviene proprio da queste “pennellate di getto” che uniscono questi collage di erudizione e di studio. Questo vale ancor più per i suoi romanzi e racconti. Leggendoli si sente che l’autore scrive con una passione quasi fuori controllo, il che poi non è vero perché in questa scrittura c’è una disciplina e un’esperienza proprie del mestiere di scrittore. Ho l’impressione che Andreoli sia come uno di quei pittori che di solito fissano una tela e la coprono di colore con pennellate decise e energiche e, finito un quadro, quasi subito passano ad un altro. Non lo vedo come uno che lima e corregge i suoi testi all’infinito. So che alcune volte l’ha fatto, ma generalmente il suo stile è segnato dalla velocità. Già da maturo scrittore di romanzi confessa: “... un romanzo, lo si scrive, lo si modifica una volta due e poi tre e se si è convinti di poterlo sempre migliorare e rendere più efficace, ci si accorge che nelle volte successive le correzioni che si fanno sono esattamente le stesse su cui in precedenza si sono portati dei mutamenti. Il che significa che uno scritto non è mai perfetto, anche perché ci sono molti modi equipollenti di esprimersi e in qualche momento e con un certo stato d’animo sembra meglio l’uno dell’altro” (R 54). L’accento espressionista sottolinea ancora un’altra caratteristica: l’esagerazione, ovvero una voluta deformazione. Generalmente questo scrittore, nel raccontare una storia e nel descrivere una situazione o 28 una persona, non va per il sottile: esagera, usa colori forti, delinea le sagome con linee spesse. Colpi di scena sorprendenti. Da qui proviene un suo humor qualche volta grossolano, espressioni di rabbia che non badano a censura o a una qualsiasi “political correctness”, anzi la denuncia incominciando proprio dai politici; scrive ad esempio: “Dentro la politica ci sono gli uomini peggiori e dal dopoguerra in poi la selezione è peggiorata. Il risultato è la corruzione, la bancarotta del bilancio dello stato. Ogni atto amministrativo dovuto è diventato un atto venduto per ricavarne vantaggio personale o per il partito. Un sistema di idioti che ha ucciso la morale dello Stato e ha promosso nel cittadino dapprima la voglia di imbrogliare, poi la necessità di farlo per sopravvivere. I politici hanno costruito la più grande organizzazione criminale della nazione, ben più detestabile delle mafie, non fosse altro perché lo Stato mercanteggia il buon governo; la mafia, il profitto a qualsiasi costo. La gabella non si distingue affatto dal pizzo: è solo più odiosa. Ho conosciuto uomini che fuori della politica erano accettabili, ma quando vi sono entrati sono diventati detestabili. Rubano tutti e tutti sono convinti di non aver rubato. Lo fanno in modo così raffinato che ritengono di non aver mai toccato banconote. (…) La mia personale considerazione pone il politico dopo la demenza, dopo la follia, dopo il grande handicap. Il comportamento del politico è, sul piano psicologico, l’espressione più drammatica della perversione e della disumanità” (DS 60-62). La scrittura di Andreoli non conosce alcun freno e varca diverse frontiere in vari modi, è libera. Ma questi colpi di scena e cambiamenti di clima all’interno di una narrazione possono pure sbocciare in pagine o interi capitoli colmi di tenerezza, delicatezza e fragilità, soprattutto quando parlano degli affetti o quando lo scrittore si incanta di fronte alla natura. In tali casi cambia la tecnica. Alcune pagine, che trovano il loro continuum anche in alcune sue fotografie, sono quasi gli acquarelli delicati di un impressionista, come ad esempio quella che descrive un airone: 29 “Quando il mattino mi sveglio, vado subito sul terrazzo a vedere il mare, lo cerco con la stessa attesa con cui mi aspetto di rivedere questa conca di paradiso. Esco furtivo, in silenzio, senza nemmeno il rumore di una porta che si apre e di passi, che scivolano sulle assi del mio palco sulla natura, per non distoglierlo dalle sue occupazioni e dai suoi pensieri. È sempre solo. Silenzioso, procede nel velo d’acqua che copre la baia, con una grazia che sconvolge. Immobile come una statua del Canova, bianco con strie scure che davanti disegnano una marsina lungo il collo infinito e poi ancora sul dorso, nella parte che giunge alle penne della coda. (…) Uno sguardo severo, dignitoso, un becco funzionale, ma prima di tutto bello. Il più bel becco del creato. (…) Mi guarda e io mi sento imbarazzato. Nota i miei limiti e forse se ne dispiace, ma non dice nulla perché il suo silenzio sa di nobiltà e di saggezza” (RP 75). Insomma, lo stile, come ha detto bene Bachtin, è l’uomo. E l’opera di Andreoli è lui stesso. Basta vederlo mentre ascolta o parla, per rendersi conto della sua personalità. La stessa personalità traspare anche da ogni pagina della sua opera letteraria. Parlo dell’Andreoli di carta, ma è pur sempre Andreoli. 30 Seconda parte: LE GENESI 1. Mondo Collocare l’opera di Andreoli in un determinato contesto sembra essere un capitolo indispensabile. Andreoli in space and time. È una operazione che si fa nei libri di critica. Si passano in rassegna i grandi e piccoli eventi che hanno potuto influire sull’autore di cui si parla e si presentano i diversi posti in cui lo scrittore si trovava e che ne hanno modellato l’immaginario e la scrittura. Insomma, si costruisce un orizzonte su cui con la maggiore chiarezza possibile si staglino le caratteristiche di un artista. Nel caso di Andreoli si dovrebbe dunque parlare della seconda guerra mondiale in Veneto e dell’evoluzione culturale di questa regione nel dopoguerra, del “boom” economico che al “nord italiano” ha aggiunto l’aggettivo “ricco”. Bisognerebbe passare in rassegna i governi italiani che sono caduti e si sono riformati, la DC e il PC, Di Pietro e Berlusconi; il cinema di Fellini, di Antonioni e di Moretti, la pittura di Morandi e la scultura di Manzù, la musica di Morricone ma anche dei Nomadi, senza dimenticare la poesia di Ungaretti e il teatro di Dario Fò. Si potrebbero pure scegliere altri fatti e nomi. Inoltre bisognerebbe entrare nel campo della medicina e della psichiatria e parlare della loro evoluzione, affiancando anche lo sviluppo della tecnologia con la Fiat Cinquecento e i voli low cost, la macchina da scrivere Olivetti e gli iPad di Apple di ultima generazione. Insomma bisognerebbe scrivere una panoramica del Novecento e poi, attraverso la nascita della Comunità Europea (1957), il crollo del Muro di Berlino (1989) e la creazione dell’Unione europea (1992), passando per l’11 Settembre 2001, arrivare alla seconda decade del “terzo millennio”, ecc. Tutto questo in qualche modo risuona, come un’eco, nei libri di Andreoli. Ma sebbene tale operazione intellettuale possa risultare interessante, 31 rimarrebbe sempre incompleta, imperfetta e soprattutto noiosa, perché ovvia. Preferisco rovesciare la prospettiva e dedicarmi per un attimo ad un gioco mentale che sa di science fiction e che risulta sempre proficuo per abbordare qualsiasi autore. Immagino così che in un futuro difficile da definirsi i libri di Andreoli, messi in un baule o registrati su un file digitale, arrivino a un lettore che non sa niente della Terra e della storia umana, ma incuriosito comincia a leggere e si domanda: “Ma di che mondo parlano questi testi?” Lentamente, col trascorrere della lettura, nella mente di questo lettore emerge l’immagine della terra, i luoghi, le storie, ovviamente viste nella prospettiva e con la sensibilità dell’autore stesso. Lentamente il lettore arriva a crearsi in testa un filmato che progressivamente si estende nello spazio e nel tempo, offrendogli una “imago mundi”. All’inizio su una collina vicino a un paesino di nome Novaglie sulle colline veronesi c’è una strana casa: “Una dimora certo affascinante ma che non venne mai chiamata villa… Geometricamente la casa era un cubo perfetto, e fin qui poteva esprimere l’amore per la geometria solida che aveva antesignani illustri, e in particolare il cubo era un simbolo oltreché una realtà concreta per stabilità, e nel caso specifico era anche in cemento armato con muri in faccia a vista, a mostrare proprio i ‘muscoli’, la forza di questo materiale ottenuto mettendo insieme cemento, sabbia e ferro… La cosa veramente strana si legava al fatto che il cubo era posto su un vertice, appoggiato in maniera da rendere i suoi 45 gradi esatti e poiché le dimensioni del ‘cubo storto’ erano di tutto rispetto, l’impressione immediata era della massima instabilità possibile. (…) Ma come non bastasse il cubo era collocato sul bordo di una valle, e camminando nel salone si aveva impressione di dirigersi verso il vuoto e di cadervi dentro. Nella parete a valle c’era una grande vetrata che pareva in realtà priva di ogni corporeità e dunque gettata sul vuoto. Insomma, inutile insistere, era una casa da matti” (R 16). Si comprende come questo sia il centro, la casa, in cui sono nati tanti scritti di Andreoli, e, anche se lo scrittore si 32 andava spostando e scriveva altrove, si capisce come questo sia sempre rimasto il primo punto di riferimento dell’“imago mundi”, presente nell’insieme dei suoi libri, il centro da cui parte ed a cui torna la sua immaginazione. Non lontano da questa casa, andando in direzione sud-est, si trova un agglomerato di case, strade, e piazze, costruite lungo un fiume, insomma una città da secoli chiamata Verona, che appare spesso nelle pagine dello scrittore come ad esempio in questo frammento: “Verona è una città stupenda e si è attratti dall’Adige che, una volta incontrato, lo si segue come farebbe un mastino con una cagna in calore. E così si passano i ponti e poi, senza accorgersi, si gira in un ansa e si va alla riva opposta e lo si segue di nuovo e sembra un altro. Di tanto in tanto si giunge in piazze fantastiche, intime e in cortili di case patrizie e dei grandi Signori della Scala, con l’impressione di essere stati invitati e di godere di un privilegio di un grande lignaggio. Tutto sa di antico e di elegante. Ti senti signore, anche se sei un morto di fame. L’Adige ti entra in testa e ascolti quel fruscio delle acque, quel senso di vita anche se tutto è morto, imbalsamato. I ponti sono pieni di fascino e si può andarvi sotto e pisciare guardando in alto le ampie arcate e poi le case che si arrampicano sulle colline fino a farsi castelli. Io sono nato a Verona e ho l’impressione di essere appena giunto e di dovermi organizzare per conoscere la città prima di andarmene. Non me ne sono mai allontanato per sempre, pur avendolo detto molte volte” (RP 634). Intorno a questo nucleo con la casa e la città di Verona, emergono dagli scritti di Andreoli altre città e regioni, altri paesi e continenti, in cui è stato per breve tempo o più a lungo e che rivivono descritti nei suoi libri: Padova e Venezia, Torino e Milano, Roma e Palermo, Veneto, Umbria, Toscana e le Dolomiti. Insomma, è un ritratto dell’Italia. Ma poi tutto si allarga ancora: Francia, Inghilterra, Germania, Danimarca e Russia, con le loro città come Parigi, Londra, Copenaghen e Mosca. E ancor più: Stati Uniti con New York, Alaska e New Mexico, Giappone con Tokyo, Costa d’Avorio con Abidjan e 33 Mali con Tirelli. Negli scritti tardivi di Andreoli si nota anche una forte presenza della Scozia con Aberdeen, Ullapool, Durness, e soprattutto con la baia di Inverkirkaig che, come afferma lo scrittore: “è il teatro della mia esistenza, e io mi muovo in un frammento di terra che osservo da un posto privilegiato, da una casa a ridosso del mare, sulla costa di questa baia. Mi sembra di essere in prima fila all’interno di un teatro straordinario e talora divento io stesso parte delle scena e dunque in qualche modo attore. Con una parte limitata perché qui l’uomo è una semplice comparsa. In questo angolo di Scozia non esiste una civiltà dell’uomo, sono solo, in questa casa fissata sulle rocce su cui sbatte il mare che quando si unisce a un forte vento raggiunge una veemenza che sa di urlo e non ha nulla di gentile e invitante” (RP 77). Importante è vedere questo scrittore come su un precipizio e immedesimarsi nello stesso momento con il suo pensiero, perché è proprio così che lui vede non solo se stesso, ma ogni posto della terra e il mondo intero: da sempre sull’orlo di un precipizio. Operazione analoga a questa, spaziale, può eseguirsi sempre a proposito di Andreoli, ma con riguardo alla dimensione del tempo e della storia, che vanno dal piccolo al grande, si estendono da un singolo attimo a un’intera vita, a tutta un’epoca, per raggiungere infine l’eternità. Nei suoi scritti, nel diario tenuto nel 1999 e in alcuni romanzi e racconti (soprattutto nella raccolta Racconti perduti), ci sono riflessioni sulla situazione o il pensiero del momento: un volto, una circostanza, un oggetto, un sentimento, una connotazione: “Mi sono fermato al Caffè Caselli. Sulla parete di fronte a me c’è una lapide che ricorda Giovanni Pascoli: veniva qui a conversare con il proprietario e amico Carlo Caselli. Un cappuccino e una fetta di torta della nonna con crema squisita. Il locale è vuoto se si eccettua una coppia di giovani che certo desidererebbero trovarsi in un’alcova, stando agli sguardi e al toccarsi le mani. Nessun altro. La musica fastidiosa, segno della diffusa incapacità di sopportare il silenzio” (CS 363). Partendo solo da questo frammento si potrebbe subito parlare 34 del libro di Andreoli su Pascoli e del suo interesse per la poesia, delle sue riflessioni sul mondo dei giovani, dei suoi testi sulla musica a partire da Mozarterapia (2010), e sull’enigmatico intreccio tra la parola e il tacere, tra il chiasso e il silenzio diffusamente presente nei suoi libri. In lui quasi ogni momento si fa immediatamente storia e subito diventa un racconto: “Sono andato a rendere visita alla vedova Trabucchi, la moglie dello psichiatra con cui ho passato anni della mia vita e con il quale mi sono confrontato erigendo muri insormontabili. Nella ricostruzione della storia del manicomio di Verona, occorre disegnare un capitolo sul suo regno” (CS 379). E parte il racconto di Andreoli, che poi rimanda ai molti altri suoi libri in cui appare il professor Cherubino Trabucchi, direttamente come ne I miei matti, o sotto un nome inventato, come ad esempio il dottor Bertucco ne I giardini della miseria, fino all’anonimo “re dei matti” ne Lo psichiatra era matto. Qualsiasi incontro o evento fa parte della storia e genera un racconto. Quasi ogni situazione è letta nella prospettiva del passato grazie al ricordo. Come testimone Andreoli non riesce a svincolarsi dal passato, o forse lo fa proprio attraverso la scrittura. Poi abbiamo i periodi di tempo più estesi, racchiusi nella sua scrittura. Intere biografie di persone che ha conosciuto direttamente e attraverso gli scritti: i matti e i medici, gli artisti e i politici, persone famose e conosciute da tutti, ma salvate dall’oblio proprio grazie a lui. Andreoli è dunque anche uno storico, un cronista della sua epoca, e non soltanto perché ha scritto Un secolo della follia, in cui nelle prime pagine si legge: “Il secolo della follia che parte dal 1895 forma tuttavia una unità dentro di me. La mia esistenza lo giustifica, la mia pratica clinica si muove entro i suoi limiti, vi appartiene. Un secolo stampato nella mia memoria e in quella di molti psichiatri della mia generazione. (…) È il momento di iniziare il racconto, e di partire per un viaggio straordinario, sia pure chiuso nel labirinto del tempo” (SF 17-18). È ben chiaro che Andreoli non si è limitato a scrivere solo di psichiatria, ma che l’insieme dei suoi scritti offre un panorama storico molto più ampio. Si può leggere dunque Andreoli nel contesto della 35 storia del Novecento e del primo decennio del terzo millennio, ma si può anche partire dai suoi testi proprio per avere un’idea del tempo in cui lui ha vissuto. Imparare e ricostruire la storia moderna e contemporanea iniziando dagli scritti di Andreoli sarebbe una impresa intrigante ed educativa. Non mancano panoramiche storicamente ancora più estese, come ad esempio le considerazioni, presenti nel Requiem, in cui si discute sulla civiltà occidentale che, secondo lo scrittore veronese, inizia in Mesopotamia 8000 anni fa: “È qui che facciamo nascere la civiltà, in quella zona geografica tra il Tigri e l’Eufrate, intorno 6000 a.C.” (R 82), e che ora, sempre secondo lui, sta per finire: di tale fine lo scrittore stesso si fa testimone e portavoce. L’opera di Andreoli si muove dunque anche all’interno di questo orizzonte millenario, e d’altra parte lo propone. Ma per Andreoli non finisce qui. C’è ancora un altro orizzonte, un’altra prospettiva temporale, che si potrebbe definire “metafisica” e che, come ogni vera metafisica, si mescola con questa “poetica”. In tale poetica infatti la mente si sforza di raggiungere il principio assoluto, il principio senza principio, per poi volare verso la fine oltre ogni fine: “Nulla, nulla. Silenzio. Nulla. Il silenzio del nulla, nulla attorno, nulla dentro. Il nulla che nasce. Dal nulla. Suoni flebili, timorosi. Tremano come una foglia sbattuta dal vento, nel nulla. Suoni puri. Il balbettare di un bambino che dal nulla, vede nulla. Muto l’aere, non ancora fatto. Il nulla. Non esiste nulla. L’origine del mondo. Si sentono solo sibili, puri, come corde d’acciaio che si tirano su un violino. La nascita del tempo. (…) Nasce il mondo e nessuno lo sa. (…) Suoni, silenzi sconfinati. Silenzi suoni parole non dette. Pensate. Un violino senza corde, un silenzio infinito. Nessuno con nessuno. Nessuno esiste da sempre, non è mai nato e nemmeno dovrà nascere. Da sempre. Sempre. Sempre. Sempre. Il tempo non è mai nato. Muore soltanto. Muore senza essere nato mai” (FM 163). Questo è l’orizzonte in cui si iscrive la vicenda di Angelo Spini, il protagonista di Fuga dal mondo, e questo è l’orizzonte in cui va letta l’intera opera 36 di Andreoli che, come un ultimo accordo di una sinfonia, si collega alla meditazione Per sempre dei Racconti perduti: “Nel nulla delle tenebre, tra ombre inzuppate di cenere e pianto, nel ricordo lontano di un’alba misteriosa… Nella pace di un silenzio senza memoria, di una morte che conosce solo la morte. Anche il tempo si spegne e un attimo si fa eterno e il desiderio immobile… Per sempre” (RP 725). La sagoma dell’Andreoli di carta, con tutti i suoi racconti, romanzi e saggi, si staglia su questo sfondo, emerge da questo orizzonte e lo propone al lettore. 2. Uomo Un’altra risorsa dell’opera di Andreoli è la sua stessa vita con le proprie tappe. Lo scrittore continua a raccontarla da diverse angolazioni. Si ripete, ma aggiunge sempre qualche nuovo particolare. Come Monet dipingeva la stessa cattedrale di Rouen, ma sempre in un modo diverso, così anche Andreoli ritorna ad alcuni momenti della sua vita. Nella sua opera si trovano tratti autobiografici, sebbene questa non sia un’autobiografia. Nato a Verona nel 1940 durante la seconda guerra mondiale, Andreoli della sua pubertà e adolescenza parla relativamente poco, forse perché fu per lui un periodo piuttosto infelice, che gli faceva, come afferma a distanza di tempo, “uno schifo”. Di sicuro egli non appartiene alla schiera di quegli scrittori che considerano il loro periodo giovanile come un paradiso del tempo perduto, una terra felice da cui sono stati esiliati per sempre nel momento in cui hanno varcato la soglia della maturità. Da alcune pagine dei suoi scritti si può intuire come il rapporto con la madre non sia stato facile o felice, fatto sì di attenzioni ma soprattutto di doveri più che di sentimenti, e così è sempre rimasto. Ecco come lo scrittore sessantenne descrive il 37 suo incontro con lei, ormai vecchia e cieca, all’inizio del 1999 – poche ma dense frasi nelle quali è incluso tutto un romanzo mai scritto: “Un bacio freddo, un augurio pieno di doveri e le solite frasi che accompagnano l’ora non tarda in cui siamo andati a dormire (…) Mi siedo tra quei mobili della vecchia casa che sanno ancora del mio passato. Il caffè come piace a me. L’uva bianca, la fetta di una torta preparata con la fatica di chi ormai non vede più nulla ma difende la propria autonomia. Quel suo bastone bianco all’ingresso, stemma della sua vecchiaia. I capelli tenuti a crocchia come un tempo. Un sorriso che subito si fa tristezza. Una frase che va sempre tradotta. Un sospiro, un commento sugli anni che appaiono troppi. Il riferimento al cimitero, ma anche ai suoi compiti legati ora all’uno ora all’altro dei componenti della vasta famiglia. (…) Ho verso di lei un’attenzione straordinaria poiché non tollero di farle mancare qualche cosa, un rispetto che sa di paura, non d’amore. Non ha nulla della passione, della necessità, del calore. Mi accompagna alla porta, si commuove, mi esprime la sua fierezza. Forse sente che non la amo. (…). Un incontro che si svolge con un protocollo rigido. Un ringraziamento per il caffè, per quella torta che sa della mia fanciullezza. Poi la porta si chiude alle mie spalle con un ripetuto saluto, un’evocazione del mio nome, come se fosse l’ultima volta”. (CS, 11-12). Le pagine che riguardano la madre mostrano qua e la lo stesso clima. Lasciamo al lettore la curiosità di cercarle e di interpretarle. Aggiungo solo che questo “epicentro materno” si allarga e spesso si fa pesante quando Andreoli parla delle madri in generale, delle donne, del sesso; ciò a qualcuno o qualcuna, soprattutto a chi ha una maggiore sensibilità femminile, sarà suonato sicuramente come offensivo o antifemminista ma, come dice lui stesso, “L’infanzia non si cancella anche se molti episodi vengono dimenticati o addirittura rimossi per non vergognarsi del proprio passato. Rappresenta una parte della costruzione di un uomo e certo le basi condizionano i piani successivi e lo stile, l’adeguatezza o la instabilità dell’intera vita. Per questo nulla va perduto e ogni dolore lascia traccia, ogni ferita 38 continua a sanguinare anche se viene sovrapposta da altri mali e altro dolore” (UV 76). Tutt’altra era invece la relazione con il padre, un semplice impresario dell’edilizia di povere origini, che con fatica si era emancipato. Il piccolo Vittorino ha amato e adorato il padre e la sua venerazione verso di lui ha abbracciato tutta la sua vita e visione del mondo. Lo scrittore ormai maturo confessa: “Io non ho una religione vera e propria, la mia religione è la religione del padre”. Per lui il padre, anche, o soprattutto, dopo la morte, “È il mio piccolo Dio. Colui che è nei cieli. Mi guarda e mi segue e mi aiuta. Un padre, ora celeste” (SC 10). Questa relazione col padre è dunque molto forte e viene letta da Andreoli con la chiave della tragicità, come del resto quasi tutto. Forse che le origini del tragico di Andreoli siano proprio radicate nella sua relazione con il padre? La prima scena tragica in questo dramma si svolse quando Vittorino, invece di prendere in mano l’azienda edilizia del padre e di svilupparla in una fiorente impresa famigliare, scelse la via della medicina. Il senso di tradimento e di colpa non l’ha mai abbandonato. La seconda scena del dramma: Vittorino non arriva in tempo per salutare il padre che muore. Si trovava a Milano, occupato, come riferisce, con la sua carriera e, arrivato a Verona, aveva trovato suo padre già morto. Un altro assalto del senso di colpa: “Avessi ancora cinque minuti per stare con mio padre e dirgli quello che gli avrei detto se avessi aspettato qualche ora ancora, almeno il tempo perché io tornassi e potessi stargli vicino, tenergli la mano mentre se ne andava: invece ero occupato nel mondo per il mio futuro, per il mio successo, e sono tornato che non c’era più. Sono andato nella sala mortuaria ed era freddo. Mi pareva che mi guardasse con un po’ di rimprovero e io non gli ho detto il bene che gli volevo” (CD 33). Il padre, la religione, il senso di colpa e la morte creano nella mente e nella creatività letteraria una particolare “quaternitas tragica”, sparsa in tanti punti della sua opera. 39 Oltre tutto ciò, il tempo dell’adolescenza e il periodo delle scuole fu “classico”. Andreoli ha fatto il suo percorso da bravo ragazzo, anzi da secchione: “Ero un ‘secchione’, un ‘secchione’ orrendo” (MM 5). Poco prima della maturità conobbe il manicomio e il mondo della follia. Mediatore di questo incontro era stato lo psichiatra veronese Cherubino Trabucchi e il luogo il già menzionato manicomio di San Giacomo di Verona. L’impatto fu così forte che Andreoli all’età di diciannove anni si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Padova con il chiaro intento di diventare uno psichiatra. Praticamente nessuna esitazione: una decisione chiara, uno scopo preciso, un progetto realizzato. Del resto sono i tratti del suo carattere. Ma dovranno passare quasi quindici anni prima di avere la possibilità di occuparsi dei malati come medico. All’inizio subisce il fascino e la seduzione del mondo scientifico, diventando uno studioso, uomo di laboratorio e topo di biblioteca. I posti e le tappe cruciali di quest’avventura, oltre la già menzionata facoltà di medicina dell’Università di Padova, sono l’Istituto di farmacologia dell’Università di Milano; il Department of Biochemistry a Cambridge, dove ancora si coglie una forte presenza di James Watson e Francis Crick, padri della nuova genetica grazie alle loro scoperte sul DNA; il Cornell Medical College di New York e poi l’Harvard University, dove lavorò con il professor Seymour Kety, direttore degli Psychiatric Laboratories e titolare della Cattedra di Biological Psychiatry, considerato il fondatore della biochimica del comportamento. Alla fine di questo percorso Andreoli si specializzerà in psichiatria e neurologia, ottenendo la libera docenza in farmacologia e tossicologia. Tra le tante cose da studiare Andreoli si è venuto concentrando, fin quasi dall’inizio dei suoi studi ancora a Padova, sul cervello. Un ruolo in questa scelta fu giocato dal suggerimento del suo professore di filosofia Arturo Pasa, sufficiente per determinare gli interessi del giovane studente e poi studioso. Andreoli, con tutta la sua passione e ogni capacità, si cimentò nelle scienze del cervello e presto divenne un 40 esperto in materia, facendo in questo campo le sue piccole-grandi scoperte e aggiungendosi così grazie ad esse alla “tribù” o “casta” degli illuminati biochimici. Da notare sono almeno tre punti. Il primo riguarda il linguaggio. Va infatti ricordato che in questo caso abbiamo a che fare con uno scrittore che, pur parlando di tragedia esistenziale o di sentimenti umani, pensa anche in termini di serotonina, cloropromazina, extraencefalo, encefalopatia letargica, fenilchetonuria, omocistinuria, porifuria, mixedema, dopamina, noradrenalina, prostglandine, transmetilazione, ecc. In altre parole, Andreoli possiede nel proprio bagaglio un linguaggio scientifico molto specializzato, particolare e affilato. Non deve usarlo, ma anche quando scrive le pagine più liriche, la struttura del suo pensiero è intessuta, anche se parzialmente, di linguaggio scientifico. Linguaggio che rispecchia ovviamente una visione del mondo. Il secondo punto riguarda l’immaginazione. Mi spiego. Molto spesso leggendo i testi di Andreoli ho pensato: ho a che fare con un uomo che, quando sente, pensa o scrive, possiede una particolare visione della realtà. Quando una persona per migliaia di ore ha studiato, cioè sperimentato, “visto”, immaginato, riflettuto sulle cellule del cervello, del sistema nervoso, dei processi biochimici, ciò influisce sul suo modo di pensare. Immaginare l’uomo a partire dalla considerazione del cranio e del cervello nel senso materiale del termine, è un fatto piuttosto particolare. Si perde l’innocenza del modo tradizionale e scontato di dire mente, noùs, ragione, dianous, anima, psychè, cuore, ecc. Si tocca il mistero da un’altra prospettiva. Si immagina se stesso e gli altri in un modo particolare. Questo vale anche per l’Andreoli di carta. Il terzo punto è più specifico e riguarda il cervello stesso dal punto di vista scientifico. Senza inoltrarci troppo nei meandri delle neuroscienze si può affermare che Andreoli nella sua gioventù ha vissuto un periodo di vera rivoluzione scientifica, un cambiamento di paradigma riguardo al cervello. Dalla visione dei positivisti che consideravano il cervello, e anche l’uomo e le sue cure, come un 41 cristallo o una macchina che basta “aggiustare” poiché si è “rotta”, si è passati a quella del cervello “plastico”. Andreoli, per primo, ha legato la follia alla plasticità del cervello, ritenendo quale campo della psichiatria l’encefalo plastico. Ecco come ricorda questa sua scoperta: “So che l’antropologia non è la storia di uno spirito ma l’evoluzione della carne e per questo sono stato biologo della follia Affascinato dal cervello e del suo meccanismo d’azione. Sono entrato nei laboratori della scienza per capire la follia. Una lotta tra determinismo della meccanica e libertà degli spiritelli che avevo abbandonato. (…) Avevo preso un lungo periodo di ferie nel 1983 e chiuso a Pradelle scrivevo e pensavo, immaginavo e rifacevo, fino a quella mattina quando al rito del caffè ho avuto l’intuizione della follia come espressione della plasticità del cervello. Provai una gioia indescrivibile perché ora sapevo che i dualismi erano separati, non vi era più incompatibilità tra biologia e libertà, ma si poneva una biologia della libertà. Non più incompatibilità tra follia e ambiente e tra follia e codice genetico, ma la follia come l’espressione di un cervello nel suo incontro con l’ambiente. Non era possibile più, d’ora in avanti, occuparsi di uno soltanto dei fattori. (…) Spetta a me la teoria del legame tra psichiatria e cervello plastico, tra plasticità e comportamento dell’uomo” (CS 219). Fu una scoperta notevole, ma di nuovo qui non si tratta di sottolineare i suoi meriti indiscutibili all’interno della psichiatria. Importante è piuttosto ricordare che vivere all’interno di qualsiasi rivoluzione ha le sue conseguenze sulla vita. Ogni rivoluzione distrugge e costruisce, in ogni rivoluzione si è perdenti e vincitori. Ma al vertice della sua carriera scientifica e con tutte le strade aperte per continuare questo affascinante lavoro e forse diventare veramente famoso, Andreoli “fa la grande rinuncia”, lasciando il mondo della scienza e dedicandosi alla cura dei matti. Così riassume la sua odissea di scienziato: “Appena laureato in medicina e in chirurgia, mi dedicai al cervello totalmente. (…) Mi sono dedicato a lungo allo sviluppo di particelle contenute dentro la cellula nervosa del ratto particolarmente 42 ricche di serotonina, una sostanza che regola sia la conduzione dello stimolo da una cellula a un’altra, sia il comportamento. Ma risalire da quelle osservazioni minute all’agire del ratto e trarne addirittura conclusioni sul cervello dell’uomo equivaleva a costruire una bicicletta e poi pretendere di volare per raggiungere Marte. Insomma, il legame tra quei miei studi e il cervello dell’uomo e tra il cervello e uno dei possibili comportamenti umani, la violenza piuttosto che l’attaccamento e l’amore, era del tutto fantastico, e la distanza con la follia abissale. Rimasi sette anni nei laboratori, a Cambridge in Inghilterra, a New York, fino a Harvard. Ero ormai uno specialista delle particelle contenenti serotonina e quando il direttore, Seymour Kety, mi propose di restare in quei laboratori per la vita, offrendomi il posto all’università, fuggii. Dissi di no…” (CS 21-22). Nel periodo qui trattato, cioè gli anni 1959-1972, dedicati all’educazione e alla ricerca, ossia alla carriera scientifica, accaddero anche alcuni fatti che bisogna almeno menzionare per avere un quadro più completo del nostro autore. Il primo avvenimento ebbe luogo nel 1961. Andreoli, giovane studente di medicina, si recò, con le opere artistiche di alcuni matti del manicomio di Verona, a Parigi dove riuscì ad incontrare e a convincere delle sue idee personaggi come Jean Dubuffet e André Breton. Un ragazzo di Verona entrava nel grande mondo. Il secondo avvenimento accadde nel 1966, anno in cui Andreoli aveva finito di scrivere il suo primo romanzo I giardini della miseria – il testo rimarrà chiuso “sub secretum” in un cassetto per oltre vent’anni, ma la maledizione della pagina bianca era stata sfatata e il desiderio di riempire le pagine con le proprie storie, la voglia di raccontarle e di creare la sua visione del mondo, forse anche per esorcizzare i proprio demoni, aveva sedotto lo studioso. È un inizio nascosto e discreto, che però col tempo si farà sempre più dominante nella sua vita. Altri due avvenimenti di questo periodo riguardano la sua vita privata e famigliare. Nel 1968 Andreoli si sposa con Laura Migliarese creando una famiglia che presto verrà arricchita con la nascita di tre 43 figlie: Chiara, Silvia e Valentina. Anche questi avvenimenti famigliari e personali contribuiscono a influenzare la sua decisione di tornare in Italia, a Verona, per iniziare una nuova tappa della sua vita. Insomma, all’età di trentadue anni, Andreoli, come dice lui stesso, si era “ricoverato” al manicomio, cioè aveva appeso il camice dello scienziato e indossato quello del medico, professione che durerà ben ventisette anni. Non sto qui a raccontare tutto ciò che è successo in tutti questi anni, perché l’ha fatto già lui stesso nei suoi scritti. Non andrò neanche a presentare le sue tesi che riguardano la psichiatria. Limitandomi all’essenziale, dirò che da medico psichiatra Andreoli lavorò prima nel manicomio di San Giacomo e, quando questo venne chiuso, si trasferì a Marzana e poi all’ospedale di Soave. Questa sarebbe la geografia. Ma in questo arco di tempo si è svolta una storia piuttosto tragica, o almeno come tale è stata vissuta e considerata da Andreoli. Un’intera biblioteca scritta a tale proposito non sarebbe in grado di raccontare questa storia in modo adeguato. In parole povere Andreoli visse in quel periodo di nuovo una rivoluzione, o piuttosto più rivoluzioni, perché se una riguardava la riforma ospedaliera e sociale della psichiatria, la seconda toccava la sua autoconsapevolezza del suo essere egli stesso uno psichiatra. Il 3 maggio del 1978 venne introdotta in Italia la cosiddetta legge Basaglia, in base alla quale in un relativamente breve arco di tempo vennero chiusi tutti i manicomi. Andreoli, pur comprendendo bene le istanze di Basaglia, non ne fu entusiasta, ma si adattò cercando di agire e di continuare a curare i pazienti in mezzo a tali cambiamenti per circa vent’anni. Era convinto che il vecchio modello, quello di un “classico e tradizionale manicomio” non poteva continuare, ma anche che la “legge Basaglia” non fosse la soluzione migliore. Perciò aveva proposto la “terza via della psichiatria”, che spiega così nel suo libro, appunto La terza via della psichiatria: “La psichiatria uscita dalle istituzioni e dalla stretta cerchia degli psichiatri è diventata un fatto culturale. La follia è stata rielaborata in interpretazioni nuove rispetto al filone tradizionale che ne faceva un 44 ramo, anche se anomalo, della biologia. All’appropriazione della follia da parte degli esperti, espressa nel riduzionismo a lesioni celebrali (psichiatria biologica), è seguita la sua incorporazione nella dinamica sociale diventando psichiatria sociale: le due grandi vie storiche di interpretazione della follia. Due vie che si combattono e che, pur diverse, si fondano entrambe su uno schema riduzionistico e dualistico, che vede il periodico rimando da una all’altra. (…) Esiste una via diversa? Ecco La terza via della psichiatria o meglio un’altra via, fra le tante possibili. Una terza via che si propone come superamento dei dualismi e come necessità di instaurare l’unità del sistema encefalostoria, premessa allo studio e alla comprensione del comportamento. (…) Una via, dunque, che prevede uno sforzo di integrazione di sistemi biologici e sociali per una lettura nuova del fenomeno umano e dei suoi comportamenti. (…) Questa visione apre prospettive per una nuova definizione della follia e soprattutto per una nuova lettura (semeiologia) e trattamento. Un lavoro che si apre in questo volume e che potrebbe trovare fruttuoso sviluppo. Una via, dunque, aperta, ma ancora tutta da percorrere” (UF 37-38). Lascio questa parte senza commento, aggiungendo soltanto che le opere scientifiche, saggistiche e di narrativa di Andreoli sono piene di osservazioni e racconti pro o contro i vecchi e nuovi sistemi di cura psichiatrica. Il secondo elemento di questo periodo riguarda Andreoli stesso e si riassume nella parola “dubbio”. Ci sarebbe un bel po’ da indagare per scoprire e descrivere cosa e perché. Ma per farla breve basta dire che ad un certo punto, dopo circa 25 anni di lavoro nei manicomi, in Andreoli sono sorti dei dubbi che riguardavano egli stesso all’interno della psichiatria. Si è consumato il combustibile del suo entusiasmo? La stanchezza ha preso il sopravvento? Un’altra tappa della sua vita era finita e doveva iniziarne un’altra? Era un eccesso di lucidità o una mancanza? Ecco una delle sue meditazioni scritte in quel periodo: “Un tempo sapevo definire il folle, curarlo anche quando gli strumenti dell’intervento erano ancora più ridotti. Ora non ho più la voglia di farlo, mi pare di non esserne più capace. E sono uno degli 45 psichiatri più famosi, subissato da richieste d’aiuto che provengono dalle città della disperazione, dalla voglia di uscire da un male tremendo, per cui si tenta di tutto e si riesce a inventare persino la celebrità. Temo di non saperlo più fare, poiché non so nemmeno che cosa sia giusto fare e come. Nel dubbio si può amare un matto, ma non curarlo con quel senso di sicurezza di cui il guaritore ha bisogno. Non me lo metto più il camice. Mi è diventato d’un tratto stretto, corto, e mi sembrava ridicolo. Io stesso un pagliaccio bianco. Vado da loro vestito normalmente, non saprei fare altro, mi fermo a parlare, talora senza una parola: toccandoli. (…) Voglio che i miei collaboratori indossino il camice e curino, ma li spingo a lasciarsi guidare dal dubbio e a fuggire ogni verità, ogni sistema che accampi certezza: la psichiatria è la scienza del dubbio e credere di possedere la verità e di essere psichiatri onnipotenti significa tormentare il matto, rovinarlo, manipolarlo. Voglio che curino dentro il dubbio, che anzi il dubbio rappresenti il tentativo della cura” (CS, p. 15-17). Alcune settimane dopo aver scritto queste parole lo psichiatra veronese ha dato le sue dimissioni ed è andato, prima del necessario e al culmine della sua carriera, in pensione. Era il 1999, l’ultimo anno del secolo, del millennio, l’anno della fine del mondo, almeno di un certo mondo per il nostro psichiatra. Per ventisette anni Andreoli ha lavorato, ha servito la società – un aspetto importante per il suo modo di stare nel mondo, per colmare dentro di sé la sete di responsabilità e per giustificare la sua esistenza. In questo lungo periodo ha visto e vissuto il tremendo e il fascinoso della follia, ha partecipato attivamente al cambiamento del paradigma della cura psichiatrica e dell’intero sistema psichiatrico, in alcuni ambienti è diventato famoso. Oltre ad essere medico e direttore di ospedali, è diventato un’autorità pubblica, autore di saggi di successo, una celebrità dei giornali e un volto frequentemente presente nella TV. Ma un bel giorno lo psichiatra si è reso conto che anche questa tappa della sua vita era finita. Azzardo qualche spiegazione in proposito. La prima la chiamo “sovrabbondanza” di tutto questo: di 46 matti, di medici, di teorie, di problemi, di notorietà, di lavoro; non ne poteva più. Andreoli, come una calamita, ha attirato nella sua vita tanti fattori, elementi e persone che prendevano su di lui il sopravvento: “La mia testa è un manicomio, sempre. Anche quando non vado in ospedale porto con me i casi speciali, i casi estremi” (CS, p. 15). Troppa pressione che doveva trovare uno sbocco. Il primo passo era uscire fisicamente da questo girone, e così ha dato le sue dimissioni. La seconda spiegazione la definisco “potere”. È un tratto del carattere di questo uomo. Quando sente di essere arrivato ad avere troppo potere – che può avere diversi nomi, modi e forme, ma che alla fine dei conti è sempre un potere –, Andreoli semplicemente fugge. La terza spiegazione ha nome “scrittura”. Uno dei modi che Andreoli aveva a disposizione per scaricare tutta la pressione accumulatasi in lui in tutti questi anni era proprio lo scrivere. Ritengo che una delle dimensioni del suo scrivere sia infatti il tratto auto-terapeutico. È una cosa ben conosciuta e spesso praticata: scrivere per guarire. Prendo l’esempio di un’altra persona. Wanda Półtawska, famosa per il suo epistolario “intimo” con papa Wojtyła. Dopo gli anni passati nel campo di concentramento a Ravenbrück non riusciva più a dormire. I demoni del passato la facevano impazzire. Un giorno un medico le consigliò semplicemente di descrivere tutto ciò che aveva vissuto e visto. La Półtawska, come impazzita, quasi in trance, si era dunque seduta e aveva incominciato a scrivere. Riempiva una dopo l’altra pagine e pagine, senza sosta. Soltanto quando giunse alla fine, quando riuscì a “sputare” sulla carta tutto, esaurita, poggiò la testa sul tavolo di lavoro e per la prima volta si addormentò. Il suo libro si chiama E ho paura dei miei sogni (Edizioni del Orso, 2010). Colgo in Andreoli un simile atteggiamento, che infatti si collega al suo desiderio di scrivere che l’ha accompagnato per tutta la vita. Credo che la scrittura sia la sua Itaca, la terra in cui placare i suoi demoni per continuare a vivere: “Scrivere è il mio desiderio più forte e insistente, ma è faticoso farlo. Talora mi piace pensarmi come un masochista che in questo 47 modo si infligge punizioni alla ricerca di un piacere che però non riesce a cogliere. Un uomo affascinato da un compito a cui si accinge, con la voglia di lasciare di sé qualche pagina che esprima il suo modo si sentire, quella sensibilità talora estrema che lo dispone a capire il dolore, a condividerlo. Una voglia di stampare pensieri che possono suonare utili e certo anche belli a chi li legga oggi e domani. Una voglia che difficilmente si riesce a razionalizzare e a giustificare, una follia così necessaria che si rinuncia a qualsiasi cosa pur di raggiungerla. Una ragione di vita, il senso possibile alla mia esistenza. Non è una scelta, dunque, ma un imperativo che si è ormai radicato e che nessuno riuscirà ad estirpare. Un Super-Io tremendo che si impone, avaro di soddisfazioni. Mi sono dedicato alla scrittura ogni volta che i miei compiti professionali me lo permettevano. Ritagli di tempo che venivano pianificati utilizzando i giorni di vacanza, ma anche quelle pause che mi davano la possibilità di chiudermi qui in campagna, di bloccare quel cancello e mutare atmosfera del mondo. Il mio nuovo mondo di cui le parole scritte costituivano i mattoni. Talora mi sembrava si alzasse un muro storto, talora una bella forma ma inutile e senza significato. Qui portavo le idee che a volte mi giungevano nella mente correndo in automobile o durante una silenziosa seduta in cui cercavo di scoprire le radici della follia o della violenza. Una sorta di luogo arcano e misterioso, capace di magie, di alchimie che avrebbero fatto clamore, trasformando un pezzo di carta e una matita in un libro stampato che la gente avrebbe letto in treno o la sera a casa insieme ai personaggi nati in questa stanza del mistero. Da tempo pensavo al giorno in cui avrei potuto dedicarmi totalmente allo scrivere, agli esperimenti nel mescolare le parole e trovare nel caleidoscopio una frase celebre, un periodare cadenzato. Insomma, passare dai frammenti del tempo e della corsa per non perderne, a un tempo pieno dove poter giocare senza paura di un attimo fuggevole a cui si aggrappa la speranza” (CS 13-14). 48 All’età di sessant’anni dunque Andreoli si dedica totalmente alla scrittura. Anche se la legge dell’inerzia continua ancora riguardo ad alcuni dei suoi vecchi modi di essere e agire. Ogni tanto riprende le vecchie maschere e si presta al gioco. Partecipa ancora ai convegni scientifici di diversi enti di cui è membro e pubblica articoli su riviste più o meno specializzate. Non rifiuta di fare il perito presso i tribunali e nei processi in cui è richiesta la diagnosi di uno psichiatra riguardo all’accusato. In certi periodi appare in TV e scrive sui giornali. Ogni tanto esercita la professione di psichiatra, ma non ha mai aperto uno studio privato, fermamente convinto che il servizio medico debba essere pubblico e gestito dallo Stato. La sua attività di psichiatra diventa dunque occasionale e ridotta al minimo. Nonostante ciò tutti lo sentono e lo considerano esclusivamente e principalmente uno psichiatra. È targato. L’etichetta di “psichiatra” va bene per alcuni suoi libri e per le apparizioni pubbliche, ma non sempre per la sua creatività letteraria e per il profilo di “pensatore” che lentamente emerge dalla sua vita e dai suoi scritti. Tante volte, parlando di lui e dei suoi romanzi, ho colto nella voce e nello sguardo del mio interlocutore ignoranza, sorpresa e ironia: “Andreoli scrive dei romanzi?!” E quando rispondevo: “Se mettete su un scaffale tutti i suoi saggi e su un altro tutte le sue opere letterarie, cioè i romanzi, i racconti, le poesie, il teatro, ambedue gli scaffali saranno riempiti più o meno dalla stessa quantità di libri”, sentivo subito la risposta: “Devo fare un giro in libreria”. Solo con pochi riuscivo ad aggiungere: “Bisogna leggere la sua narrativa insieme alla saggistica per capirlo veramente. Questi due generi letterari si completano e commentano a vicenda e nell’insieme creano un’unica opera”. Per quasi dieci anni Andreoli stesso, insieme al suo editore, Rizzoli, si è impegnato a creare questa visione d’insieme. Di fatto è riuscito, nel bene o nel male di questa operazione, a raccogliere e riunire praticamente tutti i suoi “scritti maggiori” in una “collana” che possiede una forma grafica ben riconoscibile e che comincia a comparire nelle librerie e su internet. È stato un lavoro importante e 49 immenso sia per lo scrittore, che all’occasione ha rivisto i suoi testi scritti tanti anni prima, sia per l’editore, che deve avere avuto un certo coraggio e un progetto ben preciso. Andreoli ha scritto sempre molto e con una certa facilità, ma negli ultimi undici anni abbiamo a che fare con una vera esplosione che il lettore quasi non riesce a seguire, perché questo scrittore sforna almeno tre, quattro libri ogni anno. Meditando sul percorso della sua vita sono riuscito ad cogliere una caratteristica che mi pare importante: la “fuga”. Del resto è questo uno dei temi salienti dei suoi romanzi, tra cui uno dei più significativi si intitola proprio Fuga dal mondo. Un ragazzo, invece di seguire la tradizione di famiglia e l’azienda creata dal suo adorato padre, rompe con questa tradizione e sceglie la medicina. Si tratta proprio di una fuga. Arrivato all’apice della sua carriera scientifica, il giovane, apprezzato e promettente “professore” che ha preso famigliarità e si è appassionato alla ricerca nei laboratori e alla vita accademica, abbandona la carriera in modo brusco e radicale, scegliendo una vita “sporca” e faticosa all’interno delle strutture statali di cura mentale. Diventato uno dei più famosi psichiatri d’Italia, senza neanche aspettare di raggiungere il numero necessario di anni di lavoro per ricevere una pensione più sostanziosa, improvvisamente si ritira dal lavoro e continua la propria vita come scrittore, relativamente famoso, letto e apprezzato. E c’è da aspettarsi – se per esempio ricevesse un importante premio per la letteratura – che lo stesso Andreoli smetta non solo di pubblicare, ma anche di scrivere, lasciando semplicemente tutto dietro le spalle, come il professore del suo romanzo filosofico Requiem, che, dopo aver organizzato in casa l’intero “symposion” sulla fine della civiltà, decide di abbandonare la propria abitazione e di fuggire prima dell’arrivo degli invitati: “Aveva pensato a quelli che arrivavano, ma non a se stesso che partiva. Era a lui stesso misterioso il dove si sarebbe recato, come se non valesse la pena di prevederlo e di programmarlo, tanto gli doveva apparire inutile. (…) Se avesse dovuto usare un verbo adatto, non avrebbe certo scelto ‘andare’, ma ‘sparire’. (…) Lui non aveva 50 preparato borse o valigie, non aveva neppure pensato di portare fuori del cancello l’auto. E se ne sarebbe andato a piedi guardando così allontanarsi la sua casa lentamente, passo passo, senza fretta, come se a muoversi fosse il destino che non ha mai dubbi, anche se tutti lo ignorano o almeno non conoscono il proprio” (R 80). In ogni caso la dinamica della fuga è una delle caratteristiche, e forse uno dei principali motori, della sua creatività letteraria. Lo scrivere può essere visto non solo come creatività e conquista, ma anche come liberazione e fuga. Si scrive anche per liberarsi da qualche problema, per fare i conti con una questione, per andare oltre, e così un giorno forse si va anche al di là dello scritto. Si può però avere un’idea sbagliata del suo percorso, se si considerano le diverse tappe della vita di Andreoli come compartimenti completamente stagni che si succedono l’uno dopo l’altro in una processione lineare e cronologica. Come se l’Andreoli psichiatra non avesse niente a che fare con l’Andreoli scienziato, o lo scrittore non fosse anche lo psichiatra. Questo non è vero, anzi è fuorviante. Questo uomo anche come scienziato è letterato e pur praticando come medico non ha rotto i legami con il mondo della scienza. Preferisco dunque pensare a dei binari paralleli su cui Andreoli continua il viaggio della propria vita spostandosi da un treno a un altro. Ancora meglio, mi piace pensare ad un artista che lungo la strada impara diverse arti e tecniche. Ogni tanto passa dalla scultura alla pittura, e poi ancora all’architettura e alla musica ed usa mescolare tutte insieme opere ed esecuzioni. D’altra parte, pur cambiando il materiale, il modo di esprimersi, e perfezionando le tecniche, in ogni opera si riconosce la mano, la mente, l’orecchio e il tocco dell’artista. Insomma, Andreoli mi si presenta in modo polifonico, come una persona dai diversi volti o maschere. Credo che Andreoli stesso sarebbe in grado di scrivere diverse sue autobiografie, ma essendone consapevole forse non ne scriverà nessuna, e dietro tale decisione non sta solo la consapevolezza che ogni autobiografia è falsa oppure la voglia di non rivelarsi. Certo, si potrebbe anche dire 51 che tutta la sua opera è una grande autobiografia, e spesso scrivendo queste pagine rimanevo preso da tale idea, ma solo fino a un certo punto. Di Andreoli si potrebbero scrivere diverse biografie e probabilmente così sarà in futuro. È superfluo aggiungere che tutto ciò che qui scrivo è solo uno degli sguardi possibili. 3. Carlofania Nel percorso biografico di Andreoli scelgo ora un aspetto, o piuttosto una persona: Carlo Zinelli. Va tuttavia sottolineato che la scelta di un punto non vuol dire ridurre tutto ad esso. Indicare una delle risorse non spiega il tutto. Il mistero non può essere ridotto a una sua origine. Nella primavera del 1959 il diciannovenne Vittorino entra per la prima volta nel manicomio di San Giacomo di Tomba a Verona e questa visita cambia il suo modo di percepire la realtà e la propria vita. Per sempre. In questo incontro c’è qualcosa di sacro, e come ogni evento sacro è segnato dalla tensione tra mysterium tremendum e mysterium fascinosum; tensione che si concretizza e concentra nella figura di Carlo Zinelli, un pittore matto. Quarant’anni dopo questo incontro Andreoli scriverà: “Ogni matto si lega ad uno psichiatra, Adolf Wolfi a Morghentaler, Aloyse a Forel, Carlo Zinelli ad Andreoli e nasce una storia di coppia: una sorta di folie à deux. (…) Abbiamo costituito una coppia speciale, perché da Carlo ho imparato molte cose: non solo che un matto è un uomo, ma anche che un matto può arrivare alle vette dell’espressione artistica” (CG XV). Basta passare in rassegna gli scritti di Andreoli da questo punto di vista per esserne profondamente impressionati. La prima pubblicazione scientifica in assoluto dello psichiatra veronese (in collaborazione con A. Pensa) è l’articolo “Arte e Psicopatologia: l’Atelier di Verona”, stampato in Rassegna Medica e Culturale, 39 52 (1962), pp. 23-33. Poi seguono decine di altri articoli, scritti e pubblicati nell’arco di decenni, che neanche mi sforzo di citare, parzialmente rielaborati e raccolti ne Il linguaggio grafico della follia (Bur 2009). Come è stato già ,detto nel 1966 Andreoli conclude la stesura del suo primo (anche in questo caso bisogna ripetere “in assoluto”) romanzo I giardini della miseria, che non è altro che il romanzo su Carlo Zinelli. Il testo sarà pubblicato soltanto ventidue anni dopo (1988), e dopo altri vent’anni Andreoli stesso, nella raccolta di saggi Il matto di carta. La follia nella letteratura (2008), scriverà una sua analisi di questo romanzo. Sfogliando la raccolta dei testi per il teatro Un posto in platea. Trame teatrali (2005), si trova “Atto unico con due scene”, intitolato Carlo, el mato, testo scritto in dialetto veronese in cui viene pure riportato il modo, del tutto particolare, di parlare di Carlo: “Eh cari, lè stipoli, cópoli, cavàpoli sti tirampoli di merigo, merigoni, merigati. Tutti gatti che i core varda come i core. I core casso i va, dove ’ndasio puoareti, e dopo i magna. Magna caro se non te magni no te arfi e te amani, amina, manetta, manoerona, la siora la cima e lue l dise cara iè i todeschi e i sbara, pum, tira fora le caramele e dai e dai, su bela, su cara, femoghene na montagna” (PP 689), e così via. In I miei matti (2004) si trova un lungo ricordo di Andreoli su Carlo Zinelli. Aggiungo che durante le conferenze e i dibattiti, a cui ho partecipato, la figura e l’esempio di Carlo ritornavano spesso. Carlo Zinelli nasce nel 1916 a San Giovanni Lupatoto in una famiglia misera da tanti punti di vista. Nel 1939, arruolato nel battaglione Trento degli Alpini, parte per la guerra civile di Spagna, dove esplode la sua crisi schizofrenica che gradualmente lo porterà ad un ricovero permanente nel manicomio di Verona. Carlo sprofonda nella follia, nell’inferno del manicomio, nel distacco dalla realtà con cui però inizia ad riallacciare un fine contatto attraverso i graffiti fatti con pezzi di mattone sui muri. La cosa è più complessa ma, per farla breve, diciamo che periodicamente nel manicomio di San Giacomo era stato ricoverato, per alcolismo, anche uno scultore scozzese, 53 Michael Noble. È lui a notare questa attività “artistica” di uno dei matti, e con l’aiuto della ricca moglie, Ida Borletti, facilita la creazione di un atelier all’interno del manicomio dove il quarantenne Carlo inizia regolarmente a dipingere i suoi quadri. È l’anno 1956. Tre anni più tardi nell’atelier del manicomio arriva Andreoli che letteralmente ne rimane come fulminato. Carlo per circa dodici anni continua a dipingere, creando nell’insieme circa 2000 quadri. Andreoli lo accompagna e lo osserva in questa attività. Carlo sarà per il giovane Vittorino un accesso al mondo della follia, ma anche una via d’uscita da questo funesto girone. Il giovane adepto alla psichiatria inizia a “studiare” Carlo, facendolo conoscere non solo oltre le mura del manicomio, ma anche nel vasto mondo delle più famose aste e gallerie d’arte. Giustamente può scrivere ad un certo momento: “Carlo Zinelli è ora un pittore, io l’ho conosciuto che era soltanto un matto” (CG XV). Il matto-pittore, grazie a questo sensibile giovane psichiatra, è diventato un pittore-matto. Invece Andreoli, grazie a Carlo, non solo è entrato nel mondo della follia da una porta del tutto particolare, ma anche grazie a questo lavoro si è aperto la strada oltre lo stretto mondo veronese e italiano, conoscendo grandi personaggi dell’epoca e diventando, tra altro, presidente della Session on Psycophatology of Expression della World Psichiatric Association. Si potrebbe dire: un incontro provvidenziale, un nodo karmico. Ma qui ci interessa non tanto Carlo, di cui Andreoli ci ha lasciato vari ritratti, testimonianze, studi stupendi e importanti. Non ci interessa neanche Andreoli stesso, ma la sua opera letteraria e una delle sue più forti e più significative ispirazioni. Tracce di tale ispirazione le troviamo sparse nei suoi scritti. Questa ispirazione è un insieme di fattori: la personalità di Carlo, che per Andreoli è un’icona, il suo modo di lavorare e di rapportarsi al mondo, che diventa per lo psichiatra un paradigma dello stare nel mondo; per cui l’opera del pittore-matto sarà da questo psichiatra ammirata e studiata. Il rapporto tra i due si prolungherà oltre la morte di Zinelli avvenuta nel 1974. Prendendo un’espressione di Konrad Lorenz, direi che Andreoli nei confronti di Carlo ha subito un 54 particolare “imprinting” che l’ha segnato per sempre sia come uomo, che come psichiatra e artista. Il primo fondamentale aspetto di questo “imprinting” è il fascino. Andreoli dice: “Non voglio essere ricordato come chi ha scoperto Carlo o ha curato Carlo, ma semplicemente come chi lo ha incontrato e ne ha sentito un’attrazione: è diventato un bisogno” (CG XXXV). Usando il linguaggio teologico o filosofico oserei parlare di rivelazione, illuminazione, “antropofania”, o forse “Carlo-fania”. Un’esperienza di tale tipo è ultra-verbale, cioè inesprimibile, perciò non può essere inclusa in un discorso, ma da essa dipendono tutti i discorsi. In Carlo c’era qualcosa di affascinante e di attraente: era un matto ma pienamente realizzato, e che per giunta creava opere artistiche meravigliose. Ma anche nello stesso Andreoli c’era qualcosa che gli ha fatto percepire questo fascino: “Mi sono dedicato alle sue opere con l’entusiasmo (…) perché sentivo che là dentro c’era un po’ di mistero, un grande significato e soprattutto la vita completa di un uomo” (CG XXXV). Ecco tutto Andreoli: il tragico del manicomio e la bellezza dell’arte, la follia e la pienezza della vita, e lo psichiatrascrittore che ne costruisce un ritratto iconico in cui è inclusa la sua visione del mondo e dell’uomo: “Andavamo a spasso assieme, lo portavo a casa mia e in giro per la città: il matto e lo psichiatra. Aveva un look che lo definiva matto senza analisi clinica. Con quel suo berretto che teneva anche la notte, quella giacca piena di oggetti dentro le tasche. In una teneva degli uccelli trovati morti nel parco e degli insetti. Con quell’aria trasognata, fuori del mondo. Un’assenza che ti permette la serenità e che puoi perdere se sai come funziona il mondo, la sua cattiveria, la sua stupidità” (CG XXX). Ci sono altri aspetti della vita e dell’atteggiamento di Carlo Zinelli, descritti da Andreoli che, se letti oggi sulla base della conoscenza del nostro psichiatra, sembrano quasi un inconsapevole e idealizzato autoritratto dello scrittore. Quando leggo in uno scritto di Andreoli che Carlo Zinelli, ancora prima di impazzire, “non odiava gli 55 uomini, ma amava di più la natura e la solitudine”, mi dico: questa frase potrebbe essere stata scritta a proposito dello scrittore da parte di qualcuno che lo ha conosciuto o ha letto bene le sue opere. Andreoli, che si presenta in TV e interagisce con il pubblico durante le conferenze, in fondo è una persona riservata e sa ben praticare l’arte della fuga. Basti pensare alle sue lunghe assenze estive in Scozia, dove “c’è nessuno” e dove lui stesso rimane sconosciuto agli altri. Basti prendere in mano qualche suo racconto dove lo scrittore si espande descrivendo la natura, il cielo, le pietre, la solitudine. Non dico che tutto ciò sia stato preso da Carlo, che di vita nei grandi spazi della natura ne sapeva ben poco, ma intravedo un profondo legame tra Carlo e Vittorino che ha influenzato l’intera loro vita. Ancora un testo su Carlo: “ha dedicato quindici anni della sua vita a dipingere: otto ore al giorno, da quando arrivava all’atelier fino al momento in cui era accompagnato nel suo reparto. Dipingere era per lui vivere, e questo vale più di un giudizio artistico o di un prezzo economico per le sue opere. Un vero artigiano. Aveva bisogno solo di carta e di colore e così riempiva il foglio delle sue immagini… Non si stancava mai, era il suo lavoro, il suo desiderio, il suo destino. Solo talvolta si interrompeva per bere qualche cosa, per fumare una sigaretta, per lanciare una delle sue prediche incomprensibili ma piene di significato. E così viveva, così consumava la sua vita in un modo che sembrava sereno e forse felice, poiché non accettava compromessi e seguiva la volontà anche se non era certo programmata al successo, ma solo al consumo del tempo che scorreva inconsapevole” (CG XXX). Pagine degne di Giorgio Vasari. Un’immagine eroica, un’icona. Carlo è un artista totalmente perso nella sua creatività, come un dio, e in questa opera è sereno e felice. Ignoro il modo tecnico e pratico in cui Andreoli scrive i suoi libri, sono segreti del mestiere che bisogna lasciare in pace, ma se si prende in considerazione solo la mole della sua produzione letteraria, si arriva semplicemente alla costatazione che Andreoli lavora come… un matto, perso nel suo scrivere. Forse anche in questo imita il suo 56 “maestro Carlo”. Si possono notare sicuramente le differenze: mattodottore, schizofrenico-psichiatra, pittore-scrittore, quindici-cinquanta anni di creatività, ecc., ma forse in ultima analisi contano poco. Andreoli lavora come Carlo, o almeno è questo per lui l’ideale. Trovo in tutte queste descrizioni anche una nota di ammirazione che si fa gelosia. Andreoli si è dedicato al suo lavoro, ma non si è perso in esso come un matto. Ricordo che, quando una volta mi dette le 70 pagine della sua bibliografia medico-scentifica con 633 titoli dei suoi scritti, mi disse con un leggero sorriso: “Ecco un’altra testimonianza della mia follia”, ma io sapevo che questa era una delle sue fughe, dovute a una certa ossessiva e ovvia passione per lo scrivere; queste note bibliografiche indicano anche la fatica, il lavoro duro e consapevole. Andreoli vorrebbe essere libero, sereno e distaccato nel suo lavoro letterario come lo era Carlo nella sua pittura, ma semplicemente non è matto a tal punto. Forse avrebbe voluto esserlo, ma di fatto non lo è stato. E non è così distaccato dal desiderio di notorietà e dal voler essere veramente compreso come artista. Una tale libertà, un tale perdersi nella sua creatività non gli è accessibile. Lo considera come un ideale, raggiunto solo dal matto-pittore Carlo, ma inaccessibile a lui, uno psichiatra-scrittore. 4. Dentro una tradizione Non mi azzardo a indagare sulle cosiddette “fonti” o “ispirazioni” letterarie di Andreoli, anche se è sempre intrigante cercare di scoprire perché qualcuno scrive. Quando ha iniziato a scrivere? Quali scrittori hanno avuto un maggiore influsso su di lui? Ha avuto qualche maestro? L’Andreoli di carta non risponde a tali domande in modo soddisfacente. Bisognerebbe chiederlo all’Andreoli di carne, e forse un giorno egli stesso lo rivelerà per soddisfare la curiosità dei suoi lettori o per completare qualche aspetto dell’autoritratto che emerge 57 dai suoi scritti. Nella sua famiglia ci fossero degli scrittori e non penso che in casa sua ci fosse una buona biblioteca. Ma di sicuro già da giovane egli scriveva, e lo faceva spontaneamente. Abbiamo allora a che fare con uno “scrittore nato”, che non ha mai potuto fare a meno di scrivere, e in seguito, seguendo e coltivando questa aspirazione, è diventato uno scrittore sempre più consapevole. Non credo che in questo suo percorso abbia avuto qualche maestro o che si sia sottomesso ai suggerimenti dei suoi editori. Ha fatto tutto di testa sua, e forse oggi, guardando in dietro alla “biblioteca” che ha realizzato, egli stesso si meraviglia chiedendosi ogni tanto: “come mai?”. Il suo giovanile desiderio di scrivere ha incontrato, durante il periodo dei suoi studi e del suo lavoro professionale di psichiatra, vari ostacoli, che ha però trasformato in spinte. Erano di due tipi: uno molto banale, il tempo. Andreoli fino a sessant’anni ha scritto solo nel tempo libero, cioè era scrittore “part time”; il secondo ostacolo è stato di tipo mentale e metodologico: non sempre è facile infatti conciliare una mentalità scientifica e medica con la scrittura letteraria, creativa. Ciò nonostante, Andreoli l’ha fatto. In tale prospettiva cade l’ipotesi secondo cui egli scrivesse per sfogarsi e scaricare la tensione accumulata durante il lavoro in manicomio. Il suo scrivere non sgorga da questa esperienza. Andreoli scrive sia prima sia dopo. Allora forse bisognerebbe modificare anche la sua immagine pubblica e non parlare dello psichiatra che scrive e neanche dello psichiatra scrittore, oppure dello scrittore psichiatra, ma piuttosto dello scrittore che nella sua vita ha fatto anche l’esperienza della psichiatria. Lo scrivere proviene dal leggere e al leggere rimanda. Almeno per alcuni, il leggere è solo un intervallo tra lo scrivere e lo scrivere. Tutto dipende dai punti di vista. Uno pensa che la gallina nasca dall’uovo per produrre le uova, un altro invece è convinto che la gallina sia solo un intervallo tra le uova. Insomma, riflettendo sull’opera letteraria di Andreoli ci si domanda spontaneamente: che cosa ha letto e che cosa legge quando non scrive? E l’unica risposta da dare, per non rispondere banalmente che legge “tutto”, è che ha letto e 58 legge “molto”. La letteratura scientifica, medica, psichiatrica e psicoanalitica da Ippocrate a Freud e Feyerabend; la poesia da Catullo a Pavese; la filosofia dai pre-socratici e Platone a Hegel e Nietzsche; le tragedie da Euripide a Shakespeare a Pirandello e Beckett; i teologi dalla Bibbia, a San Tommaso d’Aquino fino a Rahner; i romanzieri da Cervantes, a Dostoevskij a Calvino e Gadda. Insomma, la sua biblioteca è piuttosto estesa e una delle sue particolarità sta nel fatto che contiene sia opere “scientifiche” che “letterarie”. Nell’insieme essa si colloca all’interno del “canone occidentale” con una punta, del tutto ovvia, della sua italianità. Quasi assente in questo bagaglio è la letteratura orientale induista, buddhista, taoista, giainista, ecc. Andreoli è un occidentale e un italiano, il suo cantiere si trova all’interno della cultura italiana. In questo contesto vale la pena di menzionare le figure di due scrittori e psichiatri italiani: Corrado Tumiati e Mario Tobino, a cui Andreoli stesso ha dedicato un saggio: Il matto di Carta. La follia nella letteratura (2008). Tumiati (1885-1967), che appartiene alla generazione dei nonni di Andreoli, dopo gli studi medici, fino all’età di quarantasette anni praticò la professione di psichiatra nei manicomi di Pesaro, Siena e San Servolo a Venezia, ma a causa delle divergenze politiche fu costretto a ritirarsi dedicandosi esclusivamente alla scrittura e al giornalismo. Autore di una quindicina di libri di narrativa e di saggistica, traduttore di scrittori e poeti francesi, il suo lavoro più famoso è il suo primo romanzo I tetti rossi. Ricordi di manicomio (1931), con cui l’autore vinse il Premio Viareggio. Secondo Andreoli si tratta del “romanzo per mezzo del quale il manicomio entra per la prima volta nella letteratura italiana” (MC 170). Mario Tobino (1910-1991) invece appartiene alla generazione dei padri di Andreoli ed è anche un caso “a sé”. Psichiatra con una forte creatività letteraria, ha coltivato la scrittura parallelamente alla sua vita professionale, svolta fino all’età della pensione principalmente nel manicomio di Magliano, vicino a Lucca. È stato un autore di successo che ha lasciato testi di poesia e più di venti romanzi, 59 di cui alcuni sono stati portati persino sul grande schermo: Per le antiche scale di Mauro Bolognini (1975), Scemo di guerra di Dino Risi (1985) e Le rose del deserto di Mario Monicelli (2006). Questo autore, secondo Andreoli, “nella sua veste di scrittore, ha senza dubbio contribuito a trasferire nella cultura e nell’opinione pubblica una certa immagine del mondo manicomiale e delle problematiche della psichiatria contemporanea” (MC 169). Ma pur riconoscendo questi meriti, Andreoli è piuttosto critico nei confronti di Tobino, almeno quando questi parla del manicomio e della follia considerandoli riduttivi, troppo esteriori e persino voyeuristi: “sembra quasi che i matti (descritti da lui – MB) facciano spettacolo per un osservatore privilegiato qual è lo psichiatra. Sia nella visione generale sia nei singoli ritratti vengono trascurati aspetti della follia che pure, in quegli anni, cominciano a essere oggetto di un’attenzione particolare, come la struttura del pensiero, l’affettività del linguaggio, la comunicazione non verbale, la creatività” (MC 177). Questi due scrittori e psichiatri italiani in qualche modo hanno preceduto Andreoli e hanno fondato una tradizione nella quale poi si è potuto iscrivere e sviluppare. Il confronto con il passato fa capire meglio che cosa, anche come scrittore, ha fatto e fa Andreoli sia dal punto di vista contenutistico che formale. Certamente Andreoli ha scritto molto di più, è andato più a fondo e ovviamente non si è limitato ai temi della follia. Ma il giudizio spetta alla critica letteraria che finora, a proposito di Andreoli è piuttosto scarsa. Sarà compito del futuro, visto che l’opera letteraria di Andreoli non è ancora conclusa. 60 5. Carta e realtà “Io non sono capace di inventare niente”, così una volta si è espresso il professore quando gli ho chiesto in che modo scrive le sue storie. Con questa frase entriamo nel tema immenso della relazione tra realtà e letteratura. Riflettendo sulla genesi dell’opera di Andreoli bisogna soffermarsi un attimo sul suo modo di trasformare la realtà in scrittura. Nel suo caso, forse come nel caso di ogni arte, abbiamo a che fare con un’alchimia tra la materia della realtà e lo spirito della creatività artistica. Lui stesso, a circa quarant’anni dal suo I giardini della miseria, afferma: “Il Carlo del romanzo richiama pur sempre quello conosciuto nella realtà ma, nello stesso tempo, perde progressivamente le sue caratteristiche per divenire un caso paradigmatico. L’intento dichiarato è infatti di allontanarsi dalla cronaca di un’esperienza clinica per arrivare a una storia ‘fantasticamente reale’. Un paradosso, se vogliamo, che però sta opportunamente a indicare come sulla realtà si sia inserita la fantasia, una libertà di racconto che può anche inglobare frammenti di altre storie” (MC 186). In questo frammento c’è l’intero programma artistico che evidenzia alcuni elementi rielaborati dallo scrittore nel suo lavoro: realtà, fantasia, intento di allontanarsi dalla cronaca per arrivare a una storia “fantasticamente reale”, libertà dell’immaginazione che dà la possibilità di inglobare altre storie, creazione di un caso emblematico. Si può prendere la vera storia di Carlo e paragonarla col romanzo I giardini della miseria: ne uscirebbe una bella tesi di laurea. Si può prendere la biografia stessa di Andreoli e vedere come la sua figura, trasformata, compaia nei suoi scritti, incominciando da Vito Anderlini, il protagonista del romanzo Camice matto (1995); sarebbe un’altra tesi di laurea. E ciò vale per tanti altri personaggi della sua narrativa, andando a individuare i loro prototipi nella realtà. Ho già detto che la figura del dottor Bertucco ne I giardini della miseria è stata ispirata dallo psichiatra Cherubino Trabucchi. Probabilmente 61 dietro Giovanni Aceto, personaggio che appare nel quinto capitolo di Fuga dal mondo, si nasconde il famoso imprenditore veronese dei tortellini, Giovanni Rana. Ma chi è il Commendatore del racconto La fine del nulla (1991)? Chi sta dietro alla figura del Cardinale del romanzo omonimo? Chi è Angelo Ratti de Il corruttore? Sarebbe un lavoro di investigazione a sé stante. In base a tutto ciò si comprende come l’opera di Andreoli sia una vera e propria “tragedia umana” che offre un ampio affresco della società italiana degli ultimi decenni. Brevemente accenno al romanzo Il reverendo, perché in questo caso posso parlare per esperienza. Perciò mi si perdoni il leggero tratto personale, ma in questo modo ritengo di essere più efficace. Durante la traduzione de I miei matti, alcune volte ho dovuto contattare e incontrare il professore per avere spiegazioni e chiarimenti. Ci siamo conosciuti e, a titolo di presentazione, gli ho raccontato brevemente la mia storia: “Cresciuto nella Polonia comunista, all’età di vent’anni sono fuggito dal mondo in monastero facendomi monaco. Dopo una decina di anni di clausura, mi hanno mandato a Roma dove, dopo anni di studio, sono diventato professore di teologia, autore di libri sulla spiritualità patristica e bizantina, consultore teologico della Santa Sede per le questioni dell’Oriente Cristiano, pittore di icone. Poi ho abbandonato tutto e mi sono stabilito a Verona lavorando come traduttore, scrittore e pittore”. Il mio racconto è stato breve e denso come un resoconto, e il professore non ha fatto né commenti, né domande. Quando ci incontravamo, discutevamo di fede, di Dio, della Chiesa, ma in tutto questo non c’era, per così dire, niente di personale. Andreoli non ha voluto della mia storia sentire assolutamente niente di più, e quando volevo dirgli qualcosa in proposito si tappava le orecchie. Nei mesi che successivi soltanto alcune volte al professore è scappata una domanda o un’osservazione, dal che intuivo che in qualche modo stava riflettendo o scrivendo qualcosa a proposito della mia storia. Ma quando gli chiedevo su cosa stava lavorando, diplomaticamente evitava la risposta. Solo col tempo ho imparato che questa era la sua regola di 62 lavoro: delle cose che si scrivono non si parla, per non rompere l’incanto. Più o meno un anno dopo, quando ci siamo nuovamente incontrati, Andreoli mi ha regalato, ancora fresco di stampa e caldo di sudore, il suo nuovo romanzo Il reverendo, dicendo: “Mi piacerebbe che Lei lo leggesse e poi mi dicesse cosa ne pensa”. Tornato a casa mi sono immerso nella lettura seguendo le vicende del giovane russo Pëtr Rosanov, che si fa monaco nel periodo in cui esiste ancora l’Unione Sovietica. Poi, quando i tempi cambiano e tra l’Ortodossia e il Cattolicesimo si stabiliscono contatti ecumenici, Rosanov si trasferisce a Roma, dove insegna spiritualità orientale ed iconografia, e si dedica alla causa dell’unità tra le Chiese. Qui conosce una suora carmelitana, Anna Brignani. Ambedue si innamorano e per vivere questo amore lasciano i loro monasteri. Segue il periodo della passione, ma ben presto Anna e Pëtr si rendono conto di trovarsi in una situazione paradossale: sono fuori delle loro Chiese e per loro non c’è posto nella società, per giunta scoprono di non potersi amare pienamente perché amano Dio che tuttavia, almeno per loro, non esiste. Così fondano un monastero per non credenti sui Monti Sibillini, dove Pëtr dipinge i suoi strani quadri simbolici, e poiché non possono appartenere né al mondo, né alle Chiese, né a Dio, praticamente impazziscono entrambi finendo il loro percorso nel manicomio di Perugia. Durante la lettura scoprivo facilmente che cosa in questo romanzo proveniva da me e faceva parte della mia storia, e che cosa è frutto della fantasia artistica dello scrittore. Questo romanzo mi riguarda, e non mi riguarda in un modo assoluto. Fare di un polacco un russo è come fare di un irlandese un inglese. Ho vissuto abbastanza a lungo in Italia per capire che per Andreoli, come per tanti “occidentali”, l’Est europeo era “informe” e praticamente viene identificato con la Russia. Sapevo anche che Andreoli era stato in Russia durante il comunismo, e ovviamente aveva coltivato in sé il fascino e “il mito dell’idea russa”. Tutto questo è confluito nella 63 fantasiosa libertà del racconto per creare il retroscena del romanzo. Abbastanza fedeli sono i miei tratti di teologo universitario: ho insegnato spiritualità orientale ed iconografia cristiana e mi sono occupato di ecumenismo. Andreoli ha persino citato nel suo romanzo alcuni brani del mio libro Il cielo nel cuore (2002) su Niceforo Esicasta e sulla mistica bizantina. Tuttavia la storia di Rozanov con suor Anna non è la mia “ad litteram”, e ovviamente non sono finito in un manicomio. Ma confrontando la mia storia con il romanzo Il reverendo ho capito perfettamente che cosa intendesse Andreoli quando affermava di voler arrivare in letteratura a una storia “fantasticamente reale”, e di voler creare “un caso paradigmatico”. Mi sembra sia riuscito a “dipingere” molto bene alcune caratteristiche esistenziali, affettive, sociali, teologiche delle persone che lasciano i monasteri o lo stato clericale. Quando, per esempio, Pëtr e Anna abbandonano Roma e prendendo il treno per l’Umbria, Andreoli descrive il loro stato d’animo: per loro lasciare questa città “Significava allontanarsi dalla Chiesa, scappare dal suo cuore pulsante, anche se pieno di contraddizioni. C’erano giunti per ubbidienza, entrambi erano felici. Ora, era come se fossero stati espulsi, mandati al confino. E non si potevano usare finzioni per convincersi dell’opposto. Erano legati alla Chiesa come un bambino alla propria madre. Fosse anche puttana, un bambino non ne può fare a meno e vede in lei una cosa indispensabile e non sa affatto che il latte lo si trova anche al supermercato. La Chiesa è veramente una madre: pur non dandoti la ricchezza, ti assicura la sopravvivenza; pur non mettendoti in un palazzo, ti dota di luoghi in cui puoi sopravvivere. Non hai nulla, ma accedi dappertutto. Con quell’abito, con quella lettera, con quella telefonata sei accettato, non importa se con entusiasmo o obtorto collo. Non avevano più nulla e non sapevano cosa avrebbero fatto, era inutile chiederselo. Non potevano contare su nulla e anzi, se la loro identità fosse venuta alla luce, avrebbero trovato il deserto. Erano poveri nel deserto, nel deserto sconfinato, ed era inutile parlare di 64 un’oasi: se veramente fosse esistita, per loro non ci sarebbe stato posto, non vi avrebbero potuto nemmeno sostare per un po’. Dovevano continuare a camminare nel deserto. Lui, senza le funzioni ecclesiastiche, non sapeva fare nulla, fuori della Chiesa non esisteva neppure, e lei, Anna? Chi è una carmelitana scalza senza abito monacale, senza la cuffia che le circonda il viso e ne fa cammeo prezioso e santo? A cosa servono le lezioni e lo studio delle icone nella vita quotidiana? A cosa servono la teologia e conoscere il volto di Dio? Figuriamoci se non avevano parlato dell’essere monaco dentro e dell’esserlo invece all’apparenza, dal di fuori e in virtù dell’abito. Se non si erano detti che sarebbero rimasti legati al loro Dio come prima e per sempre” (RV 211-212). All’interno di queste frasi, così acute e penetranti, possono ritrovarsi tante persone che hanno vissuto tale esperienza e ormai fanno parte anche del mondo della letteratura. Basta prendere in mano, per esempio, i romanzi di Iris Murdoch: praticamente in tutti si trovano personaggi del genere. Ne abbiamo parlato io e il professore, ed egli ha fatto diversi commenti di cui riporto qui solo un pensiero: “Io non ho voluto sentire molto sulla sua vita, non ho voluto conoscere i particolari della sua storia per non lasciarmi influenzare troppo, volevo essere libero per elaborare le mie fantasie sulla base di uno spunto preso dalla realtà”. Mi sembra che questo chiarisca abbastanza bene una delle diverse genesi della sua scrittura, cioè la relazione che esiste tra i fatti e la fantasia di un artista, tra la realtà e la carta. I suoi romanzi sono storie “fantasticamente reali”, una realtà di carta. Questo vale praticamente per tutta la sua narrativa, di cui non mi sforzo ora di moltiplicare gli esempi, perché lascio la ricerca, piuttosto interessante e divertente, ai lettori. 65 66 Terza parte: I TEMI Leggendo i libri di Andreoli il lettore si può dunque divertire a cercare il legame tra i fatti e i testi, a costruire nel pensiero i ponti che collegano la realtà alla carta. Si parte dalla carta, si arriva alla realtà e poi si ritorna alla carta. Ormai è chiaro che il lettore può praticare un altro gioco, oltre all’inoltrarsi nel “corpus” degli scritti di Andreoli e al leggere insieme e in un modo complementare la narrativa e la saggistica. Questo terzo gioco sta nell’osservare e evidenziare i diversi temi che si ripetono e vengono approfonditi nei suoi scritti, temi che si potrebbero anche definire principali o fondamentali per questo scrittore. Se tutta la sua opera è un ponte tra la realtà e la carta, questi temi sono i pilastri su cui il ponte si regge. Immaginando ogni libro di Andreoli come un filo che possiede colore e lunghezza propri, tutti questi fili, gettati sul tavolo, si incrociano in diversi punti formando dei nodi, cioè i temi che si ripetono e ritornano, importanti e fondamentali, e di cui è fatta la rete della sua opera. Dopo aver girato nel labirinto delle opere di Andreoli leggendole, ho prima lasciato che frullassero liberamente nella testa e ne ho quindi evidenziato sette pilastri, nodi o temi, che mi sono sembrati i più importanti e forti. Ma aggiungo subito che questa è solo una mia scelta. Avrei potuto indicare altro, e naturalmente qualcuno può anche leggere Andreoli in modo diverso e mettere in rilievo altri temi. 1. La follia Andreoli è scrittore della follia. La follia è il tema centrale da cui tutto parte e intorno a cui tutto gira nella sua opera. L’intera vita di quest’uomo ruota intorno alla follia, e d’altra parte è la follia che gira intorno a lui. La sua opera è una sinfonia della follia, e forse anche una sinfonia folle. Le pagine più importanti e impressionanti dei suoi libri riguardano proprio la follia. Le pagine più belle ed orribili 67 parlano di follia, le più tenere e violente sono impregnate sempre di follia. Egli è il bardo e la vittima della follia: “Ho amato la follia, le ho dato tutto me stesso e l’ho fatto standovi in mezzo, in manicomio, dove non c’è né tempo né spazio per teorie, ma solo per correre e condividere ora un crisi ora un desiderio incoercibile di morire o di ammazzare” (CS 14). Quando ormai, stanco di manicomi e pieno di dubbi a proposito della psichiatria, abbandona l’attività, trova la follia nel mondo che lo circonda e anche dentro se stesso: “Ho trovato il manicomio fuori del manicomio, una follia all’aperto e nel travestimento ho continuato a fare, con un linguaggio nuovo e in piazza, lo psichiatra. Uno psichiatra che non ha più il coraggio di curare la follia e la vuole raccontare, quasi fosse ancora troppo misteriosa per poterla ‘giustiziare’: parte ineliminabile dell’uomo, di questo strano animale che cammina sul pianeta. (…) Resto uno psichiatra, circondato dappertutto da follia; forse, folle io stesso” (MI 8-9). La scrittura è uno dei suoi modi di convivere con la follia, un suo metodo per fuggirla senza abbandonarla veramente. La scrittura è il suo modo di rimanere in contatto con essa, in una strana dinamica di avvicinamento e distanza, perché scrivendo allo stesso tempo ci avviciniamo e ci allontaniamo dall’esperienza che riportiamo sulla carta. Alla follia Andreoli ha dedicato la maggior parte dei suoi studi scientifici, buona parte dei saggi, molti dei romanzi, racconti e altri generi letterari che ha praticato. Proprio la sua ricerca, anche come artista della parola, si è concentrata nell’inventare dei modi di raccontare il mondo misterioso e inesprimibile della follia. Con il tema della follia Andreoli sin dall’inizio si è trovato in compagnia di grandiosi autori di ogni epoca e diversi nel comprenderla e raccontarla. Da una parte, per motivi ovvi legati alla formazione e al percorso professionale, si tratta di studiosi, scienziati, psicologi, psicoanalisti e psichiatri: Freud, Jung, Lombroso, Kraepelin, ecc. La lista è infinità, e dalle stesse opere di Andreoli si può ricavare e ricostruire la storia della follia e della psichiatria, che va ben oltre e 68 più in profondità della memorabile Storia della follia nell’età classica (1961) di M. Foulcault. D’altra parte, si è reso conto relativamente presto che il linguaggio scientifico, medico e specialistico è troppo angusto per questo “mistero”, perciò ha cambiato registro e linguaggio: “Tutti i libri di psichiatria sono finiti in cantina sostituiti da opere letterarie, di poesia” (MI 7). Cosi si è trovato immediatamente in compagnia di altri grandi come Cicerone, Miguel de Cervantes, William Shakespeare, Fiodor Dostoevskij, i mistici e i così detti “folli di Dio” di diversi tempi e religioni, Luigi Pirandello, ecc. Anche qui la lista è sterminata. Ormai sappiamo che il cambiamento di registro in Andreoli non è avvenuto in senso cronologico – e cioè che dopo lo scienziato è venuto il letterato –, perché questo psichiatra è entrato nel mondo della follia attraverso la porta dell’arte. Diamo dunque un rapido sguardo alle opere dello psichiatra di Verona soffermandoci soltanto sui titoli: Un secolo di follia, L’uomo folle, La terza via della psichiatria, Il matto di carta, La follia nella letteratura, Istruzioni per essere normali, Comprendere le follie quotidiane, Il linguaggio grafico della follia, La follia del mondo, Per una psichiatria della storia, Follia e santità, Tra un’ora, la follia. Non aggiungendo altri titoli che girano intorno allo stesso tema sostituendo la parola “follia”, o “folle”, con “il matto” o con altre varianti. Nell’insieme è un opus sulla follia, immensa e variopinta, che conferma la centralità per Andreoli di questo tema. Con la matita scrivo su un foglio bianco nel centro “la follia” e intorno ad essa, seguendo, tanto per cominciare da qualche parte, i contenuti presenti nel libro Istruzioni per essere normali (11-20), incomincio, come in un mandala, a disegnare e scrivere nei quattro angoli del foglio i quattro diversi concetti, ossia le dimensioni della follia. Primo angolo: morbus sacer, cioè la visione per cui la follia è legata al divino e il folle può venir considerato persino la voce di Dio. Un dio folle. Un santo visto come pazzo, come uno che senza dubbio dovrebbe essere ricoverato in manicomio. E la religione dunque vista come qualcosa in forte contrasto con il mondo, perciò non si sa chi è 69 normale, chi impazzito e chi santo. I libri di Andreoli sono pieni di persone che soffrono a causa del divino che trovano o non trovano. Nei confronti della follia del mondo, i matti possono essere più sani e più felici. I monasteri sono visti come manicomi, i manicomi come monasteri, e Andreoli annota il suo desiderio: “Una tendenza a nascondermi, a chiudermi in un monastero della follia” (CS 25). Nel secondo angolo scrivo “il demone, il male”. La follia vista come una malattia che bisogna curare, esorcizzare, isolare. I folli che uccidono e che si uccidono. Il demone del sesso che si fa peccato. La donna come demone e il male per eccellenza. Mi vengono in mente le pagine in cui Andreoli parla di se stesso come di un ragazzo, nel quale si svegliano gli ormoni e si sente abitato da un demone. Le pagine dei suoi libri sono abitate da una folla immensa di persone sfigurate e terribili, che soffrono e fanno paura, che fanno soffrire: “Il manicomio è il luogo della paura, di una paura che può farsi incontenibile, moltiplicandosi fino a romperti e fino a distruggere la sensibilità per non percepirla più. Allora sei un uomo rotto, incapace di riconoscerti. Dentro la follia ho conosciuto la paura” (CS 19). Nel terzo angolo scrivo “macchina umana rotta” che bisogna “aggiustare”. Una visione riduttiva, indegna dell’uomo e della follia. Il sistema psichiatrico che si è sviluppato a partire dall’Ottocento e dentro cui sono state praticate cure terribili: l’elettroshock, le iniezioni di insulina, i corpi imbottiti di sostanze chimiche, un orrore, un crimine legalizzato a cui Andreoli ha partecipato, dal quale col tempo si è svegliato, contro cui poi ha combattuto. I romanzi e i racconti di Andreoli sono anche forme di denuncia contro questo crimine. Basta pensare alla raccolta di racconti Lo psichiatra era matto, che si apre con il capitolo “Il re dei matti”, ritratto spietato di un sistema e delle persone che ci lavoravano; o al romanzo Camice matto, in cui a un certo punto i ruoli tra lo psichiatra e i suoi pazienti si invertono. Nel quarto angolo scrivo: “una visione particolare del mondo”. In questa visione il matto è solo diverso, e poiché ogni uomo ha una visione del mondo diversa da quella dell’altro, ogni uomo è per certi 70 versi “un idiota”, cioè diverso dagli altri. Qui le frontiere tra la pazzia e la normalità incominciano a vacillare. La pazzia va contemplata e lo psichiatra diventa un testimone di questi “altri” modi di essere nel mondo e di vederlo. Andreoli, descrivendo “i suoi matti”, in fondo ci offre un affresco dell’umanità, e la sua opera stessa è una visione “particolare” o “diversa” della realtà, un’“alternativa” che però fa parte di ogni persona, perciò afferma: “Quella che noi consideriamo follia può essere vita per gli altri” (MC 238). Dire “la follia” equivale per Andreoli a dire “l’uomo folle”. Dire la “mattia” (termine raro nella lingua italiana ma pur esistente), significa per lui dire il matto, dire la pazzia vuol dire il pazzo. Del resto, parole di solito disprezzate o negative, per lui, al contrario, amate e stimate. In questo suo atteggiamento linguistico egli va oltre, o piuttosto, si contrappone ad alcune tendenze di qualche political correctness che per un falso pudore non vuole più sentire parlare di matti o di pazzi, o pur facendolo forse fa finta che il problema non esista. Eliminando le parole ci si illude che anche il problema sia scomparso. Andreoli invece con insistenza dice: matto, folle, pazzo. Per lui il matto è spesso più simpatico del cosiddetto normale. Non esita e non si vergogna di definirsi e chiamarsi, lui stesso, un matto, un folle, un pazzo. Nella sua prospettiva inversa spesso i cosiddetti normali, cominciando dai politici e dai potenti di questo mondo, sono spesso i veri folli, i più matti dei matti con un certificato medico. Giovane Andreoli, ribellandosi all’anonimità, insufficienza e stupidità delle cartelle cliniche, ha incominciato a descriverli. Egli è un ritrattista dei matti, grazie al quale le persone che erano condannate a essere dimenticate dentro il recinto della follia, sono diventate protagoniste dei suoi libri. Egli, con la sua scrittura, ha scolpito i loro volti sulla carta. Nei suoi libri si trova una vera galleria di ritratti di folli. Il primo di questi, mi si perdoni se lo dico, è Andreoli stesso. Sì, egli osa essere folle e osa dirlo. Tantissimi dei suoi romanzi e racconti possiedono uno sfondo autobiografico, sono piccole scene vissute 71 dall’autore, autoritratti, non sempre, ma spesso, folli. Non ci vuole molta fantasia per scoprire che lo psichiatra Vito Anderlini, il protagonista del romanzo Camice matto, o Angelo Spini della Fuga dal mondo, che sfiorano la follia, possiedono tantissimi tratti dell’autore di questi romanzi. Anche se la distinzione, come abbiamo già visto, è molto formale, passiamo alla saggistica. Indimenticabile rimane la scena de I miei matti, in cui Andreoli racconta di Arrigo, un matto del suo ospedale che si chiude nella stanza e cominci a spaccare tutto. Il personale impaurito non sa che fare. A quel punto entra in scena “il direttore”. Velocemente legge la cartella del malato, comanda di aprire la stanza del matto pericoloso, e mentre tutti si ritirano impauriti Andreoli entra nella stanza, chiude la porta… Ma lasciamo la parola allo scrittore perché ne vale la pena: “Ho solo il tempo di percepire il disastro. È tutto spaccato. E allora, imprevedibilmente, comincio a spaccare anch’io, prendo le cose che sono per terra e distruggo tutto, come fa lui. Per terra vedo il lavandino divelto e allora lo afferro e lo sbatto contro il muro. All’improvviso quel matto guarda me che spacco; io non smetto, continuo e, a un certo punto lui si ferma. Ansima, lo guardo con una sorta di complicità, lo prendo sottobraccio, usciamo e lo porto nel mio studio. Tremo, ho una paura terribile dopo quello che è successo; lo faccio sedere, gli chiedo se vuole un caffè e cominciamo a chiacchierare. (…) Da quel momento in poi, Arrigo, il matto spaccatutto, mi aspettava ogni mattina e, quando arrivavo, parlavamo un po’ ”(MM 122). Quando ho letto questa scena, dopo una lunga risata, mi sono detto: “Questo Andreoli è un vero matto”, e ovviamente mi sono chiesto: “ma è veramente così o quando scrive esagera?”. La risposta è arrivata presto. Dopo la pubblicazione di uno dei suoi libri in Polonia siamo andati insieme per presentarlo a Cracovia. E dopo gli incontri all’università e al dipartimento di psichiatria, ci siamo recati – perché è vicino e fa parte dei classico giro per turisti – al museo di Auschwitz. All’inizio andava tutto bene, poi a un certo punto il professore è scoppiato ed è come impazzito: si è staccato da noi ed è andato per 72 conto suo urlando e gesticolando. Non tento neanche di ripetere le sue parole; dico soltanto che per fortuna in giro non si trovava alcun malcapitato turista tedesco, perché Andreoli avrebbe potuto prenderlo a pugni. Nel capitolo seguente, dedicato alla violenza, vedremo perché e come sia possibile che il professore scoppi e poi trasformi questo in letteratura. Stupendo è il ritratto del pittore-matto Carlo Zinelli ne I giardini della miseria. Ma lo stesso si deve dire dei ritratti di Un secolo di follia: l’angosciato e impaurito Paolo; l’anoressica Chiara; gli schizofrenici Elena e Angelo; il maniacale Mario; Marta presa dalla voglia di morire; Giulio che, paralizzato dalla paura, non permetteva di essere toccato né voleva toccare niente. Raccolte analoghe, ancora più elaborate, si trovano nel Capire il dolore e ne I miei matti. In questo secondo libro è stupendamente descritto il ritratto di una ragazzo della Toscana. Doveva arrivare allo studio del professore insieme ai suoi genitori alle undici. La segretaria riferisce che stanno per arrivare, il professore aspetta, ma non arriva nessuno: “Così esco dallo studio e nel corridoio che lo collega alla sala dell’attesa vedo un ragazzo con due persone che lo stanno incitando. Il ragazzo sembra di piombo. Non appena mi vede con indosso il camice, si blocca, si irrigidisce ancora di più. Noto che alza una gamba per fare un piccolo passo, ma la tiene sospesa a mezz’aria, come afflitto dal dubbio se poggiare a terra quel piede o tirarlo indietro. Oscilla tra queste due soluzioni, non sa decidersi. Comprendo che queste persone stanno cercando di arrivare nel mio studio, ma che il tutto stava avvenendo a una velocità tale per cui dovrò attendere ancora un paio d’ore prima che lo raggiungono. Mi avvicino, saluto il giovane e gli porgo la mano. Lui, che ha il braccio lungo il corpo, lo solleva lentamente, come fosse pesantissimo. Lo osservo in questo spostamento millimetrico, e lui mi guarda. È come se a questa mano lui impartisse ordini contrapposti. Vai avanti, torna indietro… e la mano non arriva mai. Mi guarda e ha il volto della sofferenza. Una sofferenza cerea, immobile, fortissima. Mi 73 ricorda le movenze del teatro No, che ho visto tanti anni prima quando mi trovavo in Giappone. (…) Mi trovo davanti al caso di fobia e ossessività più grave che abbia mai visto (e a tutt’oggi continua ad esserlo). Ricordo che arrivammo nel mio studio e lui fu preso da una sensazione di dramma. Aveva paura di tutto, di respirare, di vivere, entrato in questa stanza si era come paralizzato. Aveva preso a muovere gli occhi lentamente, a esplorare centimetro per centimetro questo spazio ignoto, probabilmente ostile, che cercava di sopraffarlo. (…) Davanti a me avevo seduta la paura pietrificata. Ne fui affascinato. Rimasi immobile a pensare cosa può essere la paura. Avevamo gli occhi puntati l’uno sull’altro, e anch’io rimanevo di pietra. Volevo sentirlo parlare, e assistetti a una delle espressioni più estreme dell’ossessività. Era come se facesse delle prove, e anche in questo caso fosse annichilito dal gioco di comando opposti, dire o non dire. Muoveva le labbra con lentezza estenuante, ma da quella bocca non usciva una sola parola. (…) Cercavo di intuire che cosa volesse dirmi muovendo le labbra e a mia volta non osavo parlare, e mi chiedevo cosa pensasse, se pensasse che volessi dirgli qualcosa e non la dicevo, oppure che non desideravo dirgli nulla. Lui, a me, voleva forse dire cose che non aveva il coraggio di dirmi, ma era come se io le sentissi e gli rispondessi in silenzio. Fu una delle più ‘belle’ sedute a cui abbia partecipato” (MI 220-223). Finì alle quattro del pomeriggio. Ho riportato solo frammenti di un esempio, ma bisogna sottolineare che l’opera di Andreoli è come il taccuino di un pittore, pieno di ritratti, una volta in forma di schizzi, un’altra più elaborati, ma sempre belli e inquietanti. Questo scrittore ha trovato il linguaggio adatto e il modo eloquente per raccontarli. Nella sua opera la follia possiede volti concreti e indimenticabili. In ogni angolo della mia carta annoto dunque i nomi dei protagonisti della follia. Nonostante tutte queste storie particolari e tutti questi ritratti il protagonista assoluto dei libri di Andreoli è la follia stessa. Lo scrittore realizzando la sua opera, svelando pian piano i diversi volti 74 della follia, ne ha approfondito il significato, ha allargato la comprensione, ha educato i sentimenti, ha sensibilizzato i lettori. Ora la follia stessa è la protagonista della letteratura e il matto di carta finalmente esiste. Preso da un’altra angolatura Andreoli ha espresso il tema della follia nella sua vita e nel suo pensiero in Requiem, in cui l’anonimo padrone di casa, con i chiari tratti di Andreoli stesso, dice: “Non voleva più ritornare sul suo passato di psichiatra, ma non poteva dimenticare che proprio qui erano nate le sue idee forti, quelle che lo avevano caratterizzato e qui si era fermato a meditare sul senso della follia e persino su quello della follia dentro la civiltà del chiaro e distinto, e della democrazia. La follia come parte del senso dell’uomo, del suo mistero. E si era dedicato allo studio delle Pitie di Delfo e al loro potere dentro la società antica come voce degli dèi che gli uomini, attraverso i loro sacerdoti, dovevano interpretare. La follia come rappresentazione dell’uomo, raccontata con la voce degli dèi. E qui aveva capito il rispetto che le si doveva, perché l’uomo folle è semplicemente un uomo che indossa una maschera ancor più inquietante e ancora più difficile da interpretare. La follia come mistero dell’uomo, come voce degli dèi, come confronto per capire l’uomo, che pure sembra folle, mentre vaga per il mondo talora compiendo gesti che fanno male a un altro uomo. Il mistero della violenza, il mistero della morte e degli assassini” (R 77). Pensando al tema della follia in Andreoli mi viene il paragone con un certo tipo di icone. Nel centro è presentata la figura del santo e intorno, si potrebbe dire sulla cornice che nelle icone di solito manca, sono dipinte le scene della sua vita. O ancora: nel centro il Cristo o la Madonna, e intorno, sulla cornice, più piccole le figure dei santi. Così nell’Andreoli di carta, al centro della sua opera si può collocare la follia stessa, e intorno ad essa tantissimi ritratti di folli, matti e pazzi, da lui descritti. Alla fine collego tutte queste quattro visioni della follia, che ho distribuito agli angoli del mio mandala insieme ai ritratti dei matti, 75 perché ne sono solo le rappresentazioni simboliche, che si completano a vicenda assolutamente non esaurendo il quadro. Sul filo che collega queste quattro dimensioni scrivo: “la follia è una delle forme di dolore, la follia è supplizio, la follia è sofferenza”. 2. La violenza Il racconto Una lettera (RS 223-236) inizia in un modo del tutto innocente. Il lettore pensa che si abbia a che fare col ricordo di un amore giovanile del protagonista, Francesco De Maria, verso una certa Federica a cui scrive una lettera che si fa racconto. Siamo a Parigi dove Francesco sta passando qualche giorno di riposo con sua moglie, e il lettore ha come l’impressione che fra qualche istante verrà introdotto in qualche mistero, tra “imprinting” del primo e gli altri amori di Francesco, quello coniugale incluso, e che tutto finirà con un happy end. Ma presto, a causa di una stupidaggine, un pacco spedito da Parigi a Milano ma che non arriva al destinatario, l’atmosfera cambia e col tempo si fa sempre più assurda e nevrotica. Francesco diventa folle e violento – tutto “solo” per un pacco che andato perduto: “Nella mia testa c’era un intero bordello in agitazione, nel furore, e sentivo mia moglie dirmi cose che di fatto forse non mi diceva in quel momento, ma mi aveva detto in passato. Mi dava fastidio, la mia ragione sentenziava come un giudice togato senza capire nulla dei sentimenti e delle motivazioni anche violente. Parigi era diventata un inferno e io ero peggio di quando avevo lasciato Verona, di quando lanciavo piatti per aria. Quell’appartamento in rue du Pot de Fer era ormai un angusto scantinato, e a nulla valeva guardare fuori della finestra e accorgersi dei tetti di Parigi. La sentivo urlare anche quando probabilmente aveva smesso di farlo, ma io ho aperto la finestra e l’ho buttata di sotto” (RS 235). 76 Il racconto è un viaggio dalla normalità alla follia, dalla tenerezza alla violenza. Un’analisi di come un uomo del tutto normale impazzisce per nulla e in un attimo diventa un omicida. Alla fine del racconto si scopre che Francesco scrive a Federica dalla prigione di Parigi. Questo racconto potrebbe essere un soave avvio, per non spaventare un eventuale lettore, al tema della violenza negli scritti di Andreoli che abbondano in scene crudeli, macabre e brutali. I protagonisti dei suoi romanzi e racconti molto spesso soffrono o fanno soffrire, si uccidono o ammazzano gli altri. Per questo scrittore la violenza, soprattutto nelle forme più estreme, è una delle espressioni del dolore e dell’angoscia. Il tema della violenza, così diffuso nella sua narrativa, è trattato anche in alcuni suoi saggi. Nella narrativa abbiamo a che fare con immagini e sentimenti, nei saggi con ragionamenti e spiegazioni. I racconti e i romanzi di solito sono spietati, crudeli e finiscono in modo tragico, nella saggistica lo scrittore è più indulgente, analizza, cerca di capire, indica le vie d’uscita e adopera toni consolatori. Non mi inoltro nella vita di Andreoli per indagare quando, dove o perché è scattato in lui questo interesse per la violenza. Solo intuitivamente elenco la guerra, il manicomio, il lavoro nelle Corti d’Appello, l’osservazione attenta della vita sociale. Di sicuro abbiamo a che fare con una personalità particolarmente sensibile al tema della violenza, con un coraggio di guardare la realtà in faccia e con del talento letterario nel descrivere la violenza. La violenza. Dentro di noi attorno a noi (1993) è cronologicamente il primo saggio, e allo stesso tempo il più completo sul tema. È una rassegna di impressioni, osservazioni e riflessioni fatte nello stile, tipico di Andreoli, della “sinfonia fenomenologica”. L’autore parla delle diverse forme di violenza che nota intorno a sé e nella storia, aggiungendo anche un capitolo-confessione in cui tratta della violenza dentro di sé. Abbiamo qui a che fare principalmente con Andreoli fenomenologo o fotografo, che descrive il paesaggio 77 violento della vita umana. A questo saggio va aggiunto un altro, pubblicato tre anni dopo: Voglia di ammazzare. Analisi di un desiderio (1996), che collega la violenza alla morte. Anche in questo caso abbiamo a che fare con una ricca raccolta di materiale distribuito nei capitoli Come si uccide?; Perché si uccide?; Chi uccide? Il libro finisce con un “accordo positivo”, cioè col capitolo Non uccidere che propone alcune riflessioni sulla cultura non violenta, sulla personalità disarmata e su un encefalo per non uccidere. Ma le riflessioni più interessanti non sono tanto sulla violenza, ma sul perché egli ne scrive, e Andreoli lo spiega nel suo successivo libro, sempre sulla violenza e intitolato Delitti. Un grande psichiatra indaga su dieci storie di crimine e follia (2001). In questa opera, come riporta il sottotitolo, lo scrittore racconta proprio dieci grandi omicidi compiuti da Piero Maso, Nadia Frigerio, Marco Rancani, Elia Del Grande, Alessandro Montanaro, Luigi Chianti, Adriano Fabian e altri, che sconvolsero la società italiana negli ultimi decenni. Sono dieci piccoli storie di “serial killer”, descritti in modo sobrio e crudo, in cui il ruolo dell’investigatore non è svolto da un tenente o da un commissario, ma dallo stesso psichiatra e scrittore Andreoli. Le riflessioni più importanti, riguardanti il legame di questi crimini realmente accaduti con l’Andreoli di carta, cioè che spiegano in qualche modo il nesso tra la violenza e la sua scrittura, si trovano proprio in questo libro. All’origine c’è una misteriosa attrazione: “Sono affascinato dai casi estremi, da quelle vite al limite della possibilità. Storie che sembrano consumarsi senza mezzi termini, senza applicare mai quelle strategie di sopravvivenza che segnano compromessi con la vita e con la morte. I casi estremi sono quelli di chi è stanco di vivere e allora decide di ammazzarsi, o tenta di farlo. Ma è anche di chi decide di uccidere una persona vicina o, al contrario, anonima, espressione dell’esistenza senza volto” (D 9). Questa attrazione, che poi si esprime nella scrittura, principalmente è un legame inseparabile tra la vita e la morte. Scrutare il desiderio estremo della morte, di uccidere se stesso 78 o gli altri, vuol dire scrutare il desiderio della vita. D’altra parte, non si può scrutare la vita senza immergersi nella morte. Il fascino della violenza è in fin dei conti il fascino della vita-morte, che in Andreoli poi si fa carta, diventa letteratura, si traveste in racconto. Le storie di violenza sono affascinanti perché parlano di noi: “Certi omicidi si insinuano dentro la nostra testa fino a diventare ossessivi, colpiscono i sentimenti poiché paiono possibili all’esperienza tragica di ognuno. Sono omicidi che, almeno inconsapevolmente, parlano di noi, di noi come possibili bersagli e vittime” (D 7). Andreoli dunque segue le tracce di questo fascino, analizzando e poi descrivendo diverse storie di violenza estrema, ma lo fa non come un curioso, ma come un investigatore che vuole capire per fare poi capire: “Ogni delitto ha rappresentato per me un laboratorio, che racchiudeva un uomo che aveva ucciso e uno psichiatra che cercava di capire, di parlare, di ascoltare, senza limiti di tempo, senza fretta di giungere a una conclusione definitiva. Così sono entrato dentro la testa di chi ha ucciso e persino dentro a quel suo desiderio estremo: la voglia di ammazzare. Che tante volte c’è ma non si realizza per pure coincidenze. Che, pur se in angoli nascosti, si può trovare anche in ciascuno di noi” (D 11). A questo punto possiamo tornare al racconto Una lettera da cui ho iniziato questo capitolo. È facile immaginarmi Andreoli stesso che, durante le vacanze a Parigi, invia al suo editore milanese un pacco con un manoscritto (per esempio il saggio sulla violenza di cui qui si parla), e il manoscritto che va perduto. Intanto lo scrittore ha iniziato a scrivere un racconto in forma di lettera alla ragazza di cui si era innamorato in gioventù, e dunque va indagando sul passato, si immerge nei ricordi, medita sul mistero delle strade della vita che si incrociano e si separano, si diverte a descrivere Parigi e il suo gradevole soggiorno in questa città con la moglie. Ma presto viene a sapere che il pacco non è arrivato a Milano. Comincia a indagare e quasi immediatamente si trova in una situazione assurda: non si sa se 79 il pacco, e dunque il suo lavoro, sia andato perso o no, dove si trovi, se e come si possa ritrovarlo. Si arrabbia, diventa quasi folle. Il clima della vacanza è rovinato. La moglie cerca di parlargli, ma egli vede in lei solo un altro aspetto dell’assurdo. In un momento di rabbia sente in sé il desiderio di ammazzarla, di buttarla giù dalla finestra pur di non sentirla più parlare. In questo momento in Andreoli si attiva lo scrittore. Non ammazza (per fortuna) la moglie, ma sentendo dentro di sé questa momentanea, irrazionale e fortissima voglia di uccidere, si figura di averlo fatto e si mette a scrivere cambiando totalmente l’originario intento del suo racconto che finisce in un modo inaspettato e brusco: “L’ho ammazzata. Ho chiamato la polizia, mi sono venuti a prendere e, giunto al commissariato, ho raccontato al comandante della stazione, proprio in place Monge, per filo e per segno, la storia incominciata il 30 ottobre, quando mi sono recato a spedire la busta all’ufficio postale, in rue des Ecoles” (RS 235-237). Nella vita il filo tra desiderare di uccidere e farlo è sottile e Andreoli lo dimostra perfettamente in questo racconto. Scrivendo si sfoga, comprende se stesso e fa capire al lettore come funziona il meccanismo della violenza. È anche un ottimo esempio per meditare sulla relazione tra l’Andreoli di carne e l’Andreoli di carta. Poiché questo racconto, come quasi tutti, finisce in modo tragico, nella saggistica lo scrittore vuole essere anche un educatore, il costruttore di una possibile cultura non violenta; perciò, dopo aver “compreso” la violenza, cerca di spiegarla forse con la speranza che, facendolo, diminuisca: “L’omicidio insomma (…) è una questione sociale, un tema che deve uscire dall’ambito ristretto della giustizia e degli operatori che agiscono nei tribunali e per i tribunali. Deve diventare materia di cultura popolare: non certo finalizzata a roghi di piazza – la pena spetta solo alla giustizia, per quanto imprecisa possa essere –, ma tesa a uno sforzo serio e documentato per comprendere” (D 9). Ecco le ragioni per cui Andreoli descrive la violenza e scrive su di essa spesso in modo crudo e sconvolgente. 80 Un anno dopo il saggio Delitti esce Una piroga in cielo (2002), uno tra i romanzi meglio costruiti e in alcune sue pagine forse il più violento di Andreoli. È un intreccio di tre fili che nel racconto confluiscono intessendo una trama praticamente perfetta. Da una parte c’è la descrizione dei giorni sempre più cupi, tristi e tragici di Kouniò Baràm, un Dogon, che vive come un topo in una stanzetta del quartiere di Verona chiamato Veronetta, diventato un vero ghetto di extracomunitari in questa città del “ricco nord”. Questo Africano, come in un ultimo sogno, rievoca la propria storia che lo ha portato da Tirelli sulle alture del Mali, attraverso l’oceano, fino a Marsiglia, e poi a Milano e a Verona: questo è il secondo, ben sviluppato e molto pittoresco, filo del romanzo. Il terzo è invece l’analisi e la descrizione di alcuni “bravi ragazzi” della borghesia di Verona che, dopo il lavoro nelle istituzioni più prestigiose della città, cercano emozioni sempre più forti, con le loro moto e le teste piene di odio per “i negri” e di violenza; durante la notte arrivano, come dei draghi, nel ghetto di Veronetta, e massacrano letteralmente gli “sporchi negri”: aprono con le lame i ventri delle donne africane incinte, lasciano ai bambini neri giocattoli con esplosivo, mutilano con i coltelli le membra, ficcano con l’aiuto di martelli grandi chiodi nelle loro teste nere, e quindi ripartono sulle moto per riprendere la mattina seguente il loro lavoro, impeccabilmente vestiti in giacca e cravatta, con le loro orgogliose teste bianche impeccabilmente rasate e profumate. “Quella sera avevano rapito un donna. Era gravida. Gigantesca: obesa. Il sovrappeso, in Africa, è segno di salute e di rango elevato. (…) L’avevano condotta sulla collina in una casa disabitata, un vecchio maniero. Le radio gridavano riti satanici, disperati, ossessivi. Avevano acceso il fuoco. (…) Era nuda e crocifissa. Una pancia enorme e nera tremava al fuoco. Le moto riposavano in cortile. La donna si imponeva maestosa e terrificata. Tra le gambe una vagina enorme, rasata, impregnata di muco e di paura. Infilata dagli occhi di quei bianchi come antichi inquisitori. Una ragazza bianca si era avvicinata alla croce e con rabbia si era attaccata alle grandi labbra, 81 tirando tra urla di morte. Aveva infilato le dita, uncinava quella carne. Si era attaccata a quel luogo di piacere, ridotto a un calvario nero. (…) Si era illuminato un pube nero. In quell’apertura nuda penetrò una lama. Erano ubriachi di sangue” (PC 21-22). Risparmio al lettore le altre descrizioni presenti nel romanzo e lascio tutto senza commento, segnalando solo che un simile clima si respira anche nel libro Vestiti d’ignoto (2009) che, come tutta la narrativa di Andreoli, si ispira a fatti veramente accaduti. Le storie dei suoi libri sono, come dice lui stesso, “storie di vita. Mi auguro che il loro racconto aiuti a capire qualcosa di più dei protagonisti di cui si parla, per poter pensare al dolore delle famiglie delle vittime, per comprendere meglio l’umanità di ciascuno di noi” (D 19). 3. Dolore La follia e la violenza sono per Andreoli le forme o le maschere del dolore. Lo stesso vale per altri temi che mi accingo ora a sottolineare. Dolorose sono tutte le dimensioni dell’eros; dolorosa è la morte perché l’uomo ne ha paura; la fragilità, proprio perché consapevole del tessuto doloroso dell’esistenza è l’unica condizione degna dell’uomo. Per lo scrittore “il dolore non è intermittente ma costante, sia pure con variazioni di intensità” (CS 31). Bisogna però precisare che, quando questo scrittore parla del dolore, principalmente pensa al dolore esistenziale, che include il dolore fisico ma non si riduce ad esso. Del resto è proprio questo, il dolore esistenziale, ciò che lui conosce meglio, in cui si riconosce e di cui può parlare. Come scrive in qualche passo della sua opera, il dolore fisico in gran parte gli è stato risparmiato e, a parte qualche malattia piuttosto leggera, come il mal di denti o il fastidio della prostata, egli per tutta la vita riferisce di aver goduto di un’ottima salute. 82 Ma ciò non l’ha protetto dalla percezione dolorosa dell’esistenza, che infatti gli ha strappato frasi come: “Il dolore è la condizione umana, è inutile fingere di dimenticarsene chiamandolo con nomi diversi e con diagnosi di sapienti o di mostruosità. (…) Sono un uomo che conosce il dolore e si riconosce nel dolore” (GS 55). Dunque, nella sua opera il dolore, anche se non è il protagonista numero uno come la follia, di sicuro è l’orizzonte dominante che non tramonta mai e domina come un sole nero. Non è necessario passare in rassegna i romanzi di Andreoli per fornire gli argomenti a sostegno di questa tesi. Lascio anche da parte la sua summa, quasi un’enciclopedia, cioè un giro intorno a questo tema: Capire il dolore. Perché la sofferenza lasci spazio alla gioia (2003), in quanto è un libro che non richiede alcun commento o critica. È un testo che bisogna attraversare e che sul lettore esercita un effetto del tutto inesprimibile. L’ho tradotto, ne so quasi troppo, perciò mi è impossibile parlarne. Lo conservo in me come uno sfondo di ciò che qui vado scrivendo a proposito del dolore in Andreoli. Una piccola scena riportata nel diario rivela la sua sensibilità, il modo di percepire la sofferenza, le sue reazioni nel confronto, che spesso poi si fanno scrittura. Tutto inizia in un modo banale e innocente: “Camminavo per una via del centro, ieri sera: alle dieci. Non c’era nessuno e mi dirigevo a recuperare l’auto in un parcheggio. Una madre spinge la carrozzina, un uomo un po’ più avanti rincorre un bambino. Un ceffone nel silenzio produce pianto e disperazione. È come se avesse colpito me. Quella disperazione nel buio. Avrà avuto due anni e non sapeva far altro, piangendo, che chiamare la madre, quella stessa che non lo aveva difeso” (CS 255). E il commento dello scrittore: “Di fronte al dolore occorre provare dolore e un senso di rivolta quando magari lo si lega a un’ingiustizia o comunque a nulla di necessario. Il dramma del dolore non lo avverti solo quando appartiene a te, ma sempre. Ha una dimensione sovraindividuale e persino cosmica. Non accetto il dolore della violenza e cerco di fare 83 qualsiasi cosa, col rischio consapevole di sbagliare, per prevenirlo o eliminarlo. Un dolore che non può lasciare insensibili” (CS 255). Un ceffone e l’immediata percezione cosmica del dolore come se di esso fosse fatto il tessuto della realtà. Una percezione e una sensibilità presenti nell’umanità da sempre, forse in un modo più profondo, più sintetico e più elaborato sono state espresse dal buddhismo con la famosa frase “sarvam duhkham”, cioè “tutto è dolore”. E si conosce la risposta del principe Siddhartha che, paralizzato dalla sofferenza che sconvolge l’intera realtà, si mette a ricercare le cause di questa situazione e le vie per uscirne: trova la soluzione nella rinuncia a qualsiasi desiderio, incluso il desiderio del nirvana. Anche Andreoli, a modo suo, da occidentale, medico e psichiatra, ha cercato le cause della sofferenza pensando così di riuscire forse a fermarla. Ma sembra che il dolore sfugga alla legge “causa-effetto”, o almeno questo è il risultato delle ricerche di Andreoli, che a sessant’anni confessa: “Non ho più voglia di ricercare le cause del dolore, di trovarne la sorgente se mai esiste. Non ho più voglia di perdermi in ipotesi che mi allontanano dal dolore per difendermi nel sapere e nella speranza del sapere. Le lunghe corse dentro la prima infanzia, le immagini della poppata, di un capezzolo negato, di un biberon mostruoso che alimenta mentre la madre dà il proprio corpo in un letto mercenario. Sempre cercando dentro la storia dell’uomo e del singolo uomo si incontra il dolore e lo si può porre all’origine del dolore successivo e così si costruisce una corona di dolore, una serie infinita di misteri dolorosi, fatti di Getsemani e di Calvario. Sono preso dentro al dolore, lo partecipo, lo abbraccio e così mi sporco di dolore” (CS 255). Per questo considera il mondo come una “osteria della sofferenza”, e stando all’interno si avvia automaticamente in lui un meccanismo teologico: “Nella sofferenza io credo in Dio padre onnipotente e ignoro se a crearlo siano il mio bisogno e il mio dolore oppure esista come ente supremo e creatore” (CS 258). E in secondo luogo, proprio la presenza del dolore ha spinto 84 Andreoli ad opporsi al dolore, a combatterlo sia come medico che come scrittore. Si potrebbe dire che egli, avendo una profonda consapevolezza dell’onnipresenza del dolore, non si è lasciato paralizzare da questo “demone” e non ha sviluppato in se nessun atteggiamento masochista, anzi ha sottolineato chiaramente: “io non amo il dolore, né ho inteso farne un elogio. Mi manca ogni vena romantica per fingermi in questa parte. Credo che il dolore vada combattuto, anche se quello dell’esistere mi sembra ineliminabile. Voglio gridare (…) che il mondo deve allontanare il dolore inutile, quello che dipende da un modo di vita modificabile, da un potere che si fa violenza. Io aspiro a una gioia possibile, a una vita che abbia sapore quanto meno della serenità. Ho parlato del dolore per comprenderlo e persino per condividerlo, ma anche per vincerlo e desiderando che scompaia e lasci lo spazio alla gioia. Un progetto che sopprima almeno il dolore inutile e ridondante: penso alle guerre, all’odio, alla mancanza del perdono e alla voglia di vendetta. Penso alle ingiustizie. Un progetto di felicità, per un mondo che oggi mi appare privo di senso” (CD 307). Tra i testi di Andreoli esistono, difficili da catalogare per una mente rigida e abituata alle definizioni manualistiche dei generi letterari, forme che si potrebbero chiamare meditazioni, confessioni o soliloquia. Andreoli le inserisce tra i suoi racconti, ma esse rassomigliano di più alle meditazioni o agli aforismi dei filosofi. Alcune sono scritte in prima persona, altre in terza. Parlare in terza persona offre al pensiero il lusso della distanza e una certa anonimità, come se lo scrittore parlasse di qualcun altro, non di se stesso, e tuttavia si sa che è solo un gioco letterario. Nella raccolta Racconti perduti (2010) si trova un breve testo, una meditazione, intitolato Momenti di gioia (RP 672-676), che voglio usare in modo insolito trattando il tema del dolore sempre in Andreoli. Suppongo che in questo testo il nostro psichiatra, pur parlando di una terza persona, parli di se stesso. In altre parole si confessa. Allora entro in questo gioco e pongo al testo alcune domande. Come se mi sedessi al tavolo 85 con Andreoli stesso e parlassi con lui di qualcun altro. Ambedue facciamo finta che qui non parliamo di lui, e il lettore è invitato a partecipare a questo nostro dialogo. Le domande sono mie, ovviamente scritte apposta per avere quelle risposte che conoscevo prima di formularle. Sembra che si parli di felicità, ma nel fondo si pensa al suo opposto, cioè al dolore. Il dialogo svela i meccanismi della mente e delle emozioni di Andreoli: Mi scusi professore, ma ero distratto e non ho sentito bene ciò che mi stava dicendo di questo personaggio. Potrebbe gentilmente ripetermi le parole che ha appena a pronunciato a proposito di lui? “Non conosceva la gioia e sembrava a lui negata. Come se il dolore fosse garanzia di una vita spesa adeguatamente e nel miglior modo a lui possibile. Temeva più la gioia della sofferenza, più la felicità che l’insoddisfazione perenne”. Ma perché tutto ciò? Da dove gli derivava questo atteggiamento? “Come si fa a essere felici quando girandosi attorno si vedono ingiustizie che giungono fino ai bambini violentati per il piacere sessuale di qualche perverso? Come si fa a essere sereni quando il tuo vicino è affetto da una malattia terminale e attende solo di morire?” Dunque niente felicità? E anche se caso mai arrivasse, bisognerebbe negarla? “Secondo il suo teorema, la felicità era roba da incoscienti, da idioti, da stabilmente felici. Da maniacali che vivono nella onnipotenza e quindi senza limiti di nessun genere.” Allora la felicità sarebbe qualcosa di malato e di indegno dell’uomo. Ma tali teorie sembrerebbero fatte da un malato, nessuno vorrebbe sentirle! “Inutile dire che si trattava di una posizione poco popolare e piuttosto strana, perché di solito la gente ha momenti di gioia e gode, e altri di dolore che si spera passino il più presto possibile e si dà da fare attivamente per il loro superamento. Lui, se era preso da un momento di gioia, si preoccupava tanto da diventare infelice”. 86 Ma era un “uomo a rovescio”! E la sua era dunque una “vita a rovescio”! “La vita è un’esperienza infelice e, se vivi, devi vivere infelice, altrimenti meglio la morte”. Ma questo è perversione, il peggior caso di spiritualità malata di cui gli psicologi ormai ci hanno spiegato tutto. “In certe espressioni del cristianesimo pessimista è proprio così. La vita è una valle di lacrime in attesa della morte, della vita eterna che è gioia perpetua”. Ma mi diceva che egli non era un credente, un cristiano del catechismo e della messa domenicale. E nonostante ciò viveva in questo orizzonte di una trascendenza e di un paradiso? “Anche nel paradiso, lui avrebbe costituito una sezione del dolore”. Una teologia piuttosto particolare, se non proprio perversa. Meglio lasciarla da parte. Ma mi dica, lei che l’ha conosciuto bene; com’era nella vita quotidiana? “Aveva sempre un’aria preoccupata, ricercava il silenzio per potersi dedicare agli impegni con maggior concentrazione e quindi sbrigarsene più presto e certamente si trattava di cose che non corrispondevano ai suoi desideri. Scappava dai momenti di gioia e poi si lamentava per non avere mai nemmeno un attimo di serenità, per non poter pensare a nulla e questa forse era la gioia desiderata. Ma non pensare a nulla è roba da folli”. Anch’io l’ho conosciuto un po’ e non mi dava questa impressione, ma se è vero questo che lei dice, era una persona piuttosto particolare e un po’ fissata. “Aveva certamente una sensibilità esagerata e vedeva il nero anche dove non c’era, ma per lui poteva esserci o accadere, e allora tutto diventava enorme e poi pensava di peggio e il male è una fonte di tristezza, di mestizia”. 87 Forse qui si trovava la sorgente della sua energia, della sua creatività. Forse da qui partiva la spinta per tutti i suoi impegni, il bene che faceva da medico e poi questa passione per la scrittura? “Se qualcuno gli faceva notare quante cose avesse fatto, rispondeva di essersi accorto di aver percorso in modo agitato il sentiero sbagliato, rispetto a quello che doveva prendere”. E nonostante ciò, nonostante questa consapevolezza che comunque sbagliava, si dava da fare, era sempre puntuale, responsabile, perfetto. Devo dire che mi piaceva questo suo tratto, era bello collaborare con lui, almeno in quelle poche occasioni che ho avuto. Purtroppo, finito il lavoro, lui partiva, non voleva fermarsi troppo a discutere, a perdere tempo, a parlare di niente davanti ad un bicchiere di vino. “A parte che non perdeva tempo per parlare del più o del meno. Se incontrava qualcuno, subito definiva l’agenda, i punti prioritari e si lavorava correndo per lasciare qualche secondo alle famose occupazioni del piacere. Se incontrava una donna invitante, se la dava a gambe, per via della fretta. Si potrebbero moltiplicare i riferimenti a questo stile di vita, a una regola rigida per soffrire e tutta la sua esistenza era coerente all’imperativo del dolore”. Uno stile di vita proprio particolare. “Un caso davvero strano e patetico che illustra la sindrome della mancanza di gioia, l’impossibilità di godere”. E lei, professore, che è suo amico e per giunta anche psichiatra, non poteva offrirgli qualche spiegazione o mandarlo da qualche buon psicoterapeuta o guru della meditazione? A questa domanda il mio interlocutore non ha risposto, ha fatto solo cenno alla cameriera di portarci un altro bicchiere di vino. E ho pensato che per l’Andreoli di carta riguardo al dolore le cose stanno proprio così e la sua visione del dolore si collega bene a quello che ho sentito riguardo a lui stesso in questo colloquio. Riflettevo anche sull’Andreoli ancora più recente, che trova una certa serenità guardando le nuvole e perdendosi nella natura. Pensavo a lui che si 88 identifica con il pellegrino del suo romanzo omonimo e sembra di essere sempre di più affascinato del silenzio. 4. Eros Dai diversi frammenti strappati ai libri di Andreoli si potrebbe costruire una bella antologia di testi erotici. Il sesso ritorna spesso nelle sue pagine di narrativa, in un modo forte, ogni tanto ossessivo. C’è di tutto: scene di accoppiamento tenero e violento, orgasmo e impotenza, sesso orale e anale, etero e omosessuale, solitario e di gruppo, vissuto con gioia innocente e segnato dal senso di colpa che si fa pazzia, situazioni grottesche e comiche, cupe e tragiche, descritte una volta con delicatezza sublime, un’altra volta con una volgarità sconvolgente, belle e scandalose. Basti vedere con quale abilità lo scrittore dipinge una signora che a New York seduce Angelo Spini, il protagonista del romanzo Fuga dal mondo: “Donna Lodovica indossava un abito elegante, lungo che si apriva con grande spacco sulla gamba sinistra, imponendole un incedere maestoso. Ai piedi scarpe coi tacchi, che la elevavano ancor più e innalzavano il sedere come un grattacielo del desiderio. Un culo che sembrava confezionato per un regalo d’eccezione e doveva possedere una morbidezza e passione. Sulle spalle portava una stola di ermellino che staccava sul rosso infuocato dell’abito. Un capello ampio copriva la testa di fili rosa” (FM 49). In questo frammento, che è solo il preludio alle scene amorose descritte in seguito, c’è tutto l’Andreoli di carta erotico, fatto di sensibilità e sensualità, agilità linguistica capace di ottenere quell’effetto letterario che colpisce il lettore, umorismo e ironia che possono essere tenere per qualcuno e volgari per altri. Senza dubbio questo aspetto dello scrittore colpisce, seduce, inquieta e richiede un attimo di riflessione. 89 La prima osservazione che mi viene in mente è di tipo formale e riguarda il genere letterario. Nell’opera di Andreoli ci sono romanzi e racconti che si potrebbero definire “erotici”, ma non esiste, almeno finora, nessun libro della sua saggistica dedicato in modo esclusivo a questo tema. In altre parole esiste il sesso nella trasformazione artistica, ma non in quella informativa che tende all’oggettività e alle definizioni. È un po’ come nel caso del dolore, quando Andreoli descrive le forme, le esperienze e le espressioni della sofferenza, ma non vuole inoltrarsi in riflessioni filosofiche sul problema del male. Anche qui lo scrittore si comporta come un fenomenologo e non tenta di comporre una “metafisica del sesso”. Si lascia guidare dai sentimenti, dalle ossessioni, dalle connotazioni linguistiche, dalle fantasie e non razionalizza troppo, non scrive un manuale o una guida al “sesso felice”, come avrebbe potuto fare. In ogni caso il sesso nell’opera di Andreoli è segnato dalle contraddizioni. Riflettendo sulla vita dello scrittore, che poi in qualche modo si manifesta nei suoi scritti, si può ricostruire un percorso. Tutto inizia dalla sua educazione e crescita nella “Verona cattolica”. In questo mondo la sessualità era semplicemente repressa, vista e vissuta all’interno di un onnipresente e potente paradigma cattolico in cui un ruolo importante era giocato dal clero. L’eros era legato al theos dal filo chiamato clero, su cui era scritto hamartia, cioè peccato. Quando nel giovane Vittorino si risvegliarono gli ormoni e si fecero presenti le prime esperienze autoerotiche e poi eteroerotiche, suo padre gli consigliò la bicicletta, poi il problema passò al confessore. La masturbazione voleva dire demone, peccato, colpa, confessione. Il tema, probabilmente vissuto in un modo doloroso, ritorna spesso nella sua prosa. Ne I giardini della miseria abbiamo il giovane Carlo, il suo cane Boby e il parroco don Giulio che in qualche modo inculca nel ragazzo “il peccato della masturbazione”. La scena ha qualcosa di perverso, ma tipico di questo mondo e di questa mentalità. Carlo “aveva undici anni e don Giulio lo aveva tenuto a lungo nel confessionale. Lo aveva 90 rimproverato di non accostarsi a quel sacramento di penitenza con la dovuta umiltà. Affermare che non ‘aveva nulla da dire, che non aveva peccato’, dimostrava di essere il più grande dei peccatori. Solo Dio è senza peccato. Chi si ritiene privo di colpa era un superbo, un peccatore talmente incallito da non saper riconoscere più le azioni cattive da quelle buone. Una confessione drammatica perché Carlo non sapeva più cosa pensare di sé. La sua sensazione di non aver peccati era grave peccato, e dunque desiderò peccare. Bisognava peccare per non trovarsi nella medesima situazione d’accusa, la prossima domenica. Don Giulio insisteva su un peccato che nemmeno Boby riusciva a capire: la masturbazione” (GM 39). Così Carlo inizia dunque a masturbarsi, per potersi sentire peccatore, per ottenere la penitenza, per recitare le preghiere che lo legano al Dio di don Giulio: “Carlo era contento. Quella domenica era un peccatore che riconosceva di esserlo, che si pentiva di esserlo, che chiedeva aiuto per non esserlo più. Non era superbo. Era un grande masturbatore” (GM 40). Ma questo legame tra la masturbazione, vista come una grande offesa che crocifigge Dio, la confessione e le preghiere penitenziali da recitare, lo portano allo scrupolo e sulla soglia della pazzia. Poi nella vita di Andreoli arrivano gli studi di medicina in cui la “fisiologia mistica” è sostituita dalla “anatomia fisica”, e la psichiatria possiede l’inevitabile impronta freudiana centrata sulla misteriosa libido, il lavoro nei manicomi percepisce la realtà sessuale da un’altra angolatura e nella società sta avvenendo la rivoluzione sessuale che svela i comportamenti e il linguaggio. Così lo scrittore si sfoga con la prosa. Il culmine di questa creatività lo raggiunge secondo me nel romanzo Yono-Cho (1994), che dodici anni più tardi l’attore Renato Pozzetto porterà sul grande schermo col titolo Un amore a misura. Ma il film è una interpretazione comica della tragedia cupa ed estremamente grottesca di Andreoli. Alcune scene del romanzo, soprattutto quelle erotiche, non sono riproducibili nel cinema e le riprese sono solo una pallida eco del linguaggio dello scrittore. 91 Il romanzo che potrebbe essere catalogato come “erotic science fiction” è la storia dell’ingegnere Corrado Olmi che, chiuso nella sua solitudine esistenziale, si fa costruire dalla ditta giapponese Yono-Cho una bambola erotica capace, secondo i produttori, di soddisfare tutte le sue esigenze sessuali e psicologiche. All’inizio va tutto alla grande: il sesso è stupendo, la compagnia della bambola che lo aspetta sempre a casa, pronta a soddisfare tutte le sue richiese, è gratificante, le apparizioni nella società con questa sexy bomba (parafrasando la canzonetta) riempiono l’ingegnere Olmi di orgoglio. Ma presto, dai più oscuri meandri della sua mente, escono a galla sentimenti di gelosia. Olmi impazzisce, diventa violento e uccide il suo amore fatto a sua misura. Nel fondo questo romanzo è una triste parabola sulla solitudine, da cui si cerca di uscire attraverso la porta delle fantasie erotiche. Il sesso nei testi di Andreoli non è mai sereno, ma piuttosto drammatico e problematico. O porta alla pazzia, come nel caso delle monache isteriche e sessualmente non soddisfatte dei suoi racconti, o è il frutto della pazzia che si fa violenza, come nel caso di Corrado Olmi in Yono-Cho. Ogni tanto si colora di vuoto, come nel racconto L’impotente (RS 162-169), in cui il protagonista, un uomo di media età, non riesce a portare al compimento il rapporto sessuale con una vedova perché diventa impotente ad ogni minimo accenno della morte. Ecco l’ultimo frammento del racconto: “Lui era impazzito e divorava la preda, la stordiva con le mani tentacolari, la stringeva e ormai non aveva nulla di segreto. Una lotta senza nemico, con una vedova che sapeva bene cosa fare di un pensionato, basterebbe dire dove aveva infilato il suo indice che possedeva, tra l’altro, un’unghia che cresceva secundum naturam. Era una lotta greco-romana geriatrica. Lui era agitato e lei veniva e veniva e ringraziava il marito e, non sapendo distinguere pensiero e azione, recitò a voce alta un Requiem. Lui capì. L’affare era caduto anche questa volta e solo la rabbia si fece amore. Lei lo guardava con un sorriso che sapeva di prostituzione e di morte. Lui cercava di ricordare il nome dell’andrologo che gli aveva 92 suggerito il pensionato amico del ministero. Era forse un disturbo dell’età, una sorta di presbiopia che non prende solo gli occhi anzi, gli disse quello in una rapida consultazione e aggiunse: i primi a soffrirne sono gli uccelli. Le pauvre oiseau. L’oiseau tombé. L’oiseau tombant” (RS 168-169). La genialità letteraria di questo racconto sta tutta nel suo tono comico e grottesco, che però nel fondo è triste e tragico. Forse l’unica scena erotica serena e descritta con delicatezza da Andreoli si trova in Una piroga in cielo, quando una sera Kuniò Balàm vede, come in visione, una bellissima ragazza sulla riva del lago di un paradiso dell’Africa. Il mondo si ferma, tutto sparisce, sono solo loro: “Quando la vide, Kuniò Baràm non riuscì più a notare nessuna barca, nessun pescatore: erano spariti anche i pesci. Vedeva di lato quella silhouette: elegante, bellissima, nera, stupendamente nera. Il seno precipitava nell’acqua, trattenuto dall’abito che lo rendeva ancora più turgido e desiderabile. Di tanto in tanto alzava il capo e lo roteava veloce, sprizzando intorno zampilli come una fontana animata da una Madonna nera. Poi di nuovo si piegava, per immergersi ancora. La veste bagnata aderiva al corpo seguendo linee che sapevano di verginità. Incantato come da una visione sacra, Kuniò Baràm sentì il desiderio crescente sotto la tunica con bisogno di emergere, di crearsi un varco” (PC 45). Poi i due si vedono: “Lo guardò immobile: sembrava un’icona della bellezza. Sorrise, sorpresa. Anche lui la guardava. E non pensava. Si alzò, sistemò la tunica e a piccoli passi si mosse verso di lei. Quella visione intanto era uscita dall’acqua con la veste attaccata alla pelle. Le scendeva fino ai piedi, nascondendo una meraviglia, esaltando quel corpo di dea. Si fermò di fronte a lui, con le mani tra i capelli, per ordinarli. Kuniò Baràm non aveva nulla da dire. Forse nemmeno parlava il suo stesso linguaggio. Non poteva stare così, immobile e muto. Alzò la tunica e si mostrò, con l’imbarazzo di un bambino, animato da una forza titanica. Lei impietrì: le mani sui capelli si fermarono. Si guardarono in silenzio. Anche lei aveva qualcosa da mostrare. Sollevò la gonna e gli offrì un ventre turgido, bagnato d’acqua di lago. Mentre continuavano a fissarsi, si 93 avvicinarono e si unirono in una danza sublime, che finì in un profondo lamento. Il sole cadeva a picco dietro l’orizzonte. La guardò, mentre si allontanava nell’indefinito” (PC 44). Un incanto, naturalezza stupenda, purezza assoluta che, anche se durano solo un attimo e possiedono il sapore di un sogno sfuggevole, hanno una dimensione sacra senza ombra. Tuttavia anche qui rimarrà qualcosa di incompiuto e sospeso…, ma mi fermo qui, lasciando ai lettori scoprire il segreto finale. Con la scena d’amore segnata da una tenerezza infinita e da un tragico unico, che vanno altre ogni “legge”, ma trovano la comprensione nello spazio dell’amore, finisce il romanzo I giardini di miseria. Carlo, il pittore-matto, è ormai alla fine del suo percorso. Perso, esausto e stanco della vita, abita nella povera casa di sua sorella Lucia, che fa la prostituta. Tra fratello e sorella nasce un tenero amore che nella loro miseria esistenziale porta un raggio di felicità. Ma la fine è ormai vicina. Quando una mattina Lucia torna a casa da lavoro, trova Carlo a letto, in un bagno di sangue che esce dalla bocca. Senza capire percepisce tutto e sa che le è rimasto da compiere l’ultimo rito, un congedo che solo lei poteva fare: “Toccò il letto e iniziò lento un cammino di esplorazione pieno di incognita. Una ricerca sulla vita e sulla morte. Una spedizione sull’esistenza, sul suo significato. Ogni tanto immobilizzava la mano, quando i pensieri chiedevano che cosa sarebbe stata la vita se sul letto vi fosse la morte. Il primo incontro fu con la gamba. Immobile, d’ossa. Risalì ancora più lenta. Raggiunse la coscia. Ritrovò il pene che sentì già sepolto. Avvertiva rumoroso il proprio respiro. I pensieri si erano anestetizzati su quel ritmo monotono del suo esistere. Cercava il cuore di Carlo. La sua mano doveva essere vicina. Avrebbe dovuto sentirlo. Si mosse di paura, d’un tratto, rapidamente e confusamente. Forse aveva cessato di battere. I pensieri si animavano di pianto. Carlo ruppe il silenzio con un colpo di tosse che portò insieme vita e morte. Con la forza di una cannone insanguinò l’uscio e bagnò la mano di Lucia. Si alzò confusa, accese la luce e vide un nuovo campo di battaglia. Carlo 94 respirava nel sangue. Fu presa d’angoscia, di terrore, di morte. Lucia piangeva, poi d’un tratto rideva. Poi gridava. Si spogliò. Portò il suo seno sul viso di Carlo in attesa che lo succhiasse. Era tutto quello che aveva. Era la sua vita. Si mescolò nel sangue aderendo al corpo freddo di Carlo. Fu presa da grande pace, d’un tratto, vedeva attorno a sé un giardino verde con alti abeti, solenni e giganteschi. Passeri cantavano il Dies irae e Vergini spargevano profumi e doni sul suo corpo e su quello di Carlo. Un cimitero dell’amore. Quando si riaprì l’uscio, Carlo e Lucia erano abbracciati nel sangue. Lucia sorrise. Carlo guardava profondo nel nulla, con gli occhi in cielo, come i caduti della valle” (GM 144). La dimensione sacra del sesso appare soprattutto nei “romanzi teologici” di Andreoli, come Il reverendo e Il cardinale, anche se in questi testi la linea d’ombra che si stende sulla sessualità è più fitta, perché segnata dalla trasgressione dovuta alla mentalità moralistica propria del cattolicesimo. In ambedue i casi abbiamo a che fare con esperienze sessuali intense, fatte da monaci, preti, monache e suore, che viste in una certa prospettiva hanno qualcosa di scandaloso. In un attimo l’arciprete, il protagonista che poi diventerà cardinale e papa, si unisce in una chiesa con suor Clotilde. Sotto la penna di Andreoli tutto diventa molto colorito. In queste pagine c’è qualcosa di comico e scandaloso, ma non mancano anche sublimi tocchi di delicatezza, e lo scrittore individua la strada, piuttosto rara, che unisce eros e theos: “Gli abiti non avevano più nessuna grazia, sembravano ostacolare una cerimonia che sapeva di cielo e allora lui tolse quelli di lei e li baciò, lei lo spogliò e li mise in ordine, piegati come faceva sempre in sagrestia per gli indumenti sacri, quelli della celebrazione dell’Eucarestia. E così rivestiti solo di buio, lei lo prese per mano e lo portò davanti all’altare della Madonna. E qui si persero ancora tra preghiere e piacere sotto gli occhi della Vergine che sorrideva come sempre e distribuiva grazie copiose, come solo lei sapeva fare. Il corpo bianco di Clotilde e la sua bellezza avevano reso chiaro il buio e così sembrava uno spirito che vagava sulla terra. Lui era magro come 95 un Cristo in croce, ma non altrettanto disperato perché non chiamava il padre, ma voleva solo restare per sempre in quel paradiso. Entrò in quella porta segreta e vi trovò fede e amore, sentì più vicino il cielo, e per la prima volta capì la grandezza della creazione e delle creature. Capì che un uomo solo è incompleto e che la volontà di Dio è che l’uomo si unisca alla donna e insieme riconoscano l’Amore che è ancora più grande se nasce sull’amore umano. Niente era più sublime di Clotilde e più sacro di quella preghiera ora fatta movimento, di contorsioni e di lamenti che sapevano di bambino e forse di Genesi” (C 86-87). Nel romanzo la descrizione va avanti, ma basta questo per rendersi conto dello stile e del pensiero che sta dietro. Nell’intero romanzo, piuttosto tragico, che parla di un ecclesiastico che fa una carriera strepitosa fino al papato, ma è sprovvisto da sempre e per sempre della fede in Dio, questo atto trasgressivo è praticamente l’unico momento nella sua vita in cui sperimenta qualcosa di divino. E il mio pensiero va ad Andreoli stesso e al suo lungo viaggio, dal ragazzo, pieno di senso di colpa nei confronti del sesso, allo scrittore ormai anziano che riesce a pensare e a descrivere la sessualità in cui eros e theos non si escludono né si condannano a vicenda, anche se per alcuni il suo testo può suonare blasfemo e sacrilego. Andreoli nella sua prosa esplora il legame, classico per la psicologia, tra eros e thanatos, come si è visto nel frammento de I giadini della miseria. Nel romanzo Il cardinale invece l’arciprete e suor Clotilde raggiungono entrambi l’orgasmo estatico nella chiesa trasformatasi non solo in paradiso, ma anche in una tomba: “Ritornò il silenzio, i corpi erano tramortiti da una luce celeste troppo intensa, una illuminazione. Giacevano scomposti a terra, nudi, come a significare che adesso i segreti della terra erano svelati e si poteva persino morire. Forse si erano addormentati entrambi, forse erano in estasi uniti a Dio” (C 87). Questo legame tra eros e morte, in un modo tragico, è presente nel romanzo Silenzi, dove tutto inizia nei paraggi del cimitero e tutto, dopo essersi compiuto il suo funesto periplo, 96 finisce lì. La giovane Marianna conosce l’amore di Dario all’ombra del cimitero; poi, incinta e infelice, lo cerca passeggiando tra le tombe, per morire alla fine insieme con il bambino appena partorito sotto il muro del cimitero. Il simbolismo e il legame tra eros e thanatos in questo testo sono tremendi, soprattutto se si prende in considerazione che tutto parla dell’esperienza di una ragazza che praticamente nella vita non ha avuto tempo per vivere. Una cosa simile, ma con una tonalità diversa perché molto allegorica, è presente nel fantasioso e gotico romanzo Dialoghi nel cimitero di Durness (2006) che racconta la relazione tra Mary e Alastair. Mentre per decenni i temi sessuali e le scene erotiche sono stati presenti praticamente “di regola” o in un modo quasi ossessivo nei romanzi e racconti di Andreoli, in testi ancora più recenti, come Il corruttore (2009) o Un pellegrino (2010), questa tematica si fa lontana o quasi assente. Credo che alcune pagine di questo autore si iscriveranno nella prosa erotica, e memorabile rimarrà anche il triplice legame eros – theos – thanatos che modifica e arricchisce il freudiano e classico binomio eros-thanatos. 5. La morte L’Andreoli di carta è pieno di morte e la morte nei suoi testi è onnipresente. I temi e i protagonisti escono dai suoi libri e, seguendo il ritmo impazzito delle sue parole, formano nell’immaginazione del lettore una danza macabra da cui non si riesce a fuggire, a cui anzi si è costretti a partecipare. La cosa migliore allora è fermarsi per un momento, chiudere gli occhi e lasciare che questo corteo funebre ci passi davanti, semplicemente osservandolo. Ecco Andreoli trentenne nell’obitorio accanto al cadavere del padre. Preso dalla sua carriera scientifica è arrivato troppo tardi per salutarlo da vivo ed ora con il filo della colpa crea con suo padre un 97 legame. La morte ne fa parte. Andreoli, che all’inizio di ogni anno, in una processione rituale, visita le tombe dei suoi vicini. Andreoli, che in giro nel mondo, ovunque si trovi, visita i cimiteri. Se si interessa a qualche personaggio del passato fa un pellegrinaggio alla sua tomba. Questo legame con i morti, così fondamentale per lo scrittore veronese, fa sì che egli da vivo si senta morto: “Al cimitero vado spesso, perché ormai vivo di morte e di morti. I vivi mi appaiono sempre più insopportabili ai morti, anche se fanno rumore e bestemmiano. Amo le ossa di mio padre, di mia sorella, e voglio anch’io una tomba, magari per venirmi a trovare e sostare davanti al mio loculo, dove non verrà nessuno poiché la morte in città si dice porti scalogna e allora è meglio andare al bar e non al cimitero. (…) Giro per i viali del cimitero, tristi e vuoti, e leggo nomi e date: il giorno della nascita al mondo e il giorno della morte. E faccio la differenza e trovo che sarei già dovuto crepare, e mi viene paura di non uscire più…” (CD 271). Ma non importa il dato biografico. Nell’Andreoli di carta la morte è una presenza, un vero e proprio protagonista. Nel volumetto Versi sotto la terra (2004) le poesie non sono nient’altro che “urla di morte” (VT 149). La morte è la sua ossessione che si fa passione. In uno dei primi poemi annuncia: “La morte/ mi spaventa/ misteriosa/ La vita/ mi tormenta/ inutile” (VT 33). In una delle composizioni finali confessa: “Vivo per una lapide/ e forse sono morto per sempre/ Mi seppellirò/ dentro i miei libri/ che già bruciano/ per riscaldare la miseria” (VT 201). In duecento pagine di versi poetici, chiamati da lui “giochi delle parole”, la parola “morte” è presente quasi in ogni pagina, e senza dubbio è la più frequente in questa rassegna poetica. Tutte le altre parole di questi versi e l’intera struttura del volume gira intorno alla morte. Tra i diversi suoi pezzi per il teatro subito si nota Voglia di morire. Atto unico con tre scene (PP 41-58), in cui il professore Giulio Anderlini si rifiuta di partecipare al teatro della vita, si stende sul letto e aspetta la morte. I tre atti di El funeral de menega (PP 375-430) o il 98 monologo con un’unica scena El morto (PP 521-554) sono variazioni teatrali, impazzite, sulla morte. La rassegna Racconti segreti (2005) si apre con il commovente e tenero Rio de la Vasta (RS 7-17), che narra l’ultima passeggiata solitaria di un vecchio che gira tra palazzi, ponti, vicoli e turisti di Venezia, per morire poi appoggiato a una colonna in piazza San Marco con negli occhi l’impronta della sagoma della basilica, stagliata sul cielo scuro. Una descrizione del morire unica, piena di tenerezza e serenità che sfiorando la felicità nel lettore genera la voglia di morire, se morire così sia veramente possibile: “Vedeva ciò che aveva guardato infinite volte, ma mai percepito con tanta bellezza e magnificenza. Come se si trovasse in paradiso. Là in fondo il campanile rosso e sullo sfondo il bianco della Basilica. Una macchia ricamata per un presepio della morte, per un viaggio nella fantasia e nel sogno. (…) Piangeva un po’ dal dolore ma soprattutto dalla commozione. Era felice, felice di essere parte di quell’insieme. In quella piazza che lo accoglieva con la generosità con cui aveva dato il benvenuto ai piccioni e sorrideva a quanti giungevano da ogni parte del mondo per toccare con mano il miracolo, la sua materializzazione. (…) Gli dispiaceva perché c’erano tante cose belle. Una terra stupenda che potrebbe essere scaldata dall’amore e che invece spesso è sommersa di odio. Ma ora vedeva tutto bello. Riuscì ad abbassare gli occhi e ritrovò i piccioni, parlavano con lui. Li aveva proprio davanti e non cercavano cibo, avevano capito che lui era solo e che avrebbe avuto bisogno. Bisogno di carezza, di una parola, di uno sguardo. Di qualcuno che lo salutasse dicendo che era stato bello incontrarlo. Pronunciare questa bugia necessaria. Era felice anche perché a piazza San Marco non si può portare odio, non si possono evocare ricordi di dolore. (…) Respirava a fatica ma non se ne accorgeva. Sentiva il suo corpo pesare, come se nessuno più volesse sostenerlo, nemmeno lui. 99 Percepiva una musica lieve avvolgerlo. Una di quelle composizioni del barocco veneziano, forse Vivaldi, ancora più leggera e festosa. Fatta di violini di paradiso e di viole anch’esse senza un corpo. Strumenti senza strumento. I suoi pensieri del resto ormai spenti si erano fatti sinfonia. La piazza divenne ancora più grande, mentre egli si sentiva ancora più piccolo, talmente piccolo da ricordare un granello di polvere. Una polvere felice. Tirò le labbra per disegnare un sorriso. Voleva ringraziare tutti, anche chi l’aveva abbandonato. Dire grazie perché aveva imparato anche dalla solitudine. Era tempo di andare via. Sapeva di fermarsi non lontano per poter rivedere ancora piazza San Marco. Magari senza quel dolore al petto e con un angioletto, o almeno con il papà che certo lo aspettava. Chissà, lo avrebbe potuto invitare a sedersi insieme a lui, appoggiato a quella colonna, dove adesso era ancora più solo perché aveva perduto anche la memoria. Solo, con stampata negli occhi quella immagine, ora eterna: il campanile rosso, la Basilica bianca ricamata e il nero del grande pavimento. Sopra il cielo. Lui a Venezia non c’era più” (RS 15-17) La rassegna di questi racconti si chiude invece con Il rumore del nulla (RS 548-552), un anti-inno cosmico in cui il mare, la terra, il cielo e l’aria sono avvolti nella morte, emergono dal nulla e nel nulla spariscono: “Il vento si inquieta e finisce e così nasce la morte. Nasce la morte. La morte viene dal nulla e si fa nulla nelle tenebre. Un filo di ragno, il rumore del vento, la follia del nulla, la danza del serpente e tutto si fa nulla e il nulla va nel vuoto e precipita per 100 sempre morto. E resterà per sempre, per sempre, il nulla, per sempre il buio nel mondo avvolto di silenzio” (RS 459). Si ha l’impressione di assistere al rito di un sciamano, che in trans recita un inno fatto di mistero e che tocca l’enigma della vita e della morte, dell’esistere e del nulla. In questo Andreoli mi pare proprio un sciamano della parola e del mistero. Ma poi il suo scrivere sulla morte si fa concreto, umano, corporeo, storico. I protagonisti dei suoi romanzi muoiono, uccidono, si uccidono e sono uccisi o vivono essendo morti. La già menzionata Marianna, appena quindicenne protagonista di Silenzi (2007), incinta per caso e inconsapevole della sua gravidanza, pellegrina in diversi luoghi di Verona solo per morire insieme con il suo bambino proprio lì dove, in un momento di amore, era stata fecondata: “Una madre morta di un bambino che aveva vissuto giusto il tempo per morire. Morire insieme al muro di cinta del cimitero monumentale. Un luogo che sapeva ancora d’amore” (S 133-134). L’ingegnere Corrado Olmi del romanzo Yono-Cho (1994) uccide Angela, l’amore dei suoi desideri. Il professore Antonio Antiguo de Il corruttore (2009), non sapendo come gestire il conflitto con il prepotente Angelo Ratti, disgustato dalla stupidità e dall’ingiustizia di questo mondo, si impicca. Con il suicidio del protagonista finiscono anche Sogni d’eremita (1988) e Il cardinale (2009). Angelo Spini di Fuga dal mondo (2003) per tutta la vita fugge dalla vita stessa, dalla morte, dal mondo, da Dio, insomma vive morto, spaventato e affascinato dall’onnipresente o onnipotente Nulla. Il romanzo si conclude con queste frasi: “La morte della coscienza non è morte. La morte non è mai nata. E ora taccio: il silenzio si addice alla morte. Se ne andò come un morto, ma era vivo. Non se ne accorse nessuno, perché ad ascoltarlo non c’era proprio nessuno”. E Andreoli come scrittore e studioso alla fine ironicamente aggiunge una nota a piè di pagina: “Assomiglia a tanti libri scritti per essere letti, ma che nessuno nemmeno apre. Come non fossero stati scritti, nati morti, ma vivi” (FM 248). 101 Abbiamo aperto e percorso questi libri molto vivaci e movimentati di Andreoli per scoprire che sono pieni di morte, un vero e proprio corteo di morti, una danza macabra che impressiona, un cimitero di carta, che sconvolge il lettore. Non cerco le ragioni e non affretto le conclusioni. Prendo invece in mano, per guardarlo più attentamente, il romanzo E la luna darà ancora luce (1997), in cui il tema della morte, grazie a una raffinata struttura, un’operazione retorica notevole e una visione artistica, è trattato con una distanza che a sua volta si presta ad una lettura distaccata. Questo breve romanzo è una parabola in cui si intrecciano orrore con umor nero, l’assurdo con il grottesco. Mi piacerebbe vedere un cortometraggio basato su questo testo, che dovrebbe essere girato in bianco e nero, con un pianoforte mal accordato in sottofondo e le piccole figure che si muovono in modo accelerato come nei film dei primi decenni del ventesimo secolo. All’inizio il lettore ha l’impressione che l’azione del romanzo si svolga in una casa per anziani o malati terminali. C’è un certo Alessandro che chiede al frate carmelitano Antonio “perché si deve morire”. Quando il moribondo muore il religioso passa ad un altro letto. Tutto sembra abbastanza normale: i vecchi capannoni della ormai non più esistente ditta Rovatti Spa (questa azienda che produce pompe si trova tuttora a Reggio tra Mantova e Modena) sono stati trasformati in una clinica, la casa del custode è diventato un convento nel cui complesso si trova anche una chiesa. Tutto è pulito e ben organizzato. Ma quando l’autore comincia a parlare di cifre: 4 capannoni, 400 letti in ognuno, 1600 moribondi, circa 50 morti al giorno, cioè 19.000 morti all’anno, il clima cambia e il lettore rimane sconvolto. Ha a che fare con un moderno campo di concentramento o un luogo isolato per le persone infette da qualche pestilenza? Il richiamo al romanzo La peste di Albert Camus è spontaneo. In questo momento diventa chiaro che si ha a che fare con una parabola o una fantasiosa parodia, soprattutto perché Andreoli stesso svela le carte informando che si tratta della Citta dei morti. Il lettore lentamente 102 riesce a immaginarsi questa città come durante un giro turistico o mentre emerge gradualmente dalla nebbia. Si apprende che in questa città c’è la giostra da cui “Talvolta qualcuno non scendeva: durante la corsa era morto e così avrebbe girato per sempre” (LL 36). Con ciò tutto diventa prima ridicolo e surreale, e poi orrendo. Si vede dunque una piazza del mercato in cui i moribondi possono svendere i loro vestiti, i loro ricordi e persino le dentiere. C’è una palestra per poter morire in buona salute e il parrucchiere per farsi belli per il proprio funerale. A tale proposito in questa città lavora la graziosa Mery che vende le bare e i vestiti per l’ultimo viaggio, e c’è Richy che organizza, secondo i desideri e le possibilità economiche dei clienti, i funerali. Nella chiesa tiene le sue assurde prediche Monsignor Terenzi Albino e nel cimitero lavorano due felici becchini gay, Giacomo e Roberto, che durante il lavoro, ogni tanto, fanno l’amore tra le tombe. I moribondi sono consolati dalla bella e graziosa Suor Amelia, e su tutto veglia l’Amministratore Tony. La Citta dei morti, cosi dettagliatamente descritta, si trova al di là della Città dei vivi di cui però non si sa niente oltre il fatto che da lì provengono gli abitanti di questa prima città, che qui ogni giorno sono portati con il pullman guidato dal gentile e sorridente autista Albino. In questo clima surreale tengono i loro discorsi e dialoghi sulla morte diversi protagonisti. Oltre a quelli religiosi di Frate Antonio e Monsignor Albino, c’è quello del professore Agostino Pontirolli che scientificamente spiega: “La morte fa parte dell’esistenza”, ognuno “Muore perché è uomo, non perché è malato” (LL 22), e “La morte non è un male, ma un evento dell’esistenza” (LL 23). C’è il moribondo Francesco che di fronte alla morte ha un’irresistibile voglia di bestemmiare Dio, e Andreoli con uno stile suo tipico, racconta che dalla sua bocca “le bestemmie uscivano come un lamento e con il ritmo di un salmodiare benedettino” (LL 14). C’è il giovane Corrado che non vuole morire, non desidera un paradiso al di là del paradiso di questa terra, e c’è anche la ricca contessa che spera proprio di andare in cielo immaginando che là troverà un casinò bello e grande. Non 103 manca ovviamente anche il filosofo scettico di nome Arturo, che dubita di tutto. Ognuno di questi personaggi ha il suo modo di vedere, di pensare e di vivere la morte, e i loro discorsi o dialoghi sono piccoli trattati sul tema della morte. Alla fine il grottesco e il surreale mutano in orrore. Primo, perché si impara che la Città dei morti è circondata da un muro molto alto, dietro il quale scorre un canale, e dunque da essa non si può uscire per tornare nella Città dei vivi. Secondo, perché in un edificio abbandonato, collocato alla periferia della Città dei morti, si celebrano riti orgiastici e satanici. L’autore non spiega il perché di tutto questo, semplicemente offre un’immagine. L’ultimo colpo di scena è quando il primo di aprile del 2000 l’autista Albino torna con un pullman completamente vuoto perché “nella Città dei vivi erano tutti morti” (LL 125). Nell’insieme questo romanzo è un grido di Andreoli contro la morte e, d’altra parte, anche un’affermazione che tutto, dall’inizio alla fine, è avvolto nella morte quale unica signora e vincitrice della realtà. Dunque, bisogna leggere, insieme al sarcasmo, anche le parole pronunciate da un mistico col codino, imbevuto di teorie orientali, che recita: “Io non muoio, nessun uomo, nessuna creatura muore. Cambia solo dimora, anelando a unirsi al Tutto. Come si può pensare che qualche cosa della natura, di Dio, muoia? L’energia si trasforma e uno passa da una forma a un’altra. Dio non può morire e Dio è Tutto: l’insieme di ogni cosa visibile e invisibile. L’uomo si trasforma in un’altra creatura e poi in un’altra, in un’esperienza cosmica dell’esistere. Non si muore mai, Dio non può morire e ognuno di noi è un frammento di Dio. Non si nasce, né si muore” (LL 63). Queste parole potrebbero benissimo uscire da un guru moderno, come ad esempio Osho, che sulla sua tomba ha ordinato di scrivere: “Mai nato, mai morto. Visitò questo pianeta terra dall’11 dicembre 1931 al 19 gennaio 1990”. Ma di sicuro non può essere il credo di Andreoli che vede l’uomo e forse l’intera realtà circondati dalla morte. Ovunque l’uomo andrà, qualsiasi strada sceglierà, prima o poi incontrerà la 104 morte. Con la vita e la morte è come con la terraferma e l’oceano. Vivendo in un continente l’uomo dimentica che da tutte le parti è circondato dall’oceano e che sulla terra la proporzione tra terraferma ed acqua è di uno a tre. L’uomo distratto dalle cose di questa vita dimentica la morte. Si potrebbe dire che Andreoli non si lascia distrarre, anzi qualcosa lo spinge sempre a contemplare dalla terraferma l’oceano della morte che all’orizzonte sembra persino fondersi con il cielo. Una volta, durante un giro su un battello in Danimarca, ha annotato nel suo diario: “Il mondo visto dall’acqua è più bello e l’uomo su una barca si sente instabile e forse trattiene l’arroganza e avverte forte il dubbio. La vera saggezza. Non la verità, ma il dubbio come unica verità” (CS 280). La realtà della morte, così prepotente nelle opere di Andreoli, è il suo modo di guardare la vita dalla prospettiva della morte, come chi sulla barca guarda la terraferma dalla prospettiva dell’acqua. Tale prospettiva cambia molto, cambia tutto, e Andreoli scrivendo propone ai suoi lettori di guardare la vita proprio da questa prospettiva. 6. Finemondo Quando, amato e apprezzato da Andreoli, il suo pittore-matto Carlo Zinelli impazzì, perdendo praticamente ogni legame con il mondo, ogni tanto dipingendo pronunciava ritmicamente, non si sa perché o per chi, la parola: “Finemondo” (LGF 382). Forse era un ricordo delle sue esperienze di guerra, forse una semplice affermazione della sua incompatibilità con il mondo. L’eco di questo ritmico mormorio o grido di Carlo risuona sotto un’altra veste verbale, più colta e sublimata nei libri dello scrittore veronese. Andreoli non dice “Finemondo”, ma scrive “Dies irae”, quasi sempre legando queste parole con il Requiem di Mozart, che è anche il titolo del suo trattato in forma di romanzo proprio sulla fine della civiltà occidentale. 105 Dies irae è un ritornello frequente nella sua prosa e saggistica. Lo ritroviamo quasi in tutte le sue opere e ha lo stesso sapore del “Finemondo” di Carlo Zinelli. Tale espressione del vecchio messale latino è l’esteriorizzazione della consapevolezza nello scrittore di una fine imminente, che permette di definire almeno una buona parte della sua scrittura come apocalittica. In altre parole, Andreoli è uno scrittore apocalittico. La cosa possiede un tale peso nella sua opera ed è così diffusa, che richiede un’attenzione particolare. La coscienza della fine imminente è uno dei motori della creatività letteraria di Andreoli, che da questo punto di vista non è né il primo, né l’ultimo, né l’unico. Lasciamo da parte il “perché” e accontentiamoci di affermare che il senso della fine non è solo molto frequente e comune, ma è proprio una costante della cultura e soprattutto della letteratura. Bisogna però invertire la prospettiva. Sono convinto che non solo esistano testi, tanti, tantissimi, che parlano della fine del mondo, ma che soprattutto il senso di una fine piuttosto imminente generi un certo tipo di letteratura. La visione della fine, di un annullamento, esplode nella testa degli uomini in un immaginario e un linguaggio apocalittico che generano opere dal carattere del tutto particolare. Basta pensare a tutti i testi apocalittici dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam, e al più conosciuto nella nostra cultura, il Libro dell’Apocalisse di San Giovanni che chiude il Nuovo Testamento. Il cielo che si arrotola, le stelle che cadono, le bestie che appaiono, l’esplosione di colori che pitturano persino i cavalli in modo diverso, il mare che si tinge di sangue, i fulmini spaventosi e l’apparizione di un sole nero. È un paradiso per i pittori, una terra feconda per la follia. Gli stoici, per praticare la loro prosoché (attenzione) e la loro epoché (sospensione), avevano bisogno della visione di un cosmo che periodicamente è divorato da un grande fuoco (ekpurōsis). I buddhisti che cercano l’illuminazione vivono con la consapevolezza del kalpa, il giorno di Brahma che dura 4.320.000.000 anni, seguito dalla “notte di Brahma” della stessa lunghezza, in cui l’universo scompare. Gli induisti vivono nella prospettiva del 106 Kaliyuga, epoca della Kali, che dura 432.000 anni ed è l’ultima epoca del mondo che alla fine di tale periodo scomparirà per poi rinascere. Eccetera, eccetera. Meglio non inoltrarsi nelle speculazioni “cabalistiche” a tale proposito, col rischio di perdersi in calcoli e interpretazioni allegoriche delle cifre e immagini apocalittiche. Una cosa però è sicura: il sentimento della fine e l’immagine di un mondo annullato generano la letteratura, che in seguito fa nascere altre, numerosissime, letterature pro e contro. Anche l’opera di Andreoli si colloca all’interno di questo grande e costante movimento apocalittico. Egli soprattutto vive nella consapevolezza della fine della civiltà occidentale, e la annuncia nei suoi scritti. I suoi testi fondamentali in proposito sono Principia. La caduta delle certezza (2007) e Requiem (2010). Il primo è una raccolta di saggi sulla scienza, la politica, la filosofia e la religione, in cui l’autore svela e analizza la mancanza di princìpi nella civiltà occidentale. Il secondo è un raffinato romanzo filosofico, in cui la trama è ridotta al minimo, composto di otto trattati sullo stesso tema visto dal punto di vista di Andreoli stesso: egli si nasconde dietro la misteriosa persona del padrone di casa che scrive una lettera sulla fine della civiltà, invitando a casa sua per parlarne un archeologo, un’adolescente, un filosofo, un generale, una psicoanalista, un poeta e un prete. La lettera, vero e proprio trattato su questo tema, inizia nel modo seguente: “Mi sono convinto che il momento presente, quello che noi viviamo, segni la fine di una civiltà, della nostra civiltà. È già capitato nella storia e almeno in alcuni casi è avvenuto senza che le persone ne fossero consapevoli. E mi pare che anche oggi non ne abbiamo la minima percezione e quindi la gente vive come se ne fosse estranea, come se tutto procedesse dentro l’ordinario e come se anche i segnali che a me appaiono di fine, fossero espressioni di crisi di una civiltà a cambiare e a risolversi. Io credo che ci siano invece segni netti di fine, di fine di una civiltà, e che quindi anche la nostra stia per morire. Mi pare anche che l’agonia sia avanzata e che dunque la fine sia 107 imminente. È inutile che io sottolinei che fine della civiltà non significa del mondo; non ha nulla a che fare con apocalissi e con le profezie di morte che nella storia hanno indicato tante Cassandre e a cui io non aspiro assolutamente di aggiungermi. (…) Con la fine della civiltà invece il mondo continuerà con uomini, donne, animali e piante, ma in una cultura e con uno stile esistenziale nettamente mutati” (R 26). Dunque l’apocalisse non assoluta, ma relativa, un’apocalisse piccola; non la fine del mondo, ma la fine di un certo mondo che era fondato sulla giustizia, sulla democrazia, sulla morale, sull’autorità, sul principio di non contraddizione, su Dio e sull’eroe. Secondo Andreoli, nella tempesta dei cambiamenti vissuti dall’Occidente questi princìpi crollano e con essi crolla anche la civiltà. Lo scrittore veronese nei suoi scritti indaga sulle cause di questo sgretolamento e si domanda se sia possibile recuperarli o cambiarli per – nonostante ciò – poter vivere: “Da pessimista attivo, quale mi definisco, intendo richiamare l’attenzione sui principi per verificare la salute di questo fondamento della nostra civiltà, per verificare non tanto il cambiamento, ma semmai la possibilità di cambiare, che si lega comunque alla presenza di recettori, di forme che li possano contenere e avvertire. E con questo spirito cominciamo un viaggio, certo affascinante, alla ricerca dei principi per poi tornare all’uomo, per vedere se ciò di cui ha bisogno non sia proprio una somministrazione molto attenta di principi vecchi, ma forse anche del tutto nuovi” (P 19). Dunque una convinzione della fine, un pessimismo attivo mescolato ad un certo messianismo, cioè la persuasione che l’analisi attenta, cioè la scrittura, serva e possa fornire alcuni suggerimenti per una vita futura, cioè per una salvezza. Ecco la forza della mente che, non trovandosi nel mondo che percepisce, prima fugge e poi dalla distanza della scrittura riflette per offrire una via d’uscita che nel caso di Andreoli simbolicamente si riassume nel tema della fragilità, di cui si parlerà nel capitolo seguente. 108 La fine della civiltà è solo una delle forme della consapevolezza della fine, ma nei testi di questo scrittore ne troviamo anche altre. Il momento in cui Carlo Zinelli impazzisce significa per lui la fine di un certo mondo, quello della società, dell’esercito, della città, ma coincide con l’entrata nel mondo della pazzia, del manicomio, della pittura. Per Andreoli la morte di suo padre significa la fine di un certo mondo, il mondo in cui c’era il padre, e l’inizio del mondo senza il padre. La sua fuga dal mondo della psichiatria è per lui la fine di un mondo che, considerata con esagerazione e con un certo sentimento, quando si sente inutile e senza “ruolo”, senza “posto” nel mondo, è paragonata nella sua mente alla fine assoluta del mondo. Il suo diario Cronaca dei sentimenti, che segna proprio questo passaggio, è pieno di riflessioni del genere. Inizia con una meditazione davanti al fuoco che consuma tutto: “Ero davanti al fuoco il primo minuto del 1999. Vicino alla mezzanotte lo avevo realizzato con legna di rovere: si consuma rapidamente e dà una fiamma che si eleva e schiocca per fare la festa” (CS 7). Per Andreoli era un anno di passaggio, la fine e l’inizio, tante fini e qualche inizio. Finiva un secolo, finiva un millennio, finiva il suo lavoro di psichiatra, iniziava l’esistenza da pensionato che non si è arreso a questo destino, ma è diventato uno scrittore che crea in attesa della fine. Il cinque settembre scrive: “Io non so se ci sarà l’apocalisse quest’anno o in un futuro più o meno lontano, oppure se questo mondo si trascinerà stanco e dimenticato anche dagli dei, per sempre. Non so se questo evento sia iscritto dentro il potere dell’uomo che finirà con l’annientarsi senza bisogno di dei giusti o cattivi” (CS 242). E conclude l’anno di nuovo a casa di fronte al fuoco, meditando sulla morte, sulla vita e sull’apocalisse che non è avvenuta, o forse e paradossalmente sì: “In questo giorno di passaggio il ciclo vitale e quello mortale si uniscono: un anno nasce per morire. Anche la morte ha partecipato al rito della genesi, della genesi di ogni anno. (…) L’apocalisse non c’è stata, sarebbe iniziata esattamente a mezzanotte. Non l’apocalisse temuta, almeno. Forse la vera apocalisse è che il mondo continui” (CS 506). 109 Nel racconto La malattia della felicità (RS 129-150) la fine significa il termine della relazione con il computer dello scrittore che, come metaforicamente si dice, “è morto”. Questa perdita è vista e vissuta come “finemondo”, che poi prende forma più drammatica perché globale nel racconto-meditazione Apocalisse, in cui lo scrittore, vedendo che nel mondo quando si fermano tutti i computer provocano un vero disastro, inizia col dire: “È curioso o forse addirittura drammatico pensare a un’apocalisse non ordinata da Dio, ma prodotta dai computer, sfuggiti al controllo dell’uomo e capaci di decisioni non previste e comunque dannose”, poi continua: “Se immaginiamo per un momento che questo strumento di controllo impazzisca, non possiamo che avere un’immagine dell’apocalisse”, per finire con queste parole: “Se mille anni fa era Dio il destino e il regolatore delle condizioni vitali, quello che teneva in vita l’uomo, oggi almeno molte di queste funzioni sono passate al computer. A questo suo prodotto, scappato dal controllo umano, e così persino Dio ha paura” (RP 716-717). Non poter funzionare in certe relazioni e non poter frequentare certi spazi viene vissuto dunque come la fine del mondo, cioè la fine di un certo mondo. La morte di qualcuno che ci è vicino o che amiamo muta il nostro stare nel mondo al punto che questo cambiamento è vissuto come la fine del mondo. Lo stesso vale per il guasto di una macchina da cui si dipende. La “finemondo” vuol dire allora la fine di una relazione. Ora, se si prende in considerazione il fatto che per una mente religiosa l’uomo vive tra il mondo e Dio, la “finemondo” può essere percepita in modi diversi. Un uomo morto deve trovare nella mente di quelli che vivono la sua collocazione o nel mondo (decomposizione, trasformazione) o in Dio (resurrezione, trasmigrazione). L’uomo può pensare la “finemondo”, l’annullamento dell’universo, il suo ritorno al nulla prima della creazione, consolandosi che egli (uomo) sopravvivrà al mondo trovandosi “in Dio” – tutte le apocalissi si perdono in speculazioni di questo tipo. La fine relativa, cioè la fine di un certo mondo, modifica la nostra visione dell’uomo, ovvero dei suoi valori e princìpi, perciò 110 Andreoli, come abbiamo visto, vi riflette: cosa deve essere salvato e cosa deve essere riscoperto, cosa deve essere rifiutato e cosa deve mutare? Ma la fine del mondo relativo smuove anche la nostra visione di Dio e ogni tanto persino la rimuove totalmente. La “finemondo” coincide con la “finedio”, che vuol dire la fine di un certo Dio. A titolo di esempio prendo il suo racconto-meditazione Il Padre Eterno non ne poteva più che inizia così: “Nessuno mai, in paradiso, lo aveva visto così. E il confronto era con il passato eterno. Mai, mai aveva perso la pazienza e mai aveva bestemmiato. Non sembrava nemmeno dio. Non ne poteva più dell’uomo e della terra e giurò di non occuparsene mai più. L’uomo gli aveva rotto l’anima e affermò ex cathedra che non gli somigliava neanche un po’. Ne era disgustato” (RP 357). È un testo degno del commento di un Padre della Chiesa come Gregorio di Nissa o Agostino d’Ippona, o di qualche scolastico come Anselmo d’Aosta o Tommaso d’Aquino. Sarebbe facile e divertente, ora, con un pizzico d’ironia, immedesimarsi in ognuno di loro e commentare questo frammento di Andreoli, ma mi trattengo. Importante è solamente notare che nella mente dello scrittore veronese abbiamo a che fare con una situazione senza precedenti, anche a proposito di Dio. La sua eternità è stata infranta, il Dio è cambiato, il che indica la fine di un certo Dio o, per essere più precisi, la fine di una certa visione di Dio da parte dell’uomo. L’uomo si immagina Dio, ma lo fa a partire dalla sua percezione del mondo, e quando questo mondo sembra essere molto cambiato e disgustoso, non è più conciliabile con l’immagine di Dio con cui finora l’uomo aveva convissuto. Finito un certo mondo, finisce anche un certo Dio, e con lui l’uomo ha l’impressione di sprofondare nel nulla. Le frasi che seguono, incise in brevi aforismi, sono l’esempio di uno stile apocalittico moderno, e abbondano le immagini di guerre, di violenza, di stupidità: “Aveva chiuso gli occhi in lacrime, il Signore Iddio, di fronte a quella donna, creata a continuare the procreation, era a gambe divaricate e un nero la infilava con obici da cento chili, alternati a ceri pasquali. (…) Non poteva accettare i politici, non erano 111 uomini e nemmeno creature, ma dei satrapi del potere. Il demonio al loro confronto era un chierichetto che alza la coda e attende d’essere riempito di Spirito Santo. (…) Le galline facevano le uova quadrate. (…) Le vacche mangiavano ossa di maiale e bevevano il vino di Provenza. I curati palpavano il culo di novizi e recitavano le litanie dello spirito. Le madri partorivano i figli nei cassonetti e la crescita del Paese era sotto zero. (…) A Palazzo Chigi era in corso una riunione del Consiglio. Doveva decidere se non fosse il caso di fare un altro dio, di sostituire il vecchio, e subito il presidente diede la sua disponibilità” (RP 357-361). E così via. Come dice il titolo di questo racconto e come viene ripetuto nel testo tante volte “il Padre Eterno non ne poteva più”. All’inizio questo Dio, non potendone più, “aveva deciso la fine del mondo” (RP 358), e qui la meditazione dello scrittore si fa ancora più estrema perché: “Tutto funziona ormai automaticamente e il mondo va senza Dio. E Dio desiderava morire. Un suicidio impossibile. Un omicidio perfetto. Se lo uccidi resta vivo. Il grande mistero. Mentre sulla terra tutti crepavano per mano dell’uomo o della donna. Dio non serviva nemmeno alla morte. Il destino era l’uomo e persino Dio era nelle sue mani. E così Dio si fa vittima sacrificale per sempre e da sempre” (RP 361). Qui ci vorrebbe forse un bramino capace di commentare queste meditazioni di Andreoli paragonandole ai versi per esempio del Śatapatha-brahmana, in cui leggiamo: “il Signore delle creature, dopo aver generato gli esseri viventi, si sentì svuotato. Le creature si allontanarono da lui; e non rimasero con lui per la sua gioia e il suo sostenimento” (III,9,1,1), perciò il Signore dice a se stesso: ‘Suvvia, mi sacrificherò in tutte le cose viventi e sacrificherò tutte le cose viventi in me’. In seguito, dopo aver sacrificato se stesso in tutte le cose viventi e tutte le cose viventi in sé, egli acquisì magnificenza, splendore e sovranità” (XIII,7,1,1). Non voglio però né fare il bramino né praticare un eclettismo a poco prezzo mescolando l’Andreoli di carta con la letteratura vedica. 112 Se mi sono permesso questa comparazione, l’ho fatto solo per dimostrare che nella letteratura dell’umanità, dallo Śatapathabrahmana, composto circa 2.500 anni fa, a uno scrittore veronese del XXI secolo, si trovano tracce simili, tendenze, desideri e intuizioni che riguardano l’annullamento del mondo e l’auto-annullamento di un creatore. Mi sembra questa una tendenza costante della mente umana, che in una certa prospettiva, profonda e impazzita, medita sul mondo e su Dio. La differenza sta forse nel finale: nel Brahmana il Creatore dopo un auto-sacrificio acquista “magnificenza, splendore e sovranità”, in Andreoli il Dio semplicemente e soltanto… piange. La “finemondo” si fa “finedio” e trascina dietro di sé anche l’uomo provocandone la “fineuomo”. Per cui il legame tra il mondo, Dio e l’uomo risulta fatto da una collana di lacrime, metafora meravigliosa per tale tipo di riflessioni. Ma tutto questo succede, ricordiamoci, soltanto nell’Andreoli di carta. Si potrebbe dire che non si scrive senza la percezione della fine di qualche mondo. Il mondo versato nelle parole finisce, questa è la sua fine, ma d’altra parte il mondo versato sulla carta incomincia a vivere nelle belle parole. Una morte, una nascita. La scrittura è sempre un fine e un inizio. È questo un elogio alla scrittura? E perché no? Niente è più tenero e fragile della scrittura e niente e più forte di essa. Ma Andreoli nelle sue meditazioni va ancora più lontano e si fa ancora più raffinato quando nel Requiem, romanzo sulla fine, immedesimandosi nel poeta, indica la via oltre lo scritto, intuendo così una dimensione della musicalità della realtà che potrebbe essere intuizione della fine senza fine: “Il poeta non è colui che scrive versi, basta soltanto che li pensi, li immagini, li sogni. Non è la scrittura che definisce un verso, ma la sua musicalità di qualcosa di impalpabile, di inconsistente, di inesistente, ma vivo. La nascita del poeta è misteriosa. Egli fa versi e poi li declama e così si spargono nell’aria e per li campi esulta e intenerisce il core. Il poeta è colui che fa versi e non chi li scrive. E dove vadano a finire non gliene importa nulla perché la poetica insegna che il verso non esiste in funzione di dove va a finire, 113 ma per il fatto di essere uscito dalla bocca del poeta che è piccola, con le labbra sottili rosse, ed emette suoni sottili che ricordano l’usignolo” (R 480-481). Forse la poesia concepita così potrebbe essere un rimedio all’ossessione apocalittica. Forse l’intuizione della musicalità include in sé il desiderio dell’eterno ritorno, della ciclicità della realtà. Forse questa è anche una spiegazione dell’amore per la musica che Andreoli spesso confessa nelle pagine dei suoi libri. 7. Fragilità Come si dice che tutti i nodi vengono al pettine, così si può dire che in Andreoli tutto tende al tema della fragilità. Questa è almeno la mia interpretazione, adatta anche a chi vuole avere una conclusione “edificante” e spontaneamente rifiuta un finale di tipo tragico-assurdo. Devo però dire che non è un tema che si presenta in modo ovvio e immediato. Ogni tanto, leggendo i libri del professore, rimanevo sconvolto ed esausto dal loro clima cupo, dal pessimismo, dalle ossessioni che durante la lettura mi sussurravano al pensiero di avere a che fare con una “mente perversa”. Ovviamente cercavo una qualche giustificazione o spiegazione, una qualche interpretazione, e la più frequente era: ha visto troppo, è troppo sensibile, deve liberarsi di questo in qualche modo e ha trovato la via della scrittura. Devo anche confessare che sono un lettore che rifiuta o non finisce di leggere, e soltanto i libri veramente mal scritti e i testi di Andreoli sono riuscito a portare a termine. Mi sono sempre domandato il perché? Non sempre mi piacevano, ma col passare del tempo ho notato che li ricordavo benissimo perché ne ero rimasto colpito. Non si trattava solo di impressioni forti che si possono avere leggendo le scene di crudeltà, di violenza, di oscenità pornografica, o anche le scene e le frasi molto comiche che nei suoi libri paradossalmente non mancano. Ricordo di una persona che, dopo aver letto Silenzi, aveva chiuso il libro e si era 114 messa a piangere… in silenzio. Una volta un mio amico, persona piuttosto pia, lesse Il cardinale, e quando gli chiesi cosa ne pensasse, rispose che per il momento aveva interrotto la lettura perché non ne poteva più, era troppo pesante e voleva prendersi alcuni giorni di respiro in modo da poterlo finire. Un’altra persona ancora, che leggeva accanto a me I giardini della miseria, a metà del romanzo era letteralmente scoppiata a ridere, quindi mi aveva letto il frammento ed avevamo riso insieme fino alle lacrime – ovviamente questo era successo non riguardo alla parte finale dell’opera che è tragica. Ma nonostante ciò, mi domandavo che cosa, tra il fascino e il rifiuto, la raffinatezza e la volgarità, rendesse ai miei occhi valide queste pagine? Non era né il morboso, né il perverso, né il cupo, e neppure una seducente arte narrativa. Mi rispondevo che quello che “salva” questi testi è un sottile velo di tenerezza e il valore dei sentimenti umani che l’autore riesce a introdurvi. Il mondo della follia è tremendo e ripugnante, ma Andreoli lo vede e lo descrive con questo “pizzico di qualcosa” che mi commuove e me lo rende simpatico. Il dolore e la morte si stendono ovunque in questa opera, rendendola cupa, ma sotto sotto è presente qualcosa che ammorbidisce la durezza di queste pagine. Le scene erotiche sono sì sconvolgenti, ma si capisce che oltre la stupidità, il vuoto, e persino oltre la violenza e l’ossessione, c’è una ricerca disperata d’amore. A mio uso personale ho elaborato una via di mezzo tra la Cronaca dei sentimenti e L’alfabeto delle relazioni, una teoria dei “sentimenti in relazione” sui quali si regge l’intero edificio dell’Andreoli di carta. Una svolta a riguardo mi è arrivata durante la lettura del racconto Rio de la Vesta: un vecchio che muore in una via di Venezia solo, ma sereno. C’è in queste pagine una solitudine tremenda, proprio perché in contrasto con la bellezza della città e la sua folla umana. C’è il dolore, che tuttavia non riesce a rimuovere l’ironia sottile dello scrittore quando parla di veneziani. Ma in tutto ciò c’è anche una leggerezza che ha il sapore della tenerezza e che avvolge tutto il racconto come la nebbia la Serenissima. Questa tenerezza si è fatta 115 strada in me quando sono arrivato al punto in cui questo vecchio, ormai quasi morto, riposandosi sulle scale della chiesa di San Moisè, prima osserva e poi saluta un gruppo di giapponesi. C’è qualcosa di commuovente in tutta la scena: “Giunse un gruppo di giapponesi con una guida che aveva un ombrello rosso, aperto per richiamare l’attenzione di ciascuno ed evitare smarrimenti non facilmente risolvibili in questa città. Raccontò la storia di San Moisè, e poi salirono in gondola e non rimase più nulla di quel nugolo nero di gondolieri. Un volta saliti a bordo con aiuti, rischi e divertimento, si misero a salutare e poiché non c’era nessuno altro nei dintorni, tutti si rivolsero a lui, e lui non volle deluderli, tanto da muovere entrambe le mani e da alzarsi persino in piedi. Si spostò e li salutò fino a che non entrarono, perdendosi, nel Canal Grande. Qui, attirati dai palazzi, si dimenticarono completamente di quel vecchio. A lui dispiacque, poiché gli era parso di aver stabilito una relazione, sia pure fugace, con un mondo intero” (RS 13-14). Un vecchio che muore e un gruppo di turisti giapponesi, le città fatta di palazzi e d’acqua intorno, e un filo invisibile che lega le mani che si salutano dando senso a tutto ciò. Incredibile. E così, in questa luce ho iniziato a percepire e a interpretare tanti libri di Andreoli, e forse persino tutta la sua opera. Tenerezza. Leggendo ero consapevole delle trappole ermeneutiche e mi rendevo conto che questa poteva essere anche e soltanto la mia interpretazione tendenziosa, che desiderava trovare quello che voleva e non quello che c’era effettivamente dentro. Mi domandavo: forse proprio a causa del mio spirito di contraddizione trovo in essa questa tenerezza con cui l’Andreoli di carta non ha niente a che fare? Ma nonostante ciò, la tenerezza emergeva nella mia mente quando leggevo queste pagine cupe, violente e tragiche. Anzi l’intera impresa letteraria di Andreoli, e in fin dei conti lui stesso, mi apparivano mosse da una tenerezza parzialmente inconsapevole e tendenti verso una sempre più cosciente. Ho proceduto così fino a quando Andreoli ha pubblicato il saggio L’uomo di vetro. La forza della fragilità (2008). In quel 116 momento ho avuto la conferma delle mie intuizioni e ho sostituito la mia “tenerezza” con la sua “fragilità”. La fragilità è la chiave interpretativa di quest’opera e del suo scrittore. Fino a prova contraria. L’uomo di vetro è scritto al ritmo di una litania della fragilità, è un elogio alla fragilità, è una raccolta di aforismi nascosti dentro uno stile da saggista, è un credo esistenziale, una confessione dello scrittore, la sua profezia o l’augurio per il mondo: “La fragilità è dentro l’anatomia dell’uomo, fa parte della sua sostanza costitutiva che non è di ferro, ma di carne da macello. (…) Il dolore è la fonte della fragilità poiché ti rompe e ti senti frantumato. (…) La fragilità come origine della voglia di legame, di comprensione, di solidarietà e di amore. (…). I sentimenti sono l’essenza della fragilità e li genera. (…) La fragilità conosce gli ultimi e non soltanto i forti. La fragilità non crede alla potenza e sa che è solo infatuazione, imbroglio: un ballo in maschera per nascondere la paura. (…) La fragilità non è un difetto, un handicap, ma la espressione della condizione umana. (…) La fragilità non è incapacità di fare, di pensare. (…) La fragilità non è una inferiorità nel confronto di altre situazioni che paiono invece espressione di una ricchezza di personalità. (…) La fragilità non conduce al male, ma semmai alla saggezza, di certo non al nichilismo. (…) La fragilità è una visione del mondo. (…) Una società fragile non è una società debole, semmai è una società saggia” (UV 20-30). Da queste pagine risulta chiaramente che l’uomo è fondamentalmente fragile, può facilmente diventare folle, cioè diverso, e questa sua potenziale follia lo rende fragile. Questa è la lezione che Andreoli ha portato con sé dai manicomi. Il dolore fisico ed esistenziale induce l’uomo a considerare sé e gli altri come fragili. La morte, anche quella di una civiltà o del mondo intero, induce a quella visione che i filosofi chiamano “limite”. La vita è fragile perché limitata. Solo sulla base della fragilità si possono stabilire dei legami che si esprimono nella sessualità, nell’amore, nell’amicizia, nella solidarietà. Questi temi in forme diverse appaiono in tutte le tappe 117 della vita dell’uomo, dall’infanzia, attraverso l’adolescenza e l’età matura, fino alla vecchiaia che Andreoli analizza e descrive nel suo libro. L’unica categoria che non può essere inglobata all’interno della fragilità è il potere che, alleato con il denaro, vuol dire sempre violenza. Lapidaria è la frase, la quale dovrebbe entrare nella consapevolezza sociale, che dice: “Occorre ammettere che la guerra non è una follia, come si tende a sostenere dagli stessi che poi la coltivano, ma è una conseguenza, logica e necessaria, del potere” (UV 38). Nella prospettiva della fragilità Andreoli parla anche di Dio che consapevolmente scrive con la “d” minuscola: “Cerco un dio della fragilità, un dio minore che sappia capire e amare, ascoltare e aspettare vicino a me che temo la solitudine e il dolore, nel deserto, nel mio deserto. Un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato e quest’uomo non è un uomo. (…) Il dio dei potenti, il re dei re, è freddo, irritabile, tremendo. Genera paura, non quiete. Mi terrorizza, non lenisce il mio tremore. Mi fa sentire indegno, perché la mia dignità si lega alla mia fragilità. Sono un uomo di vetro non di ferro e ho bisogno di un dio fatto di vetro ancora più sottile e che può infrangersi al solo batter di vento. Il dio che è più fragile di ogni uomo, un campione di forza nella fragilità” (UV 62-63). In questo libro il lettore trova le stupende confessioni di Andreoli sul suo essere psichiatra: l’uomo che agli altri doveva apparire forte, ma che poteva farlo proprio in forza della sua fragilità: “Sono un uomo fragile che talora ha dato l’impressione di essere un eroe pieno di sé, almeno così mi ha visto chi non sapeva che agivo per forza a chi mi aveva chiesto aiuto e che ho rivestito la mia impotenza di voglia di proteggere e di coraggio di vivere, sia pure dentro il carnevale della mia paura. La paura di vivere non mi ha lasciato mai un attimo” (UV 16). Qui si trova anche un trattato vero e proprio sul matrimonio che “è la più grande delle fragilità interumane, capace di 118 produrre beni e incapace di evitare mali” (UV 104) e che si basa su quarant’anni di vita matrimoniale dello scrittore. Sono pagine belle e degne di meditazione. In fine abbiamo le riflessioni sulla vita sociale che deve essere fondata proprio sulla fragilità. Andreoli, individuata questa parola quale chiave dell’esistenza e della visione della realtà, ritiene che, se è vero che è solo una parola, qualcosa di molto fragile, è tuttavia anche qualcosa da cui cominciare una nuova storia dell’umanità. Il libro finisce con questa prospettiva nel modo tipico di Andreoli, con un pizzico di malinconia che sfuma anche nel pathos: “Non potrò vedere scritte molte pagine di questa nuova storia, perché mi aspetta la morte e l’appuntamento mi troverà sconcertato poiché nel vecchio libro risulta essere la più grave delle ingiustizie e il mistero che più mi indigna. È il momento in cui anche la fragilità muore. Mi sentirò per un attimo senza la mia fragilità che ho amato e che mi ha aiutato a vivere, ma che non mi serve per morire” (UV 179). Questa visione fragile del mondo, di dio e dell’uomo non emerge subito nei suoi scritti, ma forse fin dall’inizio giace nel fondo. Che cosa sono i suoi romanzi su Carlo Zinelli, il racconto Dentro un barbone su un senza tetto soprannominato Flesh, la storia di Marianna de Silenzi o la vita di Antonio Antiquo ne Il corruttore, se non rivelazioni sulla fragilità nella storia tragica di questo mondo? Si potrebbero passare in rassegna tutti i libri di questo scrittore e collegarli con il filo della fragilità, da I giardini della miseria fino a Requiem che si conclude con le parole che potrebbero essere considerate il manifesto andreoliano sulla fragilità: “La fragilità (…) non è la debolezza che si confronta con la forza, con il potere, con il comando, ma è l’espressione propria dell’uomo, e solo chi sa coglierne il significato comprende quanto sia bello poter conoscere i limiti, perché è solo dal limite che sorge il bisogno dell’altro, della relazione. Il bisogno di incontrare chi non conosci e chi può persino diventare il tuo amore, colui o colei senza del quale ti sarebbe impossibile vivere, anche soltanto respirare. La 119 fragilità è la base della relazione, è la fonte dell’amore che tu (…) forse non ricordi nemmeno, e forse non hai mai sperimentato. È quello stato in cui desideri solo stare con l’altro, di sentirti bisognoso dell’altro e di sapere che persino te, che sei fragile, dai forza a quel fragile in cui trovi sicurezza e nelle cui mani poni la tua paura. La fragilità diventa risorsa per i sentimenti, anzi la fragilità è la madre di tutti i sentimenti e del piacere di stare con l’altro. (…) Io amo la fragilità che tu sentivi come difetto e di cui cercavi compenso mostrandoti forte mentre avevi solo bisogno di un’altra fragilità. L’uomo è colui che per fragilità cerca un altro uomo per vivere sereno” (R 594-595). Nella prospettiva Andreoliana dunque, la fragilità, paradossalmente, è la forza misteriosa su cui si regge il mondo. La fragilità è questa silenziosa musica di cui risuona l’intero cosmo e grazie a cui esso non va in pezzi, anzi possiede un senso profondo e bello. Scoprendo la fragilità l’uomo trova il senso, vive serenamente, realizza la pienezza della sua vita. Volendo aprire un orizzonte più largo, interculturale, si potrebbe dire che la fragilità di Andreoli possiede quelle connotazioni presenti in parole come agape, caritas, amore, ausebeia, pietas, misericordia, wu-wei, caruna, maitri, compassione… 120 Quarta parte: IL DIO 1. Letteratura e teologia Il problema di Dio nelle opere di Andreoli è uno dei temi centrali e più interessanti. La questione religiosa in esse non è meno presente che la follia, il dolore o la morte, anzi è strettamente legata a questi temi e fa loro da orizzonte. In Andreoli tante cose incominciano con la follia e finiscono con Dio, ma non nel senso cronologico. Questo psichiatra sostiene che, per capire la follia, bisogna sapere chi è l’uomo, e ciò è strettamente legato con la questione di Dio. La psichiatria per lui è strettamente legata all’antropologia e questa alla teologia. Dunque, Andreoli teologo? E perché no? A lui stesso non dispiacerebbe un tale titolo – almeno occasionalmente. Non ritengo che la sua opera sia principalmente teologica, ma senza la dimensione teologica è incomprensibile. Andreoli non ha scritto una summa theologiae e non ha praticato quello stile che di solito si usa nella letteratura teologica, ma questo non vuol dire che ogni tanto non faccia il teologo e che la sua opera non possieda tratti chiaramente teologici. Non voglio perdermi in definizioni rigide e discussioni noiose su cosa sia la teologia e chi sia un teologo. Do solo alcune coordinate utili per rimuovere certi pregiudizi che spesso paralizzano la riflessione in proposito, prima ancora che inizi. Teologia non è la dottrina di qualche istituzione religiosa che da queste parti, cioè in Italia, è di solito identificata con la Chiesa cattolica romana. La teologia non può essere privatizzata da nessuno, non appartiene a nessuno, anche se ogni tanto, troppo spesso, proprio la Chiesa cattolica rivendica il diritto di esserne l’unica depositaria. Ne consegue che il teologo non è necessariamente un ecclesiastico o uno 121 che ha ricevuto la licenza di parlare di Dio da parte di qualche autorità religiosa. Il teologo è ogni uomo che riflette sulle realtà ultime, tra cui Dio è tra le prime. Non deve nemmeno essere credente. Un ateo, nella sua negazione, è per definizione un teologo. La teologia non è l’inquisizione e non è soggetta a nessun inquisitore. Ripeto: il teologo non è un funzionario che ha ricevuto il permesso di pensare o di parlare di Dio da qualche autorità religiosa. In tale prospettiva allora Andreoli è un teologo e la sua opera è teologica. La teologia e la letteratura sono strettamente collegate. Si può parlare di teologia delle opere letterarie leggendo i tragici greci e Omero, i filosofi stoici o platonici, Dante, Ariosto, Manzoni… o Andreoli. Pierre Klossowski ha letto in tale prospettiva persino il Marchese de Sade definendo la sua opera come una porno-teologia. Ma tutto ciò è sempre troppo stretto, perché riduce la letteratura alla teologia nel senso di dottrina, e la giudica. D’altra parte, si può parlare di teologia come letteratura e anche questa è una prospettiva affascinante. Si può discutere se, come voleva Borges, la teologia sia un ramo della letteratura fantastica. Forse sì, forse no. Ma di sicuro ogni libro teologico è soprattutto un pezzo di letteratura. I Veda, la Bibbia, il Corano, il Canone Buddhista sono monumenti della letteratura. Forse si dovrebbe in questa prospettiva rileggere pure Tommaso d’Aquino e considerare la sua summa teologica come un grande romanzo che con categorie metafisiche racconta l’affascinante avventura della mente umana. È ovvio ritenere i romanzi di Dostojewskij dei veri e propri trattati teologici. Insomma, esiste una teologia della letteratura e una letteratura teologica, e le due prospettive si fondono in modo creativo. Le opere di Andreoli si possono leggere anche in questa doppia prospettiva. 122 2. Andreoli teologico Incomincio con uno sguardo rapido da questo punto di vista su l’Andreoli di carta e vedo che la questione teologica attraversa praticamente tutta la sua attività creativa, e in particolar modo la sua narrativa. Sogni d’eremita è probabilmente il secondo romanzo di Andreoli. È stato scritto negli anni sessanta o settanta, anche se pubblicato più tardi. Il giovane adepto alla psichiatria incontrò in manicomio un uomo che prima di ammalarsi aveva voluto cambiare il mondo dedicandosi alla rivoluzione, alla lotta, a quello che poi verrà definito come terrorismo. Ma quando questo progetto era fallito il rivoluzionario deluso e impaurito era fuggito dal mondo e si era nascosto in un eremo tentando di diventare un monaco; era poi impazzito e quindi finito in manicomio. Andreoli, colpito da questa storia e dal suo protagonista, scrisse un romanzo che praticamente è il monologo di un eremita con sé stesso e con il suo Dio che, ovviamente, non gli risponde; inizia così: “Se non ci sei. Se non ci sei. La mia tonaca copre solo angoscia. Se non ci sei. La mia tonaca bianca riveste un cadavere. Se non ci sei… Non potrei più fare a meno della Tua inesistenza. Se non ci sei… Il mio dubbio è un segno dell’esistenza del demonio, Tuo nemico, quindi del tuo esserci. È una tentazione, una prova che esisti, che sei la salvezza, la speranza del mondo, l’unica intercessione alla sua salvezza. Signore, fammi mettere le mani nel Tuo costato. Sì, ci sei, perché sei apparso a Tommaso. Non è possibile Tu non esista. Allora nemmeno io esisterei. Sei necessario alla mia vita. Ma Ti posso aver creato io! Ma come avrei potuto farlo? Come potrei essere, se Tu non fossi. Fatti vedere, mostra il Tuo corpo! Tommaso è stato un grande apostolo. Peccherei se pensassi d’essere migliore di lui. Desidero vederTi, proprio per non peccare. Non deve essere faticoso per Te esaudirmi. Forse non Ti mostri perché io divenga più grande nella fede. Vuoi che Ti ami, senza averTi visto. Ti dovrei vedere attraverso la mia fede: occhi più grandi di quelli impietriti dal freddo e dal dubbio del 123 mio volto. Ma gli occhi, li hai fatti Tu. Non chiedo di vedere il corpo di una donna, ma il Tuo. Mi pentirò, poi, di non aver avuto la fede. Sei una mia creatura? Forse Ti ha creato il genere umano? La sua condizione di tragedia esistenziale. Tu, creatura del mondo e non suo creatore. Ma se il mondo Ti ha creato, ha bisogno di Te, dunque è insufficiente. Come può esistere un mondo autonomo ma bisognoso di un Dio. Allora è un mondo creato da Te, che non può esistere senza di Te. Tu solo lo puoi salvare. E io Ti prego di farlo. Io amo il mondo. Mi sono allontanato per amore, per salvarlo, attraverso Te” (GS 150). Lungo tutto il libro fra’ Severino recita preghiere e medita sui testi sacri intrecciandoli con i ricordi della sua vita, con le sue riflessioni filosofiche e meditazioni teologiche. Queste elucubrazioni mentali in solitudine, i suoi soliloquia, lo portano dall’esaltazione alla disperazione e Fratel Severino, protagonista del romanzo, sembra alla fine spiccare il volo dalla Rocca del Garda dove, nell’eremo camaldolese, tutto il romanzo è stato ambientato. Insomma il suo teologare lo porta quasi al suicidio: “Raggiunse il limite della rocca. Anche i pensieri erano vigili e muti. Le gambe tese, (…) Le parole erano ormai uscite dalla sua testa, per renderla ancor più leggera, e si erano adagiate sulle colline, dove troneggiavano scolpite di verità. La natura sembrava ancora attendere quel volo, prima di chiudere gli occhi nella notte. Fratel Severino era ormai di nuvola. Alzò lente le braccia che sembravano benedire, maestose, tutte le creature, e con gli occhi di cielo che vedevano la vita già trasfigurata, leggero si sollevò dalla terra mentre il suo mantello bianco si adagiava nell’aria imitando una colomba, d’improvviso apparsa sul lago” (GM 236-237) Il romanzo finisce con una “suspense” che permette diverse interpretazioni. In questo testo c’è già tutto l’Andreoli teologico che strettamente lega l’esistenza umana, l’amore, la solitudine, la fuga dal mondo, la morte o il suicidio con la questione di Dio. Nella prima decade del terzo millennio Andreoli era piuttosto coinvolto con il mondo della chiesa italiana: scriveva regolarmente 124 sull’Avvenire, tenne conferenze in diversi ambienti ecclesiali, tra cui anche la presentazione dell’enciclica di papa Ratzinger nella Basilica lateranense (vedi il capitolo “In coena domini” ne Il cardinale), ebbe contatti frequenti con il clero e con i religiosi. Frutto di tutte queste relazioni, che dimostrano anche un indiscutibile interesse e fascino del mondo clericale per lo scrittore, sono i tre volumi di saggistica: Il mondo dei preti. Viaggio fra gli uomini del sacro (2009), che è una descrizione fenomenologica, tipica della mentalità dell’autore, del mondo clericale; Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e libertini, esorcisti e guaritori (2010), in cui sulla falsa riga de Il matto di carta, presenta la figura del prete nella letteratura italiana dal Cinquecento ai nostri tempi, e Follia e santità (2010), contenente i ritratti di una decina di santi che hanno sfiorato la follia. Bisogna leggere questi libri insieme al romanzo Il reverendo (2008), di cui abbiamo già parlato, pubblicato subito dopo Il cardinale (2009) che racconta la storia di un uomo ferito dalla paura e dalla malinconia, che si incanala nelle strutture della Chiesa. Il protagonista è un bravissimo teologo che fa carriera diventando cardinale. Ma al di là del travestimento in funzionario religioso e dell’armamentario teologico della sua mente, questo uomo non crede e non conosce Dio. Quando già cardinale viene eletto papa, non sopporta la tensione tra il suo non credere e l’essere per certi versi “il Dio sulla terra”, e si uccide impiccandosi nella Cappella Sistina, così che il suo corpo pende proprio davanti al punto del grande affresco michelangiolesco dove si trovano i dannati dell’ultimo giudizio: “Sua eminenza dondolò un poco, poi si fissò dentro il giudizio universale e per sempre si fece parte della Cappella Sistina. Una posizione straordinaria, del resto era avvenuta la sua elezione a papa” (p. 218). Sono le ultime parole del romanzo. A questi testi bisogna aggiungere Fuga dal mondo (2003). in cui Angelo Spini si ritira dal mondo per vivere isolato come un monaco e la sua figura permette ad Andreoli di sviluppare elucubrazioni teologiche sulla relazione tra Dio e il mondo, come ad esempio: 125 “Zero è zero e nessuno ne avrebbe potuto cogliere la differenza, nemmeno un dio, colui che sa ciò che nessun altro sa, che sa quello che accadrà e quindi anche che, dopo lo zero, verrà l’uno e poi il due. Ma Dio non e nessuno, anzi è Nessuno. Dio sa che da soli si sta da cane e allora meglio far nascere un cane e diventare due, Dio e il cane. Un insieme che non ha nulla della bestemmia, è una possibile combinazione. Possibile ma non certa. Anzi inimmaginabile, anche se col senno di poi potrebbe accadere perché è accaduto. Ciò che è, potrebbe non essere stato, ma anche finire di essere e giungere a un come non fosse mai stato, che non è distinguibile dal non essere, soprattutto se nessuno era presente mentre il non essere era. Il testimone sarebbe già dovuto essere ed essere come Dio che c’è, ma non c’è senza che qualcuno lo veda. Per esserci ha dovuto mettere al mondo un altro che ancora non era nato e infatti per il momento il mondo era pieno di tombe silenziose, tanto che era difficile definirle tali, ma un nome dovevano pur averlo, altrimenti sarebbero state nulla. Nel silenzio tutte le cose sono nulla. (…) Ma allora a cominciare è Dio. A nascere che non è mondo, non il mondo che non è Dio, anche se occorre che Dio decida poiché dal nulla non nasce nulla e quindi serve qualcosa che sia diverso dal nulla e da cui nasce qualcosa che sia diverso dal nulla e da cui nasca qualcosa che si chiama mondo. Se quel qualcosa che si chiama Dio non c’è non c’è il mondo” (FM 171-175). Sono frasi degne di Agostino d’Ippona o degli ancor più antichi RgVeda, in cui per esempio leggiamo: “In principio non vi era Essere né Nonessere. Non vi era l’aria né ancora il cielo al di là. Che cosa lo avvolgeva? Dove? Chi lo proteggeva? C’era l’Acqua, insondabile e profonda? Non vi era morte, allora non ancora immortalità; di notte e di giorno non vi era alcun segno. L’Uno respirava senza respiro, per impulso proprio. 126 Oltre a quello non vi era assolutamente null’altro. (…) Una linea netta separò l’Essere dal Nonessere. (…) Chi lo sa veramente? Chi può permettersi di dirlo? Che cosa nacque? Da dove originò questa creazione? (…) Chi dunque può dire da dove venne in essere? Da che cosa la creazione è sorta, se si sia tenuta salda oppure no, Colui che le contempla nell’alto dei cieli, Egli sicuramente lo sa – o forse non lo sa!” (RgVeda X, 129) Mettendo a confronto il testo di Andreoli con questo antico inno vedico intendo soltanto sottolineare come la mente dello scrittore veronese nei suoi romanzi si muova all’interno di problemi che si potrebbe chiamare “eterni” e per eccellenza teologici. Lo stesso succede nel romanzo Il corruttore, che finisce con un lungo monologo di Antonio Antiquo, il quale prima di suicidarsi cerca e in qualche modo riesce a riconciliarsi con Dio che non c’è, e in Requiem (2010), dove tra sette persone che parlano si trova anche un prete, il cui lunghissimo monologo che tocca quasi tutti i temi “classici” della teologia chiude il libro. In tutti questi romanzi la questione teologica è centrale e il problema del Dio che non c’è è la chiave della loro lettura e interpretazione. 3. Alcune esperienze personali È interessantissimo indagare tra i testi di Andreoli per ricostruire il suo percorso religioso. Dal punto di vista metodologico rimaniamo sempre nell’ambito dell’Andreoli di carta, senza varcare la soglia della sua intimità biografica. Come lui, da fenomenologo, ha analizzato i matti o i preti di carta, così anch’io analizzo il suo profilo religioso in 127 base a quello che trovo nei suoi scritti, ricordando che lo scritto rivela e vela, dice qualcosa ma anche lo nasconde, soprattutto se si prende in considerazione la sfera per definizione ineffabile e misteriosa della religiosità. Andreoli cresce in una famiglia cattolica, nella cattolicissima Verona, su cui si delinea la figura di Giovanni Calabria, definito più tardi dallo stesso Andreoli “Il santo dell’elettroshock” (FS 371-423). A distanza di mezzo secolo lo scrittore ricorda: “Ho conosciuto personalmente don Giovanni Calabria, alla morte del quale io avevo quattordici anni; ricordo di averlo veduto più volte, quando accompagnavo a San Zeno in Monte mia nonna Virginia che gli portava una particolare devozione. Mia nonna, in realtà, non faceva che esprimere un sentimento diffuso nella città, qualche cosa che apparteneva strettamente a Verona. (…) Il venerdì, dunque, giorno in cui don Calabria era solito ricevere i suoi concittadini, spesso con mia nonna raggiungevo il colle di San Zeno, non lontano dalla via in cui allora abitavo, in quella Veronetta, che sembrava adagiata ai suoi piedi. (…) Si entrava poi in un cortile in cui spesso erano radunate molte altre persone e si attendeva che il ‘Padre’ si mostrasse. Per me, poco più di un bambino (l’ultima volta avrò avuto dodici anni), si attivava una specie di affascinante gioco nell’aspettativa di chi dovesse apparire; un vissuto tra il teatrale e il fiabesco” (FS 371-372). Insomma il futuro psichiatra e scrittore cresce in un clima religioso, mostra i segni di una pietà leggermente eccessiva, apprende il catechismo, ogni mattina serve alla messa come chierichetto, si iscrive all’Azione Cattolica. Poi le cose cominciano lentamente a cambiare. Si possono rintracciare alcuni elementi che hanno influito sul cambiamento religioso di Andreoli: l’interesse per il marxismo, la questione sessuale, la psichiatria e la cultura scientifica. A tutto ciò si può pure aggiungere più tardi anche l’incontro con il mondo del clero cattolico che ogni tanto si mostrava folle (suore e preti impazziti), corrotto (i soldi) e ipocrita (il clero non credente). Ma vediamo una cosa alla volta. 128 Siamo alla fine del 1961, Andreoli ha ventun anni e insieme al suo migliore amico, all’epoca Walter Peruzzi, desidera leggere i testi di Karl Marx, “il demone del tempo”. Ma i due ragazzi, essendo membri dell’Azione Cattolica – e Andreoli in questa organizzazione rappresentava addirittura “la cultura con la delega diocesana per la stampa cattolica giovanile” (CS 115-116) – per farlo chiedono il permesso al loro padre spirituale e quando questi lo nega, si rivolgono al vescovo di Verona, l’allora Giovanni Urbani (più tardi cardinale), che a sua volta rifiuta di concederlo e ai due ragazzi risponde solennemente “con una lettera a cui aveva accluso un’ampia bibliografia dei cattolici che, dietro dispensa speciale, avevano studiato Marx e scritto le loro riflessioni” (SC 117). Oggi la cosa sembra ridicola, ma siamo nell’epoca in cui il potere del clero sulla mente dei giovani, in particolare quelli veronesi, era forte: imponeva persino cosa si poteva o meno leggere. Ciò però mostra in quale clima si è andato formando il sentimento e il pensiero religioso di Andreoli. I due giovani non obbedirono né al loro padre spirituale, né al vescovo Urbani: “Partimmo il 21 dicembre 1961 con tutte le opere di Marx caricate sull’auto, assieme alle scatole di carne che la madre di Walter ci aveva preparato, e fummo accompagnati sulle Torricelle in una casa abbandonata dei Salvi. Vennero a prenderci il 7 di gennaio. Avevamo perso fede, speranza e carità. Walter fece da allora il teologo marxista, io mi dedicai ai matti, nessuno più si occupò di Azione Cattolica, di Dio e di confessioni. Il vescovo, alla nostra disobbedienza, rispose sollevandoci dai nostri incarichi e buttandoci fuori della stessa Azione Cattolica. Abbiamo peccato leggendo integralmente Marx, e vivaddio, visto che eravamo peccatori, non ci siamo più confessati” (CS 117-118). Altra questione riguardava il “triangolo fatale” costituito da Diosesso-confessione. Andreoli, come ogni giovane, era piuttosto vivace in questo campo. Si masturbava, palpava la sua ragazza, eiaculava per poi confessarsi. Il classico circolo vizioso di una certa epoca e della mentalità cattolica. Ecco come lo racconta quarant’anni dopo: 129 “Vedevo la religione come storia del rapporto di ciascuno con Dio. Una relazione non facile che era meglio accompagnare con la supervisione di un padre spirituale” (CS 116). Il suo, negli anni 19571962, fu un certo padre Corrà, poi vescovo di Concordia e Pordenone, che lo studente in medicina spesso incontrava: “Ricorrevo al monsignore soprattutto per la confessione e, poiché mi piaceva peccare, correvo spesso a farmi confessare le mie colpe. (…) consideravo quel suo Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti un mezzo straordinario per ridarmi sicurezza, purificarmi da ogni contaminazione col male e con il demonio. Lo frequentai in maniera quasi ossessiva e forse per lui seccante quando conobbi una ragazza, Laura, con cui eiaculavo molto precocemente, talora ancora prima di mettere le mani al suo seno. Correvo immediatamente a lavare l’anima e poi il corpo” (CS 117). Vale la pena di leggere ancora qualche riga dell’analisi dello scrittore, così acuta e significativa: “confessavo i miei peccati, quelli fatti e quelli da omissione, quelli detti e magari altri non detti perché inconsapevoli. Era impossibile non peccare, e chi si fosse ritenuto senza peccato avrebbe commesso, in quello stesso attimo, il più grave dei peccati, quello della superbia. A me comunque interessava confessare quelli del pene, che rappresentavano il vero problema. Dovevo esplicitarli con precisione, seguendo la didattica del pentimento. Il racconto permette di riviverli mentre compi il peccato, che significa crocifiggere il Figlio di Dio, mandato al mondo per la nostra salvezza, per quella del peccatore, di te peccatore. Ripercorrevo quel calvario passo passo, restando così aderente ai fatti da essere spesso preso da una forte erezione, che a sua volta dovevo confessare per essere certo che quel sacramento fosse all’insegna dell’umiltà, conditio sine qua non della sua efficacia” (CS 118). Lette dalla prospettiva del tempo queste parole svelano una follia e una perversione dell’intero sistema in cui si sono trovati milioni di cattolici. In ogni caso l’intera vicenda, che in fin dei conti era legata alle idee di qualche filosofo (Marx) e con un po’ di 130 eccitazione sessuale, finisce drammaticamente, tanto che Andreoli conclude in un modo laconico e ironico: “Dal 1962 ho eiaculato senza confessione e senza pater ave e gloria” (CS 117). Sei anni più tardi si sposerà a Verona nella chiesa delle sante Tosca e Teuteria e non di rado visiterà le chiese e i monasteri, ma d’ora in poi si può parlare di “trauma teologico” di questo scrittore, che in modo quasi ossessivo dirà di non conoscere Dio: “Nulla posso dire sul Signore poiché non so se c’è, in questo caso se si occupa della fede di ciascuno e se si fosse unito a me, o io a Lui, dal momento che è l’uomo a doverlo cercare” (CS 116). Con simili espressioni di Andreoli, sparse in tutti i suoi testi, si può creare un’intera antologia. Un altro fattore che si sovrappone a tutto ciò è l’esperienza dell’Andreoli scienziato e psichiatra. Studiando il cervello umano nei vari laboratori del mondo, chino sopra un microscopio e preso dai ragionamenti della scienza, di sicuro lui si sarà chiesto: “Dov’è in tutto ciò il posto per Dio”, entrando così nella tipica tensione moderna tra scienza e fede. In modo semplice, riassuntivo, ma chiaro Andreoli sintetizza tale tensione quando parla del suo “maestro” Cherubino Trabucchi “che sosteneva che la teologia venisse prima della scienza e che i neuroni dalla periferia andavano al midollo, e dal midollo nel sistema nervoso centrale, be’, lui aggiungeva ‘un neurone che parte dalla corteccia e va verso il cielo’. Forse faceva bene a credere più a Dio che alla scienza, forse no. Ma questa idea di un neurone che metteva in contatto la corteccia cerebrale con Dio era stupenda” (MM 130). La questione è più seria di quanto sembri a prima vista e riguarda qualcosa che si può definire “immaginazione religiosa” e la sua scomparsa nell’epoca moderna. Mi spiego. Ogni religione è vissuta all’interno di una determinata visione del mondo e dell’uomo ed entra in crisi quando questa sparisce. Basta pensare a come la visione moderna del cosmo fosse messa in discussione dalla religione che immaginava Dio in cielo sopra le stelle e l’inferno sotto terra. La situazione non è stata risparmiata neanche dall’ermeneutica, che ha 131 sviluppato la strategia del pensiero simbolico. Lo stesso riguarda l’uomo. I sistemi religiosi parlano di cuore, reni, chakra, di un’anima, ecc., che in qualche modo sono in contatto col divino. La religione si serve dell’immaginazione, di una “fisionomia mistica” che ha poco a che fare con la vivisezione e l’anatomia scientifica. Si pensi agli insegnamenti o alle dottrine religiose che parlano di un’anima che vola via dal corpo o lo trasforma in corpo spirituale; di un’energia che deve liberarsi dai centri energetici per portare al nirvana, o di un cuore che deve illuminare la mente, ecc. Per tutto questo non c’è posto nella visione anatomica dell’uomo. Se nella concezione dell’uomo manca il posto per una scintilla divina che lo unisce a Dio, scompare la visione religiosa dell’uomo perché in lui non c’è posto per Dio, e di conseguenza scompare Dio. Andreoli, che nei laboratori si occupava di cervello e di sistema nervoso, in questo lavoro si serviva della visione o immagine dell’uomo riprodotta nei disegni, nelle fotografia, nelle equazioni matematiche, fisiche o chimiche. Ma dove in tutto questo si poteva trovare il posto a Dio? Come immaginarlo? Non mi pare di individuare una qualche riflessione più approfondita e tanto meno una qualche risposta a proposito di tale questione nei suoi testi. Esiste solo uno scisma: la visione di Trabucchi e altri, in cui qualche neurone è in contatto con Dio, e la visione di Andreoli e suoi simili, puramente scientifica, per la quale non c’è posto per tale immaginazione. Come psichiatra Andreoli aveva a che fare anche con donne e uomini di Dio, preti, religiosi e religiose, impazziti, presi dalla follia, sofferenti. Un monaco o una suora che impazziscono compaiono spesso nei suoi libri, principalmente nei racconti. D’altra parte alcuni matti (cominciando da Carlo Zinelli) ogni tanto vengono percepiti quasi come dei santi. Insomma, in Andreoli la follia e la religione si affiancano, il santo e il matto coesistono. Il problema diventa serio se si considera il fortissimo imprinting che il giovane Andreoli subì all’interno del contesto cattolico, in cui era cresciuto ed era stato educato. In questo sistema l’uomo, la sua anima, si unisce a Dio grazie 132 alla mediazione variopinta di un prete. Il prete è l’“elemento” sine qua non di questa unione. È il garante di una visione gerarchica della realtà. Ma tale visione salta in aria nel manicomio in cui bisognava curare anche un prete matto, malato di depressione, di schizofrenia, preso da attacchi di isteria o di panico, per non parlare di casi ancora più seri. Nell’ospedale di Marzana, che Andreoli dirigeva, c’era la chiesa, in cui “il cappellano celebrava ogni giorno una santa messa, e alla domenica due o tre, a secondo delle esigenze. A quella delle dieci mi recavo anch’io. I malati, tutti vestiti con divise pulite, erano ammessi a partecipare alla funzione solo dopo essere passati al vaglio della suora. Una volta in chiesa si sentivano diversi. Esattamente come il cristiano che, davanti a Dio, si sente privilegiato in virtù del fatto che Cristo è lì per lui. Cristo era lì per ogni matto. (…) Al momento della comunione, naturalmente, si mettevano in fila solo quelli che erano consapevoli di ciò che facevano e che si erano confessati. E qui sorgeva un grosso problema: un matto può prendere il corpo di Cristo? Sa cos’è un peccato? E se tutti i peccati che commetteva, li faceva senza saperlo? Poteva un oligofrenico, un uomo con poco cervello, prendere Cristo? E questo povero prete (anche lui matto – MB), quando si trattava di dare la comunione mi guardava (io stavo lì in piedi, accanto alla fila dei comunicandi) e allora facevo un gesto di assenso o di diniego a seconda del caso, e lui dava la comunione oppure la rifiutava. Si affidava a me per sapere se la quantità del cervello, e quindi dell’anima, di chi avrebbe dovuto accogliere in sé il corpo di Cristo era sufficiente” (MM 131-132). Sono questioni che dovrebbero essere trattate da un nuovo san Tommaso d’Aquino, in una nuova summa teologica, o da un concilio vaticano terzo, ipotizzabile ma mai avvenuto finora, e poco possibile se si fa conto sulla risposta di una qualche autorità religiosa. Insomma abbiamo nell’impostazione di Andreoli a che fare con una “quaternitas fatale”, composta in parte da un accenno di filosofia di stampo marxista, in parte da un accenno al problema affettivo e morale (sesso), e in parte da un accenno di prassi e teoria scientifica 133 (neurobiologia) e di contesto sociale crollato (preti matti). Tutto questo genera il tormento teologico del nostro psichiatra scrittore e il suo discorso sul Dio che non c’è. 4. Monastero, monaco, monachesimo “Ho visitato monasteri ovunque” (SM 130), “Sono convinto di essere un monaco laico” (CS 43), “Il monachesimo esercita su di me un fascino arcano” (CS 42). Bastano queste tre frasi per affermare che in Andreoli il monachesimo è uno dei grandi temi a cui si associano quelli del monastero e del monaco. Sono temi strettamente legati al problema di Dio, e anzi, il problema di Dio è spesso percepito da questo scrittore nella prospettiva monastica. Il protagonista di uno dei primi testi narrativi del giovane Andreoli, Sogno d’eremita, è Fra Severino, appunto un eremita, e Rozanov, eroe tragico del romanzo Il reverendo (2008), scritto trent’anni più tardi, è un monaco. Ma nel frattempo Andreoli ha scritto diversi racconti ambientati in monasteri e conventi, avendo come protagonisti suore, religiosi, gli stessi monasteri (Il tabù, La clausura, L’eremo della Rocca, Il monastero dei non credenti). Non di rado nelle memorie dei lavoro nei manicomi appaiono pazienti che hanno portato l’abito e il velo, come per esempio la settima storia de I miei matti, che riguarda una suora “visitata dal demonio” (cf. MM 214-220). Insomma i monaci, le suore, i monasteri e i conventi sono componenti forti e importanti per l’Andreoli di carta, e il monachesimo è uno dei suoi principali protagonisti a cui lo scrittore si riferisce molto spesso quando parla di Dio. In altre parole, il monachesimo non solo fa parte del suo mondo letterario, ma la stessa parlata teologica di Andreoli è spesso tipicamente monastica. Il Dio a cui si riferisce Andreoli è il Dio che non c’è proprio perché è un Dio molto monastico. 134 Tutto iniziò quando Andreoli era ancora fanciullo. Intorno infuriava la guerra e il giovane Vittorino si trovava a Garda nella residenza dei nonni il cui terreno confinava con quello del monastero: “Mentre molti dei miei famigliari erano al fronte, io ero sfollato in campagna, vicino all’eremo della Rocca del Garda. La terra del nonno materno confinava con quella dei monaci camaldolesi” (CS 42). Il monastero era un luogo misterioso e mitico e il piccolo Vittorino ci andava col padre: “Di solito accadeva la domenica, di primavera o d’estate, quando il tempo era bello e il lago di Garda un’attrazione. Quel piccolo monastero dava proprio sul lago e di là la vista cadeva a piombo dentro l’acqua. Bisognava alzarsi presto per poter raggiungere l’eremo alle sei e seguire la celebrazione della messa, in chiesa, con gli eremiti nascosti nel coro, da dove proveniva la loro voce che sembrava di tomba. Non era aperto al pubblico, ma qualche persona poteva entrare soprattutto se amica e mio padre li conosceva bene e ne era fortemente affascinato... Da bambino ero attratto da quell’ambiente come da un teatro pieno di magia e sempre in grado di mostrare lo straordinario, ciò che ti scuote, appunto” (RS 377). Poi, per un certo periodo il padre di Vittorino, per sfuggire alle truppe tedesche, vestì l’abito bianco e si nascose tra i monaci, mentre il figlio andava ogni tanto all’eremo a trovarlo. Figuriamoci la situazione: la porta del monastero si schiude e Vittorino corre a buttarsi tra le braccia di suo padre vestito da monaco. Tutto questo costituisce un esperienza paradigmatica, un’impronta fortissima, un viatico per l’intera vita di Andreoli, in cui confluiscono Dio, monastero, monaco, abito bianco, barba, guerra nel mondo, pace nell’eremo, bellezza della natura, mistero, segreto, liturgia, il padre che c’è e che non c’è perché nascosto e travestito da monaco, e il Dio che c’è e che non c’è. Più di mezzo secolo dopo lo scrittore confessa: “Il monachesimo esercita su di me un fascino arcano. Persiste nella mia mente come un richiamo assurdo e meraviglioso” (CS 42). Il monachesimo è per Andreoli un mito, il monaco un archetipo, il monastero un simbolo. 135 Il giovane Vittorino dunque ne subisce il fascino e vuole farsi monaco: “Avevo sei anni quando ho preso la prima decisione di farmi eremita” (SM 130). E ancora, con un tono che si fa sempre più drammatico e sofferente: “Chiesi a mio padre di entrare in monastero a tredici anni e sia pure con molto garbo mi disse di aspettare. E aspetto ancora. Poi mi è parso di non avere la fede sufficientemente forte… Più semplicemente la chiamata non è giunta. Ho girato dappertutto nel mondo: dalla Siria alla Cappadocia, dall’Irlanda a Montecassino. Speravo di incontrare Dio, ma se c’è, evidentemente mi ha rifiutato” (CS 43). Ma nonostante ciò conclude: “Sono convinto di essere un monaco laico. (…) Molte volte, in momenti di difficoltà, ho pensato all’eremo o a un luogo monastico” (CS 43). In altre parole, il mito è rimasto. Ma di che cosa è fatto questo mito? Da una parte il monastero è un luogo ideale, idealizzato nel contrasto radicale con il mondo: “In un monastero fa tutto Dio, a differenza del mondo esterno dove combina ogni cosa l’uomo e fa disastri” (CS 43). Il monastero è frutto del teocentrismo estremo, fiorito sul terreno di un dualismo radicale e non conciliabile: da una parte Dio, dall’altra il mondo, da una parte il monaco, dall’altra l’uomo. Dio non è nel mondo, è nel monastero che è fuori dal mondo. Ma non si può ridurre il mondo al monastero. E se nel monastero fa tutto Dio e in fin dei conti c’è solo Dio, lì non c’è posto né per il mondo né per l’uomo. È un ragionamento paradossale, così tipico di un certo misticismo monoteista e dualista, che da una parte vede l’unico Dio e d’altra il mondo, e che ritiene che per trovare Dio bisogna fuggire il mondo. Vale la pena di ricordare che uno dei romanzi più significativi di Andreoli è intitolato proprio Fuga dal mondo e il suo protagonista, Angelo Spini, è un monaco laico, un autoritratto immaginario di Andreoli, almeno dell’Andreoli di carta. D’altra parte, e di conseguenza, il monastero è un luogo folle: “Il monastero va letto nella logica del Padre che sta nei cieli e si svolge così lontano da quella degli uomini che l’eremo camaldolese sembra un manicomio. (…) La voglia dell’uomo matto come metafora 136 della follia del monastero” (CS 43). In tali frasi ovviamente entra in scena l’Andreoli psichiatra che spesso paragona il monastero a un manicomio e il manicomio a un monastero. Sono due cliché che si sovrappongono l’uno all’altro e l’uno è letto alla luce dell’altro. Il monastero è retto dalla teologia, come il manicomio dalla follia. Ricordiamo che quando Andreoli era fuggito dalla carriera accademica, aveva affermato che si era “ritirato nel manicomio” come se si fosse ritirato dal mondo nel monastero. Poi egli stesso, quando dopo anni di lavoro da psichiatra pensa di ritirarsi dalla vita professionale per dedicarsi alla scrittura, riconosce: “Una tendenza a nascondermi, a chiudermi in un monastero della follia” (CS 25). Dunque c’è nell’Andreoli di carta un monastero di Dio, dal quale poi egli passa al monastero della follia, per finire – e questo è il passo ulteriore – al monastero dei non credenti. Da una parte c’è in lui il desiderio di vita monastica, non conciliabile tuttavia con il suo non credere. D’altra parte, il monastero “classico” gli sembra un posto folle perché in fin dei conti sprovvisto di vita, fuori del mondo, per questo egli propone “Il monastero come luogo della vita sulla terra, non come fuga per l’avvicinamento al paradiso” (CS 44), che chiamerà il monastero dei non credenti. L’idea nasce durante una visita al monastero piemontese di Bose, fondato da Enzo Bianchi negli anni sessanta. Andreoli visita il monastero nel 1999: “Ero affascinato della omelia del priore e confesso che ne avrei voluto tenere una anch’io parlando dell’uomo e non di Dio, del mondo e non del cielo” (CS 45). In qualche modo lo psichiatra è, oltre che affascinato, anche un po’ infastidito dalla “perfezione” di quel posto dove tutto va alla grande, è in ordine e con una particolare benedizione di Dio. Andreoli invece si sente escluso: non ha un Dio con cui condurre una vita così “perfetta” e conosce solo la “comunità dei matti”. Per reazione allora fonda nella sua testa il “monastero dei non credenti” che prenderà forma concreta in uno dei suoi racconti proprio sotto tale titolo (RS 468-479) e poi nel romanzo Il Reverendo, in cui leggiamo: 137 “Il Monastero dei non credenti è il monastero del dio del nulla, del dio del nulla, del dio che non c’è ancora nella visione del mondo, ma che forse esiste e allora occorre cercarlo e cercare è bello, come perdersi in un paradiso in cui non c’è il male, non c’è un futuro d’eterno, ma dove tutto è nulla e nel nulla si trova quella pace che nessuna terra e nessun cielo con un Dio potente possono dare” (RV 425). Questo monastero dei non credenti, nell’immaginazione dello scrittore prende poi forma nel desiderio della vita concreta familiare a casa: “Ho voglia di monastero e il mio sogno è quello di una casa in cui i miei confratelli siano mio moglie e i miei figli e qualche monaco vagante che viene a trovarci e che sta per un po’. Una moglie con cui, oltre a recitare delle preghiere, possa fare anche all’amore, un po’ all’antica in modo che le nostre doti sempre più limitate lo rendano ancora possibile e battendo antiche vie si possa godere del rinforzo della memoria. Un monastero dove i figli qualche volta vengono nel coro e con la bontà nota del Signore recitano preghiere che suonano stonate alla moda, ma aprono le vie del cielo, di altri cieli. Meglio se il cielo è questa terra e pregando la si migliora un po’” (CD 286) Ma l’archetipo del monaco è ambiguo. Da una parte per Andreoli il monaco è una figura sublime e perfetta. Ecco alcune sue espressioni: “Il monaco si nasconde in un saio, nel silenzio, con i pensieri in cielo, senza corsa del tempo” (RS 468); “Il monaco non sa nulla. Un monaco vero tace e se parla prega, perché questa è la voce con cui si rivolge a colui che lo ha illuminato. Parole di lode, di Dio non si può dire nulla se non ‘Sia lodato il Signore Iddio’. Il monaco non ti spiega Dio perché vive con Dio, è Dio” (RS 471); “Un monaco non cerca la verità, ammesso sia definibile e afferrabile, il monaco cerca Dio, una presenza che ne dà la prova assoluta per sé, anche se potrebbe essere priva di significato per l’altro e per la verità, come viene codificata nei libri della verità” (RS 472). Queste frasi sembrano benissimo provenire da qualche Padre del Deserto e paiono adatte per 138 essere raccolte lungo i secoli nei florilegi scrupolosamente copiati e arricchiti di commentari. Ma sono di uno psichiatra e scrittore contemporaneo e mi fa tenerezza pensare che forse sono state scritte in una casa sulle colline veronesi. Esiste però un’altra immagine del monaco negli scritti di Andreoli, un monaco folle, impazzito. Tanto il primo aspetto è iconico, quanto quest’ultimo è una anti-icona. Il monaco impazzito è per Andreoli un uomo che ha rinunciato al mondo, ma non ha trovato Dio oppure ha trovato, o si è inventato, un dio e non riesce più con esso a stare nel mondo. Il monaco impazzito è una persona tragicamente sola che, presa spesso dai dubbi e dalle passioni erotiche, entra in un vortice di sofferenza e follia. Diversi suoi racconti narrano le vicende piuttosto piccanti di monache possedute dal “demone erotico”, incontrate da Andreoli nella sua carriera di psichiatra. Per esempio: “Mi sono occupato anche di una suora carmelitana che durante le crisi isteriche inconsapevolmente introduceva un crocifisso in vagina, ferendosi gravemente tanto da venir ricoverata” (V 20). Per questo in fin dei conti, quando il professore pensa ai monaci, alle monache e ai monasteri, ha davanti a sé “un monachesimo fatto anche di dubbi, di ambivalenza: il sogno della castità, ma anche la voglia di peccare” (SM 129). Questo suo modo di considerare il monachesimo, di vedere il monaco e il monastero, è tipico di una certa cultura religiosa. Andreoli ne è un tipico frutto, ma anche una vittima. Nei suoi scritti troviamo il meglio e il peggio del monachesimo della cultura religiosa cattolica. La sapienza del monachesimo e la sua follia, la sua bellezza e il suo orrore sono mescolate nei romanzi, nei racconti e nelle meditazioni. Un modo di pensare il monachesimo e Dio che sembra appartenere al passato ed è un richiamo a un ricordo: “Ho nostalgia di quel monachesimo lontano. Sono andato a cercarlo, ma ho scoperto che è fatto soprattutto di fantasia e che potrebbe però rinascere: è difficile rievocarlo, rappresentarlo. Forse è solo un’allucinazione, un delirio fatto di desiderio, e forse è solo follia” (CM 131). Il suo “forse” 139 sarebbe il monachesimo senza Dio fatto di monasteri per i non credenti. 5. La natura Andreoli è uno straordinario osservatore e poeta del mondo che lo circonda. Non è solo uno storyteller e un ritrattista di personaggi che vivono nei suoi libri. Servendomi di una metafora presa dalla pittura direi che è anche un paesaggista. Nei suoi libri si incontrano descrizioni molto acute delle città: non mancano le descrizioni di piazze, palazzi, strade, come anche i panorami incominciando dal Veneto e l’Umbria, che poi si allargano all’Africa e agli Stati Uniti, per soffermarsi più di recente anche sull’amata Scozia in cui lo scrittore periodicamente si rifugia. Sottolineo tutto questo non per dire che il paesaggio è uno dei protagonisti importanti dei suoi libri, il che è vero e interessante, ma per mettere in rilievo il ruolo della natura nei suoi scritti e soprattutto la dimensione teologica che essa gioca. Senza girare troppo intorno e sfruttare inutilmente la retorica, direi che la sua percezione della natura è molto monastica e, in quanto tale, molto teologica. Nella classica spiritualità monastica il monaco vive tra cielo e terra e fugge la compagnia degli uomini. Deserti, foreste, montagne sono i tipici posti per i monaci che cercano più una comunione con il cosmo che con gli uomini. In questi posti, spesso in una solitudine estrema, conoscono al massimo gli spiriti, i demoni, molto meno si confrontano con i volti umani e con la storia. Il monaco è preso da un’estasi cosmica o la cerca. In questa esperienza, che spesso percepisce come mediazione volta ad unirlo con il suo Dio, il mondo degli uomini è dimenticato. Il monaco per definizione è asociale. Usando un’immagine direi che il monaco è trascinato soprattutto dalla corrente che scende dal cielo, lo attraversa e, inchiodandolo alla terra, paradossalmente lo rapisce in un’estasi; è 140 molto meno trascinato dalla corrente orizzontale che forma il tessuto sociale e che è chiamata “la storia”. Il monaco cerca l’eternità e per questo è affascinato dalla dimensione a-storica. L’Andreoli di carta da un lato è l’uomo della storia e della società, ma il mondo degli uomini è tragico, è follia, violenza e dolore. Egli entra dalla città degli uomini nel manicomio soltanto per scoprire che il mondo intero è folle. Certo si impegna in questo mondo per lui piuttosto folle: collabora, scrive, parla in TV, si mette in gioco, ma solo per essere preso, prima o poi, dall’irresistibile desiderio di fuga in luoghi solitari dove trasforma le sue esperienze mondane in scrittura che si dilata in silenzi di spazi vuoti e nel mistero della natura, e ogni tanto si serve in tali momenti di contemplazione dell’apparato fotografico. E, rimasto da solo ai confini della terra, scatta foto e scrive: “La solitudine ai limiti del mondo non è percepire la propria singola solitudine, ma è come se il mondo rimanesse solo. Chissà cosa deve aver provato il Creatore, solo di fronte all’immensità dell’universo. Forse ha avuto paura e nella paura ha pensato che valesse la pena perfino di fare un Adamo, che certo ha creato molti guai persino a un Dio. È sconvolgente la sensazione che si prova ai confini, e quel limite oltre il quale non si può che sperimentare la solitudine estrema. È dunque alla ricerca della solitudine, con la paura della solitudine, che ho attraversato il mondo per toccare i suoi confini” (SM 230-231). Il testo sembra essere uscito dalla penna di uno dei Padri della Chiesa (ad esempio Gregorio di Nissa) che spesso meditavano sulla prima pagina della Genesi e con il pensiero si immedesimavano in Adamo con l’intenzione di sperimentare almeno in questo modo la sua beata solitudine. Insomma, in Andreoli c’è una simile tendenza mentale, la convinzione che per trovare Dio bisogna spingersi in una situazione estrema, e quindi la capacità e il desiderio di versare tutto questo in uno scritto. Nei suoi libri si trova un’infinità di tali testi; ne riporto qui ancora uno che proviene da un album con fotografie del cielo: nuvole, nuvolette, tramonti, aurore su cui si protendono i rami degli alberi, gli 141 uccelli che migrano da chi sa dove verso l’ignoto, gli orizzonti fatti di mare, montagne, pianure, campi e foreste. Anche questo è Andreoli che, guardando le nuvole, così si esprime: “Vedo mostri, ma anche angeli e quel vecchio, con la barba, che con una mano alzata benedice la terra e forse saluta anche me che, stanco di terra, vorrei trovare nel cielo un luogo dove riposare senza l’angoscia dell’orrore e senza la paura che mi rende fragile come una foglia d’autunno ormai ingiallita. Osservo il sole che mi obbliga a chiudere gli occhi, che non posso vederlo nel suo significato profondo perché li acceca. E poi la luna che gira la notte cercando in vano un senso e facendo un poco di luce. E ancora le stelle che immobili luccicano all’infinito. Il cielo diventa il teatro della mia fantasia e io cerco di guidare i personaggi che lo abitano come fa un regista che voglia raccontare una storia fatta di bellezza e di paura. Una regia colorata d’azzurro e sovente nera come una nube carica di pioggia e di rabbia. E così vago da oriente a occidente, da sud a nord e disegno continuamente una croce che mi ricorda la ripartizione della spazio, ma anche il Golgota. E in questo peregrinare, mi ricordo dell’Inno alla gioia di Schiller quando il poeta invita a girare nel cielo poiché da qualche parte deve esserci Dio. Il Dio del cielo, il Dio dell’eterno, il Dio di Abramo, il Dio del mistero, il Dio che forse non c’è ma che io cerco sempre perché da qualche parte potrebbe esserci. E mi pare di vederlo talora nella effigie di una nube. Sulla terra, per quanto giri, trovo sempre l’uomo e mi spaventa, nel cielo posso incontrare Dio. Non importa se fatto di nuvole e costruito dal desiderio. Se non c’è sarebbe bene ci fosse e io comunque continuerei a cercarlo, invano” (FC 7-8). C’è dunque un Andreoli di carta, disperato e tragico, nei suoi romanzi e racconti, c’è un Andreoli di carta che ogni tanto consola gli altri dalle pagine dei suoi saggi, e anche un Andreoli di carta che in alcune sue meditazioni cosmiche sembra essere rasserenato dai frammenti di cielo e della natura, e poi c’è un Andreoli di carta teologico che è un enigma. Si nota però in tutto ciò una forte tensione, 142 e persino una divisione radicale tra cielo e terra, tra Dio e mondo, una separazione che emerge con forza dall’Andreoli di carta. Non si sa se questa separazione sia reale o finta, non si sa se sia propria della mente dell’uomo o forse causata dall’uomo stesso. In ogni caso nell’Andreoli di carta esiste una forte e irriducibile tensione tra Dio, mondo e uomo. È una tensione tragica. 6. Iconoclasta blasfemo Per non cedere a un tono troppo solenne e rimanere invece più fedele al clima presente negli scritti di Andreoli, cambio registro, tema e circostanze. Siamo con lo scrittore sul treno che lo porta da Copenaghen a Snekkersten in Danimarca. Ecco alcune sue reazioni preliminari: “Il treno fa schifo perché si muove puntuale: non sbaglia nemmeno di un secondo. L’annuncio delle stazioni procede regolarmente, con la voce tranquilla di chi non ha altro da fare che dare quell’annuncio. E sono su un accelerato” (CS 271). E dopo qualche istante, avendo dato un’occhiata intorno: “Il treno è talmente pulito da provocare il vomito” (CS 272). In questo clima nella sua mente italiana scatta una riflessione, un desiderio: “Ho nostalgia del casino caloroso e angosciante dell’Italia, al punto da essere tentato di salire sulla poltrona con le scarpe, estrarre il pene e pisciare recitando un’ode di Catullo, in latino. Purtroppo nessuno mi farebbe andar fuori di testa e perdere ogni controllo. Una follia in cimitero” (CS 271-272). Ecco l’Andreoli di carta casinista. L’Andreoli di carne solitamente si trattiene, si comporta come un gentiluomo. Invece l’Andreoli di carta si permette di immaginare e descrivere tante cose, anche in campo religioso. Sfida i tabù, collega gli opposti, distrugge i miti, si compiace di eresie ed espressioni blasfeme. I suoi monaci impazziscono, le monache si sputtanano nel nome di Dio, i cardinali non credono in Dio, gli orgasmi sessuali e le estasi mistiche si 143 fondono, le preghiere suonano come bestemmie e le bestemmie diventano preghiere, “Dio è un folle” (CS 43) o non c’è. Si permette ed è libero di esprimere quasi ogni tipo di associazione mentale, mentre possiede una soglia della censura interiore e verbale è molto bassa. Se ai tempi dell’Inquisizione un tale scrittore sarebbe finito immediatamente sul rogo, e sotto un potere religioso debole verrebbe accusato di offendere le pie orecchie, nel mondo contemporaneo un tale atteggiamento si presenta come una sfida ermeneutica, cioè deve essere compreso e interpretato. Le possibilità interpretative sono più d’una. La prima si collega allo stile letterario e al modo di pensare di Andreoli che ho definito “sinfonia fenomenologica”. Questo scrittore annota nei suoi testi quasi ogni tipo di associazione mentale e verbale che riguarda Dio. Dio può essere un Creatore, ma anche un Nulla, un Padre tenero come anche un individuo offeso, sdegnato e impassibile, una saggezza suprema e un folle, una realtà come anche una pura illusione. In altre parole, di Dio si può dire e pensare tutto ed è proprio questo “tutto” che Andreoli letteralmente esprime nei suoi testi. Da ciò risulta però che il concetto, la comprensione e la parola non possono essere luoghi della dimora di Dio, perché ad ogni concetto, pensiero e parola è possibile contrapporre un altro concetto, pensiero e parola. Basta leggere a questo proposito il racconto-dialogo Dio e lo psichiatra, in cui ad uno psichiatra che passa la vacanza sulle Dolomiti, durante una passeggiata, si affianca qualcuno che è proprio Dio stesso. La situazione è assurda dall’inizio alla fine. Lo psichiatra prende questo “qualcuno” che dice di essere Dio come un matto. Quando l’interlocutore dello psichiatra gli dice: “Io sono il Padre Eterno, professore”, egli risponde: “Ne ho conosciuti molti e oggi, fortunatamente, abbiamo degli strumenti abbastanza efficaci per rendere possibile anche ai Padri Eterni una vita normale, inserita nella società con un posto di lavoro. Possono mettere su famiglia, se lo vogliono. Non li guariamo, nel senso di togliere le cause del disturbo, ma li gestiamo sapendo di imbrigliare la malattia e con i continui 144 controlli minimizzare le manifestazioni. Si rivolga allo psichiatra della sua zona. Io, e mi dispiace, non mi posso dedicare a lei. Se mi dice dove abita e conosco qualcuno, potrò suggerirle di andarci a mio nome, se lei pensa sia utile” (RS 415). Insomma, lo psichiatra è convinto che bisogna curare Dio dal suo essere Dio. Non solo lo tratta da matto, ma anche parla liberamente con questo Dio pur dichiarando che non è credente. In tale tipo di contraddizioni tutto è permesso, tutto è possibile, e perciò non ne risulta un bel niente né per questo Dio né per lo psichiatra. Si parla, si parla, si parla come se si girasse a vuoto. E così per ben venti pagine di questo testo, la cui lettura è un esercizio divertente sia per un credente che per un non credente, e forse persino per Dio. La seconda è una irresistibile voglia di scioccare e sconvolgere il lettore, seducendolo con i trucchi dell’arte narrativa verso le zone che giacciono nella mente di molti, ma sono respinte dentro qualcosa che non si sa cosa sia né dove sia, ma che generalmente viene definito “inconscio”. Senza dubbio è seducente il racconto Il tabù, una parodia sia della vita claustrale, sia della psicoanalisi freudiana rigida, in cui una clarissa di nome Germana si stende sul lettino nello studio di un professore. Attraverso tale trattamento la fede risulta una fantasia e il sentimento estatico un orgasmo. La suora, che si sente unita al Signore, desidera perfino unire a Dio lo psichiatra non credente mediante un’unione sessuale con lui, perciò a un certo momento, come dice il testo, “Si spogliò e apparve bella, da poter sedurre persino un puro spirito. Il seno in eccitazione, un ventre magro e demoniaco, pieno di passione. Lo psicoanalista prese paura. (…) Si distese sul letto, con quel corpo magnifico che sapeva di santità, ma anche di perdizione. Mentre godeva con il suo Signore, aveva un’espressione felice come si trovasse in un mondo lontano, fatto di angeli e di armonie celesti. Aprì gli occhi e recitò una preghiera con tale intensità da commuovere il professore che, perso il controllo, si era inginocchiato in estasi, sia pure terrestre”. Poi tutto finisce velocemente e in modo comico: “Con grazia e rapidità lei coprì quel corpo e lo rese sacro come quello di 145 tutte le monache. Il professore era sconsolato e piuttosto confuso. Era opportuno passare subito dal suo Supervisore per analizzare, in termini freudiani, quanto gli era capitato” (TF 76-86). È una piccola fantasia erotica “soft”, che se filmata avrebbe potuto gareggiare con le piccanti scenette della “commedia erotica all’italiana”. Il testo senza dubbio seduce, ma può anche scioccare ed offendere. Ma l’Andreoli di carta permette ai suoi lettori di sognare tali “fantasie proibite”, regalarsi “un’oretta di follia”. La terza spiegazione mostra che tali testi possiedono una funzione catartica. Nell’epoca moderna si è capito che la religione, con i suoi divieti e precetti, ha contribuito moltissimo alla repressione, alla nevrosi, alle patologie, alla violenza e al crimine. Andreoli stesso ne ha subito le conseguenze, ha avuto a che fare con tale problema nella sua vita professionale di psichiatra, e forse proprio attraverso lo scrivere ha cercato di uscirne. Di sicuro i suoi testi possono offendere “le pie orecchie”, ma possono anche essere liberatori. Sono pensieri che attraversano la mente religiosa e che possono essere considerati come nuvole che attraversano il cielo azzurro. È una tipica prassi proposta da alcune scuole meditative in cui i pensieri, tutti e senza alcuna repressione, vengono lasciati scorrere tranquillamente, sono osservati – si dice – e così si sperimenta che tali pensieri, nel caso di Dio, blasfemi, iconoclasti, immorali, impuri, eretici, appaiono e scompaiono, appunto come le nuvole. In tale processo l’idea di Dio viene dissociata e purificata da tutto ciò che non è degno di lui e della fede in lui: “Quando vedo cattolici pieni di sé e ascolto le osservazioni di cardinali addobbati come ballerine di cancan, non ho dubbio alcuno sul loro non credere. La fede non è legittimata dall’abito che si indossa o dalla zono in cui si abita. Ci può essere un vantaggio secondario di far credere che si crede” (CD 75). Forse Andreoli scrive proprio per liberare la sua mente. Forse i suoi testi possono funzionare come percorsi meditativi che uno attraversa insieme allo scrittore per uscire dalle ossessioni represse che giacciono nella sua mente e così purificarla. Ovviamente rimane 146 aperta la questione se tali cose stiano veramente così e se tali testi, oltre a testimoniare il percorso personale dello scrittore, veramente operino nel lettore. Si tratta forse di una questione personale che non può essere generalizzata. Di sicuro tale proposta interpretativa sfida le vie “classiche” della spiritualità dominante in queste latitudini, forse ne è una via d’uscita. Con quale metro però misurare la forza di questo “forse”? 7. Il Dio che forse non c’è Nel suo saggio Capire il dolore (2003) Andreoli svela il proprio doloroso sentimento religioso: “Lo affermo per esperienza: il dolore di non credere è enorme e talora insopportabile. Forse il dolore più grande che io abbia provato, almeno in questa fase della mia esistenza, che non è quella dei verdi anni. Non credere è un dolore, poiché il non credente si trova tra i credenti e si chiede quale sia la differenza, che lo distingue da quelli amici che stima e con i quali condivide molte esperienze di vita e molti princìpi. Un dolore che si fa rabbia contro quel Dio che si mostra sempre all’amico e mai a te. Ogni sera va a casa sua e da me, che abito nell’appartamento accanto, nulla. E anche il mio è ben arredato e sono altrettanto gentile e disposto ad accoglierlo. Se viene e si fa riconoscere, io prometto di credere, ma non posso credere soltanto perché voglio credere. Lo diceva Pascal in quei pensieri che hanno il sapore di sentenze eterne: ‘Non basta voler credere per credere’. Basterebbe che questo Dio bussasse anche alla mia porta, dietro cui sto a origliare per essere pronto ad aprire, ma non è mai successo. Qualche sera sono stato davanti all’uscio per guardarlo mentre entrava dal mio amico, ma si è negato persino a questo atto di voyerismo. Provo rabbia perché mi prende in giro. Io ci sono, ma se occorre essere in due, vivaddio, vieni. Mi sembri un sadico” (CD 76). 147 Dunque un’assenza e una dolorosa esperienza del non credere “pur volendo credere” (CD 78), che nei scritti di Andreoli trova il suo culmine simbolico e si riassume nell’espressione “Il Dio che non c’è”, che spesso appare nei suoi testi. È uno dei suoi ritornelli preferiti che appare nei suoi libri quando parla di Dio. Così medita su Dio Fra Severino in Sogni d’eremita, così ne pensano e ne parlano i protagonisti dei suoi “romanzi teologici maturi”: Pëtr Rozanov de Il reverendo e il gerarca de Il cardinale. Di solito appare la frase secca e incisa “Il Dio che non c’è”, ma una volta, in un testo quasi poetico del libro con le sue fotografie Frammenti del cielo, già citato, lo scrittore la modifica leggermente e di fronte al fascino del cielo parla del “Dio che forse non c’è”. In questa espressione è significativa ogni singola parola come anche l’insieme, con e senza questo intrigante “forse”. Andreoli ha scritto persino Preghiera al Dio che non c’è, inserita nella raccolta Racconti segreti. È un pezzo notevole di letteratura che oserei chiamare mistica e che non si può non richiamare parlando della teologia di questo scrittore. La leggo, e intanto mi permetto di commentarla, aggiungendo alle frasi strappate a questo testo le mie glosse con la speranza di non guastare nulla, di non mancare il rispetto e di non passare da arrogante o noioso scolastico. Trovandosi a Inverkirkaig in Scozia e colpito dalla bellezza di questa “cattedrale della natura, in questo mistero avvolto della bellezza e di pace”, si inginocchia e nella sua mente scorrono le parole che immediatamente riversa sulla carta: “Qui ti chiamo e nel silenzio ti imploro e ti dichiaro mio Dio. Ti riconosco Signore del mio dubbio, del mio bisogno di pregare e di lodare, di gridare, di piangere e di amare” (RS 480). C’è dunque un’irresistibile bellezza, un’esperienza dell’incanto: il mare, il cielo, la montagna, il colore, l’aria e il silenzio in cui e grazie a cui nella mente e sulla lingua dello scrittore affiora l’antica parola “Dio”. Non può farne a meno, ma non può neanche rimuovere il suo perenne sentimento del dubbio. L’incanto rende il Dio presente e lo attira, il dubbio copre questa presenza con una foschia mentale. Ma 148 il bisogno di pregare è forte. Però in questo momento la mente di Andreoli, mente scientifica che non può stare ferma a lungo in questo incanto, inizia il suo abituale giro secondo lo schema “causa-effetto” o “inizio-seguito”. Così emerge subito la classica domanda: “L’hai fatta tu questa baia? Hai disegnato tu questa insenatura di oceano? Hai scelto tu il colore del cielo e la temperatura da dare alle acque per riempirle di pesci e al suolo per permettere la vita di questo giardino?” (RS 480). Così la mente schiude il discorso sul Creatore. Andreoli, cresciuto all’interno della tradizione ellenico-semitico-cristiana, non può non pensare a Dio come a un Creatore e al mondo come alla “creatio ex nihilo”. Da qui la domanda in cui è inclusa automaticamente anche la risposta, tanto gloriosa quanto drammatica: “Tu hai compiuto la creazione e io ti proclamo, io grido la tua potenza, e ti ringrazio per la limitatezza che mi ha portato ad avere un Dio e se non c’è, mi ha permesso di immaginarlo” (RS 480). Tutto ciò è drammatico perché pensare Dio come creatore è un’impresa tragica: tale Dio potrebbe essere frutto dell’immaginazione, ed anche se non lo fosse l’uomo non potrebbe immaginarlo se non a immagine e somiglianza di se stesso, come un macro-uomo: “Io non sarei capace, né nessun uomo sa dare vita a questo stormo di aironi” (RS 480). È un pensiero giusto ma anche blasfemo, perché in fin dei conti è antropomorfico. La mini-capacità dell’uomo è la misura della maxicapacità di Dio. Così in gioco entra la categoria della potenza, che nella storia spesso muta nel concetto di potere. Per questo l’uomo preferisce fuggirne, consolandosi con il pensiero che tutto ciò è forse solo la sua immaginazione. E in ogni caso, anche se Dio c’è, in gioco entra l’immaginazione umana che può essere illusoria. Andreoli dunque, scosso da questo che lui chiama dubbio, cerca una conferma, un aiuto nella tradizione. Per non lasciarsi trascinare da qualcosa di 149 tremendo si rifugia col pensiero nella tradizione e nella compagnia di altri uomini: “L’uomo nella sua miseria ha composto preghiere straordinarie e così nasce un Dio. Con l’inno alla bellezza e al mistero, ti ho fatto. Signore, sento suonare tutte le campane della storia, recitare le litanie dei monasteri, cantare le Missae Domini che i cuori e la paura di tutti gli uomini hanno orchestrato e in questa estasi chiudo gli occhi e mi quieto. Lo sguardo incantato, la voce commossa, pensieri di vita eterna” (RS 480). Per il momento, grazie alla forza della tradizione, della consapevolezza in cui gli altri da secoli hanno creduto e pregato, il cuore dello scrittore è calmo, il pensiero sfiora l’eternità, cioè esce fuori del tempo e dunque fuori dai discorsi, dalle distinzioni e dal cambiamento. Ma poi il dubbio ritorna perché non è mai andato via: “Cosa importa sapere che ci sei, dimostrarti in maniera inequivocabile e quindi doverti riconoscere. Io ti lodo non ti dimostro, io ti prego non vengo a patti. Non voglio decaloghi ma legami. (…) Se non esisti io ti creo, se non mi senti io ti chiamo, se sei lontano io ti invoco e ti porto in questo scenario divino che, se non ha un Dio perché non lo ha fatto un Dio, allora è il tempo di eleggere un Dio, il Dio del cielo e della terra. Che importa che tu ci sia? È essenziale che uno ti desideri, che l’uomo senta dal suo limite la tua grandezza. Senza di te, l’uomo non può stare nemmeno dove Tu non ci sei” (RS 480-481). Il linguaggio e il pensiero si fanno sempre più paradossali, costituiti da un “no” negato da un altro “no”, che forse nascondono entrambi un “sì” inesprimibile. Per un momento sembra che nello scrittore tutto si sia calmato: “Dio mio, ti invoco, ti canto, ti supplico, ma non ho nulla da domandarti, desidero solo contemplarti” (RS 481). Ma poi subito appare la paura della morte e della solitudine estrema: 150 “Ho bisogno che tu ci sia per cancellare la paura di scomparire o di non esserci affatto, perché, perché da solo non ho senso e appaio a me stesso come una chimera, come una luce tremula sulle onde dell’oceano. (…) È possibile che tu abbia fatto me e poi te ne sia scordato? Qui, in questo teatro della natura io sono nulla, uno spettatore di passaggio. (…) Un nulla capace di pregarti e persino di inventarti, di cercarti. (…) Sono nulla e un Nulla può fare Dio, ma non può esserlo” (RS 481). La preghiera va così avanti e indietro tra ansia e quiete. E io leggendola mi domando che cosa stia alla base di tutto questo, al di là, se ciò è possibile, delle emozioni, dei sentimenti, dalle impressioni che esplodono creando tali ghirlande delle parole. Nel fondo sta l’immagine di Dio come creatore, come chi fa e disfa. Insomma, un “theos”. Da qui nasce la visione del mondo e dell’esistenza distesa tra due nulla, un nulla prima della creazione, o nascita, e un nulla dopo la fine del mondo, o morte. Da qui nasce anche il desiderio dell’uomo di fuggire e di disfarsi, seguendo in questo impeto il mito della creazione dal nulla e facendosi con ciò simile al Creatore che fa e disfa. E se Dio è ma non è creatore? Come pensarlo allora? E se pensare a Dio come creatore è solo un modo di pensare il mondo e l’uomo in questo mondo? Ma qui vado oltre quello che trovo nell’Andreoli di carta. Anche se in questo mio pensiero trovo una qualche spiegazione alle sue fughe e tensioni teologiche, torno al testo che culmina con un’espressione paradossale: “Mi sento pieno di Dio, di un Dio che non c’è. Il mio Dio c’è perché non c’è” (RS 482). Come se leggessi un mistico, ad esempio Maister Eckhart: “Se dunque io dico: Dio è buono – non è vero; io sono buono, ma Dio non è buono! […] lontano da Dio sono tutti e tre i termini, buono, migliore e migliore di tutti: egli è al di sopra di tutto. Se, inoltre, io dicessi: Dio è saggio – non è vero; io sono più saggio di lui! Potrei aggiungere: Dio è un essere – non è vero; egli è un essere e un nulla al di sopra dell’essere! Perciò dice sant’Agostino (a dir il vero lo dice Dionigi – 151 MB): la cosa più bella che l’uomo può dire di Dio, è tacere, per la saggezza della interiore ricchezza. Taci, dunque, e non borbottare su Dio, perché, se borbotti su di lui, dici menzogne e commetti peccato. Se dunque vuoi essere senza peccato e perfetto, non borbottare su Dio! Neppure devi voler comprendere qualcosa di Dio, perché Dio è al di sopra di ogni comprensione. […] Se dunque non vuoi diventare animale, non comprendere niente di Dio, che è inesprimibile in parole! – Ah, come devo fare allora? – Tu devi sfuggire completamente al tuo essere tuo, e fonderti nel suo essere suo, e così il tuo “tuo” nel suo “suo” deve diventare completamente un “mio”, in modo da conoscere eternamente con lui il suo immutabile essere increato e il suo indicibile nulla” (Renovamini spiritu mentis vestrae, in: Sermoni..., pp. 255-256). O per esempio Scoto Eriugena che scrive: “Deus propter excellentiam non inmerito nihil vocatur (Dio per la sua eccellenza, non senza ragione, sia chiamato Nulla)”, e ancora Tommaso d’Aquino: “Ille qui melius unitur Deo hac vita unitur ei sicut omnino ignoto” (Chi si unisce a Dio nella migliore forma in questa vita, gli si unisce come qualcosa di assolutamente sconosciuto). Non voglio assolutamente fare di Andreoli uno scolastico o un teologo attribuendogli qualcosa che lui stesso non vede in sé, ma che io vedo e dico che in lui c’è. Sarebbe una forzatura. Ho evocato alcuni esempi della cultura religiosa occidentale solo per mostrare che Andreoli, nella sua parlata religiosa, si muove nello stesso clima, nello stesso paradigma che include parole come Dio, Creatore, creatura, mondo, Nulla, incomprensibilità, paradosso. In tutta questa tragedia teologica legata a “il Dio che non c’è”, a un certo momento lo scrittore veronese trova una strana ma interessante via di uscita, una forma di consolazione che gli accade mentre va scrivendo Il corruttore (2009). Alla fine del romanzo, il protagonista Antonio Antiquo, un altro alter ego di Andreoli, pronuncia parole che sanno di meditazione e di preghiera, e che potrebbero costituire la sua sintesi teologica, almeno in questa fase della sua vita: 152 “Non so nulla di te e non posso dire nulla di te. Ma sono felice, felice, o Dio dell’eterno, proprio perché non so niente, perché ho la sensazione di una ignoranza che è soltanto parte della logica dell’uomo e di questo tuo mondo, che ha i limiti del tempo, che muore. Sono felice perché amo la libertà, anche se la libertà si lega alla temporaneità, perché all’uomo non può appartenere l’eterno che ti appartiene come creatore del mondo. Amo questa piccola libertà, ma anche la certezza che io avrei fatto tutto ciò che mi avresti potuto chiedere, perché a un Dio non saprei disubbidire, ammesso che questa conoscenza lasciasse ancora l’uomo libero. A me pare che scomparirebbe e che l’uomo entrerebbe nella determinazione che è quella dell’eterno. Se sono di fatto un infedele, sappi che nello stesso tempo io sarei tuo fedele se solo avessi saputo che tu hai richiesto ciò che io non immagino, perché di te non so nulla, nulla al di fuori della tua esistenza. Ignoro cosa significhi esistere per chi è eterno e tu solo lo sei e tu solo lo puoi sapere. Anche se tu me lo indicassi, non potrei capirlo, perché con la mia mente che è dentro il tempo non si comprende ciò che sta fuori del tempo, ciò che è eterno: ecco il perché credo che non si sappia nulla di te e che non lo si possa sapere” (CR 380). Una volta Henri Le Saux, monaco bretone e cristiano, dopo anni di vita in India e dopo la sua immersione nel Vedānta, era profondamente tormentato perché si trovava tra il mondo cristiano, paradigma in cui era cresciuto e del quale gli era stato detto che non avrebbe dovuto abbandonare, e il paradigma Vedānta, vecchio in sé ma nuovo per lui, in cui scomparivano i tanti dilemmi del monaco bretone cristiano. Un suo amico, Raimon Panikkar, commentando questa sua tensione, essenzialmente molto razionale, gli disse che la sua teologia non era all’altezza della sua esperienza. Forse lo stesso si potrebbe dire anche di Andreoli. Forse la teologia presente nei suoi scritti non è all’altezza delle sue intuizioni e probabilmente anche 153 della sua esperienza che si potrebbe definire religiosa o mistica. Ma la teologia non è mai all’altezza della nostra esperienza. Intuisco che se un giorno Andreoli scoprisse questo suo Dio che forse non c’è, si ritroverà a non poterlo scrivere, ma finché egli vorrà scrivere di questo Dio, dovrà almeno trattarsi di un Nulla. Così deve essere finché Andreoli è l’Andreoli di carta; anche quando con il proprio nome ha firmato il libro Il silenzio dello psichiatra, di cui ho saputo che stava per essere pubblicato proprio mentre stavo finendo di scrivere queste pagine. Purtroppo l’editore (Rizzoli) gli ha imposto il cambiamento del titolo e così il libro è apparso come Dialogo tra uno psichiatra e il suo paziente (2011). Il potere delle leggi del mercato editoriale hanno di nuovo avuto il meglio sopra la forza della verità silenziosa della parola. 154