3° Classificato_A._Puleggi_La missione
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109 La missione «Sveglia, dormiglione!» urlò Teresa spalancando le serrande. Poi si avvicinò a Leo, che si era raggomitolato sotto le coperte. «L’hai fatto di nuovo, eh?» chiese, scoprendogli il viso. Quello si girò nervoso dalla parte opposta, bofonchiò un sì e qualche altro suono soffocato dal cuscino sotto cui nascose la testa spettinata. A colazione Teresa lo strapazzò con una delle sue ramanzine. «Quando la smetterai, di’ un po’» disse sorridendo dietro la tazza blu. «E tu quando imparerai a bere il latte senza sbaffarti le labbra?» rispose Leo. La donna si pulì con il polsino della camicia. Risero. «Prima o poi le tue missioni ti metteranno nei guai!» riprese Teresa, ridiventando seria. Leo sorseggiava il tè. Con la mano sinistra scribacchiava su un mucchio di fogli. «Era interessante?» chiese lei. «L’ultimo... com’ era il titolo?» «A proposito di scarpe» rispose lui, senza guardarla. «Sì, interessante. Una raccolta di racconti.» «Scritto bene? Voglio dire, senza errori?» «Lo sai, gli errori li correggo io!» «Già.» Teresa guardò fuori dalla finestra: tanti piccoli fiocchi bianchi danzavano veloci al di là dei vetri, come piume d’oca da un cuscino squarciato. «Stanotte sei uscito con quel freddo» disse con tono di rimprovero. «Era necessario.» «Ne sei proprio sicuro? Ne vale davvero la pena?» Lo fissò con insistenza. «Tesoro, sai quanto detesto la mediocrità! Se una cosa può essere perfetta, deve esserlo. Noi abbiamo la responsabilità di rendere il mondo migliore.» «Giusto… ma credi che ciò che fai contribuisca a rendere il mondo un posto migliore?» «Certo che sì!» disse Leo, come estasiato. E prese a raccontarle come era andata la notte. Si era dimenticato la piantina che preparava per le missioni, ma si ricordava perfettamente tutti i posti dove doveva entrare in azione. Giulio gli aveva garantito che l’avrebbe accompagnato. «Ma sai com’è tuo fratello,» disse «non ci si può fare affidamento. Un gran retore, ma nei fatti… E poi il mese scorso abbiamo incontrato Gigi, il vigilantes. Capito chi è?» Teresa annuì, guardandolo curiosa. «Be’, Giulio s’è impappinato. Quello ci chiede “Cosa fate in giro a quest’ora?” con quella voce roca, e lui mette insieme due tre cose, le prime che gli saltano in mente. Credo si sia insospettito.» Leo rise, scuotendo il capo, gli occhi persi nel vuoto, come chi segue con lo sguardo una scena che si svolge tutta nella sua testa. «Ma perché non lo fai di giorno? dopo il lavoro o magari di domenica!» provò a suggerire Teresa. «Non voglio che qualcuno si accorga di me.» Tracannò il resto del tè che già si era alzato. «Vado o farò tardi al lavoro» disse, baciò la donna e se ne andò. Più tardi, uscì dall’ufficio trepidante: il giorno dopo le missioni andava in perlustrazione, rivisitava le tappe della nottata per controllare che fosse tutto a posto. Guidò a velocità moderata, noncurante del traffico e dei clacson più impazienti. Vicino alle mete rallentò per dare un’occhiata rapida. Non poteva scendere dall’auto, ci avrebbe messo troppo tempo e poi non voleva dare nell’occhio. Si doveva accontentare di guardare alla luce del sole le sue migliorie e di notare qualche persona attratta dalle sue modifiche. O almeno così gli sembrava. A un tratto, proprio mentre sorrideva soddisfatto pensando “tutto a posto”, il suo sguardo fu rapito da un dettaglio che la notte gli era sfuggito, un grosso dettaglio che non poteva passare inosservato, un dettaglio enorme… diavolo, non si può mica lasciare così! Frenò bruscamente, l’auto che lo seguiva riuscì a evitarlo per un pelo, ma Leo non badò neanche all’autista che imprecava e faceva gestacci mentre lo superava. «Sì sì ha ragione... scusi» disse Leo, più a sé stesso che a quello, da dentro l’abitacolo dell’auto. Poi si accostò meglio in un angolo, scese senza spegnere il motore e si avviò verso il muro dall’altra parte della carreggiata, un muro alto, di pietra. Evitò l’auto che saliva, quella che scendeva. Tremava: era sceso lasciando in auto il cappotto e i riscaldamenti accesi. «Come ho fatto a non vederlo?» disse ad alta voce. «Serve una scala» aggiunse e tornò di corsa in auto. Digitò un numero sul cellulare. «Pronto, Giulio...» disse. «Chi è?» rispose una vocina. «Ilaria, sono lo zio» disse allora Leo. «Ciao zio, vieni a giocà con me?» «Giocare, amore, si dice giocare.» «Giocare» ripeté la bambina. «Un’altra volta. Papà è in casa?» chiese Leo. «No.» «La mamma?» «No.» «E tu sei da sola?» chiese allora Leo, allarmato. «Con la baby-sitter!» rispose ridendo Ilaria. «Ok. Di’ alla baby-sitter che lo zio passa per prendere una cosa.» «Passa lo zio!» gridò la bambina. Dieci minuti dopo suonava alla porta del cognato. Ilaria gli saltò addosso, lasciando la tata sulla soglia. Leo non badò ai convenevoli. «Devo prendere la scala. Avvertirò io Giulio, sta’ tranquilla» disse alla ragazza. Aprì lo sgabuzzino, prese la scala d’acciaio nera e la trasportò fuori, mentre Ilaria gli saltellava intorno e gli tirava i calzoni con le mani sporche di pongo. Sulla porta Leo appoggiò la scala in un angolo e, chinandosi verso la bambina, le disse: «Tesoro, domani lo zio verrà a trovarti e giocherà con te.» «Evviva!» esultò lei. « Ma però starai tanto?» «Si dice però... senza ma.» «Però» ripeté lei. «Tutto il tempo che vuoi.» Leo la baciò e si allontanò con la scala. La sistemò nel portabagagli della station wagon come meglio poté, ringraziando Giulio di aver comprato una scala richiudibile. La nuova meta era il negozio di Mario, il ferramenta. Doveva procurarsi tutto l’occorrente: una cosa così non gli era ancora capitata, non era attrezzato. Non badò alla sorpresa che spuntava sul volto dell’uomo alle sue richieste. Mario era schivo, non gli avrebbe chiesto cosa dovesse fare con tutta quella roba. Per questo Leo si era recato da lui e non da Pietro, quello sì che gli avrebbe creato problemi. Sapeva di dover avvertire Teresa della nuova uscita notturna. Lo fece a cena con un “l’arrosto era squisito devo uscire anche stanotte” detto tutto d’un fiato. Teresa si accontentò di scuotere la testa. Videro un film alla tivù, sdraiati sul letto. Lei si addormentò prima della fine. Leo puntò la sveglia alle tre, poi spense l’abat-jour. Il trillo lo strappò ai sogni. Si alzò di scatto, spense la sveglia per evitare che Teresa si svegliasse. Si vestì di corsa. «Buona fortuna» bisbigliò la donna con gli occhi chiusi. «Torno presto» rispose lui. Uscì. Controllò che non mancasse nulla. Un brivido gli percorse la spina dorsale. Meglio prendere il piumino, pensò, la temperatura è scesa. Era pronto per partire: la missione aveva inizio. Arrivò sul posto in pochi minuti: incredibile quanto un posto sembri più vicino la notte, quando non passa nessuno e a stento si riconosce la strada. Parcheggiò. Scaricò il materiale, scala compresa, tenendo i fari accesi. Quando fu per spegnerli ebbe un sussulto. Accidenti, la torcia! pensò. Ma subito si ricordò di averla lasciata nel cruscotto la notte precedente. Così, di nuovo rasserenato, si mise al lavoro. Mezz’ora dopo aveva quasi finito. Un ultimo ritocco e tutto sarebbe stato perfetto. Ma successe l’imprevisto. Quando vai in missione te lo devi aspettare. Finora non gli era capitato, era riuscito tutte le volte a confondersi col buio, a diventare buio lui stesso. Stavolta no. All’improvviso un sole lo accecò. Portò rapido un braccio sugli occhi chiusi: sembrava un angelo senz’ali, sospeso così a mezz’aria sulla scala nera, davanti al muro su cui si proiettava il cerchio di una torcia, come su un palcoscenico. «Che sta facendo?» urlò una voce roca. «Ecco... io» balbettò l’attore, aprendo adagio gli occhi. Non riuscì a vedere nessuno al di là della luce. Quell’uomo ora era più buio di lui. «Scenda e si avvicini» gli intimò la voce. Così fece. Agli ultimi pioli, il sole tramontò: ora gli illuminava il torace e Leo poté riconoscere Gigi, il vigilantes. «Lei?» disse quello. «Be’, sì...» farfugliò Leo grattandosi la testa. «Si diverte a dipingere murales?» gli domandò Gigi, cercando di mantenersi severo. «No no, ha frainteso. Il murales c’era già!» rispose Leo. «E allora?» «Allora, c’era un errore» continuò Leo. «Un errore?» «Sì. Vede: c’era scritto “Non posso vivere sensa di te. Capisce? SEN-SA» sillabò. Quello lo guardava confuso. «Senza si scrive con la zeta. SEN-ZA. Io l’ho corretto.» Leo sorrideva. Gigi era rimasto senza parole. Sul suo volto si dipinse un’espressione incerta. «Dunque è lei che corregge i manifesti? quello che cerchia l’errore e scrive la forma giusta?» gli chiese. «Sì, sono io» ammise Leo. «Cerchi di capire,» aggiunse «il linguaggio è importante. Parlare bene non basta. Scrivere bene significa pensare bene. E chi pensa bene è un uomo libero!» Gigi rimase in silenzio. Leo continuò: «Mettere la cura in quello che si fa, ecco cos’è importante. Non stancarsi mai di lavorare bene.» La guardia lo guardò con attenzione. Fece un cenno con la testa, lieve. Leo se ne accorse e ne fu contento. «L’aiuto a sistemare» gli disse. Quando fu tutto in auto, scala, bombolette, pennelli, il vigilantes disse: «Venga, le offro la colazione. Conosco un forno qua vicino. Fanno i cornetti più buoni del mondo. Solo ingredienti naturali e tanta cura!» Si avviarono a piedi, vicini. Il sole avrebbe mandato i suoi primi, timidi raggi a prendere possesso dell’orizzonte solo due ore più tardi. Un tempo più che sufficiente per raccontarsi, incrostandosi la faccia con lo zucchero di una brioche.