Working Papers n.20 - Biblioteca del Dipartimento di Studi per l
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DIPSIT Dipartimento di Studi per l’Impresa e il Territorio Risorse rinnovabili per prodotti ecocompatibili: i biopolimeri Riccardo Olivani [email protected] Working paper n. 20, maggio 2007 Abstract Le sempre più pressanti istanze ambientali, unite alla maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica circa le tematiche inerenti all’inquinamento derivanti dallo sfruttamento delle risorse fossili e il contemporaneo rincaro dei prezzi di queste ultime, aprono di fatto nuove possibilità per il settore della chimica verde. Uno dei campi in cui si evidenziano le maggiori potenzialità di crescita è proprio quello delle bioplastiche. A partire dai primi studi e brevetti (risalenti agli anni ’80), molti grandi nomi della chimica mondiale si stanno ora febbrilmente concentrando in vario modo sullo sviluppo di nuovi materiali idonei a sostituire in più settori applicativi le plastiche tradizionali con altre derivanti da materia vegetale dunque rinnovabile. Occorre valutare, dopo aver analizzato brevemente la storia evolutiva delle principali famiglie di bioplastiche, quali siano i settori merceologici in cui questi innovativi materiali stanno fin d’ora dimostrando plusvalori sconosciuti ai polimeri tradizionali, particolarmente in virtù della propria spiccata biodegradabilità. L’analisi poi non deve prescindere dagli orientamenti legislativi dei governi, in verità ancora molto embrionali, che possono aiutare lo sviluppo di tecnologie ambientalmente più sostenibili. 2 RICCARDO OLIVANI Assegnista di Ricerca presso la Facoltà di Economia di Novara dell’Università del Piemonte Orientale RISORSE RINNOVABILI PER PRODOTTI ECOCOMPATIBILI: I BIOPOLIMERI SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. I biopolimeri - 2.1. L’acido polilattico - 2.2. Il Mater-Bi - 2.3. Una categoria particolare: biopolimeri da metabolismi batterici. - 3. Le tendenze di mercato - 4. I principali settori applicativi - 5. Gli orientamenti europei - 6. Considerazioni conclusive. 1. Introduzione I biopolimeri (detti anche bioplastiche) sono polimeri preparati attraverso processi che conferiscono al prodotto finale un’elevata biodegradabilità. Un forte interesse di tipo tecnologico e conseguentemente una grossa spinta innovativa nei confronti di questi polimeri nacque negli anni ‘70, sia per la drammatica attualità della crisi petrolifera in atto, che faceva ritenere prossima la fine delle scorte, sia per la crescente avversione di gruppi ecologisti e dell’opinione pubblica nei confronti di prodotti ritenuti fonte di inquinamento ambientale. Superato poi brillantemente il timore dell’esaurimento repentino delle scorte in seguito all’individuazione di nuovi giacimenti ed al mutamento delle relazioni economiche e politiche tra i paesi occidentali ed i produttori mediorientali, rimase invece aperto e sempre più marcato il problema dell’inquinamento. Solo ora, a causa dell’elevato prezzo del petrolio registrato nell’ultimo biennio, anche le questioni economiche (rialzo dei prezzi delle materie prime derivate) ritornano ad essere motivo fondamentale di attente valutazioni. Proprio su questo punto vertono oggi le discussioni in merito al ruolo da assegnare all’intero settore per il futuro. Riguardo invece all’aspetto particolarmente preoccupante dell’inquinamento occorre ricordare le problematiche connesse allo smaltimento dei materiali plastici, che ad esempio negli USA rappresentano il 20% in volume dei rifiuti solidi urbani, specie nei casi in cui non sia avviato un ben funzionante sistema di differenziazione e recupero dei rifiuti. Si cercano quindi, oggi come allora, polimeri in grado di sostituire quelli di origine petrolchimica dal punto di vista delle proprietà e degli impieghi senza presentare il collaterale problema ecologico: cioè polimeri biodegradabili. 2. I biopolimeri La definizione di polimeri biodegradabili riporta, secondo normativa ISO: “polimeri progettati per andare incontro a cambiamenti di struttura chimica, ad opera di 3 organismi viventi come batteri, funghi, alghe, che hanno come risultato la perdita di alcune proprietà”. Nel variegato e ancora in gran parte embrionale mondo delle bioplastiche esistono però due fondamentali macrocategorie: • biopolimeri derivati dalla petrolchimica, come ad esempio i derivati da alcol polivinilico come l’Hydrolene, da alcuni poliesteri, da poliesteriammidi, da copoliesteri alifatici-aromatici come Ecoflex (Basf), Biomax, Hytrel e Sorona (DuPont); • biopolimeri derivati da materiali di origine vegetale, quindi rinnovabile, come l’amido e le relative miscele (come il Mater-Bi della Novamont, che usa mais, o il Solanyl della olandese Rodenburg, che usa bucce di patata), l’acido polilattico derivato da zuccheri (come il NatureWorks della NatureWorks, finora prodotto da mais), la lignina, la cellulosa e i poliidrossialcanoati. Gli aspetti della biodegradabilità e della provenienza da risorse annualmente rinnovabili, specie se considerati congiuntamente, costituiscono i plusvalori ambientali e quindi commerciali di questi prodotti. Ciò spiega perché le ultime tendenze spingono quasi tutti i produttori ed utilizzatori a mettere maggiormente in evidenza la provenienza da risorse rinnovabili (polimeri al secondo punto) ed i vantaggi correlati: diminuzione di uso di risorse fossili con conseguente riduzione di emissioni di CO2 in atmosfera. Infatti è in questo caso fondamentale evidenziare la rinnovabilità della materia prima vegetale, originatasi dall’acqua e dalla fissazione dell’anidride carbonica atmosferica mediante il processo fotosintetico, concetto, questo, alla base della neutralità rispetto alle emissioni di CO2. In aggiunta a ciò esiste la possibilità di creare filiere locali che mettano in ciclo chiuso la produzione agricola di biomasse e la produzione di bioplastiche in bio-raffinerie regionali. A tal proposito l’italiana Novamont, con stabilimento produttivo a Terni, ha recentemente creato in Umbria una filiera costituita da centinaia di imprenditori agricoli, finalizzata ad una gestione completa della produzione di biomasse con relativa trasformazione in bioplastiche. 2.1. L’acido polilattico L’acido polilattico (PLA) è un poliestere alifatico termoplastico e biodegradabile di origine vegetale che viene prodotto con processi di fermentazione e distillazione a partire da amido, principalmente di mais. La storia industriale di questo particolare biopolimero risale al 1988 quando la Cargill Inc. intraprese un progetto per la produzione industriale di PLA con il proposito di creare un biopolimero di derivazione vegetale attraverso procedimenti di conversione dell’acido lattico in lattide. Nel 1994 l’azienda costruì il primo stabilimento pilota con una capacità produttiva di 5000 tonnellate annue a Savage, Minnesota, per testare la validità del processo industriale. 4 Agli inizi del 1995 la Cargill creò un’alleanza (formalizzata nel 1997 ed in essere tutt’ora sotto il nome di NatureWorks) con il gruppo chimico Dow Chemical Company al fine di commercializzare i polimeri PLA. Operativamente, dopo il processo di estrazione dal granoturco dell’amido, quest’ultimo viene trasformato in destrosio attraverso idrolisi enzimatica con valori di pH prossimi alla neutralità, data l’assenza di catalizzatori acidi. Attraverso poi un processo di acidificazione e una serie di passaggi di purificazione il lattato, ricco di sale, è raffinato per ottenere acido lattico. Successivamente esistono due metodi principali per produrre acido polilattico a partire dal monomero dell’acido lattico, differenti sia dal punto di vista chimico/impiantisco, sia da quello della tipologia di polimero ottenuto. La prima tecnica, detta polimerizzazione a condensazione diretta, prevede la rimozione dell’acqua attraverso condensazione con l’uso di un solvente in condizioni di vuoto spinto ad elevata temperatura e presenta il notevole inconveniente di produrre solo polimeri con valore di peso molecolare basso/medio, a causa della difficoltà di eliminare completamente l’acqua ed altre impurezze. Sono tuttavia ancora allo studio tecniche di miglioramento dei limiti presentati da questa tecnica; la giapponese Mitsui Chemicals ha sviluppato infatti un nuovo processo basato sulla policondensazione diretta dell’acido L-lattico per consentire la produzione di PLA ad alto peso molecolare senza l’uso di solventi. La seconda tecnica, detta polimerizzazione ad apertura di anello attraverso l’intermedio lattide, è quella scelta da Cargill Dow. Nella prima fase del processo viene rimossa grossolanamente l’eccesso d’acqua in condizioni di reazione moderate e senza l’ausilio di solventi; il risultato di questo trattamento iniziale è un pre-polimero di basso peso molecolare che viene poi depolimerizzato con un catalizzatore per formare il dimero intermedio lattide, poi purificato con distillazione. Il lattide purificato è in seguito trasformato in granuli di polilattide con una polimerizzazione ad apertura di anello senza uso di solventi. Il vantaggio di quest’ultima tecnica è la maggior controllabilità della reazione che può portare a diversi gradi di purezza del lattide con la possibilità di produrre quindi una vasta gamma di pesi molecolari compresi quelli più elevati, preclusi invece alla tecnologia di policondensazione diretta. Poiché l’acido lattico è una molecola chirale, esso esiste sotto forma stereo-isomera e la polimerizzazione ad apertura di anello può produrre diversi tipi di polimeri, ciascuno caratterizzato da differenti proprietà: ad esempio nel caso di elevata presenza di lattide L si possono ottenere polimeri cristallini, mentre nel caso opposto si ottiene un materiale più amorfo. 2.2. Il Mater-Bi Un’azienda all’avanguardia nell’utilizzo di materie prime rinnovabili è l’italiana Novamont. Il suo principale prodotto, il Mater-Bi, è una bioplastica costituita da una sovrapposizione di strutture costituite da amido di mais destrutturato. Il prodotto finito ha proprietà meccaniche simili al polietilene (PE), in particolare comprese tra LDPE e 5 HDPE (a bassa/alta densità), ma è completamente biodegradabile. Tra altre caratteristiche degne di nota si segnala la ottima compostabilità in un ampio range di condizioni, che vanno dal compostaggio domestico a cumulo statico al reattore di fermentazione tipico degli impianti municipalizzati o dei produttori industriali di compost per agricoltura. Fondamentale, ai fini di ottenere un prodotto idoneo sia al confezionamento di alimenti sia alla produzione di sacchi specifici per il conferimento della frazione umida dei rifiuti solidi urbani, è l’assoluta impermeabilità nei confronti dei microrganismi patogeni (barriera biologica), pur conservando una grande modulabilità del parametro di permeabilità al vapore d’acqua. È infatti interessante notare che quest’ultima proprietà rende possibile creare sacchi per la raccolta dell’umido che consentono una riduzione del peso del rifiuto in misura del 20% già entro il terzo giorno (traspirabilità, senza però fuoriuscita di odore sgradevole). La valenza ambientale di tale biopolimero è notevole; infatti i risultati di LCA mostrano, scelto 1 kg di Mater-Bi come unità funzionale, un’energia complessiva impiegata compresa tra i 19 e i 53 Mj ed emissioni di gas serra variabili da -0,34 kg (cioè assorbimento invece che emissione) a 1,2 kg di CO2, contro i circa 80 Mj e i 2 kg di CO2 della produzione di un kg di polietilene tradizionale. 2.3. Una categoria particolare: biopolimeri da metabolismi batterici I poliidrossialcanoati (PHA o PHB e similari) sono una particolare famiglia di biopolimeri di origine vegetale che si differenziano dagli altri per il particolare tipo di preparazione che non consta di un processo produttivo industriale (tradizionalmente inteso) bensì si avvale essenzialmente di batteri atti a portare a termine i processi di polimerizzazione per via intra-cellulare. Attualmente questa categoria di macromolecole sono sintetizzate da un centinaio di generi di batteri (quali Pseudomonas, Ralstonia, Azotobacter, Rhizobium). Utilizzando generalmente una matrice a base di glucosio ed in particolare con limitazione di nutrienti quali N, P, S, i poliidrossialcanoati si accumulano nel batterio, come riserva di carbonio, sotto forma di granuli fino ad una concentrazione che può raggiungere il 90% del peso secco della massa batterica. Le ricerche su questi composti risalgono ai primi decenni del secolo scorso, già nel 1926 erano stati individuati alcuni di questi composti come costituenti del microrganismo Bacillus Megaterium. Da allora sono stati individuati molti altri PHA; in generale la composizione precisa dei PHA dipende dal tipo di batterio da cui sono sintetizzati e dal mezzo di coltura. L’estrema variabilità della natura chimica delle catene laterali e delle relative dimensioni (ad esempio i batteri del gruppo Ralstonia producono delle catene laterali corte, mentre quelli del tipo Pseudomonas producono catene laterali medie) è alla base di una notevole varietà di proprietà dei poliidrossialcanoati. In tempi più recenti, nel 1975, Imperial Chemical Industries (ICI) iniziò a interessarsi alla sintesi batterica del copolimero idrossibutirrato/idrossivalerato, fino a giungere nel 1983 ad un 6 brevetto europeo. Ad essa subentrò Zeneca (e successivamente Monsanto concentrata prevalentemente nell’intento di riduzione dei costi di produzione) che commercializzò il copolimero Biopol, un polimero termoplastico, isotattico, ad elevata cristallinità. Contemporaneamente altre società industriali e numerosi centri di ricerca negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone lavoravano all’ottimizzazione di processi e all’individuazione di nuove tecniche di produzione, sempre allo scopo di ridurre i costi. Tra i vari tentativi, molti dei quali non hanno portato a risultati significativi, si ricorda ad esempio l’impiego diretto di melasse zuccherine per l’accrescimento della coltura. Particolarmente attiva in questo campo si è rivelata Metabolix che ha ottenuto numerosi brevetti relativi alla produzione di tipi diversi di PHA. Successivamente, invece, Monsanto è uscita dal business, ma altri gruppi industriali e istituti di ricerca sia statunitensi che europei stanno continuando a lavorare sull’ottimizzazione della produzione di poliidrossialcanoati da piante e da batteri geneticamente modificati quali Escherichia Coli. Quest’ultimo offre il vantaggio di essere già ampiamente studiato sia sotto l’aspetto delle modalità ottimali di crescita sia sotto l’aspetto della struttura del metabolismo che tra l’altro non prevede processi di demolizione (depolimerizzazione) del PHA costituito. In definitiva, pur molto interessanti e promettenti dal punto di vista delle proprietà chimico-fisiche e da quello del miglioramento del processo produttivo, questa variegata famiglia di biopolimeri ha finora ottenuto scarsi risultati in termini di diffusione, principalmente a causa dei costi molto elevati (intorno ai 15 €/Kg). 3. Le tendenze di mercato I dati di produzione e vendita del 2006 mostrano una notevole crescita delle domanda di bioplastiche. L’associazione European Bioplastics ha indicato un incremento sino al 100% sull’anno precedente, soprattutto per gli usi nel bioimballaggio mentre per i film in biopolimeri si evidenziano, addirittura, tassi di crescita ancor più significativi e per il 2007 è già in atto la conferma di questo trend. Analizzando più nello specifico le quote di mercato appare però evidente che ad oggi, nonostante il continuo susseguirsi di brevetti e nuove ingegnerizzazioni, la domanda di bioblastiche è soddisfatta principalmente da due produttori: la statunitense NatureWorks (produttori di PLA) e l'italiana Novamont (produttori di Mater-Bi). Le dichiarazioni di queste società confermano il momento particolarmente positivo che di fatto sta portando rapidamente alla creazione di nuovi impianti produttivi e al potenziamento di quelli già in attività. Rispetto al mercato delle plastiche derivate da petrolio, che nel 2003 in Europa superava i 40x106 t/anno (con un tasso di crescita intorno al 5% annuo), i biopolimeri avevano un mercato di sole 35-40000 t/anno, incentrato principalmente sul settore dell’imballaggio. Per questa ragione la prospettiva di crescita del settore è molto concreta (a titolo esemplificativo nel 2001 il consumo era stato di sole 25000 t). Più in generale per 7 l’intero settore si stima un mercato potenziale che nel medio periodo potrà raggiungere il 10% dei consumi complessivi di materie plastiche, raggiungendo presumibilmente per il mercato europeo la quota di 1x106 t/anno nel 2010 e di 5x106 t/anno nel 2020 (fig. 1). migliaia di t FIGURA 1 - dati da: http://www.european-bioplastics.org 4000 3500 3000 2500 2000 1500 1000 500 0 2001 2003 2010 2020 anno Una grossa spinta alla crescita di mercato a cui si sta assistendo è dovuta senza alcun dubbio alle scelte commerciali della grande distribuzione (GDO). Negli ultimi anni infatti quest’ultima ha, anche sulla base di un’aumentata consapevolezza nei confronti delle tematiche ambientali mostrata dalla clientela, avviato alla commercializzazione una nutrita serie di prodotti “ecologici”. Tali articoli, spesso certificati da marchio Ecolabel nel caso di prodotti industriali o certificati come provenienti da agricoltura biologica nel caso di prodotti alimentari, sono sempre più di frequente confezionati con imballi costituiti da biopolimeri. È infatti indubbio che la maggior parte del mercato della bioplastica sia costituito proprio dal settore packaging. Alcune aziende europee di GDO propongono già da tempo tali prodotti alla clientela: • Italia: Coop, Carrefour, Iperstore; • Regno Unito: Sainsbury’s, Tesco, Marks & Spencer; • Belgio:Delhaize, Carrefour; • Germania: Rewe, Edeka; • Olanda: Albert Heijn; • Austria: Spar. 8 4. I principali settori d’applicazione Molto interessanti sono le prospettive di utilizzo del PLA in luogo del polietilene tereftalato (PET) nel settore dell’imbottigliamento delle acque naturali minerali e di sorgente. Esistono già due esperienze di bottiglie in PLA NatureWorks, commercializzate rispettivamente da Belu (Gran Bretagna) e da Biota (U.S.A.). Questi due esempi evidenziano però anche alcuni limiti nella tecnologia attuale: in particolare il ridotto effetto barriera alla CO2 rende per ora il PLA inidoneo all’imbottigliamento di bevande gasate, anche se sono già allo studio particolari strutture multistrato atte ad ovviare a questo inconveniente. Inoltre la vita utile (definita shelf-life) si aggira intorno ai 6 mesi ed è considerata ancora troppo ridotta per questo particolare ambito applicativo. Dal punto di vista del processo produttivo invece il PLA si comporta ottimamente potendo essere lavorato, previa regolazione dei parametri macchina, con estrusione a caldo (tecniche di blow moulding) esattamente come il PET. Un altro settore molto importante per volumi di vendita, peraltro simile a quello dell’imballaggio, in cui i biopolimeri in generale (ed il PLA in particolare) stanno via via acquisendo significative quote di mercato è quello che viene definito del catering monouso, ossia piatti, bicchieri e posateria. In questa particolare e redditizia nicchia di mercato il PLA sta rapidamente guadagnando terreno nei confronti dei polimeri di origine fossile tradizionalmente usati, polistirene (PS) in primo luogo. Le prestazioni meccaniche e di resistenza agli agenti termici (derivanti, nell’uso, dagli sforzi applicati e dai repentini sbalzi di temperatura dovuti al contatto con cibi/bevande molto freddi o molto caldi) dei prodotti in biopolimero sono del resto assolutamente paragonabili a quelle delle plastiche tradizionali. Riguardo al mercato in forte espansione del bioimballaggio, sia quello a breve sia quello a più elevata shelf-life, è però fondamentale menzionare anche i motivi di preoccupazione mostrati dal settore, ormai abbastanza ben avviato, del riciclo delle plastiche ordinarie. Tali operatori evidenziano, probabilmente non a torto, la concreta possibilità che, all’interno di un circuito di raccolta differenziata, una quota non trascurabile di bioplastiche possa essere erroneamente conferita con le plastiche tradizionali anziché con la frazione umida. Appare dunque evidente che, volendo uscire dalla logica pur redditizia della nicchia di mercato (in cui è presumibile che i consumatori di tali prodotti siano già correttamente informati, poiché sensibili e interessati, circa le modalità di corretto smaltimento), deve essere svolto un massiccio lavoro di sensibilizzazione e informazione della clientela ad opera delle aziende che intendono avvalersi di biopolimeri e delle aziende che si occupano della raccolta dei rifiuti. Proprio nel campo della raccolta dei rifiuti il Mater-Bi, data la peculiarità di poter essere ottimamente lavorato per la produzione di film sottili, si è già imposto in Italia come candidato ideale per la realizzazione di sacchetti idonei per il conferimento della frazione umida con l’ovvio vantaggio per le aziende di recupero di non dover separare il sacchetto al momento dell’invio alla stazione di compostaggio. Le potenzialità dei 9 sacchetti biodegradabili vengono allo stesso modo replicate in campo agricolo consentendo, date le particolari caratteristiche, vantaggi preclusi ai polimeri tradizionali. In ambito agricolo stanno infatti venendo alla luce particolari applicazioni in cui il biopolimero risulta essere nettamente preferibile ad esempio rispetto alla famiglia dei polietileni (LLDPE, LDPE, HDPE a secondo della densità). Il caso più emblematico è costituito dai teli per la pacciamatura, tecnica di coltivazione tra l’altro che riduce la necessità di ricorso all’agrochimica. I teli per pacciamatura in Mater-Bi, normalmente di 12 micron di spessore, svolgono la stessa funzione di ricopertura del terreno consentita dai tradizionali teli in PE avendone le stesse caratteristiche di resistenza, elasticità ed efficacia pacciamante; presentano però l’indubbio vantaggio di non dover essere rimossi e conseguentemente smaltiti, in quanto biodegradano naturalmente con tempi compatibili con quelli della pratica agricola. Studi effettuati dal Dipartimento Progesa (progettazione e gestione dei sistemi agro-zootecnici e forestali) della Facoltà di Agraria dell’Università di Bari indicano consumi di materiali plastici in agricoltura in misura di 320000 t/anno. In particolare, il fine vita dei film plastici usati in agricoltura desta preoccupazione per le errate condizioni di smaltimento dal momento che i fenomeni di abbandono e combustione dei medesimi sono in aumento. Nel caso dei teli in biopolimero invece la biodegradazione avviene spontaneamente, pur dipendendo in maniera sensibile dalle condizioni climatiche e ambientali quali temperatura, umidità e attività microbica del terreno. Le sperimentazioni condotte indicano una vita utile variabile tra un minimo di 3 mesi a un massimo di 5/6 mesi (per i cicli autunnali); in ogni caso va ricordato che, ovviamente se non sono in corso coltivazioni, è possibile accelerare il tempo di naturale biodegradazione con una semplice fresatura volta allo sminuzzamento e interramento del materiale. Sempre nel settore agricolo l’olandese Rodenburg Biopolymers ha presentato al mercato una gamma di vasi di varie dimensioni per floro-vivaisti in Solanyl; il vantaggio di questi prodotti consiste nel non necessitare la rimozione (e quindi lo smaltimento) degli stessi durante le operazioni di trapianto: le piante possono essere messe a dimora nel terreno direttamente dal momento che il vaso biodegrada in breve tempo. Non mancano poi gli esperimenti di utilizzo dei biopolimeri in campi più innovativi. Ad esempio, il Mater-Bi è impiegato in un pneumatico di Goodyear (denominato Biotred), come additivo, sotto forma di microgranuli, detti nanofiller, in sostituzione del nerofumo e della silice. La diminuzione della resistenza al rotolamento, dovuta alla minore isteresi (fenomeno che dissipa energia meccanica sotto forma di calore), riduce di fatto i consumi di carburante delle autovetture, con un conseguente abbattimento delle emissioni di CO2 fino a 10g/km pari a circa il 15% della riduzione totale imposta ai costruttori automobilistici entro il 2008 dall’Unione Europea. Per quanto riguarda il PLA, opportunamente trattato, un altro felice campo di applicazione può essere costituito dal settore tessile; NatureWorks ha già depositato un marchio (Ingeo) che raccoglierà in futuro tutte le possibili declinazioni di questo nuovo ambito applicativo. 10 5. Gli orientamenti europei In Giappone vi è stata, fin dalle prime esperienze commerciali, una distinzione netta tra le plastiche biodegradabili di qualunque origine e quelle di origine vegetale, per le quali esiste una certificazione ad hoc che attesta la provenienza da biomassa per almeno il 25% (norma ASTM D6866-05). In Europa, invece, l’interesse maggiore è stato rivolto, prescindendo dall’origine delle materie prime, soprattutto sugli aspetti della compostabilità, con l’introduzione del marchio secondo norma UNI-EN13432 e altri marchi più specifici (come OK Compost di Aib-Vinçotte, fig. 2) che indicano il grado di compostabilità in sistemi di compostaggio sia municipali sia casalinghi. Per quanto riguarda il compostaggio in impianto, il marchio maggiormente diffuso in Europa è quello Compostable (fig. 3) promosso da International Biodegradable Polymers Association & Working Groups (IBAW) già presente in Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Regno Unito e a breve anche in Belgio e Francia. Anche in Italia è stata istituita una certificazione (logo in fig. 4) a cura del Consorzio Italiano Compostatori (CIC) che fissa procedure metodologiche più stringenti rispetto alla UNI-EN13432, ritenuta troppo generalista. FIGURA 2 - da: http://www.beauvais-diffusion.com FIGURA 3 - da: http://www.ecosofia.org 11 FIGURA 4 - da: http://www.polimerica.it La biodegradabilità è chiaramente un valore aggiunto notevolissimo specie per quelle alcune applicazioni quali, come già evidenziato, i sacchetti per i rifiuti organici, i film da pacciamatura e varie altre applicazioni agricole che possono beneficiare della completa e rapida biodegradazione senza richiedere uno smaltimento dedicato. Molto più complicata e controversa è invece la questione degli shopper, sui quali è in corso una discussione a livello europeo. Ad esempio, in Francia è stata approvata una disposizione, già recepita attualmente da molti supermercati, che prevede entro il 2010 l’uso esclusivo di shopper biodegradabili. Anche il Governo italiano sembrerebbe imitare l’orientamento francese attraverso un emendamento alla recente Finanziaria 2007; inoltre è stata ridotta al 4% l’IVA sull’acquisto dei teli pacciamanti biodegradabili, sulla base del decreto del 6 luglio 2004 del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. In Germania, dal 2005 e fino al 2012, una norma sta consentendo ai distributori di non pagare le tasse sugli imballi in biopolimero, mentre in Irlanda già dal 2002 è in vigore una tassa di 15 centesimi su ogni sacchetto in plastica tradizionale per la spesa acquistato, scoraggiandone di fatto il consumo e destinando i proventi per progetti dedicati all’ambiente con grande sensibilizzazione dell’opinione pubblica. 6. Considerazioni conclusive Tutto il settore della chimica verde, non solo quindi quello legato alle bioplastiche, è indubitabilmente ormai da anni in forte espansione e, ancor più dei dati di mercato, la dimostrazione più semplice di questa tendenza è il continuo insediamento e potenziamento di nuovi stabilimenti produttivi. Esempi concreti sono lo stabilimento Novamont a Terni, recentemente passato da una produttività di 8000 t/anno a 20000 t/anno, il nuovo impianto BIOP da 10000 t/anno in Danimarca, quello di ADM/Metabolix da 50000 t/anno nel nuovo insediamento di Clinton, Iowa (USA). È pertanto probabile, oltre che fortemente auspicabile, che nei prossimi anni i biopolimeri andranno ad aumentare le proprie quote di mercato proprio nei settori dove 12 già oggi dimostrano notevoli richieste, imballaggi in particolare. Occorrerà poi valutare in un futuro prossimo quali saranno le possibilità di applicazione concrete degli studi oggi in corso con particolare riferimento alle applicazioni a più elevato contenuto tecnologico. Ad esempio, sono in corso studi e collaborazioni anche con case automobilistiche, per mettere a punto bioplastiche (ovviamente idonee ad impieghi durevoli) in grado di sostituire parte di quelle tradizionali. L’importanza della crescita di nuovi ambiti applicativi risulterebbe importantissima per l’aumento dei volumi di vendita con la conseguente creazione di economie di scala più consistenti e, oltre a ciò, stimolerebbe ulteriormente il fondamentale settore della ricerca e sviluppo. Da un punto di vista ambientale i biopolimeri garantiscono reali vantaggi. Benché una valutazione approfondita sulla LCA (diversa, come ovvio, per ogni prodotto) esuli dagli scopi di questo lavoro, si può sicuramente affermare che le emissioni inquinanti totali nel ciclo di vita della bioplastica sono inferiori alla media delle plastiche tradizionali ed in particolare le emissioni di CO2 risultano in buona misura abbattute dalla quota di essa assorbita dal vegetale in fase di crescita. Accanto a questi dati già incoraggianti esistono ancora notevoli margini di miglioramento dal punto di vista di efficienza del processo produttivo e, oltre a ciò, esiste la volontà per le aziende produttrici di avvalersi di tecnologie “verdi” per la produzione dei propri fabbisogni energetici. All’avanguardia in questo campo, NatureWorks ha dichiarato di voler abbassare (anche grazie ad affinamenti del processo) la quota di ricorso all’energia fossile da 54 Mj/kg di PLA a 7 Mj/kg. Già ora il principale stabilimento produttivo da 140000 t/annue è alimentato con energia elettrica certificata come proveniente da fonte eolica. Ovviamente scelte di questo genere si rivelano ora la miglior campagna di marketing per aziende che hanno sposato la sostenibilità ambientale nella mission aziendale. La speranza è che questo genere di orientamenti produttivi vengano mantenuti e consolidati anche nel momento in cui, per costi e volumi di vendita, i biopolimeri saranno definitivamente usciti dalle nicchie di mercato. Un ruolo fondamentale in questo scenario dovrà essere giocato anche dagli altri attori: • • • Governi e organismi sovranazionali cui spetta la formulazione di una legislazione favorevole; Società di certificazione vigili sull’operato dei produttori e sull’intera filiera produttiva; Consumatori critici ed informati. Riguardo al concetto fondamentale di filiera produttiva, il ruolo forse più importante sarà giocato proprio dal mondo agricolo da cui la materia prima deriva. La già citata esperienza di Novamont, che ha creato in Umbria una filiera produttiva integrata, dimostra che la strada della collaborazione attiva tra agricoltura e industria è fattibile e 13 proficua. In tal modo diventa concreta l’opportunità di valorizzare maggiormente il prodotto agricolo anche nell’ottica (relativamente alla situazione UE) delle recenti modifiche della Politica Agricola Comunitaria (PAC). Questi mutamenti stanno infatti progressivamente riducendo e uniformando i contributi erogati per le varie tipologie di coltivazioni. Svincolando la scelta delle colture dalla entità dei contributi, si assisterà con tutta probabilità ad un netto cambiamento degli ordinamenti agricoli e, presumibilmente, ad un rafforzamento del ruolo multifunzionale dell’agricoltura con un peso sempre maggiore delle colture ad uso non-food. L’agricoltura del futuro, infatti, dovrà sempre di più affiancare alla funzione primaria di produzione di alimenti (motivo principale per cui nel secondo dopoguerra fu creata la PAC) quella di salvaguardia dell’ambiente, presidio del territorio e mantenimento della biodiversità pur nell’ottica di una valenza economica riconosciuta alla pratica colturale. È poi interessante notare quanto una gestione attenta della filiera produttiva, volta all’accorciamento della medesima, possa generare vantaggi sia da un punto di vista ambientale sia da un punto di vista economico con la riduzione di tutti i costi afferenti alla logistica (trasporto materie prime e semilavorati in primo luogo), pur rispettando le economie di scala derivanti dalla taglia degli impianti produttivi. Infine sono meritevoli d’attenzione le possibilità d’integrazione che possono nascere tra il settore produttivo dei biopolimeri e quello di altri comparti della chimica verde quale quello, pure in grande espansione, dei biocarburanti. Una delle sinergie che potrebbero portare, sia ambientalmente che economicamente, a notevolissimi risultati dal punto di vista della completa valorizzazione della biomassa vegetale di partenza, è la possibilità di creare nuovi biopolimeri o intermedi di reazione a partire dal glicole propilenico. Questo è infatti ottenibile in grandi quantità e a prezzi contenuti dalla glicerina, sottoprodotto, quest’ultimo, ineliminabile e per ora scarsamente valorizzato, derivante dal processo di trans-esterificazione con metanolo di acidi grassi vegetali, ossia dal processo produttivo industriale del biodiesel. 14 Riferimenti bibliografici Gazzetta Ufficiale n. 219, 17 settembre 2004 Novamont: documentazione interna Scarascia Mugnozza G., Vox G., Schettini E., Prove sperimentali con applicazioni di film biodegradabili nella protezione delle colture, 12 Febbraio 2005, Fiera del Levante, Bari Steinbüchel A., Doi Y. (2004), Biotechnology of Biopolymers, Wiley-vch Steinbüchel, A., Doi Y. (2004), Polyesters I-III, Wiley-vch Valera M., Poliidrossialcanoati polimeri biodegradabili del futuro? (prima parte), La chimica e l’industria, 83, giugno 2001, 49 Valera M., Poliidrossialcanoati polimeri biodegradabili del futuro? (seconda parte), La chimica e l’industria, 83, settembre 2001, 57 Vink E. et al., Applications of life cycle assessment to NatureWorks TM polylactide (PLA) production, Polymer Degradation and Stability 80, 2003, 403 http://www2.dupont.com/Sorona/en_US/index.html http://www.biop.eu http://www.biopolymers.nl http://www.biotec.de http://www.corporate.basf.com http://www.european-bioplastics.org http://www.fkur.de http://www.materbi.com http://www.metabolix.com http://www.natureworksllc.com http://www.polimerica.it http://www.uni.com/it 15