Working Papers n.20 - Biblioteca del Dipartimento di Studi per l

Transcript

Working Papers n.20 - Biblioteca del Dipartimento di Studi per l
DIPSIT
Dipartimento di Studi per
l’Impresa e il Territorio
Risorse rinnovabili per prodotti ecocompatibili:
i biopolimeri
Riccardo Olivani
[email protected]
Working paper n. 20, maggio 2007
Abstract
Le sempre più pressanti istanze ambientali, unite alla maggiore
consapevolezza dell’opinione pubblica circa le tematiche inerenti
all’inquinamento derivanti dallo sfruttamento delle risorse fossili e il
contemporaneo rincaro dei prezzi di queste ultime, aprono di fatto nuove
possibilità per il settore della chimica verde.
Uno dei campi in cui si evidenziano le maggiori potenzialità di crescita è
proprio quello delle bioplastiche. A partire dai primi studi e brevetti (risalenti
agli anni ’80), molti grandi nomi della chimica mondiale si stanno ora
febbrilmente concentrando in vario modo sullo sviluppo di nuovi materiali idonei
a sostituire in più settori applicativi le plastiche tradizionali con altre derivanti
da materia vegetale dunque rinnovabile.
Occorre valutare, dopo aver analizzato brevemente la storia evolutiva delle
principali famiglie di bioplastiche, quali siano i settori merceologici in cui questi
innovativi materiali stanno fin d’ora dimostrando plusvalori sconosciuti ai
polimeri tradizionali, particolarmente in virtù della propria spiccata
biodegradabilità. L’analisi poi non deve prescindere dagli orientamenti
legislativi dei governi, in verità ancora molto embrionali, che possono aiutare lo
sviluppo di tecnologie ambientalmente più sostenibili.
2
RICCARDO OLIVANI
Assegnista di Ricerca presso la Facoltà di Economia di Novara
dell’Università del Piemonte Orientale
RISORSE RINNOVABILI PER PRODOTTI ECOCOMPATIBILI:
I BIOPOLIMERI
SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. I biopolimeri - 2.1. L’acido polilattico - 2.2. Il Mater-Bi - 2.3. Una
categoria particolare: biopolimeri da metabolismi batterici. - 3. Le tendenze di mercato - 4. I principali
settori applicativi - 5. Gli orientamenti europei - 6. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
I biopolimeri (detti anche bioplastiche) sono polimeri preparati attraverso processi
che conferiscono al prodotto finale un’elevata biodegradabilità. Un forte interesse di
tipo tecnologico e conseguentemente una grossa spinta innovativa nei confronti di
questi polimeri nacque negli anni ‘70, sia per la drammatica attualità della crisi
petrolifera in atto, che faceva ritenere prossima la fine delle scorte, sia per la crescente
avversione di gruppi ecologisti e dell’opinione pubblica nei confronti di prodotti ritenuti
fonte di inquinamento ambientale. Superato poi brillantemente il timore
dell’esaurimento repentino delle scorte in seguito all’individuazione di nuovi giacimenti
ed al mutamento delle relazioni economiche e politiche tra i paesi occidentali ed i
produttori mediorientali, rimase invece aperto e sempre più marcato il problema
dell’inquinamento. Solo ora, a causa dell’elevato prezzo del petrolio registrato
nell’ultimo biennio, anche le questioni economiche (rialzo dei prezzi delle materie
prime derivate) ritornano ad essere motivo fondamentale di attente valutazioni. Proprio
su questo punto vertono oggi le discussioni in merito al ruolo da assegnare all’intero
settore per il futuro. Riguardo invece all’aspetto particolarmente preoccupante
dell’inquinamento occorre ricordare le problematiche connesse allo smaltimento dei
materiali plastici, che ad esempio negli USA rappresentano il 20% in volume dei rifiuti
solidi urbani, specie nei casi in cui non sia avviato un ben funzionante sistema di
differenziazione e recupero dei rifiuti. Si cercano quindi, oggi come allora, polimeri in
grado di sostituire quelli di origine petrolchimica dal punto di vista delle proprietà e
degli impieghi senza presentare il collaterale problema ecologico: cioè polimeri
biodegradabili.
2. I biopolimeri
La definizione di polimeri biodegradabili riporta, secondo normativa ISO: “polimeri
progettati per andare incontro a cambiamenti di struttura chimica, ad opera di
3
organismi viventi come batteri, funghi, alghe, che hanno come risultato la perdita di
alcune proprietà”. Nel variegato e ancora in gran parte embrionale mondo delle
bioplastiche esistono però due fondamentali macrocategorie:
•
biopolimeri derivati dalla petrolchimica, come ad esempio i derivati da alcol
polivinilico come l’Hydrolene, da alcuni poliesteri, da poliesteriammidi, da
copoliesteri alifatici-aromatici come Ecoflex (Basf), Biomax, Hytrel e Sorona
(DuPont);
•
biopolimeri derivati da materiali di origine vegetale, quindi rinnovabile, come
l’amido e le relative miscele (come il Mater-Bi della Novamont, che usa mais, o
il Solanyl della olandese Rodenburg, che usa bucce di patata), l’acido polilattico
derivato da zuccheri (come il NatureWorks della NatureWorks, finora prodotto
da mais), la lignina, la cellulosa e i poliidrossialcanoati.
Gli aspetti della biodegradabilità e della provenienza da risorse annualmente
rinnovabili, specie se considerati congiuntamente, costituiscono i plusvalori ambientali
e quindi commerciali di questi prodotti. Ciò spiega perché le ultime tendenze spingono
quasi tutti i produttori ed utilizzatori a mettere maggiormente in evidenza la provenienza
da risorse rinnovabili (polimeri al secondo punto) ed i vantaggi correlati: diminuzione di
uso di risorse fossili con conseguente riduzione di emissioni di CO2 in atmosfera.
Infatti è in questo caso fondamentale evidenziare la rinnovabilità della materia prima
vegetale, originatasi dall’acqua e dalla fissazione dell’anidride carbonica atmosferica
mediante il processo fotosintetico, concetto, questo, alla base della neutralità rispetto
alle emissioni di CO2. In aggiunta a ciò esiste la possibilità di creare filiere locali che
mettano in ciclo chiuso la produzione agricola di biomasse e la produzione di
bioplastiche in bio-raffinerie regionali. A tal proposito l’italiana Novamont, con
stabilimento produttivo a Terni, ha recentemente creato in Umbria una filiera costituita
da centinaia di imprenditori agricoli, finalizzata ad una gestione completa della
produzione di biomasse con relativa trasformazione in bioplastiche.
2.1. L’acido polilattico
L’acido polilattico (PLA) è un poliestere alifatico termoplastico e biodegradabile di
origine vegetale che viene prodotto con processi di fermentazione e distillazione a
partire da amido, principalmente di mais. La storia industriale di questo particolare
biopolimero risale al 1988 quando la Cargill Inc. intraprese un progetto per la
produzione industriale di PLA con il proposito di creare un biopolimero di derivazione
vegetale attraverso procedimenti di conversione dell’acido lattico in lattide. Nel 1994
l’azienda costruì il primo stabilimento pilota con una capacità produttiva di 5000
tonnellate annue a Savage, Minnesota, per testare la validità del processo industriale.
4
Agli inizi del 1995 la Cargill creò un’alleanza (formalizzata nel 1997 ed in essere
tutt’ora sotto il nome di NatureWorks) con il gruppo chimico Dow Chemical Company
al fine di commercializzare i polimeri PLA. Operativamente, dopo il processo di
estrazione dal granoturco dell’amido, quest’ultimo viene trasformato in destrosio
attraverso idrolisi enzimatica con valori di pH prossimi alla neutralità, data l’assenza di
catalizzatori acidi. Attraverso poi un processo di acidificazione e una serie di passaggi
di purificazione il lattato, ricco di sale, è raffinato per ottenere acido lattico.
Successivamente esistono due metodi principali per produrre acido polilattico a partire
dal monomero dell’acido lattico, differenti sia dal punto di vista chimico/impiantisco,
sia da quello della tipologia di polimero ottenuto. La prima tecnica, detta
polimerizzazione a condensazione diretta, prevede la rimozione dell’acqua attraverso
condensazione con l’uso di un solvente in condizioni di vuoto spinto ad elevata
temperatura e presenta il notevole inconveniente di produrre solo polimeri con valore di
peso molecolare basso/medio, a causa della difficoltà di eliminare completamente
l’acqua ed altre impurezze. Sono tuttavia ancora allo studio tecniche di miglioramento
dei limiti presentati da questa tecnica; la giapponese Mitsui Chemicals ha sviluppato
infatti un nuovo processo basato sulla policondensazione diretta dell’acido L-lattico per
consentire la produzione di PLA ad alto peso molecolare senza l’uso di solventi. La
seconda tecnica, detta polimerizzazione ad apertura di anello attraverso l’intermedio
lattide, è quella scelta da Cargill Dow. Nella prima fase del processo viene rimossa
grossolanamente l’eccesso d’acqua in condizioni di reazione moderate e senza l’ausilio
di solventi; il risultato di questo trattamento iniziale è un pre-polimero di basso peso
molecolare che viene poi depolimerizzato con un catalizzatore per formare il dimero
intermedio lattide, poi purificato con distillazione. Il lattide purificato è in seguito
trasformato in granuli di polilattide con una polimerizzazione ad apertura di anello
senza uso di solventi. Il vantaggio di quest’ultima tecnica è la maggior controllabilità
della reazione che può portare a diversi gradi di purezza del lattide con la possibilità di
produrre quindi una vasta gamma di pesi molecolari compresi quelli più elevati, preclusi
invece alla tecnologia di policondensazione diretta. Poiché l’acido lattico è una
molecola chirale, esso esiste sotto forma stereo-isomera e la polimerizzazione ad
apertura di anello può produrre diversi tipi di polimeri, ciascuno caratterizzato da
differenti proprietà: ad esempio nel caso di elevata presenza di lattide L si possono
ottenere polimeri cristallini, mentre nel caso opposto si ottiene un materiale più amorfo.
2.2. Il Mater-Bi
Un’azienda all’avanguardia nell’utilizzo di materie prime rinnovabili è l’italiana
Novamont. Il suo principale prodotto, il Mater-Bi, è una bioplastica costituita da una
sovrapposizione di strutture costituite da amido di mais destrutturato. Il prodotto finito
ha proprietà meccaniche simili al polietilene (PE), in particolare comprese tra LDPE e
5
HDPE (a bassa/alta densità), ma è completamente biodegradabile. Tra altre
caratteristiche degne di nota si segnala la ottima compostabilità in un ampio range di
condizioni, che vanno dal compostaggio domestico a cumulo statico al reattore di
fermentazione tipico degli impianti municipalizzati o dei produttori industriali di
compost per agricoltura. Fondamentale, ai fini di ottenere un prodotto idoneo sia al
confezionamento di alimenti sia alla produzione di sacchi specifici per il conferimento
della frazione umida dei rifiuti solidi urbani, è l’assoluta impermeabilità nei confronti
dei microrganismi patogeni (barriera biologica), pur conservando una grande
modulabilità del parametro di permeabilità al vapore d’acqua. È infatti interessante
notare che quest’ultima proprietà rende possibile creare sacchi per la raccolta
dell’umido che consentono una riduzione del peso del rifiuto in misura del 20% già
entro il terzo giorno (traspirabilità, senza però fuoriuscita di odore sgradevole). La
valenza ambientale di tale biopolimero è notevole; infatti i risultati di LCA mostrano,
scelto 1 kg di Mater-Bi come unità funzionale, un’energia complessiva impiegata
compresa tra i 19 e i 53 Mj ed emissioni di gas serra variabili da -0,34 kg (cioè
assorbimento invece che emissione) a 1,2 kg di CO2, contro i circa 80 Mj e i 2 kg di
CO2 della produzione di un kg di polietilene tradizionale.
2.3. Una categoria particolare: biopolimeri da metabolismi batterici
I poliidrossialcanoati (PHA o PHB e similari) sono una particolare famiglia di
biopolimeri di origine vegetale che si differenziano dagli altri per il particolare tipo di
preparazione che non consta di un processo produttivo industriale (tradizionalmente
inteso) bensì si avvale essenzialmente di batteri atti a portare a termine i processi di
polimerizzazione per via intra-cellulare. Attualmente questa categoria di macromolecole
sono sintetizzate da un centinaio di generi di batteri (quali Pseudomonas, Ralstonia,
Azotobacter, Rhizobium). Utilizzando generalmente una matrice a base di glucosio ed
in particolare con limitazione di nutrienti quali N, P, S, i poliidrossialcanoati si
accumulano nel batterio, come riserva di carbonio, sotto forma di granuli fino ad una
concentrazione che può raggiungere il 90% del peso secco della massa batterica. Le
ricerche su questi composti risalgono ai primi decenni del secolo scorso, già nel 1926
erano stati individuati alcuni di questi composti come costituenti del microrganismo
Bacillus Megaterium. Da allora sono stati individuati molti altri PHA; in generale la
composizione precisa dei PHA dipende dal tipo di batterio da cui sono sintetizzati e dal
mezzo di coltura. L’estrema variabilità della natura chimica delle catene laterali e delle
relative dimensioni (ad esempio i batteri del gruppo Ralstonia producono delle catene
laterali corte, mentre quelli del tipo Pseudomonas producono catene laterali medie) è
alla base di una notevole varietà di proprietà dei poliidrossialcanoati. In tempi più
recenti, nel 1975, Imperial Chemical Industries (ICI) iniziò a interessarsi alla sintesi
batterica del copolimero idrossibutirrato/idrossivalerato, fino a giungere nel 1983 ad un
6
brevetto europeo. Ad essa subentrò Zeneca (e successivamente Monsanto concentrata
prevalentemente nell’intento di riduzione dei costi di produzione) che commercializzò il
copolimero Biopol, un polimero termoplastico, isotattico, ad elevata cristallinità.
Contemporaneamente altre società industriali e numerosi centri di ricerca negli Stati
Uniti, in Europa e in Giappone lavoravano all’ottimizzazione di processi e
all’individuazione di nuove tecniche di produzione, sempre allo scopo di ridurre i costi.
Tra i vari tentativi, molti dei quali non hanno portato a risultati significativi, si ricorda
ad esempio l’impiego diretto di melasse zuccherine per l’accrescimento della coltura.
Particolarmente attiva in questo campo si è rivelata Metabolix che ha ottenuto numerosi
brevetti relativi alla produzione di tipi diversi di PHA. Successivamente, invece,
Monsanto è uscita dal business, ma altri gruppi industriali e istituti di ricerca sia
statunitensi che europei stanno continuando a lavorare sull’ottimizzazione della
produzione di poliidrossialcanoati da piante e da batteri geneticamente modificati quali
Escherichia Coli. Quest’ultimo offre il vantaggio di essere già ampiamente studiato sia
sotto l’aspetto delle modalità ottimali di crescita sia sotto l’aspetto della struttura del
metabolismo che tra l’altro non prevede processi di demolizione (depolimerizzazione)
del PHA costituito. In definitiva, pur molto interessanti e promettenti dal punto di vista
delle proprietà chimico-fisiche e da quello del miglioramento del processo produttivo,
questa variegata famiglia di biopolimeri ha finora ottenuto scarsi risultati in termini di
diffusione, principalmente a causa dei costi molto elevati (intorno ai 15 €/Kg).
3. Le tendenze di mercato
I dati di produzione e vendita del 2006 mostrano una notevole crescita delle
domanda di bioplastiche. L’associazione European Bioplastics ha indicato un
incremento sino al 100% sull’anno precedente, soprattutto per gli usi nel bioimballaggio mentre per i film in biopolimeri si evidenziano, addirittura, tassi di crescita
ancor più significativi e per il 2007 è già in atto la conferma di questo trend.
Analizzando più nello specifico le quote di mercato appare però evidente che ad oggi,
nonostante il continuo susseguirsi di brevetti e nuove ingegnerizzazioni, la domanda di
bioblastiche è soddisfatta principalmente da due produttori: la statunitense NatureWorks
(produttori di PLA) e l'italiana Novamont (produttori di Mater-Bi). Le dichiarazioni di
queste società confermano il momento particolarmente positivo che di fatto sta portando
rapidamente alla creazione di nuovi impianti produttivi e al potenziamento di quelli già
in attività. Rispetto al mercato delle plastiche derivate da petrolio, che nel 2003 in
Europa superava i 40x106 t/anno (con un tasso di crescita intorno al 5% annuo), i
biopolimeri avevano un mercato di sole 35-40000 t/anno, incentrato principalmente sul
settore dell’imballaggio.
Per questa ragione la prospettiva di crescita del settore è molto concreta (a titolo
esemplificativo nel 2001 il consumo era stato di sole 25000 t). Più in generale per
7
l’intero settore si stima un mercato potenziale che nel medio periodo potrà raggiungere
il 10% dei consumi complessivi di materie plastiche, raggiungendo presumibilmente per
il mercato europeo la quota di 1x106 t/anno nel 2010 e di 5x106 t/anno nel 2020 (fig. 1).
migliaia di t
FIGURA 1 - dati da: http://www.european-bioplastics.org
4000
3500
3000
2500
2000
1500
1000
500
0
2001
2003
2010
2020
anno
Una grossa spinta alla crescita di mercato a cui si sta assistendo è dovuta senza
alcun dubbio alle scelte commerciali della grande distribuzione (GDO). Negli ultimi
anni infatti quest’ultima ha, anche sulla base di un’aumentata consapevolezza nei
confronti delle tematiche ambientali mostrata dalla clientela, avviato alla
commercializzazione una nutrita serie di prodotti “ecologici”. Tali articoli, spesso
certificati da marchio Ecolabel nel caso di prodotti industriali o certificati come
provenienti da agricoltura biologica nel caso di prodotti alimentari, sono sempre più di
frequente confezionati con imballi costituiti da biopolimeri. È infatti indubbio che la
maggior parte del mercato della bioplastica sia costituito proprio dal settore packaging.
Alcune aziende europee di GDO propongono già da tempo tali prodotti alla clientela:
•
Italia: Coop, Carrefour, Iperstore;
•
Regno Unito: Sainsbury’s, Tesco, Marks & Spencer;
•
Belgio:Delhaize, Carrefour;
•
Germania: Rewe, Edeka;
•
Olanda: Albert Heijn;
•
Austria: Spar.
8
4. I principali settori d’applicazione
Molto interessanti sono le prospettive di utilizzo del PLA in luogo del polietilene
tereftalato (PET) nel settore dell’imbottigliamento delle acque naturali minerali e di
sorgente. Esistono già due esperienze di bottiglie in PLA NatureWorks,
commercializzate rispettivamente da Belu (Gran Bretagna) e da Biota (U.S.A.). Questi
due esempi evidenziano però anche alcuni limiti nella tecnologia attuale: in particolare
il ridotto effetto barriera alla CO2 rende per ora il PLA inidoneo all’imbottigliamento di
bevande gasate, anche se sono già allo studio particolari strutture multistrato atte ad
ovviare a questo inconveniente. Inoltre la vita utile (definita shelf-life) si aggira intorno
ai 6 mesi ed è considerata ancora troppo ridotta per questo particolare ambito
applicativo. Dal punto di vista del processo produttivo invece il PLA si comporta
ottimamente potendo essere lavorato, previa regolazione dei parametri macchina, con
estrusione a caldo (tecniche di blow moulding) esattamente come il PET. Un altro
settore molto importante per volumi di vendita, peraltro simile a quello
dell’imballaggio, in cui i biopolimeri in generale (ed il PLA in particolare) stanno via
via acquisendo significative quote di mercato è quello che viene definito del catering
monouso, ossia piatti, bicchieri e posateria. In questa particolare e redditizia nicchia di
mercato il PLA sta rapidamente guadagnando terreno nei confronti dei polimeri di
origine fossile tradizionalmente usati, polistirene (PS) in primo luogo. Le prestazioni
meccaniche e di resistenza agli agenti termici (derivanti, nell’uso, dagli sforzi applicati e
dai repentini sbalzi di temperatura dovuti al contatto con cibi/bevande molto freddi o
molto caldi) dei prodotti in biopolimero sono del resto assolutamente paragonabili a
quelle delle plastiche tradizionali. Riguardo al mercato in forte espansione del bioimballaggio, sia quello a breve sia quello a più elevata shelf-life, è però fondamentale
menzionare anche i motivi di preoccupazione mostrati dal settore, ormai abbastanza ben
avviato, del riciclo delle plastiche ordinarie. Tali operatori evidenziano, probabilmente
non a torto, la concreta possibilità che, all’interno di un circuito di raccolta differenziata,
una quota non trascurabile di bioplastiche possa essere erroneamente conferita con le
plastiche tradizionali anziché con la frazione umida. Appare dunque evidente che,
volendo uscire dalla logica pur redditizia della nicchia di mercato (in cui è presumibile
che i consumatori di tali prodotti siano già correttamente informati, poiché sensibili e
interessati, circa le modalità di corretto smaltimento), deve essere svolto un massiccio
lavoro di sensibilizzazione e informazione della clientela ad opera delle aziende che
intendono avvalersi di biopolimeri e delle aziende che si occupano della raccolta dei
rifiuti. Proprio nel campo della raccolta dei rifiuti il Mater-Bi, data la peculiarità di poter
essere ottimamente lavorato per la produzione di film sottili, si è già imposto in Italia
come candidato ideale per la realizzazione di sacchetti idonei per il conferimento della
frazione umida con l’ovvio vantaggio per le aziende di recupero di non dover separare il
sacchetto al momento dell’invio alla stazione di compostaggio. Le potenzialità dei
9
sacchetti biodegradabili vengono allo stesso modo replicate in campo agricolo
consentendo, date le particolari caratteristiche, vantaggi preclusi ai polimeri tradizionali.
In ambito agricolo stanno infatti venendo alla luce particolari applicazioni in cui il
biopolimero risulta essere nettamente preferibile ad esempio rispetto alla famiglia dei
polietileni (LLDPE, LDPE, HDPE a secondo della densità). Il caso più emblematico è
costituito dai teli per la pacciamatura, tecnica di coltivazione tra l’altro che riduce la
necessità di ricorso all’agrochimica. I teli per pacciamatura in Mater-Bi, normalmente di
12 micron di spessore, svolgono la stessa funzione di ricopertura del terreno consentita
dai tradizionali teli in PE avendone le stesse caratteristiche di resistenza, elasticità ed
efficacia pacciamante; presentano però l’indubbio vantaggio di non dover essere rimossi
e conseguentemente smaltiti, in quanto biodegradano naturalmente con tempi
compatibili con quelli della pratica agricola. Studi effettuati dal Dipartimento Progesa
(progettazione e gestione dei sistemi agro-zootecnici e forestali) della Facoltà di Agraria
dell’Università di Bari indicano consumi di materiali plastici in agricoltura in misura di
320000 t/anno. In particolare, il fine vita dei film plastici usati in agricoltura desta
preoccupazione per le errate condizioni di smaltimento dal momento che i fenomeni di
abbandono e combustione dei medesimi sono in aumento. Nel caso dei teli in
biopolimero invece la biodegradazione avviene spontaneamente, pur dipendendo in
maniera sensibile dalle condizioni climatiche e ambientali quali temperatura, umidità e
attività microbica del terreno. Le sperimentazioni condotte indicano una vita utile
variabile tra un minimo di 3 mesi a un massimo di 5/6 mesi (per i cicli autunnali); in
ogni caso va ricordato che, ovviamente se non sono in corso coltivazioni, è possibile
accelerare il tempo di naturale biodegradazione con una semplice fresatura volta allo
sminuzzamento e interramento del materiale. Sempre nel settore agricolo l’olandese
Rodenburg Biopolymers ha presentato al mercato una gamma di vasi di varie
dimensioni per floro-vivaisti in Solanyl; il vantaggio di questi prodotti consiste nel non
necessitare la rimozione (e quindi lo smaltimento) degli stessi durante le operazioni di
trapianto: le piante possono essere messe a dimora nel terreno direttamente dal
momento che il vaso biodegrada in breve tempo. Non mancano poi gli esperimenti di
utilizzo dei biopolimeri in campi più innovativi. Ad esempio, il Mater-Bi è impiegato in
un pneumatico di Goodyear (denominato Biotred), come additivo, sotto forma di
microgranuli, detti nanofiller, in sostituzione del nerofumo e della silice. La
diminuzione della resistenza al rotolamento, dovuta alla minore isteresi (fenomeno che
dissipa energia meccanica sotto forma di calore), riduce di fatto i consumi di carburante
delle autovetture, con un conseguente abbattimento delle emissioni di CO2 fino a
10g/km pari a circa il 15% della riduzione totale imposta ai costruttori automobilistici
entro il 2008 dall’Unione Europea. Per quanto riguarda il PLA, opportunamente trattato,
un altro felice campo di applicazione può essere costituito dal settore tessile;
NatureWorks ha già depositato un marchio (Ingeo) che raccoglierà in futuro tutte le
possibili declinazioni di questo nuovo ambito applicativo.
10
5. Gli orientamenti europei
In Giappone vi è stata, fin dalle prime esperienze commerciali, una distinzione netta
tra le plastiche biodegradabili di qualunque origine e quelle di origine vegetale, per le
quali esiste una certificazione ad hoc che attesta la provenienza da biomassa per almeno
il 25% (norma ASTM D6866-05).
In Europa, invece, l’interesse maggiore è stato rivolto, prescindendo dall’origine
delle materie prime, soprattutto sugli aspetti della compostabilità, con l’introduzione del
marchio secondo norma UNI-EN13432 e altri marchi più specifici (come OK Compost
di Aib-Vinçotte, fig. 2) che indicano il grado di compostabilità in sistemi di
compostaggio sia municipali sia casalinghi. Per quanto riguarda il compostaggio in
impianto, il marchio maggiormente diffuso in Europa è quello Compostable (fig. 3)
promosso da International Biodegradable Polymers Association & Working Groups
(IBAW) già presente in Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Regno Unito e a breve
anche in Belgio e Francia. Anche in Italia è stata istituita una certificazione (logo in fig.
4) a cura del Consorzio Italiano Compostatori (CIC) che fissa procedure metodologiche
più stringenti rispetto alla UNI-EN13432, ritenuta troppo generalista.
FIGURA 2 - da: http://www.beauvais-diffusion.com
FIGURA 3 - da: http://www.ecosofia.org
11
FIGURA 4 - da: http://www.polimerica.it
La biodegradabilità è chiaramente un valore aggiunto notevolissimo specie per
quelle alcune applicazioni quali, come già evidenziato, i sacchetti per i rifiuti organici, i
film da pacciamatura e varie altre applicazioni agricole che possono beneficiare della
completa e rapida biodegradazione senza richiedere uno smaltimento dedicato. Molto
più complicata e controversa è invece la questione degli shopper, sui quali è in corso
una discussione a livello europeo. Ad esempio, in Francia è stata approvata una
disposizione, già recepita attualmente da molti supermercati, che prevede entro il 2010
l’uso esclusivo di shopper biodegradabili. Anche il Governo italiano sembrerebbe
imitare l’orientamento francese attraverso un emendamento alla recente Finanziaria
2007; inoltre è stata ridotta al 4% l’IVA sull’acquisto dei teli pacciamanti
biodegradabili, sulla base del decreto del 6 luglio 2004 del Ministero delle Politiche
Agricole e Forestali.
In Germania, dal 2005 e fino al 2012, una norma sta consentendo ai distributori di
non pagare le tasse sugli imballi in biopolimero, mentre in Irlanda già dal 2002 è in
vigore una tassa di 15 centesimi su ogni sacchetto in plastica tradizionale per la spesa
acquistato, scoraggiandone di fatto il consumo e destinando i proventi per progetti
dedicati all’ambiente con grande sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
6. Considerazioni conclusive
Tutto il settore della chimica verde, non solo quindi quello legato alle bioplastiche, è
indubitabilmente ormai da anni in forte espansione e, ancor più dei dati di mercato, la
dimostrazione più semplice di questa tendenza è il continuo insediamento e
potenziamento di nuovi stabilimenti produttivi. Esempi concreti sono lo stabilimento
Novamont a Terni, recentemente passato da una produttività di 8000 t/anno a 20000
t/anno, il nuovo impianto BIOP da 10000 t/anno in Danimarca, quello di
ADM/Metabolix da 50000 t/anno nel nuovo insediamento di Clinton, Iowa (USA).
È pertanto probabile, oltre che fortemente auspicabile, che nei prossimi anni i
biopolimeri andranno ad aumentare le proprie quote di mercato proprio nei settori dove
12
già oggi dimostrano notevoli richieste, imballaggi in particolare. Occorrerà poi valutare
in un futuro prossimo quali saranno le possibilità di applicazione concrete degli studi
oggi in corso con particolare riferimento alle applicazioni a più elevato contenuto
tecnologico. Ad esempio, sono in corso studi e collaborazioni anche con case
automobilistiche, per mettere a punto bioplastiche (ovviamente idonee ad impieghi
durevoli) in grado di sostituire parte di quelle tradizionali. L’importanza della crescita di
nuovi ambiti applicativi risulterebbe importantissima per l’aumento dei volumi di
vendita con la conseguente creazione di economie di scala più consistenti e, oltre a ciò,
stimolerebbe ulteriormente il fondamentale settore della ricerca e sviluppo.
Da un punto di vista ambientale i biopolimeri garantiscono reali vantaggi. Benché
una valutazione approfondita sulla LCA (diversa, come ovvio, per ogni prodotto) esuli
dagli scopi di questo lavoro, si può sicuramente affermare che le emissioni inquinanti
totali nel ciclo di vita della bioplastica sono inferiori alla media delle plastiche
tradizionali ed in particolare le emissioni di CO2 risultano in buona misura abbattute
dalla quota di essa assorbita dal vegetale in fase di crescita. Accanto a questi dati già
incoraggianti esistono ancora notevoli margini di miglioramento dal punto di vista di
efficienza del processo produttivo e, oltre a ciò, esiste la volontà per le aziende
produttrici di avvalersi di tecnologie “verdi” per la produzione dei propri fabbisogni
energetici. All’avanguardia in questo campo, NatureWorks ha dichiarato di voler
abbassare (anche grazie ad affinamenti del processo) la quota di ricorso all’energia
fossile da 54 Mj/kg di PLA a 7 Mj/kg. Già ora il principale stabilimento produttivo da
140000 t/annue è alimentato con energia elettrica certificata come proveniente da fonte
eolica.
Ovviamente scelte di questo genere si rivelano ora la miglior campagna di
marketing per aziende che hanno sposato la sostenibilità ambientale nella mission
aziendale. La speranza è che questo genere di orientamenti produttivi vengano
mantenuti e consolidati anche nel momento in cui, per costi e volumi di vendita, i
biopolimeri saranno definitivamente usciti dalle nicchie di mercato. Un ruolo
fondamentale in questo scenario dovrà essere giocato anche dagli altri attori:
•
•
•
Governi e organismi sovranazionali cui spetta la formulazione di una
legislazione favorevole;
Società di certificazione vigili sull’operato dei produttori e sull’intera filiera
produttiva;
Consumatori critici ed informati.
Riguardo al concetto fondamentale di filiera produttiva, il ruolo forse più importante
sarà giocato proprio dal mondo agricolo da cui la materia prima deriva. La già citata
esperienza di Novamont, che ha creato in Umbria una filiera produttiva integrata,
dimostra che la strada della collaborazione attiva tra agricoltura e industria è fattibile e
13
proficua. In tal modo diventa concreta l’opportunità di valorizzare maggiormente il
prodotto agricolo anche nell’ottica (relativamente alla situazione UE) delle recenti
modifiche della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Questi mutamenti stanno infatti
progressivamente riducendo e uniformando i contributi erogati per le varie tipologie di
coltivazioni. Svincolando la scelta delle colture dalla entità dei contributi, si assisterà
con tutta probabilità ad un netto cambiamento degli ordinamenti agricoli e,
presumibilmente, ad un rafforzamento del ruolo multifunzionale dell’agricoltura con un
peso sempre maggiore delle colture ad uso non-food. L’agricoltura del futuro, infatti,
dovrà sempre di più affiancare alla funzione primaria di produzione di alimenti (motivo
principale per cui nel secondo dopoguerra fu creata la PAC) quella di salvaguardia
dell’ambiente, presidio del territorio e mantenimento della biodiversità pur nell’ottica di
una valenza economica riconosciuta alla pratica colturale.
È poi interessante notare quanto una gestione attenta della filiera produttiva, volta
all’accorciamento della medesima, possa generare vantaggi sia da un punto di vista
ambientale sia da un punto di vista economico con la riduzione di tutti i costi afferenti
alla logistica (trasporto materie prime e semilavorati in primo luogo), pur rispettando le
economie di scala derivanti dalla taglia degli impianti produttivi.
Infine sono meritevoli d’attenzione le possibilità d’integrazione che possono nascere tra
il settore produttivo dei biopolimeri e quello di altri comparti della chimica verde quale
quello, pure in grande espansione, dei biocarburanti. Una delle sinergie che potrebbero
portare, sia ambientalmente che economicamente, a notevolissimi risultati dal punto di
vista della completa valorizzazione della biomassa vegetale di partenza, è la possibilità
di creare nuovi biopolimeri o intermedi di reazione a partire dal glicole propilenico.
Questo è infatti ottenibile in grandi quantità e a prezzi contenuti dalla glicerina,
sottoprodotto, quest’ultimo, ineliminabile e per ora scarsamente valorizzato, derivante
dal processo di trans-esterificazione con metanolo di acidi grassi vegetali, ossia dal
processo produttivo industriale del biodiesel.
14
Riferimenti bibliografici
Gazzetta Ufficiale n. 219, 17 settembre 2004
Novamont: documentazione interna
Scarascia Mugnozza G., Vox G., Schettini E., Prove sperimentali con applicazioni di
film biodegradabili nella protezione delle colture, 12 Febbraio 2005, Fiera del Levante,
Bari
Steinbüchel A., Doi Y. (2004), Biotechnology of Biopolymers, Wiley-vch
Steinbüchel, A., Doi Y. (2004), Polyesters I-III, Wiley-vch
Valera M., Poliidrossialcanoati polimeri biodegradabili del futuro? (prima parte), La
chimica e l’industria, 83, giugno 2001, 49
Valera M., Poliidrossialcanoati polimeri biodegradabili del futuro? (seconda parte),
La chimica e l’industria, 83, settembre 2001, 57
Vink E. et al., Applications of life cycle assessment to NatureWorks TM polylactide
(PLA) production, Polymer Degradation and Stability 80, 2003, 403
http://www2.dupont.com/Sorona/en_US/index.html
http://www.biop.eu
http://www.biopolymers.nl
http://www.biotec.de
http://www.corporate.basf.com
http://www.european-bioplastics.org
http://www.fkur.de
http://www.materbi.com
http://www.metabolix.com
http://www.natureworksllc.com
http://www.polimerica.it
http://www.uni.com/it
15