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Trasformazioni della politica
Contributi al seminario di Teoria politica
di
Silvano Belligni, Francesco Ingravalle, Guido Ortona
Pasquale Pasquino, Michel Senellart
a cura di
Gabriella Silvestrini
Department of Public Policy and Public Choice “Polis”
University of Eastern Piedmont “Amedeo Avogadro”
Corso Borsalino, 50 - 15100 Alessandria - Italy
Phone: +39.0131.283.745
FAX: +39.0131.263.030
http://polis.unipmn.it/
Premessa
Le pagine seguenti contengono alcuni degli interventi presentati nel ciclo di seminari di Teoria politica che si sono tenuti presso la
Facoltà di Scienze politiche di Alessandria negli a. a. 1999-2000, 2000-2001 e 2001-2002 e che sono stati coordinati prima da
Silvano Belligni e poi da Maurilio Guasco. Comune denominatore di questi incontri è stato l’interesse per le trasformazioni della
politica e delle sue categorie nell’età contemporanea, dalla “crisi dello Stato” alla formazione dell’Unione Europea ai cambiamenti
della scena internazionale che hanno indotto taluni a rilanciare la parola d’ordine della “fine della storia”. Questi temi sono stati
affrontati privilegiando una prospettiva pluridisciplinare e utilizzando la diversità di competenze – storiche, politologiche,
economiche, sociologiche, giuridiche e filosofiche – non solo dei colleghi del Dipartimento interessati alla discussione e al confronto,
ma anche di esperti esterni. Proprio in segno di ringraziamento per quanti hanno accettato di collaborare a un’esperienza che per
molti – studenti e docenti – è stata significativa intellettualmente, oltre che piacevole umanamente, e per lasciare un ricordo tangibile
di questo lavoro comune, abbiamo deciso di pubblicare nella serie dei Working papers di Teoria politica i contributi che, nel
momento in cui questo ciclo si è concluso, avevano raggiunto il maggior grado di compiutezza e di formalizzazione, costituendo una
tappa significativa di riflessione nel lavoro di ricerca degli autori.
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Abstract
Nel contributo di Silvano Belligni la “crisi dello Stato nazionale” è letta attraverso le vicende della scienza politica nel Novecento,
dal mutamento di paradigma nell’interpretazione del fenomeno del potere introdotto dalla sociologia marxista e weberiana, al
successo dei modelli “pluralistici” della political science e alla “rivoluzione” comportamentista degli anni ‘50, alle più recenti
riabilitazioni del concetto di stato provenienti dai diversi approcci “neo-statalisti”, per interrogarsi infine sul destino dello stato come
“cosa” e come concetto nell’epoca della globalizzazione. La prospettiva di Guido Ortona è invece quella della teoria dei giochi
applicata alla questione dell’insorgenza dello stato e delle istituzioni, alla valutazione dell’efficienza delle diverse forme di stato, così
come alle loro trasformazioni, nell’ottica di verificare la compatibilità eventualmente accertabile fra concezioni deterministiche
dell’agire sociale e l’assunto della libertà individuale che sta alla base delle teorie della scelta razionale. Sulle trasformazioni della
politica Pasquale Pasquino si interroga mettendo a fuoco un’apparente “anomalia” delle democrazie contemporanee: l’introduzione al
livello della costituzione di organi non elettivi come le corti costituzionali, le banche centrali e le autorità amministrative
indipendenti, che sono sottratti al principio elettivo e a quello della responsabilità democratica. La presenza di queste autorità non
elettive in regimi di tipo democratico pone il problema di spiegare non solo quale sia la loro funzione e per quali ragioni siano state
introdotte nei nostri sistemi costituzionali, ma anche e soprattutto se siano compatibili con la legittimità di tipo democratico. Michel
Senellart segue le tracce di una riflessione sull’Europa nel pensiero di Michel Foucault, tracce che affiorano non tanto nelle opere più
note, quanto nelle interviste su questioni di attualità politica, che consentono di scorgere la denuncia di una CEE costruita sull’oblio
della divisione dell’Europa, e in un corso al Collège de France del 1978, dove la questione dell’Europa emerge nella ricostruzione
storica della “gouvernementalité”, mostrando chiaramente il rifiuto di un’immagine pacificata dello spazio europeo, erede di
antagonismi millenari. Francesco Ingravalle analizza le filosofie regressive della storia mostrando come, pur in presenza di una
struttura formale omogenea, quella della decadenza, ciò che distingue le varianti moderne e contemporanee del pensiero della
regressione da quelle antiche è soprattutto il bersaglio polemico costituito dalla democrazia e dal socialismo in quanto tendenze
sociali; a loro volta le teorie moderne divergono fra loro nel momento di individuare i fattori causali del processo degenerativo: dalla
mescolanza delle razze (De Gobineau), alla diffusione del cristianesimo (Nietzsche), fino alla naturalità della decadenza delle culture
(Spengler) e alla “regressione delle caste” (Evola).
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INDICE
La politica oltre lo stato - Silvano Belligni
pag.
5
Teoria dei giochi, teoria dei giochi evolutivi e teoria dello stato - Guido Ortona
pag.
20
Gli organi non elettivi nelle democrazie: le corti costituzionali - Pasquale Pasquino
pag.
31
Michel Foucault et la question de l’Europe - Michel Senellart
pag.
41
Filosofie regressive della storia. De Gobineau, Nietzsche, Spengler, Evola - Francesco pag.
Ingravalle
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LA POLITICA OLTRE LO STATO
Silvano Belligni
Docente di Scienza politica - Università di Torino
1. Il paradigma statalista
Il modo tipico di definire la politica che ha caratterizzato il pensiero politico della modernità è stato quello di
considerarla come "l'attività e l'insieme delle attività che hanno in qualche modo come termine di riferimento la polis,
cioè lo stato" (Bobbio 1976).
La riduzione del problema della politica a quello dello stato sovrano, ossia l'idea che lo stato territoriale sia il
parametro esclusivo, o comunque essenziale e irrinunciabile, dell'agire politico, risale agli sviluppi cinque- seicenteschi
della teoria politica moderna e ancora alla svolta tra XIX e XX secolo (quantomeno nell'Europa continentale), è
pressoché generale e incontrastata; al punto che politicità e statualità sono ordinariamente trattate come categorie che si
definiscono reciprocamente. Questo approccio riflette il successo dello stato, maturato in secoli di lotte sanguinose, in
quanto risposta istituzionale in competizione con altre per ottenere lealtà, legittimazione, tasse, armati.
L’equivalenza tra sfera della politica e sfera dello stato che caratterizza quello che potremmo definire (non senza
forzature) il paradigma statalista poggia su due pilastri che si sostengono reciprocamente, l’uno riguardante il rapporto
tra stato e non-stato (società), l’altro la natura istituzionale, organizzativa e sociologica della formazione statale.
Il primo pilastro – di ordine, per così dire, funzionale- è quello fondato sull’antitesi stato di natura- stato civile o,
se si preferisce, sul dualismo società-stato. Nel modello giusnaturalistico, che da Hobbes evolve nell’ottocentesco stato
di diritto attraverso le opere di Locke, Kant, Rousseau (e di cui il sistema teorico di Hegel rappresenta ad un tempo il
compimento e la negazione), lo stato è costitutivo della società, nel senso che ne fonda o, quantomeno, ne garantisce
l’esistenza in quanto societas civilis neutralizzandone il potenziale particolaristico e conflittuale in forza della sovranità
che esercita su di essa. Lo stato tutela la sicurezza dei sudditi all’interno e nei confronti dei nemici esterni e i diritti di
proprietà necessari all’estensione della sfera dei traffici, rendendo possibile, con l’ordine e la convivenza, lo sviluppo.
Per questa sua funzione, esso è il depositario ( e il garante) razionale dell’interesse collettivo, del bene comune.
Con riguardo alla sua intrinseca natura – e siamo con ciò al secondo pilastro, quello strutturale, lo stato si
presenta come un soggetto intenzionato accreditato di unità e di coesione interna, dotato di credenze e di valori stabili
nel tempo, in possesso di una propria funzione di utilità e di una propria scheda di preferenze, e finanche di una propria
moralità (non necessariamente collegate a quelle degli individui che vi afferiscono) e ritenuto capace di strategie
razionali per perseguirle: una “persona” che “sa quello che vuole”, la cui “volontà”, “razionalità” e “interesse” si
oggettivano nella figura del sovrano, nell’ordinamento giuridico, nell’amministrazione e nelle politiche pubbliche. Una
sorta di superindividuo, dunque, con una propria identità duratura, indivisibile, separata e autonoma da quella della
società, le cui decisioni sovrane sono fatte valere continuativamente e unilateralmente su quest’ultima in forma di
comando (attraverso la legge), seconda una direzione top down, che dall’alto discende verso il basso (organicismo
strutturale) (Passerin d’Entrèves 1967; Bobbio 1884; Poggi 1978 e 1992; Portinaro 1999).
Dati questi parametri, il quid sui della politica è la creazione o la conquista, la conservazione (la difesa o il
consolidamento), l’espansione e, in generale, la potenza dello stato. In altri termini, è lo stato stesso –in quanto bene
comune, interesse generalizzabile e di lungo periodo di un gruppo di uomini che vivono in un territorio - lo scopo finale
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dell’agire politico, secondo una concezione che trova la sua consacrazione nella dottrina della “ragion di stato”. Il fine
ultimo dello stato è la sua esistenza e il suo successo, e non già (o solo in via subordinata) uno degli altri innumerevoli
scopi volta a volta individuati dal pensiero politico che ne costituiscono semmai il sottoprodotto. L’autoreferenzialità
dello stato va così di concerto con il suo protagonismo e con la sua intrinseca unitarietà.
Del politico lo stato - lo si concepisca come artificio (secondo i modelli contrattualisti) o come risultato di una
evoluzione adattiva spontanea - delimita i confini, in rapporto a altre sfere dell'azione sociale che costituiscono il nonstato e il non-politico. Ne detiene dunque il monopolio. Secondo la terminologia precedentemente proposta, esso
coincide con la politica in quanto agire (politics) e col politico in quanto ambito in cui l'azione politica ha corso (the
political arena). La sfera del politico, a questa stregua, coincide con la sfera di azione degli apparati statali
formalmente (ossia giuridicamente) costituiti. Al di fuori del perimetro delle istituzioni statali regolate dal diritto
pubblico non si dà agire politico ma solo agire privato, economico-corporativo. "Statale" - in quanto “istituzionale” e in
quanto “pubblico” - e "politico" sono, secondo questo modo di vedere, attributi pressoché sovrapponibili e
interscambiabili.
Tuttavia, già dalla metà del XVII secolo in avanti, questa concezione statocratica registra le prime incrinature. Il
modello hobbesiano dello stato-Leviatano, approssimato prima dalla pratica dell’assolutismo e poi da quella dello stato
rivoluzionario, vede messo in discussione, con la sua funzione costitutiva dell’ordine sociale, anche il suo primato: lo
stato tende ad essere ridimensionato in via di fatto nei suoi poteri sui sudditi attraverso il costituzionalismo e viene
sempre più considerato in via di principio (dal pensiero economico e politico liberale) come una componente
subordinata e servente di un sistema sociale differenziato in sfere autonome, che nel loro complesso compongono la
società civile (dove “civile” significa “privato” e non “politico”). Guadagna progressivamente terreno l'idea che
l'individuo abbia dei diritti che non coincidono con quelli della collettività e che la società non solo esista
indipendentemente dallo stato (e dunque che non ne sia la creazione subordinata), ma che essa sia capace in larga
misura di autoregolarsi attraverso il mercato e la cooperazione spontanea e di costituirsi in soggetto morale.
Ma pur regredito al rango di tecnologia istituzionale deputata alla tutela dell'autosviluppo sociale, delle libertà
individuali e dei diritti di proprietà, attenuatasi l’enfasi normativa che ne aveva caratterizzato il concetto, lo stato seguita
nondimeno ad essere visto come il riferimento esclusivo della politicità. Anche se nella prassi e/o nella dottrina del
liberalismo tende a prevalere l'esigenza di limitare l'ambito di intervento e i poteri della funzione politica - è l'idea dello
stato di diritto e dello stato costituzionale, da un lato, dello stato minimo dall'altro, che entra in funzione dopo il
tramonto e che non interferisce con la libertà dei moderni - questa continua nondimeno ad identificarsi con l'attività
delle istituzioni pubbliche e con la sovranità dello stato, che mantiene pertanto, ben dentro e anche oltre l'Ottocento, se
non il suo carattere "assoluto" e il suo primato morale sulla società, il monopolio della politica e del politico. Il modo di
guardare alla politica continua insomma a essere panstatalistico, a non concepire cioè alcuna possibilità di fare politica
se non in riferimento allo stato e attraverso esso.
Questa visione statocratica (la convivenza civile è il prodotto dell’ordine politico e morale generato e garantito
dallo stato), volontaristica (lo stato è un soggetto strategico unitario la cui volontà si esprime organicamente attraverso
la legge), monocentrica (lo stato domina le società parziali e i corpi intermedi), panstatalistica (non c’è politica fuori
dallo stato) caratterizza in modo prevalente, ancora alla fine dell’Ottocento, tanto la teoria quanto la storiografia
politica, sia il diritto pubblico sia quella che, per l’appunto, si chiama “dottrina della stato”, in cui si mescolano
descrizione e prescrizione, giudizi di fatto e giudizi di valore, osservazione empirica e speculazione filosofica, scienza
politica e scienza giuridica. Occorre aspettare la svolta del secolo e la nascita della “nuova scienza politica” – l’opera
che convenzionalmente ne inaugura il corso, gli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca, reca la data del 1896 perché questa concezione che considera lo stato come il fulcro dell'agire politico e il luogo esclusivo della politicità, e
che fa pertanto coincidere la scienza politica con la scienza (o dottrina) dello stato, venga significativamente sfidata da
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un nuovo e più penetrante modo di guardare alla politica e allo stato stesso, in cui cambiano ad un tempo l’oggetto e il
metodo di indagine.
2. La sociologia del potere.
All'interno (o a fianco) della prospettiva che tende a considerare la scienza politica come "scienza dello stato",
formalisticamente e riduttivamente inteso, comincia ad affermarsi, a partire dagli anni a cavallo del secolo, un punto di
vista innovativo, secondo cui il posto dello stato nella scienza politica va non solo riconsiderato e ridefinito, ma per
molti versi drasticamente ridimensionato. Ed è in un orizzonte in cui si intravede già, almeno implicitamente, se non la
“dissoluzione del concetto di stato”, quantomeno la sua problematizzazione e ricollocazione in rapporto all’agire
politico, che nasce la nuova scienza politica. Si può dire che, col progredire del nuovo secolo, quest’ultima si libera
dalla sua tradizionale subordinazione alla speculazione filosofica e al formalismo giuridico
- Mosca e Pareto,
Ostrogorski e Michels, Weber e Bryce, fanno da apripista - proprio attraverso la progressiva negazione della riduzione
della politica allo stato. In questa luce, il programma di ricerca della nuova disciplina può essere sintetizzato (anche se
un po’ unilateralmente) come il tentativo, condotto da più versanti e in più direzioni, di emanciparsi dall’ipoteca
statocratica e normativistica, giuridica e filosofica, della dottrina dello stato e del diritto pubblico e di fondare su basi
diverse e più ampie, meno formalistiche e meno contingenti, l’idea di agire politico e di sfera politica.
Riletta in questa chiave, la storia della scienza politica del Novecento è dunque la risultante della tendenza a
riformulare la nozione di politica prescindendo, in tutto o in parte, da quella di stato e di sovranità e a elaborare nuove
categorie di riferimento e nuovi oggetti
e metodiche di indagine. Il modello statalista-razionale ereditato dalla
tradizione del XVI-XIX secolo e posto sino ad allora a fondamento dell’idea di politica viene ora relativizzato e
“complicato”, col metterlo in relazione ai mutamenti che avvengono nell’economia e nella società, superando così il
bias istituzionale che ne aveva caratterizzato l’approccio; ora “smontato” nei suoi elementi strutturali costitutivi, ridotto
nel suo livello di astrazione e passato al vaglio del realismo empirico; ora infine dichiarato senz’altro obsoleto e
abbandonato da una parte consistente della disciplina. In ogni caso ridimensionato e tolto dal piedistallo su cui per
lungo tempo era stato posto.
Ricorrendo ad una elementare sociologia della conoscenza, potremmo dire che il fondamento fattuale di questa
tendenza a riconsiderare i confini della sfera politica e il contenuto dell’agire politico può essere individuato nelle
trasformazioni interne dei maggiori paesi europei e degli Stati Uniti, delineatesi con sufficiente nettezza già a partire
dalla prima metà del XIX secolo (e precocemente rilevate da Tocqueville in America, da Bagehot e da Marx in Europa),
e poi irreversibilmente affermatesi a cavallo dei due secoli. Queste trasformazioni, come è noto, sono legate allo
svolgersi del processo di democratizzazione da un lato, e di quello di industrializzazione dall’altro. Nell’incontro tra
società democratica e società industriale si struttura progressivamente, tra stato e società civile, una "terza dimensione",
non statuale, ma politicamente rilevante ed efficace: la società politica, da intendersi come teatro della mobilitazione
per fini collettivi e come "luogo" di formazione e di azione di gruppi privati di interesse e solidarietà, che dispongono di
proprie risorse (numero, organizzazione, legittimità, ricchezza) capaci di influenzare crescentemente l'attività di
direzione pubblica, agendo vuoi come particolarismi ostili e separati vuoi come codecisori indiretti e decentrati. Partiti e
associazionismo civile, opinione pubblica e movimenti sociali, organizzazioni di resistenza e di mutuo soccorso,
"piazza" e gruppi di interesse, chiese e sette, gazzette e “manifatture dello spirito” affollano progressivamente la scena,
riconsegnando parzialmente la politica alla società e rendendo la dicotomia stato-società civile (intesa come società
degli individui) teoricamente insufficiente e l'equazione stato-politica per più aspetti obsoleta, inadeguata, fuorviante.
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L'emergere della società politica come terza dimensione, non statale ma soggettivamente e oggettivamente
politicizzata (o politicizzabile) e la crescente consapevolezza dell’operare di soggetti posti al di sotto della realtà
istituzionale, non controllabili dal centro ma in grado di organizzare la mobilitazione per fini collettivi e di condizionare
e finanche di stravolgere le decisioni premendo sui governi e influenzando dall’esterno le politiche pubbliche,
sollecitano dunque una riconsiderazione meno limitativa della natura della politica e dello spazio del politico. L’idea del
monopolio statale della politica e del controllo statale della società si stempera a vantaggio di una più attenta
considerazione dell’autonomia delle dinamiche societarie e del “momento machiavelliano”.
Al contempo, lo stato stesso viene riconsiderato nelle sue interne prerogative di unitarietà e di organicità e
sottoposto ad opera della Staatsoziologie e della sociologia del potere al vaglio dell’analisi storica e strutturale,
scomposto nelle sue componenti sociologiche e organizzative, la cui azione non è più ritenuta in linea di principio
armonica e centripeta, bensì analizzata nelle sue conseguenze effettuali. Non solo – si fa notare- lo stato è oggetto di
lotte e di pressioni sociali per la sua conquista e direzione, ma è internamente diviso e talora lacerato e non corrisponde
alla visione organica e “assolutistica”, formalistica e irenica, datane in passato, solcato com’è al suo interno da conflitti
intestini, da coalizioni ibride e da scambi particolaristici e clientelari tra apparati e tra fazioni politiche variamente
collegate alla società.
E’ in base a questa duplice revisione che la nascente scienza politica considera suo compito analizzare
(attraverso il ricorso al metodo storico-sociologico e comparativo), da un lato, le singole istituzioni e funzioni
governative, dall’altro gli attori in gioco e i conflitti che dividono verticalmente governati e governanti e
orizzontalmente questi ultimi, testando empiricamente le caratteristiche strutturali e culturali e i comportamenti della
classe politica e delle élites, dei partiti e delle altre strutture associative, nelle molteplici interrelazioni che li collegano
alle organizzazioni pubbliche e che strutturano e articolano il processo politico. In tal modo, la scienza politica ambisce
ad affrancarsi, in nome del realismo, non solo dalle ipoteche speculative e normative, dalle prescrizioni e dai giudizi di
valore della filosofia politica (di cui fanno parte le idee contrattualistiche e etiche dello stato), ma dal formalismo
giuridico del diritto pubblico con cui fino ad allora era vissuta simbioticamente, separando le “forze” dalle “forme” e
privilegiando le prime.
L’orientamento dei “neoclassici” a ridurre la portata del concetto di stato nell’analisi della politica non deve
tuttavia essere scambiato con l’atteggiamento liquidatorio prevalente in altri contesti e in epoche successive. Che nel
programma di ricerca della nuova disciplina, almeno in Europa, lo stato, da protagonista assoluto ed esclusivo, diventi
una e una soltanto delle forme del potere, non toglie che l’entità statale non debba continuare ad essere considerata il
fulcro e il centro della politicità.
La nozione di stato, così problematizzata dal riconoscimento del carattere processuale e continuo,
tendenzialmente ubiquo, della politica, si disarticola in (almeno) tre teoriche separate che scandiscono l’impatto
innovativo della nuova disciplina: la teorica della classe politica di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto; la teorica del
partito politico di Roberto Michels e Moisei Ostrogorski; la sociologia dello stato di Max Weber. Queste teoriche
costituiscono nel loro insieme la trama e i capitoli iniziali di una più comprensiva sociologia del potere. Esse reagiscono
a loro volta, più o meno direttamente e intenzionalmente, all’affondo che il materialismo storico di Marx e dei marxisti
aveva in precedenza portato ai fondamenti della teoria politica tradizionale e alla stessa nozione di stato.
La teoria della classe politica e delle élites formulata negli anni a cavallo del secolo dai neomachiavellici
italiani Mosca e Pareto, spiega la dinamica politica attraverso l’interazione (istituzionale e non) e le caratteristiche
(sociali, culturali, organizzative) delle élites. L’oggetto del suo programma di ricerca, pertanto, non coincide con i
confini istituzionali dello stato (benché sia quest’ultimo l’involucro formale entro cui la classe politica si organizza e
controlla la società), né con le formule politiche e le derivazioni (ossia le ideologie) con cui si interpreta e si giustifica il
potere, ma è rivolto a spiegare effettualmente (giusta l’ipotesi dell’irriducibile dualismo tra governanti e governati) i
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mutevoli rapporti tra i gruppi dirigenti interni e esterni agli apparati pubblici e tra questi e la sottostante realtà sociale.
Non le istituzioni formali della sovranità, dunque, ma la classe politica e le élites sociali che con quest’ultima
interagiscono sono i soggetti reali, i protagonisti e i beneficiari del processo politico in quanto gruppi organizzati che
comandano, controllano, manipolano, sfruttano, reprimono, dirigono il resto della società. In questa prospettiva, lo
spazio della politica statale appare affollato da attori autonomi in conflitto o in concorrenza, strutturato dalle coalizioni
e dagli scambi tra gruppi statali e extrastatali e reso dinamico dalla loro circolazione (Mosca, 1982; Pareto, 1964).
Se il problema di Mosca e di Pareto è quello di mettere a fuoco sistematicamente il ruolo dirimente delle élites
e delle contro- élites (dove lo stato costituisce sia la posta in palio della lotta, sia il quadro organizzativo e il sistema di
vincoli e di risorse entro cui queste operano), il problema di Michels e di Ostrogorki è di mostrare come lo stato,
esposto alle sfide della modernizzazione economica e politica - nella versione autoritaria e burocratica della Germania
guglielmina o in quella liberal-democratica dell’Inghilterra vittoriana e degli Stati Uniti -, sia venuto modificandosi a
seguito dall’azione intestina dei partiti e dei sindacati al punto da esserne drasticamente snaturato nella sua costituzione
empirica. Attraverso l’azione dei partiti burocratizzati di massa, di mobilitazione elettorale o di insediamento sociale
(soggetti a loro volta alla deriva oligarchica della leadership e alla eterogenesi dei fini indotte dalla complessità
organizzativa) che caratterizza il processo di democratizzazione della seconda metà del XIX secolo e della prima parte
del XX, la politica moderna subisce nel cuore della civilizzazione occidentale una trasformazione radicale, che ne
sposta il baricentro al di fuori dei confini istituzionalmente codificati, oltre lo stato, modificandone irreversibilmente i
parametri (Ostrogorski, 1991; Michels, 1966).
In questa temperie è però soprattutto l'opera di Max Weber che funge idealmente da spartiacque tra due epoche
della scienza politica e che testimonia dello slittamento di paradigma in corso. Della natura dello stato e delle sue
interconnessioni con le idee di politica e di potere, Weber fornisce una compiuta teoria sociologica; anche se solo lo
stato moderno, e non ogni forma di dominio politico, è l'oggetto specifico della sua sociologia, e perciò l'orizzonte della
sua nozione di agire politico. Nella definizione strutturale di Weber lo stato è, come noto, un prodotto storicamente
determinato della modernità occidentale e non una categoria universalmente applicabile e valida sub specie aeternitatis.
Stato è per Weber quella impresa (vale a dire una associazione che dispone di un apparato amministrativo professionale
in grado di agire continuativamente in vista di uno scopo) che, grazie al concorso di circostanze irripetibili, ha
monopolizzato con successo (rispetto alle alternative storicamente presenti: l’impero e le repubbliche) la risorsa della
coercizione fisica entro un dato territorio. La modernizzazione è il processo storico attraverso cui, da una pluralità di
associazioni autonome regolate da patti, si perviene ad una sola istituzione sovrana regolata da norme giuridiche che
prevale su tutte le altre. Ed è in quest’ambito storicamente circostanziato (la modernità occidentale) che la politica si
organizza evolutivamente, attraverso un processo di razionalizzazione e di legalizzazione del potere che assume
percorsi nazionali differenziati, nel quadro della formazione statale. Agire politico è, per Weber, "la direzione, oppure
l'attività che influisce sulla direzione di un'associazione politica, cioè, oggi, di uno stato"; o secondo una definizione
altrettanto nota, “l'aspirazione a partecipare al potere o a influire sulla ripartizione del potere, sia tra gli stati sia
nell'ambito di uno stato tra i gruppi di uomini compresi entro i suoi limiti”. Il carattere politico di un agire risiede qui
nello scopo di influire sulla direzione di un gruppo politico: la politica è lotta per l’appropriazione, l’espropriazione, la
ridistribuzione dei poteri di comando entro una comunità di uomini o entro comunità rivali, sia essa condotta da gruppi
portatori di forza legittima (“agire politico” in senso proprio) o da gruppi che possono solo influire dall’esterno sulla
attribuzione del potere legittimo (“agire orientato politicamente”) (Weber, 1961 e 1971).
Da un versante apparentemente opposto, ma di fatto per molti rispetti convergente, anche la scienza politica
marxista, nei suoi vari apporti, giunge non solo a criticare ma a articolare analiticamente le nozioni correnti di stato e di
politica intorno a una prospettiva statocentrica.
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A onor del vero, molti studiosi ritengono che nell’ambito del marxismo non sia mai stata formulata una teoria
positiva dello stato e della politica, ma solo una teoria normativa dell’estinzione dello stato e una teoria del partito
politico rivoluzionario. Secondo altri, invece, sembra difficile negare che se ne possa ricavare una compiuta e, a dispetto
delle innumerevoli dispute scolastiche che hanno diviso i marxisti, relativamente univoca e coerente visione analitica
dell’agire politico in quanto lotta per la conquista, la direzione, la riedificazione dello stato, sia pure nella prospettiva
(peraltro quasi sempre lasciata sullo sfondo) del suo superamento. Ma se è vero che la visione marxista della politica è
anch’essa statocentrica, è anche vero che Marx e i suoi seguaci condividono una concezione (filosofica e sociologica)
dello stato e della politica assai distante da quella della vulgata statalista del loro tempo.
Per la sociologia marxista, non diversamente da molta parte della sociologia ottocentesca, non lo stato, ma la
società è “il vero focolare, il teatro di ogni storia”, il soggetto motore dello sviluppo storico; lo stato, lungi dall’esserle
sovraordinato, ne garantisce il funzionamento e lo sviluppo. Tuttavia, nella prospettiva del materialismo storico, la
società non è unità, ma è divisa dicotomicamente lungo linee di classe: il conflitto economico tra le classi costituisce
l’elemento propulsivo e dinamico della formazione sociale capitalistica. In questo quadro, lo stato moderno altro non è
se non lo strumento (la “macchina”) di cui la classe che dirige l’economia, la borghesia capitalistica, si serve (sia pure
per interposta persona) per garantire e perpetuare il proprio potere sociale: dunque, non il soggetto politico super partes
e razionale rappresentato dai modelli statalisti tradizionali, ma il tramite particolaristico e (tendenzialmente) violento del
dominio di classe. In chiave filosofica, in quanto sovrastruttura al servizio di una frazione (minoritaria) della società, lo
stato non è una comunità reale, ma una “comunità illusoria”, proiezione dell’essenza alienata dell’uomo, che nasconde
dietro l’apparenza universalistica del citoyen le differenze sociali concrete tra il bourgois e il proletario radicate nei
rapporti di produzione e di scambio.
Da questa caratterizzazione subordinata, strumentale e particolaristica, sostanzialmente negativa, dello stato
discende la prescrizione utopica della sua necessaria “estinzione” (o deperimento) e dell’instaurazione del regno della
libertà dallo sfruttamento e dal bisogno. Nondimeno, se è vero che per il marxismo lo stato è destinato a essere
riassorbito nell’amministrazione delle cose propria della “società regolata”, il programma politico del suo superamento
ne presuppone la conquista e la transitoria gestione ad opera della classe sfruttata, la cui presente sottomissione esso
assicura e riproduce. Al di là del proclamato primato della società, la centralità dello stato si ripropone così
surrettiziamente sul piano della teoria non meno che su quello della prassi politica rivoluzionaria.
In quanto organizzazione del dominio sull’intera società del gruppo sociale che controlla l’economia, lo stato
è sempre una “dittatura di classe”, più o meno nascosta dietro l’apparenza della “classe universale” e la retorica
paternalistica e egualitaria del diritto di cittadinanza. Tuttavia, pur essendo essenzialmente una macchina di dominio, lo
stato non è mai del tutto (neppure per Marx e Engels) riducibile al momento della forza e alle tecnologie repressive che
amministrano la legalità per conto della classe dominante. Sempre agli apparati della forza si affiancano e si intrecciano
gli apparati ideologici pubblici e le istituzioni egemoniche della società civile, attraverso cui la classe dominante
organizza e riproduce il consenso utilitaristico e sui valori, e esercita un’opera di direzione intellettuale e morale che le
consente di “risparmiare” sull’impiego della violenza. Soprattutto nei paesi retti da ordinamenti liberali e democratici il
potere di classe si esercita così attraverso un mix di persuasione e di minaccia, di egemonia e di coercizione, che si
estende al di là degli apparati pubblici per investire in modo penetrante e diffuso l’intera società (Gramsci, 1975).
3. La politica come equilibrio pluralistico.
Alle posizioni teoriche precedentemente esposte, secondo le quali lo stato, pur essendo una e una soltanto delle
forme del potere e dei luoghi della politica, soggetto all’influenza di attori esterni e diviso al suo interno da linee di
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frattura organizzative, ideologiche e corporative, resta nondimeno il termine di riferimento irrinunciabile della politicità,
se ne affiancano e se ne contrappongono altre che - come vedremo in seguito - diverranno dominanti soprattutto nella
political science di oltre Atlantico. E’ lecito raggruppare queste ultime sotto l’etichetta (anch’essa un po’ generica) di
modelli pluralistici, considerandole come espressioni di un approccio allo studio della (oltre che al giudizio sulla)
politica distinte sia dall’approccio statocratico delle ottocentesche dottrine stataliste, sia da quello statocentrico dei padri
fondatori della “nuova scienza politica” novecentesca e del marxismo.
Occorre subito avvertire che la categoria di pluralismo evoca una molteplicità di tradizioni intellettuali di
riferimento e di significati non privi di elementi di indeterminatezza e di ambiguità. Non è questo il luogo per
approfondire queste differenze. Qui il pluralismo interessa non in quanto dottrina normativa che propugna la libertà e il
ruolo equilibratore dei poteri divisi e/o dei corpi intermedi funzionali e territoriali contro le prevaricazioni dello stato
assoluto o giacobino, paternalistico o totalitario, ma soprattutto in quanto modello analitico che si contrappone agli
approcci centrati sullo stato e sul potere e che impronta fortemente soprattutto la politologia statunitense dagli anni venti
fino ai giorni nostri, costituendone uno dei mainstream dominanti.
In questa prospettiva, si può dire che ciò che accomuna i modelli pluralisti è una concezione della politica
come variabile dipendente dalla dinamica sociale e della società come locus dell’interazione tra gruppi associativi in
competizione per l’attribuzione di risorse scarse. Detto altrimenti, il pluralismo analitico vede il rapporto tra sistema
istituzionale e sistema sociale non come un rapporto di comando, gerarchico e verticale (top down), come negli approcci
statocratici, né in termini di causalità bidirezionale come negli approcci statocentrici, bensì come un continuum
orizzontale o come un rapporto ascendente (bottom up). Ciò vale soprattutto per quelle varianti più radicali, che
potremmo definire sociocratiche, che considerano l’autorità politica istituzionalizzata un semplice prolungamento e un
riflesso pressoché inerte delle interazioni conflittuali e degli aggiustamenti negoziali della società civile; ma vale anche,
a ben vedere, per quelle posizioni intellettuali più moderate, che per simmetria potremmo chiamare sociocentriche, che,
pur rivendicando il primato analitico (e morale) delle dinamiche societarie, riconoscono ai decisori istituzionali un certo
grado di autonomia e di iniziativa e una funzione di ultima istanza di salvaguardia di interessi collettivi.
La prima tendenza, quella più radicale, tende a dissolvere la specificità del momento istituzionale nella
dinamica contingente delle relazioni sociali in un processo di interazione continuo, disegnando così un decision making
globalmente inclusivo e privo di confini demarcabili tra stato e società. La fonte e il motore di questo processo sono
gruppi associativi (visti come articolazioni fisiologiche della comunità e non come fazioni e diaframmi tra stato e
cittadino) che agiscono attraverso conflitti e compromessi per soddisfare i loro interessi e realizzare i loro obiettivi. La
sfera istituzionale è considerata in questa chiave di lettura o come una semplice arena, o come una funzione di
aggregazione e di mediazione attraverso cui si condensa imperativamente la dialettica delle forze sociali. Lo stato, che
nella tradizione statalista si presentava come un soggetto autonomo e intenzionato ordinante e sovrastante la società,
come monopolista o comunque come protagonista della politica, diventa in questa declinazione estrema dell’approccio
pluralista un apparato servente, privo di una propria identità e di preferenze (che non siano gli "interessi organizzativi"
di funzionari o di politici interessati, a loro volta portatori di logiche di gruppo privato), una emanazione della società
che incorpora e registra passivamente diversità e compromessi preistituzionali. L’interesse pubblico non è l’obiettivo e
il prodotto della sua azione autonoma, ma il risultato di equilibrio che emerge spontaneamente dalla trama di
aggiustamenti e di contrattazioni decentrate basate su preferenze individuali o su interessi di gruppo e di partito. La
concezione debole o, senz’altro, residuale dell’autorità pubblica sottesa a questo modello emerge chiaramente dalle
metafore impiegate nella variegata letteratura sul pluralismo, dove si parla delle istituzioni pubbliche come di cornice,
di spazio giuridicamente attrezzato, di camera di registrazione o di compensazione del conflitto tra interessi organizzati,
di "scatola nera" le cui decisioni sono la risultante di un parallelogramma di forze sociali e equivalgono alle ricevute di
un registratore di cassa, ai movimenti di un sismografo o di un elettrocardiogramma, alle certificazioni di un notaio.
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Un secondo gruppo di teorie riferibili alla matrice pluralistica e al liberalismo dei partiti e dei gruppi di pressione
(il riferimento in questo caso è ad una lunga lista di autori che comprende C. Merriam e H. Lasswell, V. O. Key jr. e E.
E. Schattschneider, R. Dahl, e C. Lindblom, G. Almond, D. Easton e T. J. Lowi, citando un po’ a caso tra i nomi più
rappresentativi) appare più disponibile, come si è detto, a riconoscere all’autorità politica istituzionalizzata una capacità
di intervento attivo, non puramente notarile, o senz’altro un ruolo direttivo e un grado, variabile ma non trascurabile, di
autonomia e di discrezionalità rispetto sia alle pressioni delle lobby sia al governo di partito, a tutela di interessi
generali e di lungo periodo della comunità. Lo stato – peraltro sempre più identificato con le agenzie di governo - detta
in questo caso le regole di convivenza alle parti sociali e le fa rispettare, è la fonte e il garante (più o meno autorevole e
efficace) del libero gioco delle pressioni pluralistiche, l’arbitro della contesa, anche se è dalla società che proviene
l’input che mette in movimento e alimenta il processo politico.
L’idea che i valori sociali siano imperativamente assegnati attraverso politiche che riflettono la negoziazione di
gruppi sottoposti all’arbitrato dello stato-governo caratterizza anche le teorie, cosiddette “neocorporative”, affermatesi a
partire dagli anni settanta specie in riferimento alla situazione europea del secondo dopoguerra. Secondo i teorici del
neocorporativismo i risultati di stabilizzazione politica e di prosperità economica che caratterizzano il compromesso
keynesiano tra capitalismo e democrazia sono l’esito di negoziazioni tra grandi centrali sindacali rappresentative dei
lavoratori industriali (e sostenute da partiti pro-labour) e organizzazioni imprenditoriali che "triangolano” coi governi
nazionali allo scopo di definire consensualmente le politiche economiche e sociali. Nel modello del pluralismo
neocorporativo l’idea di sovranità statale radicata nella tradizione assolutistica e giacobina in grado di determinare
unilateralmente, attraverso la legge, il comportamento delle parti sociali viene sostituita da quella di macrodecisioni
concertate tra i principali attori collettivi della società industriale. I grandi gruppi corporativi che dominano
l’organizzazione produttiva e la società fordista agiscono come autorità semisovrane, come “governi privati” investiti
di uno status decisionale quasi-pubblico, laddove il governo funge da mediatore e da garante, è insieme arbitro e
partner, beneficiario e sensale degli accordi negoziati tra le parti sociali.
E’ del tutto coerente che, sulla base di siffatti orientamenti, la nozione di stato mutuata dalla tradizione
assolutistica e giacobina appaia sempre più inadeguata e fuorviante, considerata tanto emotivamente ingombrante
quanto analiticamente inerte. Al punto da venire usata da alcuni in senso debole, generico o meramente evocativo, o da
essere dichiarata da altri concettualmente illegittima e espunta dal lessico politico e sostituita dai concetti di governo, di
decision-making, di sistema politico, di government.
L'opera di “demolizione” della nozione di stato intrapresa dagli approcci pluralistici viene condotta alle sue
estreme conseguenze soprattutto nel secondo dopoguerra ad opera della cosiddetta "rivoluzione comportamentista" che
investe la politologia statunitense e che si concreta in quel vero e proprio ricambio di paradigma costituito dall’avvento
delle teorie struttural-funzionale e sistemica e, in parallelo, della coeva teoria della scelta razionale, nel cui frame le
numerose varianti del pluralismo trovano una sistemazione teorica rigorosa. In questa temperie intellettuale, l’asse della
scienza politica si ricostituisce, tra le altre cose, proprio in opposizione al formalismo dell'idea di stato e alla sua pretesa
intercambiabilità con il concetto di politica, negando recisamente che tale categoria possa servire "a legare insieme la
ricerca politica" e reclamandone pertanto il definitivo abbandono. La categoria di stato viene dichiarata non solo
insufficiente e bisognosa di una revisione e di un ridimensionamento, ma inutile e fuorviante, e conseguentemente
espunta dal lessico politologico. Le argomentazioni avanzate dai comportamentisti a sostegno della propugnata
"esclusione dello stato dalla normale tematica sociologica" sono di vario ordine e riassumono sostanzialmente il
percorso critico di presa di distanza e di dissoluzione concettuale sin qui testimoniato conducendolo ai suoi esiti
estremi.
Una prima imputazione riguarda l’ambiguità e la vaghezza del concetto. Manca infatti – si dice - un
significato univoco e condiviso della nozione di stato, potendosi intendere con questo termine ora un soggetto
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collettivo, ora un ambito giuridicizzato in cui l'azione politica ha tipicamente corso. Talora lo stato viene considerato
come un mezzo, utilizzabile in vista di obiettivi di potere o di utilità individuale o di gruppo; altre volte lo si ritiene
come lo scopo stesso a cui si orienta l'azione politica. L’espressione evoca ora un gruppo di decisori supremi, ora un
complesso organico di apparati amministrativi, ora un sistema istituzionale, un ordine normativo, una funzione di
governo. La varianza semantica del concetto è tale da aver dato la stura ad una pletora di definizioni non sovrapponibili.
Ne discende che cercare di definire la politica attraverso la statualità significa rischiare di "sostituire una cosa ignota
con un'altra cosa ignota" (Easton, 1953).
Si aggiunga che il modello dello stato territoriale, così come è stato elaborato a partire dall'epoca della
formazione delle grandi monarchie europee, non può essere sufficiente a descrivere tutti i sistemi e le attività politiche
dal momento che non include nel suo campo di analisi le società prestatuali e extrastatuali del passato e del presente.
Far coincidere stato e politica significa pertanto escludere indebitamente dall'analisi politica, per definizione, "sistemi
sociali nei quali l'interazione politica è indiscutibilmente un aspetto essenziale", laddove invece ovunque "vi sia un
qualsiasi genere di attività organizzata, per quanto allo stato incipiente, abbondano quelle che noi chiameremmo
normalmente situazioni politiche".
Alle accuse di ambiguità e di incompletezza occorre aggiungerne una terza, che richiama la lezione di Bentley
e che per i politologi comportamentisti è decisiva: il carattere formalistico della categoria "stato", comunque la si
definisca e la si estenda, implica in ogni caso un interesse prevalente "per un tipo particolare di istituzione o di
organizzazione della vita, non per un tipo di attività che si possa esprimere attraverso una diversità di istituzioni". Ciò
impedisce di "identificare le proprietà di un fenomeno che attribuiscono a questo una caratterizzazione politica". La
politica deve essere al contrario concepita come una classe di interazioni sociali non circoscrivibile alle strutture
istituzionali, tanto più se tipiche dell'esperienza occidentale e della modernità; non può cioè limitarsi al profilo giuridico
e organizzativo, a cui rimanda principalmente il concetto di stato, ma deve estendersi alla considerazione dei processi,
delle funzioni e del sistema (Easton, 1963).
Il successo secolare della nozione di stato - questo è il verdetto conclusivo – è spiegabile con ragioni pratiche,
più che teoriche: essa ha dato il meglio di sé, più che come categoria analitica, come mito mobilitante nelle lotte per
l'unità nazionale. Nel secondo dopoguerra però questo mito sembra sopravvivere solo retoricamente alla realtà che l'ha
prodotto. In quanto analiticamente fuorviante e empiricamente vaga, difficilmente trasformabile in indicatori empirici
controllabili, tale nozione va pertanto abbandonata a favore di altri concetti, teoricamente più rigorosi e operativamente
più fecondi. In ogni caso, essa non può plausibilmente essere assunta con un significato coestensivo rispetto a quello di
politica.
Dalla "divaricazione" tra statuale e politico che emerge dagli approcci pluralisti, in ciascuna delle declinazioni
che ne sono state offerte, emergono due conclusioni importanti e, in qualche modo, definitive per la teoria politologica
contemporanea, che è opportuno ribadire e sottolineare. La prima suggerisce che la politicità non si esaurisce in ciò che
è pubblico e istituzionale in contrapposizione a ciò che è privato; la "grande dicotomia" pubblico-privato, così come
quella stato-società, sembra aver perso su questo terreno buona parte del suo fondamento e della sua rilevanza
esplicativa. Fenomeni, attori, comportamenti, eventi che ordinariamente consideriamo extrapolitici (in quanto né statali,
né orientati intenzionalmente a dirigere una comunità) possono contingentemente o permanentemente “politicizzarsi”,
laddove, per converso, altri ritenuti convenzionalmente politici (e tra essi lo stato stesso e i comportamenti dei suoi
reggitori e funzionari) possono smarrire ogni significato politico, corporativizzarsi, privatizzarsi.
Ne discende il secondo punto fermo che riguarda la precarietà dei confini tra ciò che è politico e ciò che non lo
è, con il conseguente pulsare, il permanente dilatarsi e contrarsi della sfera del politico (la cui massima estensione si ha
nel corso delle mobilitazioni elettorali allorché tutta la società si politicizza direttamente e nelle “situazioni
democratiche” di statu nascenti e di entusiasmi collettivi su cui torneremo). La politicità di un attore, di un fenomeno o
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di un comportamento sociale, non è quindi una costante individuabile ex ante ma una variabile da valutare
empiricamente nel quadro di una potenziale ubiquità del momento politico. Un concetto a geometria variabile.
4. Rimettere lo stato all'ordine del giorno?
L'offensiva comportamentista contro il concetto di stato – nella versione della teoria struttural-funzionale e
sistemica o in quella di teoria delle scelte pubbliche - ottiene per un quindicennio una vittoria schiacciante nella
comunità dei politologi (e degli economisti pubblici), come testimonia il fatto che, dalla fine degli anni cinquanta fin
quasi alla metà degli anni settanta, il termine è pressoché scomparso dai lavori di scienza politica di matrice o di
orientamento anglosassone.
Tuttavia molti autori, legati soprattutto alle tradizioni intellettuali europeo-continentali, si sono sempre mostrati
scettici riguardo alla opportunità di sbarazzarsi di un concetto così blasonato e radicato nella cultura dei dotti non meno
che nel sentire comune dei popoli. A partire dagli anni settanta, il nesso inscindibile tra politica e stato è tornato a più
riprese a riproporsi, prima dall’una e poi anche dall’altra sponda dell’Atlantico, tornando a costituire per molti studiosi,
se non l'unico nucleo, quantomeno un focus irrinunciabile di una teoria generale della politica.
In sintonia con l'esigenza di tenere fermo o di rivalutare il posto dello stato all’interno di quest’ultima,
riaffermando la salienza e il primato delle istituzioni e degli apparati pubblici rispetto al ruolo politico del sociale,
finiscono per trovarsi quei paradigmi neo-statalisti che, pur richiamandosi ad ascendenze culturali eterogenee, marxiste
o weberiane, concordano in generale sulla opportunità analitica – come suona il titolo di un volume a più mani che ha
avuto un certo seguito- di "rimettere lo stato all'ordine del giorno", in polemica contrapposizione con il minimalismo
anti-istituzionale vuoi della teoria pluralista-comportamentista e dell’approccio della scelta razionale, vuoi del
protomarxismo.
Un siffatto orientamento – destinato peraltro a rimanere minoritario e periferico rispetto alla corrente principale
degli studi politici anche nel momento del suo massimo successo - trova una sua intrinseca plausibilità non solo nel
richiamo a tradizioni di ricerca risalenti e illustri, ma nelle impasse e nelle aporie, vere e presunte, dei paradigmi
dominanti. Inoltre, esso può appoggiarsi sul successo fattuale, in apparenza autoevidente, dello stato nazionale, quale è
testimoniato dalla crescita delle sue dimensioni, delle sue funzioni e del suo potere nell’economia e nella società nel
trentennio centrale del secolo. Dapprima gli esperimenti della economia di comando in Unione Sovietica, dei fascismi
nel cuore dell’Europa e del New Deal negli Stati Uniti; successivamente la crescita postbellica del Welfare State e la
diffusione spettacolare del benessere ad opera del capitalismo organizzato in Occidente; e poi, ancora, l’imponente
(ancorché travagliato e eterodiretto) processo di state-building in Africa e in Asia legato alla decolonizzazione
postbellica, sembrano congiuntamente costituire un test inequivocabile della perdurante vitalità e centralità della formastato e spingono a revocare in dubbio, o quantomeno a attenuare fortemente, la prognosi di marginalità o di declino che
era implicita negli approcci sociocratici e sociocentrici.
In questa “riscoperta” di modelli statalisti un posto di rilievo è occupato, a partire dalla metà degli anni
settanta, da un folto gruppo di studiosi complessivamente catalogabili nell'ambito del neo-marxismo, tra i quali
spiccano i nomi di N. Poulantzas, C. Offe, J. O'Connor, J. Habermas. L'idea che li accomuna, al netto di differenze
anche marcate, è che il capitalismo maturo, non meno di quello tradizionale, è intimamente contraddittorio, nel senso
che sviluppa tendenze autodistruttive tese a negare le precondizioni della propria riproduzione. Tuttavia, la crisi
generale del sistema preconizzata da Marx nella sua teoria del crollo è stata, e può essere ulteriormente, procrastinata e
“gestita” attraverso un complesso coordinato e pianificato di meccanismi equilibratori e di interventi di regolazione,
relativamente autonomi dalle pressioni della classe dominante, rivolti a garantire l'accumulazione e l’appropriazione del
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surplus prodotto dalla società senza mettere in discussione la legittimazione e la lealtà di massa. Nella fase post-bellica,
in cui il capitale monopolistico prevale sul capitale concorrenziale, il rapporto di influenza diretta o indiretta tra singoli
capitalisti e lo stato si spersonalizza e si autonomizza: all’azione pluralistica decentrata degli interessi speciali e della
pressione delle lobbies sulle istituzioni e sulla classe politica (rappresentata nel “Manifesto” dalla metafora del
“comitato d’affari”) subentra il rapporto impersonale (mediato dalle tecnostrutture della pianificazione) tra interesse di
classe e politiche di valorizzazione economica e di stabilizzazione politica. Lo stato capitalista-pianificatore presiede in
modo indipendente a questa funzione di adattamento sistemico, svolgendo nel capitalismo maturo un insostituibile
compito di pilotaggio e di crisis management, di controllo e di tutela, attraverso l’impiego di routines e di meccanismi
istituzionali selettivi emancipati dalle pressioni e dai condizionamenti contingenti dei singoli soggetti interessati ma,
nello stesso tempo, in grado di far prevalere sistematicamente le esigenze dal processo di valorizzazione. Anche se, alla
lunga, la contraddizione fondamentale del sistema finisce per proiettarsi all'interno delle sue stesse agenzie e funzioni
autoregolative, manifestandosi come trade-off tra legittimità ed efficienza, come crisi della razionalità amministrativa
degli apparati e delle politiche pubbliche e come crisi fiscale dello stato.
Al di là della scarsa propensione a sostenere le loro posizioni teoriche con prove empiriche sistematiche,
l'esigenza posta dai neo-marxisti di non ridurre la politica contemporanea a processo privo di centro e lo stato e le
istituzioni a variabili dipendenti dalle forze sociali (pur mantenendo fermo il dominio “di ultima istanza”
dell’economia), appare plausibilmente argomentata e viene di fatto condivisa, anche se con molti distinguo, ben al di là
dei confini del loro gruppo.
In effetti, nel corso degli anni settanta e ottanta, anche e soprattutto dal versante della politologia non marxista,
si moltiplicano le richieste di revocare l’ostracismo a una categoria considerata ben lungi dall’aver esaurito la propria
funzione euristica. Il contenzioso mirante a “prendere lo stato sul serio”, che era stato aperto precocemente già alla fine
degli anni sessanta, in piena offensiva behaviorista, da un polemico articolo di J. P. Nettl, viene ripreso e radicalizzato
un decennio dopo dai lavori di T. Skocpol, A. Stepan, S. Krasner, E. Nordlinger e da altri, giovandosi del sostegno di
analisi storiche di ampio respiro e proponendosi come un vero e proprio programma di ricerca alternativo ai due
paradigmi dominanti nei political studies, oltre che al neo-marxismo.
Gli studiosi che si propongono di “riconsegnare lo stato alla scienza politica” operando un vero e proprio
“riorientamento paradigmatico”, al di là dei peculiari contributi polemici e propositivi che essi recano alla querelle
anticomportamentista e dei debiti più o meno esplicitamente contratti con le tradizioni weberiana e elitista, condividono
un presupposto e un orientamento metodologico. Il presupposto è che la dinamica politica della modernità e della stessa
contemporaneità, sia essa evolutiva o rivoluzionaria, non sia comprensibile senza postulare un ruolo centrale dello stato
in quanto macrostruttura coerente, insieme interdipendente e coordinato di apparati, di pratiche e di personale
demarcabile dall’ambiente sociale e relativamente autonomo dalle sue pressioni. In questa prospettiva, rinunciare alla
nozione di stato a favore di altri concetti ordinatori più deboli - come “governo” o “sistema politico”- comporterebbe
per la scienza politica costi di gran lunga superiori ai benefici. Tuttavia il repechage si raccomanda – e in ciò consiste
l’innovazione rispetto alla tradizione statalistica – unicamente a patto che non si tratti di un semplice revival nostalgico
dell’approccio classico (o peggio, delle astrazioni concettuali del neomarxismo) e che la categoria di stato, troppo
spesso usata nel passato in modo indeterminato e suggestivo, venga analiticamente disaggregata e trasformata in una
serie coerente di variabili operative, a denotare l’attività di gruppi concreti empiricamente controllabili, riconducendola
in tal modo nell’alveo della metodologia scientifica. La stessa nozione di statalità (stateness) - intesa come grado di
intensità e di efficacia dell’azione statale – può venire utilmente trattata come una “variabile quantitativa” utilizzabile
nel controllo comparato, sincronico e longitudinale, dei processi di stabilizzazione e di cambiamento socio-politico.
Tradotto in un sistema di variabili e di indicatori empiricamente trattabili, lo stato viene a coincidere con la
rete dei funzionari che ricoprono ruoli di autorità direttivi e amministrativi, distribuiti in apparati pubblici
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funzionalmente differenziati e più o meno efficacemente coordinati per la formulazione e la esecuzione delle politiche
pubbliche. Così per Nordlinger esso non è altro che l’insieme di “tutte quelle persone che occupano posizioni pubbliche
che le autorizzano a prendere e a portare a esecuzione decisioni politiche vincolanti per ciascuna e per tutte le
componenti di una popolazione territorialmente circoscritta”. Coincide, in altre parole, con la classe politica o élite di
governo lato sensu intesa (Nordlinger, 1981).
Non solo nei regimi autoritari o dispotici, ma anche nelle società aperte, il personale organizzato nelle strutture
statali direttive e burocratiche è in grado di controllare e dirigere la società più di quanto non ne sia controllato e diretto.
Ciò è dimostrato a contrario dalle resistenze, spesso vittoriose, che gli apparati governativi sono in grado di opporre ai
tentativi di cambiamento rivoluzionario (le rivoluzioni che alcuni di questi autori analizzano comparativamente sono
l’experimentum crucis della autonomia e della ineludibile vischiosità e durezza - ma anche della elasticità e
dell’efficacia- dell’organizzazione burocratico-coercitiva statale). Politici e burocrati, in quanto titolari di specifici
interessi economici e di status, sono spesso in concorrenza con i gruppi sociali dominanti per estrarre rendite e risorse
dal resto della società. Le loro preferenze di gruppo sono quelle che, ordinariamente o in ultima istanza, determinano le
politiche governative, nel senso che le loro chance di successo sono di regola comparativamente superiori a quelle degli
altri gruppi della società. In ogni caso, anche laddove vi sia cooperazione e spartizione di surplus sociale tra classe
politica e ceti economicamente dominanti, il personale statale non può essere considerato il comitato esecutivo degli
interessi di questi ultimi, né lo stato un mero epifenomeno della lotta di classe o un riflesso più o meno inerte della
dialettica dei gruppi di pressione o di veto: “Lo stato, concepito in modo appropriato, non è una mera arena entro la
quale si combattono lotte socio-economiche; è piuttosto un insieme di organizzazioni amministrative, politiche e
militari, cui è preposta un’autorità esecutiva che le coordina più o meno bene” (Skocpol, 1981). E se è vero che il
successo dei gruppi statali è condizionato dalla dotazione di risorse di autorità (organizzazione, denaro, legittimazione,
saperi tecnici specialistici) di cui dispongono e dalla cultura (propensioni soggettive, grado di iniziativa, onore) che
incorporano ed è spesso impedito dai conflitti “orizzontali”, distributivi e di potere, che si generano al loro interno, oltre
che dai vincoli esogeni posti dal sistema internazionale degli stati, è parimenti vero che il più delle volte la volontà e gli
interessi dei funzionari pubblici finiscono per prevalere sulle rivendicazioni e sulle resistenze ambientali.
La dignità analitica del concetto di stato, il ruolo centrale degli apparati, dei funzionari e delle decisioni
pubbliche nella struttura del potere della società moderna e contemporanea, la discontinuità tra stato e società e
l’autonomia dei comportamenti dei suoi gestori dalle pressioni della società, la politica vista più come controllo
dall’alto che come pressione dal basso, l’idea normativa di bene comune in quanto potenzialmente riferibile alla
funzione statale, costituiscono i punti salienti che contrappongono l’approccio neostatalista al (presunto) riduzionismo e
determinismo delle ortodossie politologiche dominanti (Krasner, 1984). L’establishment politologico ha controbattuto
all’offensiva condotta da questo versante in modi risentiti e talora sprezzanti. Le repliche si possono compendiare
parafrasando la celebre battuta rossiniana indirizzata a Donizetti: vi è del nuovo e del giusto in quell’approccio, ma ciò
che è giusto non è nuovo e ciò che è nuovo non è giusto. Non è nuovo, se non per talune sfumature e accentuazioni, il
modo di definire e di trattare analiticamente lo stato rispetto alla teoria ortodossa, né è nuova l’idea dell’autonomia
decisionale delle autorità politico-amministrative dalle pressioni ambientali dirette, sia essa rivolta a tutelare gli interessi
corporativi del ceto politico o intesa a promuovere una qualche sorta di interesse collettivo. Non è giusta, per converso,
la lettura che viene fatta della teoria pluralistica ridotta a una caricatura e indebitamente equiparata al determinismo
marxista. Insomma, non arde un gran fuoco teorico sotto quel fumo. L’apporto dei neostatalisti è semmai apprezzabile
sul piano empirico, nell’analisi comparata di casi e situazioni storico-concrete (Almond, 1990).
Per quanto questi rilievi colgano spesso nel segno, il surplus teorico del neostatalismo rispetto agli approcci
rivali non è irrilevante. Tutto sommato, anziché vedere in esso un mero ritorno alle origini neoclassiche, weberiane e
elitiste, della scienza politica, è più giusto ritenere che le sollecitazioni di cui questo indirizzo si fa interprete abbiano
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nel complesso contribuito a correggere taluni pregiudizi e talune sottovalutazioni da parte delle teorie dominanti,
svolgendo pertanto un ruolo positivo di riequilibrio in favore di una più accorta considerazione del ruolo e della
autonomia delle istituzioni nell’ambito della politologia contemporanea. Del resto, se il concetto di stato appare
fortemente in discussione in quanto cardine della teoria politica di fine secolo, altrettanto si può dire dei concetti rivali
di sistema politico, di potere, di governo che hanno preteso di sfidarlo e di sostituirlo. D’altra parte, c’è dell’ironia nel
fatto che queste teorie appaiono alla vigilia di quella grande trasformazione che vedrà il ruolo dello stato messo in
questione come non mai negli ultimi quattro-cinque secoli.
5. La politica oltre lo stato.
Il ragionamento fin qui sviluppato individua nella crisi del concetto di stato, maturata tra la fine del secolo scorso
e l’inizio di questo, l’input dell’evoluzione e della differenziazione paradigmatica (ma, come vedremo, anche
dell’impasse) della politologia contemporanea. Vale la pena di chiedersi, a questo punto, che cosa resti oggi dell’idea di
stato, di quali servigi essa possa continuare a rendere alla teoria politica e, viceversa, di quali vincoli tali idea ponga al
suo sviluppo. A questo proposito corre l’obbligo di operare una distinzione tra la crisi della categoria di stato e la crisi
dello stato reale, tra la affermata inadeguatezza analitica e interpretativa del concetto e la decadenza effettuale della
“cosa”.
Cominciamo da quest’ultima. In questi ultimi dieci anni, uno sguardo anche affrettato agli scaffali di una
qualsiasi libreria avrebbe facilmente rivelato l’esistenza di una vasta letteratura accademica e di una ridondante
pubblicistica impegnate a dibattere sotto molteplici angolazioni il tema della “crisi”, del “tramonto” o, senz’altro, della
“morte” dello stato-nazione”, fatto ripetutamente oggetto di prognosi negative se non catastrofiche, più o meno
compiaciute o preoccupate. Nelle opinioni di un gran numero di studiosi e di commentatori di cose politiche lo stato
contemporaneo avrebbe perduto, o sarebbe in procinto di perdere, quelle prerogative esclusive che aveva rivendicato
con successo nel corso di un processo plurisecolare: le funzioni di monopolio (almeno tendenziale) della protezione e
della legittimità, la capacità di controllo sulla tassazione e sulla moneta, sulla produzione del diritto e sulla
giurisdizione, sulle attività imprenditoriali e sui mercati, sull’inclusione e sull’esclusione di individui e gruppi, sulla
popolazione e sull’accesso alla conoscenza e all’informazione entro confini territoriali stabiliti; le prerogative ultime di
decidere chi è amico e chi nemico, ciò che è giusto o ingiusto, chi è dentro e chi è fuori. Nel nuovo scenario epocale
insorto nell’ultimo scorcio di secolo, beni pubblici fondamentali come ordine, ambiente, sicurezza, credito, benessere,
occupazione sempre meno sembrano poter essere assicurati o controllati a livello statale se non da pochi paesi forti e
anche in questi solo parzialmente. Vengono così drammaticamente meno per i cittadini le ragioni di “pagare” per questi
beni in forma di obbedienza e di imposte. Questa erosione (se non vera e propria espropriazione) di funzioni e di poteri
– spiegata da fattori causali molteplici e controversi- che ha (o avrebbe) sottratto allo stato nazionale il suo ruolo di
protagonista e di centro della politica è avvenuta a vantaggio di altri soggetti “politici”, portatori di nuove capacità di
exit e di voice e capaci di suscitare lealtà alternative: imprese e organizzazioni criminali operanti in mercati
multinazionali, organismi economico-finanziari, alleanze militari, unioni politiche e organizzazioni non governative
sovranazionali. E’ dunque su questi nuovi soggetti portatori di sfide cosmopolitiche e su questi “luoghi” più o meno
inediti del politico che la politologia scientifica dovrà esercitarsi più di quanto non abbia fatto in passato.
Il declino dello stato come protagonista effettuale della politica del Novecento, in quanto impresa
monopolistica che produce ordine, protezione e sicurezza in cambio di legittimità e mobilitazione non va beninteso
confuso con il collasso del concetto di stato come categoria ordinatrice dell’analisi politica. Nel primo caso si assume
nella sostanza la rilevanza analitica del concetto; nel secondo la si nega o comunque la si attenua drasticamente. Dire
che lo stato è in crisi significa implicitamente ammettere, almeno retrospettivamente, la pertinenza analitica della
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categoria e la sua centralità. D’altra parte è inevitabile chiedersi se non vi sia un qualche rapporto tra la presa d’atto del
declino della “cosa” e l’invocazione di nuovi concetti per rappresentare più adeguatamente la realtà corrente. A ben
vedere, infatti, le sfide e le tensioni che hanno investito la formazione statale nell’ultimo scorcio del secolo, a seguito
delle quali i confini territoriali degli stati hanno cessato di coincidere con l’estensione e i limiti dell’autorità politica
sull’economia e sulla società, con la palese riduzione della efficacia e della autonomia decisionale delle istituzioni
pubbliche, congiurano a rendere la categoria di stato sempre più teoricamente insoddisfacente, oscurando coi confini
territoriali anche quelli teorici. A un’istituzione sempre più debole, screditata, residuale non può che corrispondere alla
lunga un concetto debilitato, buono al più per rappresentare il passato, ma i cui rendimenti analitici sono decrescenti
nell’interpretare il presente e la cui collocazione nell’ambito della scienza politica va riconsiderata (Strange, 1998).
Nondimeno, se nella società che ha imboccato il nuovo millennio la politica (interna o internazionale) non
coincide con l’agire dello stato-nazione, a tutt’oggi quest’ultimo resta pur sempre uno dei luoghi, degli obiettivi e degli
attori decisivi della politica; perso il suo protagonismo, divenuto forse attore di una politica minore, esso continua a
esistere e a contare, se non altro come vincolo e come risorsa difficilmente fungibile nel breve e nel medio periodo. Pur
dovendo ricercare nuove categorie interpretative in grado di leggere la contemporaneità, l’analisi politica non deve
perciò farsi sviare dalla tesi dell’esaurimento del ciclo storico della statualità mettendo completamente da parte il
paradigma statalista (quantomeno nelle sue versioni policentriche) e negandogli una piena dignità analitica, e nessuna
grammatica del politico può ragionevolmente esimersi dal dedicargli un capitolo.
18
Bibliografia
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19
TEORIA DEI GIOCHI,
TEORIA DEI GIOCHI EVOLUTIVI E
TEORIA DELLO STATO
Guido Ortona
Docente di Politica economica - Università del Piemonte Orientale
Premessa e riassunto.
Il tema di questa lezione può essere definito come segue: “Come la teoria dei giochi può servirci per studiare la
teoria dello Stato”. Infatti, la teoria dei giochi è uno strumento prezioso per l’analisi di molte questioni che riguardano
lo Stato, sia sul piano normativo che su quello positivo, e nell’ambito di molte discipline; qualche esempio è ricordato
nel paragrafo 3.4. Questo tema inevitabilmente ci obbliga a restare su un piano molto generale. In pratica, più che delle
specifiche applicazioni studieremo l’approccio della teoria dei giochi. Per cercare di limitare l’astrattezza di questa
impostazione, alla fine della lezione prenderemo in considerazione due problemi specifici, e cioè quello del confronto
fra Stato assoluto e ordine spontaneo e quello del legame fra struttura e sovrastruttura. Essi sono stati scelti, fra i molti
possibili, per il loro carattere generale, e per la loro coerenza con l’impostazione complessiva del seminario nell’ambito
del quale viene svolta questa lezione.
La quale lezione si articola in tre parti. Nella prima parte verranno esposti alcuni concetti fondamentali della
teoria dei giochi, avendo in mente l’uso che si intende farne in questo contesto. Essa può tranquillamente essere saltata
da chi abbia già un minimo di nozioni in materia. La seconda parte riguarda la teoria dei giochi evolutivi; anch’essa può
essere saltata da chi ne sappia già qualcosa, ma la mia esperienza didattica mi suggerisce che solo chi ha seguito un
corso specifico, e abbastanza ampio, di teoria dei giochi si trova in queste condizioni. La terza riguarda le due
applicazioni di cui sopra.
Nozioni di base di teoria dei giochi
1. Cosa è un gioco.
Un gioco è un modello di una situazione in cui le scelte di ciascun soggetto influenzano in modo significativo gli
esiti possibili per gli altri soggetti. Come tale serve a rappresentare i cosiddetti problemi di scelta strategica, come
distinti da quelli di scelta parametrica, che sono studiati dall’economia tradizionale. Un esempio chiarirà il significato
dei due ambiti.
Una tipica impresa concorrenziale vuole massimizzare il suo profitto, che possiamo supporre sia dato da P =
a
pQ - bQ . Q è la quantità che verrà prodotta, e p (il prezzo di mercato), b e a sono dei parametri, cioè sostanzialmente
dei numeri. L’impresa deve scegliere il valore di Q che rende massimo il valore di P dati questi numeri. Immaginiamo
ora invece un settore in cui l’intera produzione è effettuata da tre sole imprese, a, b e c. In tal caso, un’impresa non può
più assumere che p sia un dato, in quanto esso dipenderà dalla produzione che lei e le altre due decideranno di
effettuare. L’esito della scelta (quanto produrre) di un'impresa dipenderà dalla scelta di altri soggetti, su cui essa non ha
alcun controllo (e questo è vero anche per la scelta parametrica), e che decideranno come comportarsi sulla base delle
attese che hanno per quanto riguarda il comportamento di ciascuno degli altri (in questo caso due) soggetti (e non sulla
20
base dell’esito aggregato del loro comportamento). Il primo problema è un problema di scelta parametrica, studiato
dall’economia tradizionale; il secondo di scelta strategica, studiato dalla teoria dei giochi.
2. Elementi e rappresentazione di un gioco. Gli elementi di un gioco sono:
a) Un insieme di partecipanti, o giocatori (players);
b) Un insieme di strategie, una o più per ogni giocatore, detto insieme ammissibile (feasible set); vi può anche
essere un continuo di strategie, ma di questo caso non ci occuperemo;
c) Un insieme di vettori di guadagno (payoff). Ogni vettore specifica un guadagno per ogni giocatore, ce ne sono
quindi tanti quanti sono le n-uple di strategie. Per esempio, con 3 giocatori e 4 strategie per ognuno ci saranno 64
vettori di 3 elementi: ovviamente ogni vettore ha tanti elementi quanti sono i giocatori;
d) Un insieme di specificazioni (se il gioco è a informazione completa, se è cooperativo, se e ripetuto e se si
quante
volte, ecc.). Di solito, due giocatori con due strategie sono sufficienti per la discussione dei risultati teorici, e
noi quindi useremo esempi così costruiti; è importante non dimenticare che le conclusioni che si otterranno sono
generalizzabili al caso di più giocatori e più strategie. Nella cosiddetta forma normale (a due giocatori) il gioco è
descritto da una tabella, in cui le righe rappresentano le strategie di un giocatore e le colonne quelle dell’altro;
all’intersezione di una riga e di una colonna vengono scritti nell’ordine i guadagni che il giocatore-riga e il giocatorecolonna ottengono se viene scelta quella coppia di strategie.
3. Alcuni Giochi tipici Il gioco che segue è un gioco anarchico:
II
a
a 9, 9
b
4,1
b 1,4
3,3
I
Entrambi i giocatori, I e II, sanno che è interesse comune scegliere a; il raggiungimento della alternativa
efficiente non richiede nessuna condizione. Invece, nel gioco che segue, che è un gioco di coordinamento, la soluzione
efficiente richiede che i giocatori possano mettersi d’accordo, ma nulla di più:
II
a
a 9, 9
b
4,1
b 4,1
9,9
I
Anche nella battaglia dei sessi1 un accordo sulla strategia da adottare sarà rispettato, ma raggiungerlo è più
difficile:
II
a
a 2,1
b
0,0
I
b 0,0
1,2
1
Il nome, un po' improprio, è tradizionale: esso deriva dall'esempio tipico con cui viene illustrato il gioco, quello di una coppia di
fidanzati che devono decidere se andare (per esempio) allo stadio o al cinema; uno dei due preferisce lo stadio e l'altro il cinema, ma
entrambi preferiscono comunque stare insieme piuttosto che andare in posti diversi.
21
4. Il dilemma del prigioniero
Il gioco elementare più famoso, e giustamente, è però il dilemma del prigioniero, in cui il raggiungimento della
soluzione efficiente richiede non solo un accordo, ma anche un intervento esogeno che lo faccia rispettare:
II
a
a 2,2
b
4,1
b 1,4
3,3
I
L’importanza del DP dipende dal fatto che esso è il modello-tipo delle situazioni in cui soggetti perfettamente
razionali che agiscano per massimizzare la loro utilità producono un esito inefficiente in senso paretiano, a smentita
dell’ipotesi della “mano invisibile”. Nella
formidabile:
in
contesti
strategici
sua semplicità, questo gioco consente di dimostrare
individui perfettamente
razionali
possono scegliere
un risultato
situazioni
non
efficienti. Le implicazioni sono enormi su molti piani: per esempio, se definiamo "il bene" la scelta efficiente e "il
male" le altre scelte, abbiamo che il male può prodursi anche in assenza di cattivi, un esito dalle notevoli
implicazioni filosofiche.
5. Equilibrio
Il problema di un gioco è stabilire quale coppia di strategie verrà effettivamente scelta. Tale coppia si definisce
equilibrio; fra i diversi concetti di equilibrio proposti, quello più importante è l’equilibrio di Nash, che possiamo
definire come una n-upla di strategie tali per cui a nessun giocatore conviene cambiare strategia a meno che non lo
facciano anche tutti gli altri.
Il concetto di equilibrio di Nash ha apparentemente tre limiti:
a) Ci sono casi in cui ci sono più equilibri di Nash, per es. nella battaglia dei sessi.
b) Ci sono casi in cui non ci sono equilibri di Nash, per esempio nel gioco
II
a
a 2,1
I b 1,3
b
1,3
4,2
c) Può individuare esiti inefficienti, come nel caso del DP.
Ma siamo sicuri che siano limiti? Nel caso del punto c), abbiamo già visto come questo debba essere
piuttosto considerato un elemento di realismo, e quindi un pregio: gli equilibri inefficienti esistono, e il concetto
di EN ne dà una spiegazione. E per gli altri punti? Esistono due scuole di pensiero. Alcuni ritengono che abbia senso
definire concetti di equilibrio più rigorosi: nella realtà esiste sempre una scelta ottimale, oppure più scelte che sono
oggettivamente equivalenti e dimostrabili tali. E' questa la problematica dei raffinamenti dell'equilibrio di Nash.
Altri ritengono che allo stato attuale delle nostre conoscenze
dei processi mentali occorre accettare che
la
pluralità di equilibri o la loro assenza sono caratteristiche della realtà, in quanto la selezione dell'equilibrio fra molti
dipende crucialmente da caratteristiche specifiche dei singoli giochi, e non è quindi determinabile sulla base di
regole generali. Su ciò torneremo più avanti. In assenza di una teoria più completa, comunque, la seconda posizione è
necessariamente quella giusta: anche i punti a) e b), quindi, devono essere considerati pregi e non difetti.
22
6. Giochi ripetuti.
Un gioco ripetuto è appunto un gioco che viene giocato più volte dagli stessi giocatori. L’equilibrio di Nash di
strategie miste individua un concetto di equilibrio per i giochi ripetuti; essenzialmente, si tratta dell’associazione al
vettore delle strategie di un vettore di probabilità tale per cui gli altri soggetti non traggono un vantaggio sistematico
nella scelta di una strategia piuttosto che di un’altra. Illustriamo il concetto con un un
problema
classico
della
biologia, se conviene essere falco o essere colomba (Maynard Smith, 1982). Supponiamo che in una specie in cui gli
individui maschi sono tutti "colombe" nasca -per mutazione casuale- un "falco". I payoff sono in fitness, cioè semplificando un po'- in probabilità percentuali di accoppiamento. Il gioco avviene durante la stagione degli amori,
e descrive la competizione per la femmina. I falchi sono individui che combattono sempre fino alla morte; le
colombe invece non combattono mai, e vincono contro un falco molto raramente e solo per caso. Il gioco sarà
allora il seguente (supponendo per semplicità che la lotta sia sempre fra due soli maschi):
F
C
F 0, 0
99.9 0.1
C 0.1, 99.9 50, 50
E' chiaro che l'unico falco avrà una vita facile, e quindi il suo patrimonio genetico si diffonderà nelle generazioni
successive e i falchi soppianteranno le colombe. Alla fine ci saranno solo più falchi.
O no? In effetti no. Se ci sono solo falchi e nasce una colomba, starà meglio dei falchi, guadagnando 0.1
anzichè 0! Possiamo aspettarci quindi che la soluzione, come che sia definita, preveda che esistano un po' di
falchi e un po' di colombe -come in effetti si verifica nella realtà.
Teoria dei giochi evolutivi.
1. Apprendimento dell’equilibrio.
Nei giochi ripetuti assume un ruolo cruciale l’apprendimento: i giocatori possono modificare la scelta della
strategia sulla base della storia del gioco. Questo processo si suppone che avvenga come segue.
a) la gente procede per tâtonnement sulla base delle scelte altrui, e si forma idee su cosa faranno gli altri. Ma
quando si gioca una coppia di strategie che costituiscono un EN, possiamo aspettarci che tali strategie vengano
successivamente mantenute.
b) Un EN di strategia semplice funziona quindi da attrattore - se c'è. E se ci sono più EN? Allora quello che alla
fine verrà selezionato dipenderà dalle regole del tâtonnement, da come si comincia ecc. Su ciò torneremo più avanti,
quando ci occuperemo di giochi evolutivi.
c) Se non ci sono EN di strategia semplice, allora verrà presumibilmente scelto l'EN di strategia mista. L'EN di
strategia mista può fungere da attrattore anche se ci sono EN di strategia semplice. Ma se per caso il tâtonnemen
intorno all'EN di strategia mista porta a un EN di strategia semplice, si rimane lì.
2. Strategie evoluzionisticamente stabili.
Introduciamo ora un concetto cruciale, quello di
strategia
evolutivamente stabile
(evolutionary
stable
strategy, ESS). Il concetto è stato elaborato da Maynard Smith (un biologo, 1982), e successivamente arricchito da
Axelrod (uno scienziato politico, 1984) e Sugden (un economista, 1986). Indicando con E(X,Y) il guadagno atteso di
chi adopera la strategia X contro la strategia Y, abbiamo che una strategia I è una ESS quando valgono le condizioni
23
seguenti:
a) E(I,I) > E(J,I) oppure E(I,I) = E(J,I)
b) se E(I,I) = E(J,I), allora E(I,J) > E(J,J)
per ogni strategia J diversa da I.
Se queste condizioni -il cui significato chiariremo fra un attimo- sono soddisfatte, la strategia I è stabile;
nel senso che, data una comunità in cui tutti la adottano, un soggetto che adottasse invece una strategia J otterrebbe
un guadagno peggiore. Possiamo quindi dire che Una ESS è una strategia non invadibile.
La spiegazione di quanto sopra è più semplice di quanto non sembri. Intanto, notate che se la condizione a) è
rispettata con segno forte è del tutto ovvio che I non è invadibile: se qualcuno prova un'altra strategia J otterrà un esito
peggiore, quindi adotterà anch'egli I, e quindi J non potrà diffondersi. Il problema si pone allora solo se la
diseguaglianza è debole. Supponiamo allora una comunità di individui che giocano I. Improvvisamente arriva un
individuo che gioca J. (Questo può succedere per mutazione genetica, per immigrazione, o per un errore casuale,
in gergo di trembling hand). Come abbiamo notato, se la condizione a) vale come diseguaglianza forte, è chiaro che
non converrà giocare J. (Magari qualcuno ci proverà, si accorgerà che non conviene e non lo farà più). Se la
condizione a) vale come eguaglianza, e quindi giocare J è indifferente, abbiamo dalla condizione b) che contro chi
gioca J gli altri continueranno a giocare I. Finchè il giocatore di J è solo, potrà continuare a esistere. Ma se ne arriva
un altro, nasce la possibilità che si incontrino i due giocatori di J, con un guadagno minore. Il guadagno atteso se si
gioca J diventa quindi minore che se si gioca I, e quindi la tendenza a giocare J non può diffondersi.
3. Convenzioni.
Sugden (1986) definisce convenzione un equilibrio stabile in un gioco che ne ha più di uno; e sostiene
correttamente che questo è il significato filosofico del termine (come sancito da Lewis, 1969) e anche il significato
corrente. Un equilibrio stabile, a sua volta, è semplicemente una ESS, cioè una strategia che non può essere invasa.
Ricordiamo che una ESS è anche un EN, mentre un EN può non essere una ESS. Per restare ancorati al concetto di
EN, più familiare, possiamo quindi definire una convenzione come un EN non invadibile in un gioco che ne ha più
di uno. Per rendervi conto dell'analogia fra questa definizione e il senso comune, considerate nuovamente il gioco
della precedenza a un incrocio. E' chiaro che è interesse di tutti che la precedenza sia assegnata o a chi viene da destra
o a chi viene da sinistra, e quindi entrambe le soluzioni sono equilibri di Nash. Ma quale verrà scelto è appunto, sia
secondo la definizione di Sugden, sia secondo il senso comune, una convenzione. Possiamo riservare il termine
ESS alle scienze biologiche, dove è nato, e usare il termine convenzione per le scienze umane.
Saltando un po' di passaggi, possiamo allora dire
che ove esistano più equilibri non invadibili, quale verrà
scelto dipende dalle condizioni iniziali e dal processo di aggiustamento delle scelte. Questo risultato è di enorme
importanza per le scienze sociali: esso spiega infatti come è possibile che si instaurino equilibri non efficienti, e
consente in linea di principio di effettuare previsioni sugli equilibri che verranno a instaurarsi, date appunto le
condizioni iniziali e il processo di apprendimento.
Le convenzioni, o se preferite i comportamenti convenzionali, sono ovunque intorno in noi. Ricorderete anche
che la convenzione, sotto la definizione di consuetudine, è una delle fonti del diritto.
4. Strategie tit-for-tat.
24
La strategia tit-for-tat (indicata di solito con T) per un DP ripetuto consiste in questo: giocare C (=cooperazione,
la strategia b dell’esempio del paragrafo 1.4) alla prima mossa, e poi giocare ciò che ha giocato l’avversario la volta
precedente. Se tutti i giocatori adottano questa strategia, tutti coopereranno sempre. La strategia T è quindi una
strategia di cooperazione. Si dimostra che T è un equilibrio di Nash. Tuttavia, T non è una ESS; quindi è possibile che
venga invasa. Supponiamo infatti che in una comunità che adotta T arrivi un soggetto che adotta S, cooperare sempre.
Poiché sia la scelta di T che quella di S implicano una cooperazione continua, E(T,T) = E(S,T) e E(T,S) = E(S,S), in
violazione delle condizioni che definiscono una ESS. Quindi la strategia T può essere invasa dalla strategia S2. Poco
male, direte voi: tanto comunque si coopera sempre. Il guaio è che la strategia S può essere invasa a sua volta dalla
strategia M – non cooperare mai, dato che E(M,S)>E(S,S).
Quindi T non è una ESS. Ma esistono strategie di cooperazione che sono ESS: la più semplice è T’, cioè fare
come nella strategia T, ma, se per caso o per altri motivi una volta non si coopera, allora si coopera poi comunque per
due volte; il che implica che l’altro giocatore può a sua volta non cooperare contro di me che coopero, senza che io mi
vendichi ulteriormente.
La strategia T corrisponde alla faida, e la strategia T’ alla legge del taglione; il fatto che T e S non siano ESS e
T’ invece si ha sicuramente molto a che fare con l’importanza della legge del taglione nella storia del diritto3.
5. L’importanza delle condizioni iniziali e l’apprendimento.
Una ESS non può essere invasa. Ma tenderà anche
a instaurarsi? La risposta è si, se il gioco viene
ripetuto abbastanza a lungo e senza modifiche, e se i soggetti scelgono in modo adattivo. Il motivo è semplice: se
vengono adottate strategie non ESS, queste possono essere invase, e lo saranno finchè non si arriverà a una ESS.
Questo risultato è sostanzialmente il punto di arrivo del nostro discorso sulla cooperazione spontanea.
Poichè è un risultato molto importante, lo enunciamo in corsivo.
In una comunità di individui simili che scelgono adattivamente, verranno adottate nei vari giochi che si
producono delle ESS, anche se non si può dire quale se ce ne sono più di una. E poichè esistono ESS, come la strategia
tit-for-tat, che comportano cooperazione continua, la cooperazione continua può instaurarsi spontaneamente.
Inoltre, se l’adozione di una ESS richiede apprendimento e un numero elevato di ripetizioni in condizioni
identiche, sembra sensato supporre che una ESS di cooperazione abbia tante più probabilità di instaurarsi quanto più
una comunità è chiusa e la situazione economica e sociale è stabile. Il che appare sostanzialmente in linea con
l’evidenza empirica.
2
In effetti, se si ammette la cosiddetta posibilità di trembling hand, per cui un giocatore può ogni tanto sbagliare per caso la scelta
della strategia, allora E(S,T)>E(T,T), il che rafforza la conclusione ottenuta.
3
La legge del taglione è alla base del sofisticato sistema di norme descritto nell’Esodo (cap.21).
25
Teoria dei giochi e teoria dello stato
1. Fallimenti del mercato, stato e teoria dei giochi.
Sappiamo dai corsi di economia cosa è un fallimento del mercato (FDM): una situazione in cui un mercato
concorrenziale non produce un’allocazione di risorse Pareto-efficiente. La definizione è (a mio avviso) assurdamente
presuntuosa, in quanto sembra implicare che questo fallimento sia un’eccezione anziché una norma; ma il significato è
chiaro. Ci sono molti tipi di FDM, ma i principali sono tre: risorse di proprietà comuni, esternalità4 e beni pubblici (do
per scontato che il lettore abbia già incontrato questi concetti). Ciò che accomuna questi tre tipi di FDM, oltre alla loro
importanza, è il fatto che in tutti e tre i casi l’inefficienza nasce dalla possibilità di comportamento free rider (FR). Un
comportamento free rider è un comportamento tale per cui (a) chi lo adotta ottiene un esito migliore che se non lo
adotta, ma (b) se un numero sufficientemente elevato di soggetti lo adotta stanno tutti peggio, compreso chi lo adotta, e
tuttavia (c) non esiste un incentivo endogeno che possa evitarne l’adozione. Il passo successivo nei corsi universitari
che si occupano di FDM è arguire che la soluzione richiede l’intervento dello Stato, definito in questo contesto come
l’autorità che ha il potere di imporre delle leggi che proibiscono il comportamento FR. Ora, il comportamento FR è
esattamente quello di chi non coopera in un dilemma del prigioniero; ricordiamo che la struttura logica del DP è la
stessa quale che sia il numero di giocatori e di strategie5. Ne segue che lo stato, in questa impostazione, è l’ente che ha il
compito di risolvere le situazioni di DP; e che le sue caratteristiche vanno valutate in base all’efficacia con cui
adempiono a questo compito.
Questo approccio riguarda sia l’analisi positiva che quella normativa. Dal punto di vista positivo, l’approccio
consiste nel valutare il funzionamento delle diverse forme di stato sulla base della loro efficacia come soluzioni del
problema del comportamento FR. Per esempio, uno stato in cui il potere legislativo è limitato su basi censitarie,
probabilmente non è in grado di risolvere in modo efficiente le esternalità ambientali. Dal punto di vista normativo, il
problema è quello dell’individuazione delle istituzioni più adatte al raggiungimento di un esito efficiente. Un pessimo
esempio che viene subito in mente è quello della Duma polacca, che richiedeva sempre l’unanimità.
2. Individualismo metodologico.
Inoltre, questo approccio è individualista e non cooperativo; nel senso che esso studia e valuta le istituzioni
statali supponendo che esse siano il progetto dell’interagire di soggetti interessati esclusivamente alla loro utilità
individuale (o al massimo famigliare). Questo ha due implicazioni fondamentali. In primo luogo, l’esclusione da una
parte di una giustificazione etica per lo stato (che invece è alla base della teoria hegeliana), e dall’altra dell’ipotesi
rousseauiana che la società possa essere per sua natura interamente cooperativa. Questa esclusione si fonda non su un
rifiuto a priori di una dimensione etica, né sull’idea che uno stato non possa per sua natura essere fondato su valori
(come per esempio è proposto oggi dalla scuola della economia islamica); bensì sulla richiesta metodologica di fondo
che l’avvento di uno stato etico sia comunque spiegato nei termini delle scelte strategiche di soggetti non cooperativi,
dato che altrimenti la spiegazione sarebbe logicamente inconsistente.
La seconda implicazione è più complessa e ricca di conseguenze. Se ammettiamo che le istituzioni, incluso lo
stato, sono la conseguenza della scelta di strategie di giocatori indipendenti, allora vuol dire che assumiamo come date
le preferenze dei giocatori, e quindi le condizioni in cui essi operano. Poiché però le istituzioni che si generano
4
Il discorso che segue non si adatta a tutti i casi di esternalità, ma è inutile approfondire questo punto.
Questa osservazione è ovvia per il numero dei giocatori, un po’ meno per quello delle strategie. Si ha un DP nel caso a n (>2)
strategie quando esiste una n-upla di strategie non di equilibrio di Nash che è efficiente rispetto a tutte quelle corrispondenti a
equilibri.
5
26
modificano le alternative a disposizione dei giocatori, il gioco per così dire “successivo” potrà produrre altri esiti.
Questo ha a mio avviso un’importanza enorme per la storia del pensiero economico, sotto due punti di vista.
In primo luogo, rende praticabile il modello contrattualista in condizioni non universali. Per capire questo
punto, consideriamo la critica femminista rivolta per esempio da Pateman (1988) o da MacKinnon (1989) ai fondamenti
liberali-contrattuali della democrazia. Secondo tale critica, lo stato mantiene comunque una caratteristica sessista in
quanto le sue norme non riguardano lo sfruttamento famigliare e in generale i fattori che limitano le libertà della donna.
Ora, l’approccio qui suggerito non richiede che i soggetti che contrattano siano tutti. Esso consente di studiare con la
stessa modellistica sia lo stato schiavista democratico ateniese, sia gli stati democratici attuali, sia gli stati totalitari.
In secondo luogo, questa impostazione è non solo coerente con quella materialista marxista, ma consente di
impostare in modo corretto la soluzione di un passaggio non dimostrato in tale concezione, e cioè quello del legame fra
struttura e sovrastruttura. Dato che questo punto richiede un discorso un po’ più lungo, su di esso torneremo un po’ più
ampiamente in un apposito paragrafo.
3. Due applicazioni.
Quanto sopra può servirci, ed è servito, per esplorare moltissime questioni a proposito dello stato, su diversi
piani. Ne elenco qualcuna, e ne approfondirò (relativamente) due, che mi sembrano particolarmente in linea con i
contenuti e l’impostazione di questo. Fra i problemi che mi limito a elencare ci sono quelli della fornitura privata di beni
pubblici, della effettiva insorgenza di norme di cooperazione spontanea, del significato delle costituzioni, dell’effettivo
funzionamento dei diversi enti che costituiscono uno Stato (per esempio la teoria della burocrazia), delle convenzioni
come fonte del diritto, del fondamento della teoria rawlsiana della giustizia e più in generale del fondamento
individualista delle norme etiche, del ruolo dello stato nei conflitti etnici, e naturalmente quello della definizione
normativa di un contratto sociale; e tanti altri. Chiuderò la lezione considerando invece i due seguenti argomenti: il
confronto fra la teoria hobbesiana e quella humeiana dello stato, e la lettura in termini di giochi evolutivi della teoria
marxiana della sovrastruttura.
4. Hobbes
Riassumo il modello di Hobbes in forma schematica come segue6.
a) Ci sono delle leggi di natura (Hobbes ne elenca 19) che sono date, nel senso che derivano direttamente dalla
natura umana e non sono soggette ad evoluzione.
b) Queste leggi di natura sono specificazioni di una legge più fondamentale, che consiste nel massimizzare le
proprie chances di sopravvivenza7.
c) Ognuno preferisce la pace alla guerra (prima legge);
d) Esistono degli accordi che tutti riconoscono come giusti (seconda legge);
e) Ognuno ritiene giusto che i patti siano rispettati (terza legge, che è l’origine di qualsiasi sistema giuridico).
Ora, nello stato di natura non esiste garanzia del rispetto della legge, donde non solo la necessità di un’autorità,
ma il riconoscimento di essa come giusta. Tale autorità inoltre deve essere assoluta, in quanto solo in queste condizioni
essa è imparziale e adeguatamente ricompensata. Il suo unico vincolo è quello di rispettare i diritti fondamentali dei
sudditi, ma solo nel senso che altrimenti essi toglierebbero il loro riconoscimento all’autorità stessa.
E’ evidente l’analogia (che è qualcosa di più) fra il modello di Hobbes e un dilemma del prigioniero. Il monarca
è l’autorità che impone la cooperazione; esso è accolto con favore dai giocatori, a meno che il costo che egli impone per
6
Nella discussione che segue mi baserò soprattutto su Sugden (1986).
Questa legge è riemersa di recente come principio-base della sociobiologia: ogni soggetto cerca di massimizzare la propria inclusive
fitness.
7
27
il suo operare non renda efficiente la non cooperazione. Il limite “inferiore” di un potere assoluto è quello dello stato di
natura. Finché il potere assoluto garantisce che le leggi naturali sono rispettate più che non nello stato di natura, esso
costituisce un miglioramento paretiano. La giustificazione del potere assoluto agli occhi dei sudditi non richiede nulla
più che il riconoscimento di questo principio. Poiché esso è noto anche al sovrano, esso è anche ciò che fa sì che il
sovrano si autolimiti nell’esercizio del suo potere.
5. Hume.
La differenza fondamentale (dal nostro punto di vista) fra Hume e Hobbes è che per Hume le leggi di natura non
sono date, ma sono appunto il prodotto di una evoluzione8. Per Hume, esistono delle convenzioni di comportamento,
storicamente specifiche, che come tali assumono carattere morale, nel senso che viene giudicato positivamente il fatto
che siano rispettate, e negativamente che non lo siano. Questo giudizio morale è a sua volta alla base
dell’amministrazione della giustizia. Fra queste convenzioni ci sono quelle che assegnano diritti di proprietà e che
regolano la reciprocità e l’accesso ai beni pubblici.
Il punto che a noi interessa è che questo approccio presenta una apparente inconsistenza logica, la stessa che
manca nell’approccio hobbesiano e che rende quest’ultimo a prima vista inattaccabile. Hume (cfr. Sugden, 1986, p.92)
suppone che gli esseri umani nello stato di natura si rendano conto che conviene loro fare un “patto di civiltà” e che è
interesse di tutti rispettarlo; e quindi lo siglano e lo rispettano. Hume afferma che questo “rendersi conto” corrisponde in
realtà a un lungo processo di adattamento storico; ma se la situazione è quella di un DP, sappiamo che senza un
intervento esogeno non c’è garanzia che un patto venga rispettato.
La teoria dei giochi risolve questo vizio logico. I passaggi sono i seguenti.
a) Una comunità stabile adotterà necessariamente una ESS.
b) Esistono ESS che implicano cooperazione.
c) Quale ESS verrà effettivamente adottata dipende crucialmente dalle condizioni iniziali e dalle salienze9 in essa
presenti.
d) E’ possibile che le ESS che implicano cooperazione prescrivano anche delle regole per la punizione di chi non
coopera, come nel caso della strategia T’ o delle metanorme di punizione studiate da Axelrod10. In tal caso, il rispetto
della cooperazione è garantito dal fatto che i soggetti puniscono chi non la pratica, seguendo un comportamento
spontaneo che corrisponde molto bene alle leggi di natura artificiali di Hume.
Da tutto ciò segue che il miglioramento paretiano che lo stato deve fornire è relativo allo stato di cooperazione
effettivamente raggiunto sulla base delle leggi naturali che si sono storicamente evolute, ed è perfettamente possibile
che il potere assoluto non soddisfi questo requisito.
In sostanza, lo stato di natura hobbesiano può evolvere verso un ordine spontaneo, anche se non è necessario
che ciò succeda. E’ opportuno notare che la letteratura sperimentale e sui casi porta a concludere che le convenzioni di
cooperazione tendono a nascere assai più facilmente di quanto la teoria pura suggerisce, forse a conferma della
fondamentale ragionevolezza dell’umanità supposta da Hume11.
6. Il passaggio mancante di Marx.
Il passo che segue è uno dei più famosi, e più belli, dell’intera storia del pensiero economico:
8
“quando nego che la giustizia sia una virtù naturale, uso il termine “naturale” solo in contrapposizione a “artificiale” […] Anche se
le regole della giustizia sono artificiali, esse non sono arbitrarie; e non è improprio chiamarle leggi di natura (cit. da Sugden, 1986,
p.147).
9
Una salienza è un'alternativa che per sua natura si propone come la scelta più logica. Per esempio, se due soggetti devono scegliere
uno stesso numero fra 3,5,7,9,10, e 11, 10 -l'unico pari- è una salienza.
10
Si veda Axelrod, 1986.
28
“Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loto volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle
loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della
società, ossia la base materiale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale […] A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della
società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà […] all’interno
dei quali per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro
catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”12.
Anche in questo testo, tuttavia, c’è un passaggio logico mancante. Quando una sovrastruttura (per esempio lo
stato assoluto) entra in contraddizione con una struttura (per esempio il modo di produzione capitalista, che richiede
mercati aperti e poche tasse) si apre una fase di rivoluzione che si conclude con l’adeguamento della prima alla seconda.
Questo è plausibile e storicamente vero. Ma come avviene di fatto questo cambiamento? Quello che manca è un
modello basato su plausibili funzioni di comportamento individuali che spieghino questo cambiamento. La teoria dei
giochi consente di impostare il problema come segue:
Lo sviluppo delle forze produttive, cioè la tecnologia in senso lato, definisce i payoffs. Sulla base di questi
nascono convenzioni e leggi che individuano nei vari ambiti un insieme di equilibri di Nash. Tali equilibri non sono
necessariamente soddisfacenti per tutti, ci sarà chi cercherà di ribellarsi. Ma questi tentativi saranno vani fino a che si
sarà comunque in un equilibrio di Nash, in quanto sappiamo che da un equilibrio di Nash non conviene andarsene da
soli. Ma quando un equilibrio di Nash (o un insieme di equilibri nei vari contesti interattivi) cessano di essere tali a
seguito dello sviluppo delle forze produttive, e quindi dei payoffs, allora ci sarà un allontanamento di massa dalla
situazione iniziale, e le convenzioni e le leggi (la sovrastruttura) risulteranno necessariamente modificate.
7. Conclusione.
Entrambi gli esempi esaminati nei paragrafi precedenti sono coerenti con una fondamentale conclusione dello
stato attuale della teoria dei giochi evolutivi, e valgono ad illustrarla. La conclusione è che è possibile che in una data
società si instauri un ordine spontaneo; ma non è necessario che tale ordine sia il migliore possibile, né il più efficiente.
Nel linguaggio marxiano, ad una data struttura possono corrispondere diverse sovrastrutture, e cioè, nel linguaggio della
teoria dei giochi evolutivi, tutte quelle che costituiscono delle ESS e che possono essere il risultato delle scelte
strategiche dei soggetti implicati, data una situazione di partenza. Questo esito, concilia il determinismo storico proprio
del materialismo con la possibilità di diversi esiti in funzione dei diversi comportamenti dei soggetti coinvolti.
Probabilmente, come notano Hargreaves Heap e Varoufakis (1995, p. 229) “Marx sarebbe stato d’accordo con la
maggior parte delle idee contenute nell’approccio Humeano della teoria dei giochi evolutivi”.
11
12
Un esempio straordinario è in Axelrod. 1984, cap. 4.
K. Marx, Per la critica dell'economia politica, 1863.
29
Bibliografia
-
Axelrod, R. (1984), The evolution of cooperation, New York, Basic Books.
-
Axelrod, R. (1986), An evolutionary approach to norms, American Political Science Review, 80, 4.
-
Hargreaves Heap, S. P e Varoufakis, Y. (1995), Game theory: a critical introduction, Londra, Routledge.
-
Lewis, D. K. (1969), Convention: a philosphical study. Cambridge (USA), Harvard University Press.
-
MacKinnon, C. (1989), Towards a feminist theory of the state, Cambridge (USA), ambridge University Press.
-
Maynard Smith, J. (1982), Evolution and the theory of games, Cambridge (UK), Cambridge University Press.
-
Pateman, C. (1988), The sexual contract, Oxford, Polity Press.
-
Sugden, R. (1986), The economics of rights, cooperation and welfare, Oxford, Basil Blackwell 1986.
30
GLI ORGANI NON ELETTIVI
NELLE DEMOCRAZIE:
LE CORTI COSTITUZIONALI
Pasquale Pasquino
CNRS, Paris e New York University
1.
Desidero anzitutto ringraziare Gabriella Silvestrini e Silvano Belligni per avermi invitato a tenere la lezione
che è all’origine di queste note. Più che un testo compiuto ed organizzato in tutte le sue parti, si presentano qui delle
ipotesi di ricerca che sono state nutrite dalla discussione che ha seguito la mia presentazione. Nonostante gli sforzi di
tenerne conto e di rispondervi, quello che segue resta, in tutte le sue parti, un working paper.
2.
Avevo proposto come tema del mio intervento: Il ruolo degli organi non elettivi nelle ‘democrazie’: le corti
costituzionali. Vorrei ora precisare ciò che intendo con questo titolo e in che modo esso può legarsi alla tematica
generale del vostro seminario di studio.
Lo stato nazionale è, così credo, quella forma politica che si è sviluppata in occidente nel corso degli ultimi due
secoli e che potrebbe essere caratterizzato dai seguenti elementi: 1. governo rappresentativo, 2. esistenza di una
costituzione (scritta o basata su convenzioni) e 3. sostanziale omogeneità della popolazione. Naturalmente analizzare
precisamente o anche solo definire in modo univoco questi tre caratteri ci condurrebbe molto lontano. Si potrebbe
chiedere cos’è esattamente una costituzione o cosa si intenda per omogeneità e soprattutto omogeneità in che cosa
quando si parla dei cittadini membri di uno stato nazione. Ma vi sono pochi dubbi sul fatto che i nostri stati sono sempre
meno omogenei (etnicamente e culturalmente) e che non è pensabile oggi di poter far parte della comunità delle nazioni
civili se non si possiede una carta costituzionale che definisce diritti dei cittadini e competenze degli organi dello stato.
Qui vorrei attirare l’attenzione su una trasformazione recente del governo rappresentativo, più precisamente,
sul perché gli organi rappresentativi - elettivi dello stato abbiano ceduto una parte del loro potere ad organi che non lo
sono e sulla compatibilità di questa trasformazione con ciò che chiamiamo legittimità democratica a governare.
Facciamo un passo indietro, anche con l’obiettivo di chiarire che cosa intendo con “governo rappresentativo”.
Credo che si possa accettare la seguente definizione stipulativa1: è rappresentativo, o forse meglio rappresentativodemocratico un governo (nel senso lato del termine) in cui il potere legislativo è attribuito esclusivamente ad organi
elettivi, responsabili, quindi, dinanzi al corpo elettorale (l’aggettivo democratico rinvia qui alla dimensione universale
del suffragio). Questo tipo di governo è stato piuttosto un progetto e un ideale che una concreta realtà istituzionale; ma
almeno la III e la IV Repubblica francese e la Gran Bretagna nel secolo XX hanno largamente realizzato questo ideale.
Il governo rappresentativo-democratico ha imposto una concezione della cittadinanza (i diritti politici) basata
sull'estensione del suffragio, prima alla totalità' dei maschi adulti, poi anche delle donne, appartenenti alla comunità
politica, mentre dal punto di vista costituzionale ha preso per lo più la forma della sovranità parlamentare.
1
Naturalmente si potrebbe adottare un diverso linguaggio e parlare di trasformazioni della democrazia o dello stato costituzionale; si
è preferito però parlare di governo rappresentativo per una ragione semplice, perché si vuole sottolineare sin dall’inizio la ragione
per la quale la trasformazione in corso pone un problema particolare: essa fa sorgere una domanda circa la legittimità di organi di
comando che sono privi del carattere della rappresentanza democratica, fondata sulle elezioni. Dunque, si può anche parlare di
trasformazioni dello stato costituzionale o democratico, ma non si potrà schivare il problema della legittimità degli organi non
elettivi-rappresentativi, la cui importanza è sempre maggiore nelle nostre democrazie. Ed è appunto questo che si è voluto porre in
evidenza sin dall’inizio.
31
A partire dal secondo dopoguerra, un certo numero di trasformazioni importanti si sono prodotte dentro questa
forma politica. In particolare, al livello della costituzione, sono stati introdotti organi non elettivi come le corti
costituzionali – ma bisognerebbe aggiungere, per alcuni paesi, come la Germania, le banche centrali, e, su un piano
diverso, le cosiddette autorità amministrative indipendenti, entro i singoli Stati, oltre alle numerose istituzioni
dell’Unione europea, sottratte sia al principio elettivo che quello della responsabilità democratica. Vale la pena di
precisare, a scanso di equivoci, che con organi elettivi s’intende qui fare riferimento esclusivamente a quelle autorità
che non solo sono elette dai membri della comunità su cui esse esercitano un comando, ma anche che vengono elette per
un mandato piuttosto breve (alcuni anni) e rinnovabile, ed il cui rinnovo dipende da una nuova elezione da parte dello
stesso gruppo di soggetti. In questo senso si afferma che tali autorità sono politicamente responsabili dinanzi al corpo
elettorale. Diversa la posizione di organi eletti a vita (come il papa) o nominati da organi elettivi (come i giudici della
Corte costituzionale tedesca)2, o non rieleggibili (come il presidente degli Stati Uniti, dopo un eventuale secondo
mandato). La ragione di questa definizione non è arbitraria3, essa cerca di mettere in evidenza una condizione specifica
in cui si trovano i soggetti o attori facenti parte degli organi elettivi, nel senso appena precisato, e cioè la loro
dipendenza dal consenso del corpo elettorale per l’ottenimento ed il mantenimento del mandato. Certo, negli “Stati di
partiti” il destino dei singoli rappresentanti può dipendere puramente e semplicemente dalla scelta del partito di
candidare il signor Taldeitali in un collegio sicuro o di condannarlo alla sconfitta candidandolo in una circoscrizione
nella quale non ha alcuna possibilità di essere eletto, o semplicemente di escluderlo dalle liste elettorali. Al livello
aggregato del partito, il conto, però, torna, poiché esso (o, se si preferisce, i suoi organi dirigenti) si comporta(no) come
un soggetto massimizzante. Il partito del “Pomodoro”, in ciascuna tornata elettorale, avrà più o meno seggi (quote di
rappresentanza) semplicemente in base alle scelte degli elettori. Supporre che un attore che si trovi in questa posizione
abbia lo stesso statuto di un’autorità pubblica eletta a vita, o eletta per un solo mandato, significa vanificare il principio
elettorale stesso riducendolo al semplice contrario della nobiltà di sangue, o ad un meccanismo di nomina alle cariche
pubbliche alternativo all’estrazione a sorte. Certo, anche chi mira ad essere nominato da un qualche organo ad una certa
carica dovrà cercare di compiacere quell’organo. Ma se il suo mandato è a vita o non rinnovabile, avrà le mani libere,
invece delle “mani legate”, che è, appunto, la condizione che si è voluta imporre ai rappresentanti democratici. E che
vale come contrappeso alla libertà del mandato parlamentare. Sicché il rapporto fra elettori ed eletti si presenta sotto la
forma dello scambio fra chi è libero di fare e disfare le leggi: il rappresentante, e chi è libero di “assumere” o di
“licenziare” i membri dell’organo legislativo: il corpo elettorale – “Tu, legislatore (singolo o partito), governerai in base
alle tue scelte, ma noi cittadini, decideremo in modo sovrano, cioè inappellabile, del tuo nome (o taglia, per il partito) e
del tuo tempo di vita (in quanto rappresentante)”.
3.
E’ un fatto che la teoria politica non ha ancora compiutamente né sistematicamente analizzato le trasformazioni
dello Stato costituzionale sulle quali vorrei attirare l’attenzione. Penso qui ai lavori di Giovanni Sartori ed alla sua
Ingegneria costituzionale comparata (Bologna, Il Mulino, 1995), in cui l’autore si limita a considerare i rapporti fra
esecutivo e legislativo, senza accennare nemmeno al ruolo delle Corti costituzionali o di altri organi non elettivi. Questo
2
Si ricorderà che dei 15 giudici della Corte costituzionale italiana un terzo viene nominato da un organo elettivo, il parlamento, un
terzo da un organo a sua volta scelto dal Parlamento, il presidente della repubblica, ed un terzo da organi che non hanno alcun
rapporto con il suffragio, le alte corti.
3
Una definizione stipulativa non può essere assurda (come quella che pretende di definire alti i bassi e bassi gli alti), ma deve
permettere di fare avanzare in qualche modo la comprensione della realtà illuminandone un aspetto o lasciando almeno apparire un
problema. La definizione resta stipulativa poiché i concetti della politica non corrispondono ad essenze naturali e sono sempre
costrutti teorici dei quali bisogna rendere conto.
32
mio intervento vorrebbe semplicemente tracciare la mappa dei problemi che la teoria deve affrontare, il che non è mai
inutile quando si avanza, come nel nostro caso, in una terra incognita4.
Come ho accennato, la mia ricerca riguarda essenzialmente gli organi di controllo di costituzionalità, ma è più
in generale il problema dell’autorità delle autorità non elettive che mi interessa. Naturalmente si deve rispondere in ogni
caso a due domande supplementari: a) qual è la funzione di questi organi e b) per quale ragione sono stati introdotti nei
nostri sistemi costituzionali.
4.
Con l’espressione contorta e apparentemente paradossale di “autorità delle autorità non elettive”, e non
responsabili politicamente di fronte agli elettori voglio fare allusione al problema seguente. Nella società moderna le
forme carismatiche e tradizionali di esercizio del potere politico hanno ceduto il passo a dottrine e a tipi di credenze
diffuse che vanno sotto il nome di “contrattualismo”. In base ad esse (è questa la definizione, ancora una volta
stipulativa, che adotto) chi comanda in seno ad una comunità politica può farlo solo se viene autorizzato a questo scopo
da coloro che dovranno obbedire ai suoi comandi. Con la Rivoluzione Francese – salto come è evidente molti passaggi
– la dottrina del contratto sociale ha preso la forma giuridica del principio elettorale. Inventato dagli ordini mendicanti,
durante l’autunno del Medioevo, questo principio sostiene, con le parole dell’abate Sieyes, che: “I cittadini che devono
obbedire alle leggi devono anche partecipare in qualche modo a farle e, poiché nel governo rappresentativo – quello
fondato sulla divisione del lavoro – il concorso non può essere diretto, esso prenderà la forma indiretta delle elezioni: la
scelta popolare e periodica dei governanti - legislatori”5; di sorta che, se i cittadini non sono soddisfatti dei loro
governanti, potranno sempre cambiarli alle prossime elezioni. Il “principio elettorale” non è dunque soltanto un
meccanismo di scelta e selezione dei governanti, come ad esempio l’estrazione a sorte (di tradizione democratica
antica), o il concorso, o l’ “unzione divina” del re di Francia, ma costituisce un potente strumento di legittimità politica
degli stessi governanti6. L’unico, prima facie, compatibile con la cultura moderna dell’autonomia: obbedirai alle leggi
ed ai comandi dello stato perché ne sei in qualche modo l’autore. Per parafrasare ancora Sieyes, possiamo affermare che
il governante eletto all’immagine di un micro-Leviatano7 sarà autorizzato a dire: “Voi cittadini mi dovete obbedienza
poiché mi avete eletto, e perché potete sostituirmi alle prossime elezioni se non accettate di obbedire alle mie leggi”
(che nella forma dell’auto-giustificazione diventa: ho diritto di darti i miei comandi poiché sono stato scelto da te che
mi obbedisci “volontariamente” e dipendo, inoltre, nella mia esistenza in quanto legislatore dal tuo consenso).
Ci sarebbero, naturalmente, numerose osservazioni da fare su questo principio, sulle sue virtù ed i suoi limiti8,
ma qui solleverò un problema diverso che più immediatamente mi interessa. Cosa ha potuto spingere le classi politiche
4
Non ignoro, naturalmente che esiste una letteratura sterminata sulle corti costituzionali, le banche centrali o le autorità
amministrative indipendenti. Quello che si lamenta è l’assenza di una trattazione sistematica del ruolo e della funzione di questi
organi dal punto di vista della teoria politica della democrazia. Alle poche eccezioni a me note sarà fatto cenno nelle note.
5
Sieyes chiama gouvernement représentatif questa forma di governo, che egli tiene distinta rigorosamente dalla democrazia (in cui il
concorso dei cittadini alla produzione della legge è diretto). All’origine dell’uso contemporaneo che assimila, invece, democrazia e
governo rappresentativo c’è, sorprendentemente, un testo di Tommaso d’Aquino il quale, nella sua ridefinizione del governo misto di
tradizione aristotelica, afferma che l’elemento democratico dello stesso consiste nella elezione dei membri dell’assemblea
(l’elemento aristocratico) da parte del popolo (si veda su questo punto: J. M. Blythe, Ideal Government and the Mixed Constitution
in the Middle Ages, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 51-54).
6
Qui si intende “legittimità” nel senso weberiano di giustificazione e auto-giustificazione dell’ esercizio di potere di alcuni soggetti
di una comunità su altri (cfr. Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, vol. 4, pp. 55-57). Certo anche gli altri
sistemi di scelta hanno, in particolari contesti storico-culturali, una funzione legittimatrice.
7
Parlo di micro Leviatano, poiché già in Hobbes la legittimità del governo discende dalla rappresentanza, certo non ancora elettiva,
ma fondata sul nesso autore – attore, dove quest’ultimo (il governante) sostiene di parlare a nome del primo (il governato) che lo ha
autorizzato a volere per lui.
8
Esso, da un lato, rappresenta una forma di limite sul potere dei governanti, che non sono mai proprietari o titolari in proprio delle
funzioni di comando; dall’altro, introduce un bias favorevole al breve periodo, l’orizzonte degli eletti rieleggibili essendo quello
della prossima scadenza elettorale, che funziona come incentivo a discounting the time. Esiste inoltre un bias ulteriore nei sistemi
democratico elettivi, quello che favorisce, a scapito di tutti gli altri, gli elettori e le formazioni politiche che si trovano al centro dello
33
a spogliarsi di parte del loro potere a favore di organi non elettivi capaci di bloccare le scelte delle maggioranze elette?9
Mi piace riprendere qui una bella espressione di Andrea Manzella e insistere sul ruolo che hanno svolto nella storia
politica e costituzionale dell’Europa del secondo dopoguerra le “costituzioni dei vinti”. Sono infatti le costituzioni
italiane del 1947 e quella tedesca del 1949 ad aver introdotto in Europa, sulla base del modello austriaco del 1920,
ampliandolo però significativamente, organi para-legislativi (vedremo poi perché utilizzo questo termine) con funzioni
di controllo sulle scelte dei Parlamenti eletti. Le ragioni essenziali non sono difficili da comprendere, se si tiene conto
del contesto storico. L’Italia e la Germania erano uscite distrutte da una guerra voluta da Parlamenti docilmente
assoggettatisi a regimi totalitari. Il fascismo si era affermato senza rotture costituzionali10 e in Germania il Reichstag
aveva votato nel 1933 la Ermaechtigungsgesetz, la legge di autorizzazione di cui Hitler ed il suo governo si servirono
per sospendere legalmente ogni garanzia liberal-democratica sotto la costituzione di Weimar.
Non sono state le potenze vincitrici della guerra come l’Inghilterra e la Francia, ma i vinti, smentendo per una
volta il detto vae victis, che hanno dettato le norme che introducono limiti e vincoli alla sovranità del parlamento nei
nostri sistemi costituzionali – vincoli che si sono ormai affermati in modo quasi universale nel costituzionalismo
contemporaneo. Si obbietterà che dal punto di vista storico il controllo delle corti sulle leggi votate dal parlamento
esisteva da lungo tempo nel sistema costituzionale di una delle potenze vincitrici: gli Stati Uniti. E l’obiezione può
certamente essere accolta. Ma con alcune riserve. Da un lato, nonostante la rinomanza dottrinale della sentenza redatta
dal giudice Marshall nel 1803, è difficile sostenere che il controllo di costituzionalità sulle leggi emanate dal Congresso
abbia svolto un ruolo decisivo nella vicenda costituzionale americana fino agli anni ‘50 del nostro secolo XX, all’epoca
della lotta per i diritti civili in America, che trovò un appoggio generoso da parte della Supreme Court. In secondo
luogo, non si può trascurare che gli Stati Uniti d’America sono nati come federazione fra 13 stati indipendenti e che era
inevitabile concepire un giudice terzo per la soluzione di conflitti fra gli stati ed il governo centrale (che è certo una
delle funzioni esercitate dalle Corti costituzionali, ma non il suo ruolo più importante dal punto di vista che qui ci
interessa). Infine, non va sottovalutato che il modello del judicial review americano, che attribuisce al potere giudiziario
in quanto tale il controllo di costituzionalità, non ha equivalenti nell’Europa continentale11.
Come che sia e sospendendo per ora il giudizio sulla storia del controllo costituzionale in America, è un fatto
che la Francia ha resistito fino al 1958, ma in realtà fino alla metà degli anni ‘70 all’istituzione di un controllo, limitato
(a priori), di costituzionalità delle leggi e che il Regno Unito continua a non conoscere alcuna istituzione equivalente
nel suo diritto interno. Mentre ogni Stato che si sia dato in Europa una costituzione negli ultimi 25 anni – al sud o all’est
spettro politico, il quale ha così la forma di una curva di Gauss; infrazione importante nei confronti del principio “un cittadino un
voto”.
9
Alcuni, come Michel Troper, obietteranno che non si tratta qui di uno spogliarsi volontario, ma di una vera e propria usurpazione e
addurranno come esempio la decisione del Conseil Constitutionnel francese nel 1971 di far uso della dichiarazione dei diritti del
1789 fra i parametri del controllo di costituzionalità delle leggi (non ancora promulgate dal parlamento, come vuole il modello
transalpino). In questo caso, peraltro marginale nel panorama generale degli organi di controllo, basterà riformulare la questione nei
termini seguenti: perché la classe politica francese ha consentito questa usurpazione, e anzi le ha dato forza, approvando qualche
anno dopo, nel 1974, una riforma della costituzione che allargava enormemente le possibilità del ricorso al Consiglio costituzionale,
dando così corpo al potere di questo organo. La risposta del cretinismo della classe politica non sembra a chi scrive affatto
persuasiva. Si veda una ricostruzione alternativa in Ratio Juris, vol. 11, n. 1, marzo 1998, pp. 38-50 (P. Pasquino, “Constitutional
Adjudication and Democracy”).
10
L’Assemblea Costituente insistette con forza sui rischi di una costituzione “flessibile”, come lo Statuto albertino, e sulla necessità
di dotare il paese di una costituzione “rigida” (si veda su questa distinzione fondamentale: J. Bryce, Costituzioni flessibili e rigide,
Milano, Giuffrè, 1998; l’edizione originale inglese è del 1901).
11
Si osservi che da un lato l’ideologia della rivoluzione francese col suo pregiudizio della subordinazione del giudiziario nei
confronti de legislativo sbarrava la strada ad una scelta di questo tipo; inoltre, attribuire a giudici formatisi sotto governi fascisti o
comunque autoritari il controllo sui parlamenti democratici sarebbe stato in ogni caso una scelta aberrante ed impossibile. Di qui
l’impossibilità di esportare in Europa il modello americano, nell’immediato dopoguerra, così come, più tardi, dopo la caduta dei
regimi fascisti nell’Europa del sud e di quelli comunisti nell’est.
34
del continente – ha introdotto in essa l’equivalente di una corte costituzionale, i cui membri non sono politicamente
responsabili dinanzi ad alcuna istanza del sistema politico12.
5.
Possiamo però lasciare qui la storia e volgerci al problema delle funzioni e della legittimità di questi organi.
Per cominciare da quest’ultimo punto, varrà la pena di osservare che esso viene declinato per lo più sotto la forma del
loro carattere democratico (o meno) o almeno nei termini della compatibilità fra democrazia e controllo di
costituzionalità13. Forse la soluzione più ragionevole consiste nel rifiutare questo approccio e sostenere con Sabino
Cassese che le corti costituzionali non sono organi democratici, ma di controllo della democrazia. Inoltre, questa
soluzione ha il privilegio di evitare il paradosso che consiste nel fornire una definizione o ridefinizione della democrazia
che la libera, certo, dall’identità assoluta col principio elettivo, ma finisce per escludere dall’ambito dei paesi
democratici, non solo la Svezia, e la Finlandia, ma anche il Regno Unito ed i Paesi Bassi, tutti privi di corti
costituzionali e tutti forniti peraltro d’impeccabile pedigree democratico14.
Vorrei tuttavia provare a delineare qui un diverso percorso ‘argomentativo’ che muove dall’ipotesi, non del
tutto peregrina, secondo la quale esistono diversi modelli di democrazia (come recita anche il titolo del volume di David
Held, recentemente tradotto in italiano),15 uno di quali non solo è compatibile con il controllo di costituzionalità, ma
anzi lo richiede. Che è un po’ di più e forse un po’ più soddisfacente di quanto sostiene Jürgen Habermas quando
afferma (nei momenti in cui mi riesce di capire quello che dice sull’argomento) che la Verfassungs-gerichtsbarkeit è,
dal punto di vista della teoria della democrazia, inessenziale, e si riduce ad una questione di opportunità.
6.
La concezione della democrazia che per comodità chiamerò roussoviana, e che è quella impostasi con il
governo rappresentativo e con la sovranità parlamentare – per quanto questo faccia a pugni con le teorie e le forme
istituzionali difesi nel Contrat Social –, sostiene che in una comunità di membri eguali ed omogenei le decisioni
pubbliche possono essere prese in base al ‘principio di maggioranza’, non solo e non tanto perché questo rappresenta un
buon surrogato pacifico alla decisione presa attraverso il ricorso alle armi, come sosteneva Edoardo Ruffini nel
Principio maggioritario [Milano, Adelphi, 1976, ma la prima edizione del saggio è del 1927], ma perché il principio di
maggioranza ha virtù epistemiche particolari, permettendo la scoperta della verità, che può essere considerata come il
12
Ciò non vuol dire né che le decisioni delle Corti siano decisioni sovrane, esse, infatti, possono sempre venire rovesciate dal potere
costituente esercitato dalla maggioranza qualificata che ne è titolare, né che questi organi siano irresponsabili latissimo sensu; ma si
sa che in senso molto lato tutti i gatti sono bigi e che risulta difficile distinguere a da b se si insiste sulla circostanza che sono
entrambe lettere dell’alfabeto. Qui si rinvia a quanto già detto sugli organi elettivi e politicamente responsabili dinanzi al corpo
elettorale.
13
Si veda su questo punto: Dieter Grimm, “Constitutional adjudication and democracy”, in Israel Law Review, Vol. 33, N. 2, Spring
1999, pp. 193-215.
14
E’ chiaro che ci scontriamo qui con tutte le ambiguità di questo termine. Democrazia è un termine certamente usato oggi come
equivalente della vecchia espressione di “buon governo” (come mi fa osservare Bernard Manin). Essa ha quindi un valore normativo.
Si pensi che il Fondo monetario internazionale preferisce fare prestiti a paesi con una banca centrale indipendente (e forse una corte
costituzionale), piuttosto che a paesi governati da soli organi elettivi. Non che il FMI consideri meno democratici o affidabili i Paesi
Bassi, ma alcuni paesi (Inghilterra, Olanda, Svezia, Finlandia) possono esibire una tradizione di affidabilità che quasi nessun altro
possiede. Da questo punto di vista, i paesi democratici (= ben governati) rassomigliano ad un club; i nuovi aderenti devono mostrare
più garanzie formali che i membri fondatori. Si può peraltro usare l’aggettivo democratico in senso neutro ed avalutativo e renderlo
sinonimo di elettivo. In questo senso nessuna Corte costituzionale sarà democratica, almeno se si usa elettivo in un senso non lato,
come in queste osservazioni.
In sostanza, democrazia vale oggi essenzialmente e in senso lato come sinonimo di “buon governo”; sticto sensu, l’aggettivo si
riferisce peraltro a quell’elemento di un buon governo che ha un nesso con la scelta popolare dei rappresentanti, dunque con la
rappresentanza, il suffragio ed il principio elettivo. Il dibattito ruota intorno al punto di sapere se un regime democratico possa essere
ridotto o meno al meccanismo rappresentativo (così, S. Cassese, Maggioranza e minoranza, Milano, Garzanti, 1995, p. 81, che, a
ragione, risponde in modo negativo). E intorno a quali possano essere i criteri di legittimità degli organi non elettivi (su cui più
avanti nel testo).
35
contenuto della volontà generale. E’ appena il caso di dire che la tesi che sto esponendo è tutto fuorché della filologia
roussoviana. E’ noto che il principio di maggioranza non ha secondo Rousseau, di per se stesso, queste virtù
epistemiche. Ma è anche un fatto che il pensiero del ginevrino ha avuto una straordinaria influenza nonostante ed anzi
grazie ad una notevole quantità di distorsioni e forse addirittura di falsificazioni interpretative. Come che sia, in questo
modello di democrazia, la maggioranza dice la legge perché la minoranza si inganna; la prima non è dunque solo più
forte, ma ha il privilegio etico della verità. In questa concezione non vi è necessità di pluralismo, nel senso forte di
questo termine, poiché, come in ogni “scienza”, di fronte alla verità ogni altra opinione scompare, dannata nell’inferno
dell’errore o del pregiudizio. Certo questa verità democratica non è come quella eterna ed immobile di certe rivelazioni,
essa non richiede sacerdoti che la custodiscano o interpreti che ne rivelino il senso nascosto (almeno così pretende la
teoria). Essa muta o può cambiare col mutare della volontà del popolo sovrano. Ma in ogni tx c’è una sola verità e
nessuna opinione di minoranza che meriti di essere rispettata o protetta. Certo in t’, prima o dopo nel tempo, la verità /
volontà può essere un’altra; ma, nello stesso momento, la verità democratica è una sola. Georg Simmel ha scritto delle
pagine ammirevoli su questo tema nella sua Soziologie, in particolare nell’Excursus famoso sulla Uebereinstimmung16,
alle quali si rinvia il lettore.
Si può sostenere che una versione più debole della stessa teoria, perfettamente compatibile con il governo
rappresentativo, è quella che considera il voto come controllo retrospettivo degli elettori sull’operato del governo (degli
organi elettivi). Si può qui lasciare da parte il carattere in buona parte utopico di questa tesi (sul quale si vedano le
obiezioni di John Dunn17) ed osservare che anche in questo caso la minoranza non ha ragione di essere riconosciuta.
Essa viene lasciata esistere e ha la possibilità di persuadere un numero sufficiente di elettori della maggioranza che la
ragione e la verità stanno dalla sua parte e farlo valere alle prossime elezioni18.
A questa concezione epistemica della democrazia, nell’ambito della quale non vi è posto, naturalmente, per il
controllo di costituzionalità, si può opporre una concezione diversa che definirei scettica e pluralista. Questa, partendo
dall’ipotesi che non esiste, o che almeno non è conoscibile con certezza, la verità di una volontà generale, ricorre al
principio di maggioranza come strumento procedurale per giungere ad una decisione e produrre scelte collettive, faute
de mieu. La volontà della maggioranza non è niente di più di questo – una procedura per giungere ad una decisione, in
un tempo limitato - e non ha alcun particolare rapporto con la verità o con la giustizia. E la minoranza non è dalla parte
del torto, ma solo per ragioni contingenti dalla parte del più debole19. Questo modo di guardare al principio di
maggioranza implica una protezione necessaria della minoranza, che non può consistere solo nella chance che le viene
attribuita di trovarsi un giorno, grazie alle elezioni, dalla parte del vincitore – ci sono, infatti, minoranze (etniche o
religiose o di altri tipi ancora) che restano tali per un tempo indeterminato, se non per sempre. E’ nell’ambito di questa
concezione che trova spazio abbastanza agevolmente un’idea della democrazia, intesa come “buon governo”, che non
può ridursi al binomio: elezioni più principio di maggioranza. Non è solo la protezione delle minoranze che conta – e la
minoranza non è fatta dall’insieme dei cittadini che sbagliano, ma dall’esistenza di posizioni e concezioni diverse che
meritano di essere riconosciute e rispettate – conta, altrettanto, la vecchia preoccupazione liberale di limitare il potere
dei governanti (fossero anche democraticamente eletti e responsabili), in vista della protezione della libertà individuale.
15
Qui, naturalmente, si intende democrazia come sinonimo di “buon governo”. Il volume di Held è Models of democracy,
Cambridge, Polity Press, 1998 (2a ediz.), trad. it. Bologna, il Mulino, 1997.
16
“Sul soverchiamento delle minoranze” (trad. it., Torino, Edizioni di Comunità, 1998, pp. 162-169).
17
“Situating Democratic Political Accountability”, in A. Przeworski, S.C. Stokes, B. Manin, Democracy, Accountability, and
Representation, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 329-344.
18
E’ evidente che ciò presuppone l’esistenza di un sistema politico bipartitico o almeno rigidamente bipolare; in un sistema
proporzionale contano regole ed incentivi di tipo diverso.
19
In una variante molto debole della prima concezione si può sostenere la stessa cosa. Ma, come si è già accennato, in questo caso la
minoranza non ha che una chance, quella di non essere più tale alle prossime elezioni. Resta che i perdenti, per quanto visti con
simpatia, hanno sempre torto – fino a quando non diventino vincenti.
36
7.
All’origine del parlamentarismo moderno, quello, per intenderci, che nasce con la Rivoluzione francese, c’è la
lotta contro il potere monarchico di cui le assemblee elettive sono state, spesso, la punta di diamante. Il parlamento
eletto è concepito e presentato come un contropotere nei confronti dell’esecutivo regio. Nell’evoluzione successiva del
sistema verso forme repubblicane e parlamentari, l’esecutivo si trasforma nel gabinetto ministeriale espressione della
maggioranza parlamentare. Con l’affermarsi nel XX secolo dello Stato di partiti e del monopolio tendenziale degli
organi elettivi, scompare dal governo rappresentativo delle origini quell’elemento di “moderazione”, che aveva
caratterizzato la versione inglese della monarchia costituzionale (la bilancia interna al legislativo, di natura poliarchica e
non puramente elettivo, vista la compartecipazione del re e della Camera dei Lords all’esercizio di quel potere). Il
sistema parlamentare si impone come aristocrazia elettiva, come monopolio tendenziale della classe politica
rappresentativa. E’ rispetto a questa aristocrazia elettiva dominata dagli specialisti della conquista del consenso (i
“partiti pigliatutto”, dei quali parlava Otto Kirchheimer) che lo Stato di diritto costituzionale odierno si presenta come
una forma pluralista e “moderata” del governo delle élites. Sicché organi elettivi e non elettivi rappresentano i due poli
di una nuova bilancia del potere normativo al vertice dello Stato.
Questi organi ed i soggetti che li compongono possono essere visti come elementi di un sistema di checks and
balances se solo si pone mente alla razionalità che guida il comportamento di questi diversi attori. Gli organi elettivi,
come ho accennato, sono composti da individui (o partiti) che hanno lo scopo di mantenere (o ampliare) la loro
posizione di comando (o quota di rappresentanza). In questa prospettiva, è evidente che saranno mossi anzitutto da
preoccupazioni di ottenimento, mantenimento, ampliamento del consenso. Questo dipende semplicemente dal loro
stesso carattere “elettivo”. I rappresentanti eletti sono al tempo stesso ‘padroni’ e ‘schiavi’ degli elettori. Liberi nel loro
mandato, non possono continuare ad esercitare questa libertà se non riescono ad ottenere il consenso e l’avallo degli
elettori. Obbligati a governare nell’interesse della nazione, – il che giustifica la libertà del loro mandato – sono
necessitati a farlo in vista dell’interesse della loro rielezione. Al contrario, i membri di organi non elettivi, come le corti
costituzionali, non possono avere di mira un rinnovo del loro mandato e non rappresentano nessuna concreta
constituency alla quale rendere conti e dalla quale ottenere favori20. Questi organi non sono tenuti a rispettare né la
volontà di una maggioranza popolare, né possono avere di mira un consenso al quale non devono né la loro posizione né
la possibilità di una sua proroga. In quanto tali sono perfettamente in grado di controbilanciare il potere della
maggioranza e di difendere i diritti, costituzionalmente proclamati, delle minoranze e dei singoli individui. Che ciò
accada, è una questione empirica che non è compito né possibilità della teoria verificare ex ante. [Questo vale però
anche dell’appello al popolo da parte del re contro il parlamento nel modello della Costituzione francese del 1791].
La concezione scettica della democrazia sostiene che il popolo è meglio protetto da una pluralità di élites che si
controllano l’una con l’altra che dall’esistenza di una sola élite controllata dal popolo una volta oggi 4 o 5 anni21. In
20
Questo è perfettamente vero per i giudici della Corte suprema americana nominati a vita. In altri casi si possono verificare
patologie del meccanismo, come nel caso di giudici che lascino la Corte in età sufficientemente giovane da poter avere di mira altri
incarichi di natura elettiva (diretta o indiretta, in questo caso la differenza non è rilevante). Ma non è un caso che si parli qui di
patologia, termine che non ha senso per rappresentanti eletti ripetutamente dai cittadini un’elezione dopo l’altra, in virtù dei meriti
acquisiti dinanzi ai cittadini (sulla natura di questi meriti non è questo il luogo per pronunciarsi).
21
In una prospettiva non dissimile da quella qui esposta ragionano Antonio La Spina e Giandomenico Majone nel loro recente
saggio Lo Stato regolatore (Bologna, Il Mulino, 2000) dove scrivono: “Il modello non maggioritario [della democrazia] è
particolarmente attento a proteggere tanto le minoranze dalla tirannia della maggioranza, quanto le funzioni giudiziarie, esecutive e
amministrative dalle assemblee rappresentative e dall’opinione incostante della massa […]. Quindi, anziché a concentrare il potere
nelle mani della maggioranza, esso punta a limitare e a disperdere il potere fra istituzioni differenti”(p. 168).
Sabino Cassese (nel suo Maggioranza e minoranza, Milano, Garzanti, 1995, p. 80) osserva a ragione che nelle democrazie sono state
introdotte “correzioni: la prima [delle quali] consiste nel sostituire – per alcune decisioni – la maggioranza con un diverso modo di
decidere”; e più avanti (p. 93): “Dovunque possono trovarsi correttivi, che servono a limitare il potere conferito dal popolo e a
controbilanciarlo. Limiti e contropoteri finiscono per essere, dunque, una componente essenziale delle democrazie moderne, pur
essendo estranei al principio della supremazia del popolo” – e a me non sembra che si potrebbe dire meglio.
37
questa concezione anti-monocratica, scettica e pluralista della democrazia, l’esistenza di organi non elettivi non solo è
compatibile con la democrazia (con il “buon governo”), ma è, piuttosto, essenziale al suo esercizio.
8.
Dopo queste osservazioni di ordine generale dobbiamo esaminare ora le funzioni delle Corti costituzionali,
l’organo non elettivo oggetto della mia ricerca. Prenderò qui in considerazione il caso del Tribunal constitucional
spagnolo, non perché mi sia meglio noto di quello delle corti di altri paesi europei22, ma perché insieme al caso del
Bundesverfassungsgericht tedesco rappresenta l’organo di controllo dotato di competenze più ampie. Non mi
soffermerò qui sulla composizione e l’organizzazione del lavoro di questo organo che ha oramai venti anni circa di
attività alle spalle; mi limiterò ad elencarne le competenze, commentandole.
Anzitutto, il Tribunal Constitucional è competente a giudicare i conflitti relativi alle competenze di organi
dello stato attribuite direttamente dalla Costituzione; essi possono riguardare tanto i conflitti di competenze fra stato e
comunità autonome (regioni o Laender, in altri contesti nazionali)23 che quelli delle stesse comunità fra di loro. Il
Tribunale è competente inoltre a decidere i conflitti in seno allo stato centrale (ad esempio fra governo e parlamento, o
fra uno di essi ed il potere giudiziario). E’ chiaro che tutto ciò implica la fine della vecchia sovranità parlamentare e
comunque dell’idea, risalente almeno a Bodin, in base alla quale la sovranità non potrebbe essere divisa. La
condivisione della sovranità implica peraltro che in caso di conflitti vi sia un arbitro, terzo, fra le parti. L’obiezione è
che in questo caso l’arbitro è sovrano. Naturalmente, l’argomento rassomiglia un po’ a un corto circuito, che è al tempo
stesso una petitio principii: dato che la sovranità unitaria ed assoluta deve esistere da qualche parte nell’ordinamento,
essa verrà attribuita a quest’arbitro24. Si tratta peraltro di sapere cosa si intende con “sovranità”. Come ho già osservato,
la Corte costituzionale non è sovrana (almeno in uno dei possibili sensi di questo termine, cioè quello di decisore
ultimo), poiché le sue decisioni possono sempre essere invalidate da un atto del potere costituente (generalmente
attribuito ad una maggioranza qualificata degli organi elettivi), che si sovrappone alla Corte modificando la
costituzione. Insisto su questo punto, perché sono lungi dal difendere la tesi, leggermente ipocrita, in base alla quale la
Corte non eserciterebbe nessun potere, ma si limiterebbe ad “applicare” la lettera della costituzione25. Quello che
sostengo, invece, è che non si conoscono alternative all’ipotesi di rivolgersi ad una Corte, nel caso di strutture statuali
federali e di sistemi a separazione non verticale e gerarchica dei poteri. Solo un esercizio pieno ed illimitato della
sovranità parlamentare, in uno stato centralizzato, può permettere di fare a meno di un arbitro per questo tipo di conflitti
(che in questo sistema non avrebbero ragione d’essere; poiché le regioni sarebbero interamente subordinate al governo
centrale e l’esecutivo e il giudiziario al potere dell’assemblea elettiva). Ma un assetto istituzionale di questo genere
sembra poco attraente nel mondo in cui viviamo, e viene, infatti, difeso da pochi. Ai quali lascio volentieri l’onere della
prova.
22
In realtà devo quasi tutto quello che so sul Tribunale Costituzionale spagnolo a María Vicenta García Soriano, che desidero
ringraziare vivamente.
23
Si osserverà, di passata, che i paesi tradizionalmente più ostili al controllo di costituzionalità, come la Francia e la Gran Bretagna,
sono stati a lungo ostili, anche, ad ogni forma di federalismo.
24
Il che nasconde subito l’obiezione che un organo non elettivo sarebbe superiore al parlamento democraticamente eletto!
25
Credo che un’analisi attenta del caso spagnolo mostrerebbe appunto che, nel regolare i conflitti fra stato centrale e comunità
autonome, il Tribunal contitucional ha fatto molto di più che “applicare” la costituzione, perché ha in certo senso avuto la funzione
di scriverla e di trovare quel compromesso nella distribuzione delle competenze, fra centro e periferia, che l’assemblea costituente
spagnola non era riuscita a creare.
38
9.
Una seconda ed essenziale funzione del Tribunale costituzionale spagnolo consiste nell’esercitare il “giudizio
sulle leggi”26. Si tratta in senso stretto della funzione di controllo di costituzionalità in virtù del quale la supremazia del
parlamento è posta in discussione non tanto nei confronti delle competenze di altri organi dello stato, ma dei diritti dei
cittadini, costituzionalmente protetti. Per chiarire questo punto si può muovere dalla distinzione fra costituzione come
“meccanismo” e costituzione come insieme di norme, valori e diritti che gli organi di governo non possono violare.
Nella concezione della costituzione come meccanismo di distribuzione dei poteri, il controllo consiste nel
mantenimento dello status quo, nell’evitare cioè che un organo usurpi i poteri dell’altro e viceversa. Nel secolo XVIII (e
nella successiva dottrina) si è opposta, talvolta, una concezione della costituzione, come sistema omeostatico, capace di
mantenere il proprio equilibrio nei confronti di qualsiasi choc, ad una nella quale esiste, invece, un guardiano della
costituzione esterno, per così dire, alla macchina costituzionale27. Questa opposizione non sembra del tutto persuasiva,
per un duplice ordine di ragioni. Si può, infatti, sostenere che, entro un sistema costituzionale, un elemento del
meccanismo necessario al mantenimento dell’equilibrio è appunto il judicial review , e introdurlo, dunque, nella
costituzione. L’opposizione vera è qui, piuttosto, quella su cui insisteva Carl Schmitt nella polemica famosa con Hans
Kelsen28, non fra organo “interno” o “esterno”, ma fra carattere elettivo (vulgo, politico) e non elettivo (vulgo,
giurisdizionale) dell’organo detto di controllo. L’altra ragione per la quale l’opposizione non sembra illuminante è che i
meccanismi di divisione dei poteri con compiti di mantenimento dello status quo non sono fini a se stessi, ma funzione
di un fine superiore che, già nel linguaggio classico, è quello della difesa della libertà dei cittadini. Protezione dei diritti
e costituzione come meccanismo non sono due concezioni opposte della costituzione ma il fine e lo strumento.
Naturalmente, esiste una concezione minimalista della libertà o dei diritti (che troviamo talvolta in Montesquieu), in
base alla quale la libertà è protetta dalla semplice stabilità delle norme e prevedibilità dei comportamenti degli attori
garantite dall’ordinamento giuridico (che è il significato più semplice del “governo della legge”, ridotto qui alla
Rechtssicherheit). Ma almeno dal 1789, la costituzione è inconcepibile senza una dichiarazione dei diritti che quella
vuole proteggere o che almeno non deve prevaricare. Sicché non sembra perspicua la ragione dell’insistere, al di fuori
di un contesto storico (o pedagogico), su quella distinzione.
Il controllo sulla costituzionalità delle leggi si presenta dunque come un giudizio sulle leggi (promulgate dal
parlamento) che non esauriscono l’universo del diritto ma devono realizzarlo, invece di contrastarlo. Se un conflitto fra
legge e diritti costituzionalmente protetti sembra manifestarsi, esso deve essere deciso da un organo “terzo”,
indipendente dai governanti e dai governati29, che argomenterà in base al principio della “supremazia della
costituzione”. Un punto decisivo, sul quale non mi soffermo qui, è quello relativo agli attori del sistema che possono
iniziare il ricorso dinanzi alla Corte. Questa è, comunque, un organo “passivo”, nel senso in cui non può prendere
l’iniziativa di autoattivarsi, ma deve attendere di essere interrogato, messo in movimento da altro organo del sistema.
Un caso tipico di attivazione del giudizio sulle leggi è quello che va sotto il nome di “questione di incostituzionalità”. Si
tratta del caso in cui, “nel corso di un processo, si reputi da parte dell’organo giudiziario, che una norma con rango di
26
Nel caso appena considerato, il Tribunale controlla che gli altri organi non trasgrediscano le competenze loro assegnate dalla
costituzione, nel caso di cui si tratta ora si tratta di evitare che la legislazione entri in linea di collisione con i valori vincolati dalla
costituzione
27
Il locus classicus di questa distinzione è l’intervento di Thibaudeau contro Sieyes alla Convention il 24 termidoro, nel corso dei
dibattiti relativi alla costituzione dell’anno III° (il discorso è riprodotto dal Moniteur, vol. XXV, pp. 484 e 487-489
28
Su di essa mi sia consentito rinviare al mio "Gardien de la costitution ou justice constitutionnelle? C. Schmitt et H. Kelsen", in
1789 et l'invention de la constitution, sous la direction de M. Troper et L. Jaume, Paris, Bruylant L.G.D.J., 1994, pp. 141-152
29
Questa indipendenza dalle due parti è una delle ragioni per le quali il “principio elettorale” (la responsabilità politica nei confronti
dei cittadini) non può essere alla base del meccanismo di nomina dei membri dell’organo di controllo. Su questo punto restano
importanti, pur nella loro dimensione astratta e applicate ad un diverso quadro istituzionale, le osservazioni di Salvatore Satta ne Il
mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994 [ma il testo originale è degli anni 1949-1958].
39
legge, applicabile alla fattispecie sub iudice e dalla quale dipenda l’esito della controversia, possa essere contraria alla
Costituzione”30 sicché esso solleva quindi al Tribunale costituzionale un’eccezione d’incostituzionalità.
Un ricorso di questo tipo, ripreso dalla prassi costituzionale tedesca, è attribuito, inoltre, dalla costituzione
spagnola, ai cittadini, che possono in tal modo aggirare l’opposizione dell’organo giudiziario a sollevare la questione e
ricorrere al Tribunale costituzionale contro la decisione giudiziaria di applicazione della legge. Questo caso ha per noi
un interesse particolare. Attraverso l’amparo (è questo il termine spagnolo che indica il “ricorso diretto”; in Germania si
parla di Verfassungsbeschwerde), viene riconosciuto ai cittadini un diritto molto particolare: quello di opporsi uti
singuli alle decisioni degli organi dello stato, nella misura in cui essi applichino una norma di legge che sembra violare i
diritti dei cittadini.
I cittadini non hanno dunque solo il diritto, in uno stato costituzionale come quello spagnolo, di scegliere i
rappresentanti, al pari di quelli che vivono in società fondate sull’idea di un contratto fra governanti e governati; essi
possono ricorrere anche contro le scelte di quelli, contro le loro leggi e l’applicazione di esse. Questa possibilità di
ricorso e di autodifesa, per non prendere la forma della rivolta, deve assumere la veste giuridica della controversia
legale dinanzi ad un giudice. E’ necessario quindi che vengano predisposte dalla costituzione le norme che permettono a
quel giudice di essere ugualmente indipendente da entrambe le parti del contenzioso. Queste norme consistono
essenzialmente nella garanzia dell’indipendenza del tribunale di questo tipo di conflitti dalle parti in causa. Una scelta
che condanna sia il ricorso al principio elettorale (che li renderebbe dipendenti dai cittadini), sia una qualsiasi possibilità
di rielezione dei membri del Tribunale da parte dei rappresentanti (che li renderebbe dipendenti da questi ultimi). Essa
condanna anche la versione democratica della filosofia politica di Hobbes, secondo la quale chi ha consentito ad un
governo (eletto i rappresentanti) non ha altra scelta che quella di piegare il capo nei confronti dello stato, o di ribellarsi
negandolo.
30
Riprendo qui la formulazione di M. V. García Soriano, dall’articolo citato.
40
MICHEL FOUCAULT
ET LA QUESTION DE L’EUROPE
Michel Senellart
École Normale Supérieure, Lyon
Michel Foucault, dans son œuvre, n’a guère parlé de l’Europe. Celle-ci fut pour lui le lieu, tout d’abord, d’un
itinéraire professionnel — Suède, Allemagne, Pologne — dans les années 60. Elle constitua le cadre géographique des
grandes analyses qu’il consacra à l’histoire de la psychiatrie, du regard médical, du système carcéral et du discours de la
sexualité. A travers ces enquêtes, limitées le plus souvent à la France, l’Angleterre, parfois l’Allemagne et, pour le
dernier thème, à la Grèce et la Rome antiques, c’était l’aventure de la raison occidentale qu’il avait entrepris de retracer,
non pour la récuser en bloc, mais pour montrer à quelles rationalités pratiques elle avait donné lieu, quelles formes de
pouvoir elle avait engendrées et quelles possibilités de critique ou de lutte elle offrait. D’un côté, donc, l’analyse de ces
expériences locales, objet d’une minutieuse “ microphysique du pouvoir ”, de l’autre, une réflexion générale sur le
destin historique de l’Occident. Comment entendre ce dernier terme ? A travers lui, est-ce de l’Europe qu’il est question
et de quelle manière ? “ Occident ” : ce “ mot vague, désagréable et presque indispensable ”1 se réfère tout d’abord,
pour Foucault, à la naissance et au développement d’un grand nombre de pratiques sociales, économiques et politiques,
entre le début du Moyen Âge et le XIXè siècle, dans cette région géographique qui va de la Vistule à Gibraltar et du
nord de l’Ecosse à la pointe de l’Italie ; il est lié ensuite, à partir du XIXè siècle, au processus d’universalisation, par la
violence coloniale le plus souvent, de tout un ensemble de mécanismes. “ C’est cela que j’entends par Occident, cette
espèce de petite partie du monde dont le destin étrange et violent a été d’imposer finalement ses manières de voir, de
penser, de dire et de faire au monde tout entier ”2. L’Occident, ainsi, n’est pas un simple concept descriptif, définissant
une aire géographique ou une famille de peuples ; il ne désigne ni l’unité d’un espace ni celle d’une civilisation. Il est le
nom d’une universalité dominatrice fondée en raison. Destin dominateur que l’on ne saurait réduire à un accident de
l’histoire, toute universalité, pour Foucault, — que ce soit celle des concepts, “ raison ”, “ folie ”, “ sexualité ”,
“ vérité ” etc., d’une forme politique ou d’un modèle culturel — comportant une part de violence. L’universel, c’est ce
qui, par nature, fait violence à la singularité des êtres, des formes de pensée, des expériences vécues. Le deveniruniversel de l’Occident, par conséquent, n’est pas seulement violent par les moyens de domination mis en œuvre, mais
aussi par le fait même de s’être voulu universel. On voit ce qui relie l’analyse des rationalités locales, en termes de
relations de pouvoir, dans le domaine psychiatrique, pénal, etc. à la problématisation globale du destin de l’Occident : il
s’agit toujours, pour Foucault, non pas de réduire la raison à la domination, mais de montrer quels effets de pouvoir
produit un certain type de rationalité, du terrain d’application le plus particulier au plan le plus général. Foucault,
toutefois, précise qu’“ [il n’est] pas un historien, [il n’est] pas un philosophe spéculant sur l’histoire du monde, [il n’est]
pas Spengler ”3. C’est pourquoi la réflexion sur le destin de l’Occident, à rebours de toute démarche spéculative, ne
pouvait prendre chez lui que la forme d’une enquête historique précise, nécessairement limitée à des domaines de
connaissance, des objets et des périodes particuliers.
Quoi qu’il en soit, il semblait bien qu’entre ces deux niveaux d’analyse il n’y eût aucune place pour la question
de l’Europe comme projet politique. Celle-ci, toutefois, est évoquée à plusieurs reprises par Foucault, vers la fin des
1
“ Le pouvoir, une bête magnifique ”, in Dits et écrits (désormais cité DE), Paris, Gallimard, 1994, III, p. 370.
à2 Ibid.
3
Ibid., p. 371.
41
années 70, à l’occasion d’entretiens liés à l’actualité politique (lutte anti-terroriste, Pologne). Je voudrais citer
notamment ce texte de 1982, à propos de la Pologne — où l’état de guerre, rappelons-le, avait été instauré fin 81 :
“La réflexion sur l’Europe a été proliférante ces trente-cinq dernières années — qu’il s’agisse de la
création d’une zone de libre-échange, de l’alliance atlantique, d’une intégration politique plus ou moins
poussée … Mais on a fait l’impasse sur le partage de l’Europe en deux par une ligne qui n’est pas une ligne
imaginaire. C’est un état de choses que tout le monde connaît, mais c’est toujours un impensé politique dans la
mesure où cela ne fait plus problème. C’est devenu une image familière, des récits sans cesse répétés, bref, une
situation de fait. Ni les gouvernants, ni les partis politiques, ni les théoriciens, ni les Européens eux-mêmes ne
posent comme un problème présent, angoissant et intolérable le fait qu’il y ait en Europe deux régimes
existants. Deux temps historiques. Deux formes politiques, non seulement incompatibles, mais dont l’une est
absolument intolérable. Il y a des centaines de millions d’Européens séparés de nous par une ligne, à la fois
arbitraire dans sa raison d’être et infranchissable dans sa réalité ; ils vivent dans un régime de libertés
totalement restreintes, dans un état de sous-droit. Cette fracture historique en Europe, c’est quelque chose dont
on ne peut pas prendre son parti ”4.
Ce texte me paraît important, parce qu’il montre le chemin parcouru par Foucault depuis les années 70. Dans
Surveiller et punir, en 1975, il avait décrit, à travers la formation du système carcéral, la mise en place de techniques
disciplinaires en France depuis le XVIIè siècle, soumettant les individus à une normalisation croissante. Dressage du
corps à l’école, à l’armée, dans les ateliers et les usines, surveillance continue, pénalisation et médicalisation des
conduites déviantes etc., tout cela conduisait Foucault à présenter les sociétés européennes modernes comme une sorte
de généralisation de la forme carcérale, régies par un même pouvoir disciplinaire et normalisateur, comme en témoigne
cette déclaration de 1976 :
“(…) les Soviétiques, s’ils ont modifié le régime de la propriété et le rôle de l’Etat dans le contrôle de la
production, ont tout simplement, pour le reste, transféré chez eux les techniques de gestion et du pouvoir mises
au point dans l’Europe capitaliste du XIXè siècle. Les types de moralité, les formes d’esthétique, les méthodes
disciplinaires, tout ce qui fonctionnait effectivement dans la société bourgeoise déjà vers 1850 est passé en
bloc dans le régime soviétique. Je pense que le système de l’emprisonnement a été inventé comme système
pénal généralisé au cours du XVIIIè siècle et mis en place au XIXè siècle en liaison avec le développement des
sociétés capitalistes et de l’Etat correspondant à ces sociétés. La prison n’est d’ailleurs que l’un des techniques
de pouvoir qui ont été nécessaires pour assurer le développement et le contrôle des forces productives. La
discipline d’atelier, la discipline scolaire, la discipline militaire, toutes les disciplines d’existence en général
ont été des inventions techniques de cette époque. Or toute technique peut se transférer. De même que les
Soviétiques ont utilisé le taylorisme et autres méthodes de gestion expérimentées en Occident, ils ont adopté
nos techniques disciplinaires en ajoutant à l’arsenal que nous avions mis au point une arme nouvelle, la
discipline de parti”5.
Cette analyse avait donc pour effet, non pas de nier toute différence entre société démocratique et société
soviétique, mais de relativiser leur opposition et de refuser que la première constitue l’alternative à la seconde. Si la
société soviétique n’avait fait qu’importer et intensifier les techniques de pouvoir forgées par la bourgeoisie occidentale
au XIXè siècle, cela signifiait qu’entre l’une et l’autre société, il y avait une parenté, des ressemblances, des analogies
de structure. De même que l’URSS avait emprunté ses méthodes de pouvoir et d’organisation sociale à l’Occident, de
même celui-ci restait-il menacé par un devenir totalitaire, moins brutal dans ses formes, mais tout aussi dangereux. La
ligne de partage entre les deux systèmes, occidental et soviétique, était donc difficile à tracer. Elle semblait consister
plus en une différence de degré qu’en une véritable différence de nature6. De là les critiques adressées à Foucault par un
grand nombre de militants anti-totalitaires, dans la mouvance de Hannah Arendt et de Claude Lefort, qui lui
4
“ L’expérience morale et sociale des Polonais ne peut plus être effacée ”, DE, IV, p. 347.
“ Crimes et châtiments en URSS et ailleurs …”, DE, III, p. 65.
6
Les analyses consacrées à la genèse du bio-pouvoir, dans le dernier chapitre de la Volonté de savoir (Paris, Gallimard, 1976) et dans
le cours de la même année, “ Il faut défendre la société ” (Paris, Gallimard-Le Seuil, 199…), décrivant la rationalité politique
5
42
reprochaient son aveuglement face à l’expérience démocratique des sociétés occidentales, celle-ci, en dépit de ses
limites de fait, de ses blocages et de ses contradictions, étant radicalement étrangère, par essence, à la logique totalitaire
d’appropriation du pouvoir par un parti unique.
Il n’est pas sûr que Foucault, dans les années 80, ait complètement renoncé à cette vision des choses. Bien au
contraire, je pense qu’il lui est demeuré fidèle, dans le refus d’idéaliser une quelconque essence démocratique et de voir
dans les sociétés libérales occidentales la négation radicale du système totalitaire. La démocratie, pour lui, n’était pas un
mot vide de sens, mais elle ne consistait ni dans un régime politique, ni dans une forme d’organisation sociale donnée.
La démocratie, c’était avant tout l’effort permanent des gouvernés pour résister à l’emprise des gouvernants et accroître
leur sphère d’autonomie. Il y a une grande différence, toutefois, entre ses analyses des années 70 et la position qu’il
exprime en 1982 : la ligne qui sépare l’Europe démocratique et le bloc socialiste, désormais, est clairement repérable.
Cette ligne n’est pas une frontière théorique et abstraite entre deux conceptions du monde antagoniques, mais une ligne
réelle, géographique et politique, séparant deux modes d’existence : l’un qualifié d’“ intolérable ”, l’autre jugé par
contraste plus enviable. Comme dans le cas des prisons — Foucault avait créé, au début des années 70, un Groupe
d’information sur les prisons (GIP), dont les enquêtes étaient publiées sous le titre “ Intolérable ” —, c’est l’intolérable
qui constitue le critère décisif de l’évaluation et de l’action. C’est cet intolérable, décrit en termes de privation de liberté
et de sous-droit, qui fait que la ligne séparant l’Est et l’Ouest n’est pas une simple réalité historique plus ou moins
arbitraire, comme toutes les frontières existantes, mais un scandale politique.
Foucault, toutefois, ne se contente pas de dénoncer cette ligne qui partage l’Europe en deux. Il la présente
comme un “ impensé ” : non pas l’impensé au sens de ce qui n’a jamais accédé à la conscience, mais au sens de ce qui
est devenu si familier, si quotidien, qu’on n’y prête plus attention. L’impensé comme ce qui a cessé de faire problème et
d’être perçu comme intolérable. La Communauté Economique Européenne est ainsi une Europe, pour Foucault, qui se
construit sur l’oubli de la division de l’Europe ou plutôt qui, prenant son parti de cette division, s’enferme dans
l’illusion qu’elle est à elle seule l’Europe. Illusion dangereuse, puisqu’elle conduit à méconnaître l’état de profond
déséquilibre, lourd de conflits futurs, dans lequel vit en réalité le continent. Illusion scandaleuse, également, qui fait de
la CEE une Europe coupée de la communauté réelle des Européens. C’est pourquoi les phénomènes de dissidence, en
URSS et dans les pays de l’Est, et plus encore les grands mouvements collectifs de résistance à la dictature communiste,
comme celui conduit par Solidarnosc en Pologne, constituent des appels à recréer cette communauté réelle au-delà de la
communauté restreinte, partielle, artificielle des Etats occidentaux, et parfois malgré ses intérêts propres. L’Europe à
laquelle s’intéresse Foucault, en 1982, n’est donc pas celle que dessinent les gouvernements, mais celle qui se manifeste
à travers la solidarité effective des gouvernés. C’est cette attitude qu’il définit alors, sur un plan plus général : “ Il
existe une citoyenneté internationale qui a ses droits, qui a ses devoirs et qui engage à s’élever contre tout abus de
pouvoir, quel qu’en soit l’auteur, quelles qu’en soient les victimes. Après tout, nous sommes tous des gouvernés et, à ce
titre, solidaires ”7.
***
L’Europe séparée d’elle-même, l’Europe comme construction politique fondée sur une communauté d’intérêts,
distincte de la communauté réelle des Européens, l’Europe globale comme découpage local, soudé par des liens
historiques, de la grande internationale des gouvernés : telle est l’analyse que fait Foucault, en 1982, de l’Europe
actuelle et qui justifie son propre engagement politique. Mais Foucault pose également sur l’Europe un regard
moderne en termes, non plus seulement de disciplines, mais de contrôle des populations et de dispositifs de sécurité, allaient dans le
même sens.
7
“ Face aux gouvernements, les droits de l’homme ”, DE, IV, p. 707-8.
43
d’historien. L’Europe qu’il considère, alors, n’est pas seulement celle qui a pris forme au cours des siècles à travers les
échanges, pacifiques ou belliqueux, entre les Etats. C’est, plus spécifiquement, l’Europe issue du processus de
construction étatique lui-même à partir du XVIè siècle — l’Europe en tant qu’elle est liée, dans la conscience qu’elle a
de son unité, à l’affirmation de la souveraineté des Etats depuis l’âge classique. Ce regard d’historien, tourné vers le
passé, n’est pas étranger au regard de citoyen que Foucault porte sur l’Europe présente. Il permet de comprendre en
quoi l’Europe, pendant longtemps, a été l’œuvre des Etats et pensée du point de vue des intérêts des Etats. De là la
nécessité, aujourd’hui, de concevoir une autre Europe, non plus en termes d’alliance militaire ou diplomatique, mais en
termes de résistance à toutes les formes de violence et d’oppression.
C’est dans son cours au Collège de France intitulé Sécurité, territoire, population, en 19788, que Foucault aborde
pour la première fois, et à ma connaissance la seule, la question de l’Europe dans une perspective historique. L’objet de
ce cours est de retracer les grandes étapes de l’histoire de la “ gouvernementalité ” en Occident. Par ce mot quelque peu
étrange, Foucault désignait “ l’ensemble des pratiques par lesquelles on peut constituer, définir, organiser,
instrumentaliser les stratégies que les individus (…) peuvent avoir les uns à l’égard des autres ”9. De façon plus précise,
il s’agissait d’entreprendre la généalogie de l’Etat moderneà partir des techniques gouvernementales mises en place en
Occident, depuis la fin du Moyen Âge. Cette tâche impliquait de remonter aux débuts de l'ère chrétienne, le
christianisme ayant développé, dès les premiers siècles, une conception du gouvernement, tout à fait étrangère à la
tradition gréco-romaine, comme art de diriger les âmes vers leur salut. Pédagogie pastorale bienveillante, attentive à
chaque homme, exerçant sur ses pensées, ses paroles et ses actes un contrôle méticuleux et continu, cet “ art des arts ”10,
inscrit au cœur de la spiritualité chrétienne, ne s'appliqua, pendant longtemps, qu'à des espaces assez restreints
(monastères, communautés spirituelles). C'est à partir du XVIè siècle que le pastorat, se couplant avec l'essor des grands
foyers de puissance monarchique, se traduisit en pratiques de gouvernement effectif, à travers la mise en œuvre de
techniques de pouvoir prenant en charge la vie des individus, en vue non plus de leur salut, mais de celui de l'Etat.
Double face donc, individualisante et totalisante, de la rationalité politique dont procède l'Etat moderne. Ce schéma
général, trop grossièrement résumé ici, permettait à Foucault d'articuler la théorie de la raison d'Etat à la théorie de l'Etat
de police ou de bien-être (Wohlfahrtsstaat), au-delà de leurs différences apparentes (la première, régie par des tactiques
comportant une part de secret, de violence et de transgression des normes, semblant s'opposer à la seconde, qui requiert
l'établissement de dispositifs administratifs strictement codifiés).
Voyons tout d’abord ce qui concerne la raison d’Etat. Depuis le livre fondamental de F. Meinecke, Die Idee der
Staatsräson in der neueren Geschichte (1924)11, on sait quel rôle décisif a joué cette idée de raison d’Etat, impliquant la
transgression des règles de la morale commune et du droit au nom de l’intérêt public, dans l’histoire des Etats
européens : instrument de laïcisation de la vie politique, principe d’individualisation de la vie des Etats et de
rationalisation des stratégies gouvernementales, mais aussi source de pratiques despotiques, à l’intérieur, et vecteur
d’une politique de puissance, à l’extérieur, Machtpolitik dont la logique, toujours plus violente, devait conduire aux
grandes catastrophes des guerres mondiales du XXè siècle. Les nombreux travaux publiés en Italie, en Allemagne et en
France ces dernières années12 ont permis de compléter, nuancer ou corriger le point de vue de Meinecke, notamment à
8
Ce cours (désormais cité STP), dont je suis en train de réaliser l’édition, paraîtra chez Gallimard-Le Seuil en 2003.
“ L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté ”, DE, IV, p. 728.
10
Expression de Grégoire de Nazianze, reprise par Grégoire le grand.
11
Trad. franç. de M. Chevallier, L'idée de la raison d'Etat dans l'histoire des Temps modernes, Genève, Droz, 1973.
12
E. Thuau Raison d'Etat et pensée politique à l'époque de Richelieu, Paris, A. Colin, 1966, rééd. Albin Michel, 2000 ; R. Schnur
(dir.), Staatsräson. Studien zur Geschichte eines politischen Begriffs, Berlin, Duncker & Humblot, 1975 ; R. de Mattei, Il problema
della "ragion di Stato" nell'età della controriforma, Milan-Naples, Riccardo Ricciardi, 1979 ; M. Senellart, Machiavélisme et raison
d’Etat, Paris, PUF, 1989 ; Ch. Lazzeri et D. Reynié, Le pouvoir de la raison d'Etat et La raison d'Etat : politique et rationalité, Paris,
PUF, 1992 ; M. Stolleis Staat und Staatsräson in der frühen Neuzeit, Francfort sur le Main, Suhrkamp-Taschenbuch, 1990; M.
Viroli, From Politics to Reason of State, Cambridge UP, 1992 ; A. E. Baldini (éd.), Botero e la "Ragion di Stato", Florence, L.
9
44
travers la réévaluation de la tradition antimachiavélienne aux XVIè-XVIIè siècles, et de montrer comment la raison
d’Etat s’était articulée aux multiples aspects, politiques bien sûr, mais aussi administratifs et juridiques de la formation
des Etats modernes.
C’est de cette façon que Foucault considère également la raison d’Etat : “ non dans le sens (…) négatif qu’on lui
donne aujourd’hui (détruire les principes du droit, de l’équité et de l’humanité pour le seul intérêt de l’Etat), mais dans
un sens positif et plein ”, la rationalité propre à l’art de gouverner l’Etat13. Après avoir montré en quoi cette raison
d’Etat représente la percée en Europe d’une nouvelle “ raison gouvernementale ” rompant aussi bien avec le modèle
médiéval du roi sage qu’avec la figure machiavélienne du prince virtuoso14, Foucault explique quel sont précisément
son objet et sa fin. Cet objet, c’est évidemment l’Etat, que la raison d’Etat a pour fin de conserver, à partir de la
connaissance même de ses besoins, de ses forces et des dangers qui le menacent. Or cet Etat n’existe pas seul. Il existe
au milieu d’une pluralité d’autres Etats, avec lesquels il entretient des rapports de concurrence. Cette réalité, selon
Foucault, est corrélative, sur le plan des représentations, de l’émergence d’une nouvelle conscience historique, et sur
celui des structures institutionnelles, de l’effondrement du modèle impérial. Nouvelle conscience historique :
“ (…) au Moyen Age, on restait encore dans un temps qui devait à un certain moment devenir un temps
unifié, le temps universel d'un Empire dans lequel toutes ces différences seraient effacées, et c'est cet Empire
universel qui annoncerait et serait le théâtre sur lequel se produirait le retour du Christ. L'Empire, le dernier
Empire, l'Empire universel, que ce soit celui des Césars ou que ce soit celui de l'Eglise était tout de même
quelque chose qui hantait la perspective du Moyen Age, et dans cette mesure-là, il n'y avait pas de
gouvernement indéfini. Il n'y avait pas d'Etat ou de royaume voué indéfiniment à la répétition dans le temps.
Maintenant, au contraire, nous nous trouvons dans une perspective où le temps de l'histoire est indéfini. C'est
l'indéfini d'une gouvernementalité pour laquelle on ne prévoit pas de terme ou de fin. Nous sommes dans
l'historicité ouverte, à cause du caractère indéfini de l'art politique15. (…) On est, avec la raison d'Etat, dans un
monde d'historicité indéfinie, dans un temps ouvert et sans terme. Autrement dit, à travers la raison d'Etat se
trouve esquissé un monde dans lequel il y aura nécessairement, fatalement et pour toujours une pluralité
d'Etats qui n'auront leur loi et leur fin qu'en eux-mêmes16 ”.
A cet effacement de l’universel comme horizon ou fin de l’histoire correspond, dans l’histoire politique,
l’effondrement des vieilles formes d’universalité qui avaient dominé tout au long du Moyen Âge. L’Eglise, tout
d’abord, suite à la Réforme et aux guerres civiles religieuses du XVIè siècle. L’Empire, ensuite, continuation de la
Rome éternelle et garant de l’unité de la société chrétienne jusqu’à la fin des temps, suite à la guerre de Trente ans et
aux traités de Westphalie en 1648 : le Saint Empire Romain Germanique perd alors son caractère sacré, les Etats
allemands voient leur souveraineté ou “ supériorité territoriale ” (Landeshoheit) reconnue, le critère confessionnel cède
la place, dans les rapports internationaux, à la logique objective des intérêts.
La raison d’Etat, ainsi, s’affirme dans un monde désenchanté, livré à la dynamique des appétits de puissance et
privé de toute perspective de salut. C’est pourquoi, les Etats étant en rapport de concurrence les uns avec les autres, il
était nécessaire de concevoir un système permettant de limiter l’ambition de chacun tout en lui laissant assez de liberté
pour qu’il puisse accroître sa puissance à l’intérieur de ses frontières. Trop faible, un Etat deviendrait aisément la proie
de ses voisins. Trop fort, il constituerait une menace pour leur sécurité. Ce système fut celui de l’équilibre européen.
Comment assurer un équilibre des forces, condition d’une paix durable, dans cet espace géographique sans unité, formé
d’Etats multiples, inégaux et rivaux, qu’était l’Europe ? Un tel projet supposait la mise en œuvre de moyens militaires,
Olschki, 1992, Y. Zarka (éd.), Raison et déraison d'Etat, Paris, PUF, 1994 ; G. Borrelli, Ragion di stato e Leviatano, Bologne, Il
Mulino, 1994.
13
“ La “gouvernementalité” ”, DE, III, p. 648.
14
Sur ce point, cf. mon article, “ Machiavel à l’épreuve de la “gouvernementalité” ”, in G. Sfez et M. Senellart (éd.), L’enjeu
Machiavel, Paris, PUF, 2001, p. 211-27.
15
STP, leçon 10.
16
STP, leçon 11.
45
ainsi que l’organisation d’une diplomatie permanente : dispositif diplomatico-militaire, donc, impliquant l’élaboration
d’un ius gentium. C’est ainsi que Burlamaqui, dans ses Principes du droit de la nature et des gens, pouvait écrire :
“l'Europe est aujourd'hui un système politique, un corps où tout est lié par des relations et les divers
intérêts des nations qui habitent cette partie du monde. Ce n'est plus comme autrefois un amas confus de pièces
isolées dont chacune se croyait peu intéressée au sort des autres et se mettait rarement en peine de ce qui ne la
touchait pas immédiatement. L'attention continuelle des souverains à tout ce qui se passe chez eux et chez les
autres, les ministres toujours résidents, les négociations perpétuelles font de l'Europe moderne une espèce de
république dont les membres indépendants mais liés par l'intérêt commun se réunissent pour y maintenir
l'ordre et la liberté”17.
Cet équilibre (ou “ balance ”) a été conçu différemment par les acteurs et les théoriciens politiques — limitation
de la force des plus forts, égalisation des plus forts, union des plus faibles contre les plus forts. Il n’a, de plus, jamais
réellement fonctionné au XVIIIè siècle. C’est à travers ce système, plus théorique que réel, toutefois, que s’est forgée
l’idée d’une république européenne, c’est-à-dire d’une pluralité d’Etats unis par des intérêts communs au sein d’un
même espace géographique.
A ce système de l’équilibre entre les Etats,
fondé sur un dispositif diplomatico-militaire, correspond le
développement de la “ police ” sur le plan intérieur. Rappelons d'abord la définition, commentée par Foucault18, que
donne J. H. G. von Justi de la police. Celui-ci la distingue tout d'abord de la politique, qui “ a pour but la sûreté de la
République tant au dehors qu'au dedans ” (c'est, en fait, l'objet principal de la raison d'Etat), tandis que la police “ n'a
pour but que d'assurer le bonheur de l'Etat par la sagesse de ses règlements, et d'augmenter ses forces et sa puissance
autant qu'il en est capable ”19. Puis il explique que le mot se prend en deux sens différents, l'un étendu — la police
désignant “ les lois et les règlements qui concernent l'intérieur d'un Etat ” —, l'autre limité : elle comprend alors “ tout
ce qui peut contribuer au bonheur des citoyens, et principalement le maintien de l'ordre et de la discipline, [ainsi que]
les règlements qui tendent à leur rendre la vie commode ”20. “ La police, conclut-il, doit se proposer pour règle
fondamentale de faire servir tout ce qui compose l'Etat à l'affermissement et à l'accroissement de sa puissance, de même
qu'au bonheur public ”21. On peut donc la définir comme la science qui veille au bonheur de tous en vue d'accroître la
puissance de l'Etat. Foucault montre comment, au XVIIè siècle (mais surtout après les traités de Westphalie), le système
de l'équilibre européen obligea les Etats à se donner des objectifs limités dans leur politique extérieure et,
corrélativement, à poursuivre dans leur politique intérieure un objectif illimité, afin, par la maximisation de toutes leurs
forces, de se maintenir dans un état d'équilibre concurrentiel avec les autres Etats22. C'est ainsi que “ la limitation de
l'objectif international du gouvernement selon la raison d'Etat a pour corrélatif l'illimitation dans l'exercice de l'Etat de
police ”23 et que ce dernier réalise, en quelque sorte, le principe de la raison d'Etat.
***
L’Europe qui s’est formée aux XVIIe-XVIIIe siècles et qui a pris pour la première fois conscience d’elle-même
comme ensemble géographique et communauté politique d’intérêts est donc :
- un ensemble pluriel, inscrit dans une temporalité ouverte, qui a rompu avec l’idéal d’universalité et d’unité
finale des siècles précédents. L’Europe, de ce premier point de vue, est donc le contraire de l’Empire.
17
Jean-Jacques Burlamaqui, Principes du droit de la nature et des gens, cité par M. Foucault, STP, leçon 11.
Cf. “ Omnes et singulatim : vers une critique de la raison politique ”, DE, IV, p. 159.
19
Grundsätze der Policey-Wissenschaft, Göttingen, 1756; trad. franç. Eléments généraux de police, Paris, 1769, préface.
20
Ibid., introduction, § 2-3.
21
Ibid., § 8.
22
Cf. le cours de 1979, Naissance de la biopolitique, leçons 1 (cassette disponible en coffret, "La gouvernementalité", Le Seuil,
1989) et 3.
18
46
- un certain système d’autorégulation de la puissance par l’équilibre, issu du principe de la raison d’Etat.
L’Europe, de ce deuxième point de vue, est donc fille de la raison d’Etat. C’est une Europe des Etats, réglée selon la
logique de leurs intérêts de puissance respectifs.
- un espace de paix — du moins que l’on organise en vue de l’établissement d’une paix aussi durable que
possible. C’est le grand projet de paix perpétuelle qui traverse la pensée politique du XVIIIè siècle. Or cette paix ne
constitue pas une fin de l’histoire, un apaisement ultime et définitif, mais un état précaire, toujours à consolider par le
jeu de la diplomatie et de la force. L’Europe, de ce troisième point de vue, est liée non pas à l’utopie d’une paix
universelle, mais à la conception d’une paix fondée sur la puissance et favorisant l’essor de chaque Etat.
- le lieu d’expérimentation d’une pratique de la “ police ” assurant le maintien de l’ordre intérieur, le bien-être
matériel des sujets et le développement maximal des forces productives. Police couplée, on l’a vu, avec le système de
l’équilibre : ce sont les deux grands mécanismes de sécurité mis au point aux XVIIè-XVIIIè siècles, dont est issue
l’Europe moderne. Cette articulation permet également de comprendre, en partie, pourquoi l’Europe a cherché à étendre
sa domination sur le reste du monde. Ce processus, bien sûr, prend naissance avant le siècle des Lumières. Mais l’une
des raisons de cette expansion réside sans doute dans la dialectique de la paix perpétuelle et de l’accroissement des
forces. Les Etats ne pouvant plus étendre leur puissance au sein de l’Europe, il leur fallait désormais de nouveaux
terrains à conquérir afin d’y trouver les ressources et les débouchés nécessaires à leur développement.
Cette analyse permet à Foucault de poser la question du rôle de l’Allemagne dans la construction de l’Europe.
Rôle central à ses yeux, l’Allemagne ayant été, depuis la paix de Westphalie, “ le foyer d’élaboration de la république
européenne ”. Plus précisément, l’Europe apparaît à Foucault comme le moyen qu’ont inventé les pays les plus
puissants du continent pour résoudre le problème de l’Empire. De même que la politique de l’équilibre européen a
marqué la fin du rêve de monarchie universelle incarné au XVIè siècle par Charles Quint, puis réactivé par Napoléon,
de même l’Europe, au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, a-t-elle constitué l’alternative à la menace d’un réveil
possible de l’ambition impériale. “ On a voulu substituer en Allemagne au désir d’empire l’obligation de l’Europe ”. De
là, en retour, la tentation allemande de considérer l’Europe comme son empire.
“Il ne faut jamais oublier ceci, c'est que l'Europe comme entité juridico-politique, l'Europe comme
système de sécurité diplomatique et politique, l'Europe c'est le joug que les pays les plus puissants de cette
Europe ont imposé à l'Allemagne chaque fois qu'ils ont essayé de lui faire oublier le rêve de l'empereur
endormi, que ce soit Charlemagne ou Barberousse ou le petit homme qui a brûlé entre son chien et sa
maîtresse un soir d’avril dans [son bunker]. L'Europe, c'est la manière de faire oublier à l'Allemagne l'Empire.
Et il ne faut donc pas s'étonner que, si l'empereur effectivement ne se réveille jamais, l'Allemagne se redresse
parfois et dise “Je suis l'Europe. Je suis l'Europe puisque vous avez voulu que je sois l'Europe”. Et elle le dit
précisément à ceux qui ont voulu qu'elle soit l'Europe, et qu'elle ne soit rien que l'Europe, à savoir
l'impérialisme français, la domination anglaise et l'expansionnisme russe. On a voulu substituer en Allemagne
au désir d'empire, l'obligation de l'Europe. “Eh bien, répond donc l'Allemagne, qu'à cela ne tienne puisque
l'Europe sera mon empire. Il est juste que l'Europe soit mon empire, dit l'Allemagne, puisque vous n'avez fait
l'Europe que pour imposer à l'Allemagne la domination de l'Angleterre, de la France et de la Russie ”24.
Sans doute faut-il comprendre à la lumière de ce brillant et discutable raccourci les leçons que Foucault
consacre, en 1979, au néo-libéralisme allemand de l’après-guerre, dans lequel il voit le modèle de la politique libérale
poursuivie par les gouvernements occidentaux, et appliquée à la construction européenne, dans les années 1970. Rien ne
serait plus faux, naturellement, que d’y voir l’expression d’un quelconque anti-germanisme de sa part. L’argumentation
de Foucault vise à rappeler a) qu’il n’y eut pas d’autre choix, pour mettre fin à la guerre permanente, qu’entre
l’universalisme impérial et le pluralisme de la république des Etats ; b) que l’Europe, comme projet anti-impérial, fut la
traduction d’un rapport de forces entre les principales puissances occidentales, en vue de créer les conditions d’une paix
23
Ibid., leçon 1.
47
stable ; c) que l’idée de communauté européenne ne doit pas masquer les tensions héritées de l’histoire. L’Europe, fruit
de la guerre et théâtre, sous des formes nouvelles, de rivalités de puissance : c’est ce refus d’une vision apaisée de
l’Europe comme société consensuelle, unifiée par le jeu des solidarités économiques et désormais affranchie d’un
millénaire d’antagonismes nationaux qui caractérise, semble-t-il, bien qu’il s’en soit peu expliqué, le point de vue de
Foucault sur la question.
24
STP, 11.
48
FILOSOFIE REGRESSIVE DELLA STORIA.
DE GOBINEAU, NIETZSCHE,
SPENGLER, EVOLA
Francesco Ingravalle
Dottore di ricerca in Storia del pensiero politico e delle istituzioni politiche
1.
“Decadenza”: un modello esplicativo antico e moderno.
La categoria fondamentale delle filosofie regressive della storia è la categoria di “decadenza” (o
“degenerazione”) intenzionata a caratterizzare la temporalità, il divenire, dunque la storicità stessa, come declino o
eclisse di ciò che è “migliore”. Da un punto di vista teoretico essa è speculare rispetto alla categoria del progresso nella
quale il divenire è considerato come realizzazione graduale, o attraverso cesure, di ciò che è “migliore”. Entrambe le
categorie implicano giudizi di valore sul presente, non meno che sul passato e sul futuro. L’oggetto di questi giudizi è il
divenire all’interno della sfera dell’etica e della politica. Lo svolgersi della serie temporale considerato può essere il
medesimo, ma il giudizio di valore sulla sua “direzione di svolgimento” sarà opposto.
Questi tratti generalissimi inquadrano sia le concezioni antiche, sia quelle moderne della storia come decadenza,
ma soltanto sotto il profilo della struttura formale essenziale; ovviamente, fra concezioni antiche e moderne del divenire
come regresso sussistono differenze riconducibili alla differente struttura economico - sociale che caratterizza le culture
pre – moderne rispetto alle culture moderne, ma, soprattutto, le forme che precedono il modo di produzione capitalistico
rispetto alle forme capitalistiche di produzione. L’alterazione nella concezione della temporalità, la “costruzione” di una
temporalità interamente incentrata sul lavoro orientato alla produzione di plus – valore comportano, evidentemente,
anche l’alterazione dei parametri valutativi del senso stesso della sequenza temporale che chiamiamo storia. La
temporalità del plus – valore è, per così dire temporalità del progressus in infinitum. Non a caso le teorie del divenire
come “decadenza” configurano in modo quasi totalizzante la percezione greca della temporalità : alle origini del
divenire c’è l’autosufficienza e l’abbondanza dell’ “età dell’oro” rispetto alla quale qualsiasi presente non potrebbe
presentarsi che come decadenza.
La nozione del divenire come decadenza compare, per la prima volta, nella cultura occidentale, nel poema Le
opere e i giorni di Esiodo: la storia umana è considerata come una successione di cinque “età”, l’ ”età dell’oro” in cui
gli uomini vivevano “come Déi”, la quale degenera , progressivamente, attraverso l’ “età dell’argento”, l’ “età del
bronzo” e l’ “età degli eroi”, sino a culminare nell’ “età degli uomini” in cui l’umanità è tormentata da ogni sorta di
mali e di affanni1. Anche Platone, nel dialogo Crizia, interpreta il divenire storico come decadenza dall’ “età degli Déi”
all’ “età degli uomini” attraverso l’età degli eroi”2. Analogamente, nella Repubblica, egli interpreta il divenire politico
come corruzione progressiva della costituzione originaria (l’aristocrazia) attraverso le fasi della timocrazia,
dell’oligarchia, della democrazia e, infine, della tirannide, nelle quali prevalgono, rispettivamente il culto
dell’ambizione, il culto della ricchezza, i desideri delle masse e, infine i desideri e i capricci di uno solo3. Per Platone
ciò che è originario è migliore di ciò che consegue dallo svolgimento della temporalità; la decadenza dell’aristocrazia
1
Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni, vv.109 – 179.Cfr. E.A.Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Haven, 1957, pp.91 –
92.
2
Cfr. Platone, Crizia, 109b – ss.
3
Cfr. Platone, Repubblica, VIII, 546a 1 – 596c 9.
49
(la politéia ideale) è inevitabile: “tutto ciò che nasce si corrompe, nemmeno questa costituzione ( systasis) reggerà in
eterno, ma si dissolverà”4. La temporalità è, dunque, secondo Platone il luogo della decadenza5.
La categoria di “decadenza” può accompagnarsi a una concezione ciclica del divenire storico, ma non vi si
accompagna necessariamente: in Platone non c’è alcuna traccia di un movimento ciclico del processo di decadenza
delle costituzioni; e, certamente, non considerava ciclicamente la storia Arthur de Gobineau, pur sostenendo, come si
vedrà, una concezione della storia come decadenza. E’ probabile che decadenza e ciclicità del divenire si trovino uniti
per la prima volta nel pensiero stoico come ci è noto da un passo molto conosciuto di Nemesio di Emesa: “ Quando gli
astri nel loro movimento hannno fatto ritorno allo stesso segno e alle stesse latitudine e longitudine iniziali, avviene
un’esplosione e una distruzione, nel moto circolare dei tempi. Poi, ancora, si torna, dall’inizio al medesimo ordinamento
del mondo e gli astri si muovono come prima e ogni evento del ciclo precedente si ripete senza differenza alcuna. Ci
sarà, dunque, ancora Socrate, ancora Platone e ancora ogni uomo , con gli stessi amici e concittadini; le stesse credenze
e le stesse discussioni; ogni villaggio e ogni campagna , allo stesso modo, ritornerà. Questa ripetizione universale
avverrà non una, ma molte volte e all’infinito6 .” Non è improbabile che Polibio si basi sulla medesima concezione per
costruire la sua immagine del “ciclo delle costituzioni”, combinando il modello platonico della decadenza ineluttabile
delle costituzioni con il modello stoico della ciclicità del tempo7.
Mentre le concezioni regressive greco – antiche della storia non ebbero mai come contraltari teorie della storia
come progresso socialmente influenti8, com’è, d’altra parte, ovvio, dato che il mondo greco – antico fu un mondo a
sviluppo tecnologico tendente a zero9, è un dato di fatto che le teorie regressive della storia tra XIX e XX secolo
accompagnarono come ombre le teorie della storia come progresso le quali potevano ancorarsi – e si ancoravano – a
progressi tecnologici sempre più evidenti nel passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale; il Discours
sullo “spirito positivo” di Auguste Comte è del 1844, l’Essai sur l’inégalité des Races di De Gobineau risale al 1853
(primi due volumi) e al 1855 (ultimi due volumi); i First Principles di Herbert Spencer risalgono al 1862, mentre le
opere più radicalmente avverse all’idea di progresso pubblicate da Friedrich Nietzsche risalgono al 1882 – 1888; Il
tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler fu pubblicato in due parti (1918 e 1922), immediatamente a ridosso della
“Grande Guerra” e precedette la pubblicazione di Wissenschaftliche Weltauffassung (1928), cioè del manifesto per una
concezione scientifica del mondo dovuto ai neo – positivisti Rudolf Carnap, Hans Hahn e Otto Neurath10 che costituiva
una netta rivendicazione della scienza quale fattore decisivo del progresso sociale.
Non sarebbe eccessivamente riduttivo ricondurre il conflitto tra visioni regressive e visioni progressive della
storia a divergenze in merito ai giudizi sul presente; sia le matrici politiche e sociali dei giudizi negativi sul presente,
sia quelle dei giudizi positivi su di esso sono, per lo più, assai esplicite e sono concordemente rivolte a esecrare oppure a
esaltare la democratizzazione della vita politica in Europa. I negatori del progresso non disconoscono né l’aumento
della produttività economica conseguente all’impiego tecnico del sapere scientifico, né il miglioramento degli standards
4
Cfr. Platone, Repubblica, VIII, 546a 2 – 3.
E’ appena il caso di dire che non esiste, nel lessico platonico, un termine che equivalga al nostro “decadenza”: Platone parla del
“dissolversi” di una costituzione, parla della sua “corruzione” che noi possiamo tradurre con “decadenza” per rendere appieno il
passaggio da ciò che è “migliore” a ciò che è “peggiore”.
6
Cfr. Nemesio di Emesa, De natura hominis, 38.
7
La concezione della evoluzione ciclica delle costituzioni si trova in Polibio VI, II, 3 – 9( si veda la recente edizione di Polibio,
Storie con testo greco a fronte, III volume,a cura di D.Musti, tr. it. di Manuela Mari, note di J.Thornton, Milano, Rizzoli, 2002). La
contrapposizione fra concezione greca e concezione cristiano – moderna della storia è stata lumeggiata teoreticamente da Karl
Löwith, Meaning in History, The University of Chicago Press, 1949, tr. it. di Flora Tedeschi Negri, Significato e fine della storia con
una prefazione di Pietro Rossi, Milano, Il Saggiatore, 1998, pp. 21 – 40.
8
Le tracce di queste ultime sono state studiate da L. Edelstein, L’idea antica del progresso (1967), tr.it. di M. Fantuzzi. Bologna, Il
Mulino, 1989.
9
Cfr. S. Lilley, Men, Machines and History, London, Cobbet Press, 1948, tr. it di F. Genova Storia della tecnica, Torino, Einaudi,
1951, pp.54 – 57.Si vedano i saggi di P.– M. Schuhl, Perché l’antichità classica non ha conosciuto il macchinismo? in “De
Homine”, 2 – 3 (1962) e di V.Magalhães – Vilhena, Essor scientifique et obstacles sociaux à la fin de l’antiquité, Paris, 1966.
5
50
vitali, e, men che meno, l’accresciuto peso politico delle masse lavoratrici; giudicano tutto ciò come “decadenza”
rispetto a una normatività politica e sociale fondata su presupposti di filosofia della storia anti – moderni i quali li
inducono a leggere come regresso ciò che i loro avversari leggono come progresso. Da De Gobineau a Nietzsche a
Spengler si focalizza sempre più chiaramente il bersaglio polemico delle filosofie regressive della storia: la democrazia
e il socialismo non tanto come fenomeni ideologici, quanto come tendenze sociali (è nota l’indifferenza sostanziale di
Nietzsche e di Spengler per i dibattiti teorici che animavano lo sviluppo del pensiero democratico e di quello
socialista)11.
La struttura “formale” delle filosofie regressive della storia è omogenea: il presente è “decadenza” del passato
(un passato, per lo più, remoto); ma negli autori che saranno presi, qui, in considerazione, l’imputazione causale del
processo di “decadenza” è tutt’altro che omogenea: per De Gobineau il “fattore degenerativo” del mondo occidentale è
stato la mescolanza delle razze; per Nietzsche lo sviluppo e la diffusione del Cristianesimo, mentre per Spengler la
“decadenza” è un processo naturale in tutte le culture; per Evola, infine, essa è un processo spirituale dovuto alla
“regressione delle caste” in un senso non lontano da quello indicato da Platone.
Per quale ragione, tuttavia, limitarsi a questi quattro autori? Perché i primi due esercitarono un influsso
discutibile nei dettagli, ma certo nella sostanza, sulle ideologie del nazionalsocialismo e del fascismo e perché il terzo fu
il primo a tentare di sistematizzare la concezione regressiva della storia. Quanto a Evola , egli esercitò un influsso,
anche qui, discutibile nei dettagli, ma certo nella sostanza, sugli orientamenti di “radicalismo di destra” non soltanto in
Italia anche grazie alla struttura sistematica della propria riflessione sul tema della “decadenza”, fornendo una “chiave
di lettura” delle opere di De Gobineau, di Nietzsche e di Spengler (di cui tradusse, nel 1957 Il tramonto dell’Occidente)
che influenzò l’intera “destra radicale” europea dopo il 1945.
2. De Gobineau: mescolanza delle razze e “decadenza”.
Lo stretto legame ipotizzato da De Gobineau tra mescolanza delle razze e “decadenza” risulta difficilmente
comprensibile qualora non si tenga presente che, per lo scrittore francese, le razze umane differiscono non soltanto
fisionomicamente, ma, soprattutto, per strutture e dinamiche psicologiche le quali influiscono direttamente sulle forme
organizzative politiche. La forma corporea manifesta la “sostanza” psicologica: un nesso, questo, che non rinvia
soltanto alla Physiognomika di Gall, ben nota a Hegel, ma, addirittura, al Platone delle Leggi12 .
Non meno incomprensibile risulterebbe il problema della “decadenza” se non lo si potesse contestualizzare
all’interno dell’attenzione sollevata, in Europa, dalle riflessioni di Gibbon sulle cause della decadenza dell’impero
romano cui De Gobineau accenna (e che si trova ben più che sullo sfondo della riflessione politica nell’Europa moderna
a partire dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli e attraverso le Considérations sur les causes de
la grandeur des Romains et de leur décadence di Montesquieu )13.
De Gobineau ritiene che soltanto i popoli conquistatori possano essere portatori di civiltà – una generalizzazione
che egli avrebbe elaborato, probabilmente, sulla base dei Projets du rétablissement du Royaume de France del duca di
Saint – Simon (il quale rimproverava ai parlamentari, nel 1716, la loro origine “servile”14) e della Histoire de l’ancien
10
Neurath pubblicò una dettagliata analisi critica del Tramonto dell’Occidente intitolata Anti – Spengler, München, Callwey, 1921,
tr.it. di A.Bellomo, con il medesimo titolo, Bari, Palomar, a cura di F.Fistetti.
11
Cfr.G. Lukacs, Die Zerstörung der Vernunft, tr.it. di E.Arnaud, Torino, Einaudi, 1959, 1980, pp.313 – ss.
12
Che, non a caso, attirò l’attenzione degli ideologi nazionalsocialisti, cfr. a esempio H. F.K.Günther, Plato als Hüter des Lebens
(1928),tr.it.di A.Apantino, Platone custode della vita, Padova,Edizioni di Ar, 1977.
13
Cfr. A. Momigliano, La formazione della moderna storiografia sull’Impero Romano in Contributo alla storia degli studi classici
e del mondo antico , Roma, 1955, vol. I, pp.107 – 164.
14
Cfr. A.Devyer, Le sang epuré.Les prejugés de race chez les gemtilshommes français de l’Ancien Régime (1560 – 1720), Bruxelles,
1973, pp.280 – s.
51
gouvernement de la France avec XIV Lettres historiques sur les Parlements ou Etats Generaux (1727) di Henry de
Boulainvilliers: entrambi finivano per attribuire le cause della grandezza della Francia alla nobiltà di origine franca e ai
suoi istituti che l’Assolutismo avrebbe, poi, deformato. “I popoli dominatori, scrive De Gobineau, all’inizio sono
infinitamente meno numerosi dei vinti”15 e meno prolifici di essi; inoltre, il ruolo più diretto che hanno negli affari
politici li espone “ai funesti risultati delle battaglie, delle proscrizioni e delle rivolte16. L’esiguità numerica degli
appartenenti alla razza conquistatrice spiega la comparsa, nel tempo medio o lungo, dei “matrimoni misti”.
Perché la mescolanza delle stirpi avrebbe, dunque, una influenza nefasta sulla civiltà?
La risposta a questa domanda si trova, secondo l’Autore, nella tipologia fisio – psicologica delle razze fornita
dallo scrittore francese. Egli considera l’umanità divisa in tre ceppi razziali: bianchi, gialli e neri.
“La varietà nera è la più meschina e giace agli ultimi gradini della scala. Il carattere animalesco visibile nella
forma del bacino le impone il suo destino fin dal momento del concepimento17. Da questa tipologia conseguono,
secondo De Gobineau, facoltà razionali mediocri o nulle, desideri e volontà intensi, inclinazione alla costruttività
razionale del tutto assente.
La razza gialla, invece, dal cranio non allungato all’indietro alla maniera dei Neri, dalla fronte larga, spaziosa,
sarebbe caratterizzata da poco vigore fisico e dalla tendenza all’apatia, da intensità del desiderio ridotta e da una
inclinazione “pacata” all’edonismo. De Gobineau ne conclude che i Gialli non hanno immaginazione, inventano poco e
desiderano una vita dolce e comoda18 .
La razza bianca, infine, ha un’energia riflessiva, un’intelligenza energica, costanza, senso dell’utile nel suo
significato più elevato, istinto straordinario per l’ordine, capacità intellettuali in cui si assommano razionalità e
creatività.
Questi caratteri razziali non mutano storicamente se non grazie al meticciato, agli incroci; con gli incroci,
qualità psicologiche di un tipo si trovano in un corpo che non corrisponde a esse; oppure sorgono psicologie doppie,
instabili, derivanti dall’influsso altalenante ora di un tipo di sangue, ora di un altro; la capacità di agire della
componente razziale superiore viene fortemente limitata non meno della sua capacità di pensare o del suo modo di
sentire. E la civiltà che, secondo De Gobineau, deriva dall’omogeneità psicologica che è funzione dell’omogeneità
razziale, decade presentando sintomi di contraddittorietà e lacerazioni che la portano alla morte. D’altronde, dato che il
numero dei conquistatori è sempre inferiore a quello dei conquistati, l’ibridazione è inevitabile; inevitabile sarà, dunque,
anche il tramonto della civiltà – in particolare, di quella bianca.
Nato nel 1816, De Gobineau studiò in Svizzera e lì venne a contatto con i dati emersi dalle ricerche tedesche
sulle “origini indoeuropee” (o “ariane”): Friedrich Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Inder (Sul linguaggio e
sulla sapienza degli Indiani), la grammatica comparata di F. Bopp dedicata al confronto fra greco, antico persiano,
sanscrito, gotico, latino, la riscoperta, a opera dei fratelli Grimm di antichi poemi germanici come l’ Edda, Karl Ottfried
Müller, Die Dorier (I Dori) dedicato alle origini “nordiche” di Sparta. Attraverso queste letture egli si formò un’idea
dell’unità originaria dei popoli bianchi non come unità semplicemente linguistica, ma, soprattutto, antropologica, di cui
i Franchi, a esempio, sarebbero stati un tardo frammento; e razionalizzò, alla luce di questi suggerimenti, la superiorità
militare, colonialistica dei popoli bianchi sugli altri popoli, ben chiara al suo tempo, trasformandola in superiorità
“naturale”; al tempo stesso egli pensò di poter prevedere il declino della superiorità dei bianchi come dovuto agli
15
Le citazioni sono tratte dalla breve ma significativa antologia curata da A. Romualdi, Arthur De Gobineau, L’ineguaglianza delle
razze, Roma, Edizioni del Solstizio, 1972, che si basa su Arthur de Gobineau, L’ineguaglianza delle razze umane, tr.it. di F. Freda,
Padova, Edizioni di Ar, 1964 corrispondente ai primi due volumi dell’edizione originale. Una versione integrale dell’opera è stata
pubblicata dalle Edizioni Rizzoli, Milano, 1999.La presente citazione è tratta dalla p. 23 della silloge curata da Romualdi.
16
Cfr. A. De Gobineau, op.cit., p.23. Cfr. pp. 24 –25.
17
Cfr. A. De Gobineau, op.cit., p. 32.
18
Cfr. A.De Gobineau, op.cit., pp.33 –34.
52
inevitabili incroci e interpretò la diffusione delle idee democratiche come segno di “decadenza” e di “denordizzazione”
dei popoli europei.
I criteri che fanno istituire a De Gobineau una gerarchia fra le razze sono, sostanzialmente, criteri estetici di
matrice classicistica; l’ordine e la razionalità che egli ritiene di individuare come contrassegni del modo d’essere della
“razza bianca” (modo di essere spirituale non meno che fisico); una conferma indiretta si trova nell’opuscolo di Hans F.
K. Günther Humanitas in cui l’ordine e la simmetria della produzione spirituale viene commisurato alla “forma
razziale” dei Greci e dei Romani delle origini. L’alterazione di questo ordine viene percepita dapprima esteticamente e,
poi, “razionalizzata” come “degenerazione” rispetto a una tipologia ideale che viene assunta come criterio di giudizio
per l’intera storia della cultura occidentale19. Per De Gobineau l’alterazione è inevitabile, è un “destino” biologico.
3. “Vita ascendente”e “vita decadente”.
Nel suo primo saggio di ampio respiro Friedrich Nietzsche riferisce un mito ben noto nell’antichità greca: “ Il re
Mida inseguì a lungo nella selva il savio Sileno, il compagno di Dioniso, senza poterlo prendere. Quando finalmente gli
cadde nelle mani, gli domandò il re quale fosse per gli uomini la cosa migliore e la più eccellente di tutte. Il demone
taceva, rigido e immoto; finché, sforzato dal re, ruppe in un riso sibilante con queste parole: Stirpe misera e caduca,
figlia del caso e dell’ansia, perché mi costringi a dirti ciò che per te è il meno profittevole a udire? Ciò che è per te la
cosa migliore di tutte ti è affatto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa
impossibile, la cosa migliore per te, ecco, è morir subito”20.
Nietzsche commenta così: “Il greco sapeva e sentiva i terrori e gli orrori dell’esistenza: precisamente per trovare
la forza di vivere fu indotto a porre davanti a sé la luminosa creazione del sogno olimpico”21.
I Greci dell’età arcaica esaltavano la vita, pur avendone un’immagine pessimistica; essi la esaltavano non
soltanto nelle parole, ma, soprattutto, nei fatti con il culto della gloria militare e della potenza; un culto contemporaneo
rispetto alla fioritura di quel capolavoro del pessimismo che è il teatro tragico di Eschilo e di Sofocle. Essi ben si
guardavano dal considerare la sofferenza come qualche cosa di diverso dalla “legge” dell’esistenza reale. Fu, osserva
Nietzsche, un “pessimismo della forza”; mentre l’ottimismo progressistico moderno “è l’ottimismo della vecchiaia e
della decadenza”22. Nella Nascita della tragedia emerge il tentativo di indagare sulla decadenza della cultura greca in
conseguenza dello sviluppo dell’ideale della “scientificità”, dell’obiettività e della pura idealità contrapposte alla realtà
e alla corporeità. Nietzsche si fece banditore di un ritorno al “pessimismo della forza” immaginandolo dapprima come
lo spirito animatore della nuova Germania, da poco unificata dalle armi prussiane, poi vedendolo come la caratteristica
di pochi eletti dell’avvenire. Questo concetto fu, realmente, il selettore che permise a Nietzsche di giudicare la storia
della cultura occidentale, lungo tutto il corso della propria riflessione, come storia della “decadenza” e di identificare
“decadenza” e “Modernità”. Il processo di “decadenza” non è, per Nietzsche, com’è, invece, per De Gobineau,
irreversibile; e ben diverso è, per lui, il “fattore degenerativo” che lo ha innescato: la vicenda di un popolo, il popolo
“più fatale” per l’Occidente, cioè il popolo ebraico. A questo “fattore degenerativo” è dedicato L’Anticristo, opera nella
quale il fermento della Modernità è ricondotto alla “decadenza” del popolo ebraico e al suo prodotto: il Cristianesimo
che raccoglie in sé tutti i fattori che hanno cancellato dall’ethos occidentale il “pessimismo della forza”.
L’antitesi “pessimismo della forza /ottimismo della decadenza” che riassumeva le posizioni di Nietzsche nel
1872 si configura, nell’Anticristo, come antitesi tra “vita ascendente” e “ vita decadente” quale antitesi in grado di
19
Cfr. A. Baeumler, Ästhetik, R. Oldenbourg, München – Berlin 1934 , tr. it. di F. Coppellotti, Estetica, Padova, Edizioni di Ar,
1999, pp. 127 – ss. sulla nozione di “stile” che è estetica non meno che politica.
20
Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, tr.it. di E. Ruta, Bari, Laterza, 1925, p. 32.
21
Cfr. F. Nietzsche, op.cit., p. 32.
53
spiegare la ‘dinamica’ della cultura occidentale. Lo schema interpretativo si regge sulle premesse poste negli aforismi
2,3,423: il “bene” autentico viene identificato con l’accrescersi della volontà di potenza, il “male” con la debolezza e con
la sotterranea lotta dei deboli per corrompere i forti attraverso la “virtù” della compassione. La “decadenza” dell’Europa
è dovuta, secondo Nietzsche, all’ “allevamento” di un tipo umano compassionevole, sensibile verso i “deboli” e i
“malriusciti”, all’ “inversione dei valori” progressiva e netta rispetto ai valori della grecità arcaica e del Rinascimento
(modelli di virtus in senso proprio sono, per Nietzsche, Alessandro VI Borgia e il figlio Cesare). Responsabile di questa
“inversione dei valori” che ha propugnato la debolezza come “bene” è il Cristianesimo il quale è, dunque, il fattore
decisivo della “decadenza”24. Comprendere a fondo il Cristianesimo significa comprendere le cause dell’ “inversione
dei valori” avvenuta, inizialmente, all’interno dell’Ebraismo, al tempo della “cattività babilonese”: a quel tempo, il Dio
degli eserciti divenne il Dio” che punisce la colpa del suo popolo”; la schiavitù venne interpretata non come una
sconfitta militare, ma come la conseguenza di una colpa commessa per la quale si doveva chiedere misericordia a Dio.
Il Dio degli eserciti divenne, così il Dio dei deboli, degli sconfitti, il sostegno per gli “afflitti” e per i “reietti di questo
mondo” – come per Nietzsche è chiaro nel profetismo ebraico25. Il Dio cristiano non è che l’ “internazionalizzazione” di
questo Dio degli sconfitti; non più soltanto il Dio degli sconfitti ebrei, ma il Dio di tutti i deboli e gli sconfitti del
mondo. In hoc signo l’Agnello cristiano abbatté l’Aquila romana e indebolì, presentando la “forza” come “male” e l’
“innocenza” come “bene”, anche i “forti popoli germanici” insegnando loro a vergognarsi della forza, a sentire la forza
come colpa, come segno del Diavolo. Corollario della visione cristiana è la tesi dell’uguaglianza di tutti gli uomini di
fronte a Dio che, secondo Nietzsche, fu la premessa, logica e storica, della dottrina democratica e socialista
dell’uguaglianza in cui egli vede la forma politica della “decadenza”.
Anche i deboli, come ogni realtà vivente, hanno la loro volontà di potenza che non si manifesta, però, attraverso
l’uso delle armi, bensì attraverso lo “spirito”, attraverso l’attacco rivolto ai valori degli avversari per capovolgerli e
farne dei valori di “decadenza”. La storia umana appare a Nietzsche come l’eterno ripetersi della lotta fra “vita
ascendente” e “vita decadente”, in un andamento ciclico.
Della storia come eterno ritorno Nietzsche ha fornito alcuni spunti teorici senza giungere a una sistemazione
definitiva. Una prima formulazione di questa teoria si legge nella Gaia Scienza (1882): “Che accadrebbe se un demone,
un giorno o una notte strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse "Questa vita come tu ora la
vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di
nuovo (…) L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo rovesciata e tu con essa, granello della polvere!"”26.
Nietzsche è interessato, qui, all’impatto psicologico di una idea della ciclicità del tempo intesa come prova di forza per
lo spirito nel contesto dell’ amor fati, più che a una teoria della ciclicità del tempo come forma oggettiva del divenire.
Tuttavia, nei frammenti postumi 1888 – 1889, compaiono tracce sicure di una teoria del tempo ciclico27. Il principio
della conservazione dell’energia presuppone una circolazione ciclica dell’energia stessa, dunque una forma ciclica del
divenire: “Se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di energia e come un determinato numero di
centri di forza (…) ne segue che nel grande gioco di dadi della sua esistenza deve attraversare un numero calcolabile di
combinazioni. In un tempo infinito, ogni possibile combinazione deve realizzarsi almeno una volta; di più: deve
22
Cfr. F. Nietzsche, Saggio di un’autocritica, 1886, in op.cit., pp. 9 – 16.
Cfr. F. Nietzsche, Der Antichrist. Flucht auf das Christentum (1888), tr. it. di F. Masini, L’Anticristo. Maledizione del
Cristianesimo, Milano, Adelphi, 2001, pp. 4 – 6.
24
Cfr. F. Nietzsche, op. cit., p. 7.
25
E’ noto che lo stretto legame fra Dio e il popolo era stato sviluppato da Dostoevskij nei Demoni; ma il presupposto di fondo – che
Dio sia il “rispecchiamento” dell’uomo è affine a quello di L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo (1841) e di K. Marx Per la
critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844). Per la storia di Israele, Nietzsche si è basato su J.
Wellhausen, Prolegomena zur Geschichte Israels, Berlin, 1883.
26
Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1965, af. 341.
23
54
realizzarsi infinite volte. E poiché fra ogni “combinazione” e il suo successivo “ritorno” dovrebbero intercorrere tutte le
rimanenti combinazioni possibili in generale, e poiché ognuna di queste combinazioni condiziona l’intera successione di
combinazioni della medesima serie, sarebbe dimostrato un ciclo di serie assolutamente identiche: si dimostrerebbe che
il mondo è un ciclo che si è già ripetuto un’infinità di volte e gioca in infinitum il suo gioco”28. Se si collega questa
affermazione con quella con cui si conclude il frammento 1067,”Questo mondo è volontà di potenza – e nient’altro!”, è
possibile giungere alla conclusione che le forme ascendente e decadente della volontà di potenza si alternano nella
vicenda – che ripete sempre sé stessa – del mondo.
La “decadenza” non è ineluttabile: il ristabilimento della volontà di potenza dei “ben riusciti”, una “nuova
nobiltà” come quella della Grecia arcaica è, secondo Nietzsche, ancora possibile. A patto che la filosofia sia “scuola
militare dell’anima”…
Nietzsche utilizza la categoria di “decadenza” nella forma lessicale francese dècadence non a caso; egli la
deriva, infatti, dagli articoli dello scrittore francese Paul Bourget (1852 – 1935) pubblicati, fra il 1881 e il 1885 nella
“Nouvelle Révue”29. Bourget assimilava la società e lo stile letterario a un organismo inteso come unità complessa
funzionante, basata “ su un equilibrio gerarchico fra il tutto e le parti e che, quando viene meno in ragione del rendersi
autonome delle parti per una loro accresciuta energia e per la conseguente insubordinazione, ingenera disgregazione e
decadenza”30. Bourget non disconosce un certo valore estetico della “decadenza”; Nietzsche, invece, è molto lontano da
una simile posizione; la sua immagine della storia è, piuttosto, quella di un alternarsi di ascesa e decadenza; alla
decadenza è possibile opporsi, tuttavia. E se si pone mente a quale sia l’immagine della “contro – decadenza”
emergente dall’ Anticristo, è difficile non confermare l’interpretazione complessiva che, della filosofia di Nietzsche
diedero, su versanti opposti, Lukacs e Baeumler31.
4.
Il “destino” di ogni cultura.
E’, invece, ineluttabile la decadenza di ogni cultura per Oswald Spengler, autore, tra il 1918 e il 1922, come si è
detto, dell’ampio studio intitolato Il tramonto dell’Occidente: l’essenza stessa della cultura implica il suo tramonto, la
sua decadenza32.
Seguendo la lezione di Aristotele33, di Leibniz34 e di Goethe35 Spengler afferma che ogni forma naturale – anche
la cultura che, com’egli afferma in Anni della decisione (1933), “è una pianta” – si sviluppa sino a manifestare tutte le
27
Anche se Nietzsche è sempre attento al problema dell’impatto psicologico sullo “spirito libero” dell’idea dell’eterno ritorno: cfr.
La volontà di potenza.Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche tr. it. di A. Treves riveduta da P.
Kobau, a cura di M. Ferraris, Milano, Bompiani, 1995, frr. 1057, 1058, 1059, 1060, 1067.
28
Cfr. F. Nietzsche, op.cit., fr. 1066.
29
E parzialmente ripubblicati in volume con il titolo Essais de psychologie contemporaine, Paris, 1883, seguito dai Nouveaux essais
de psychologie contemporaine, Paris, 1885.
30
Cfr. F. Volpi, Nietzsche e la ‘dècadence’ in “Filosofia Politica”, IX, 1995, pp. 63 –82. La citazione si trova a p. 75.
31
Cfr.G. Lukacs, op. cit., pp. 308 – 402 ; A. Baeumler , Nietzsche. Der Philosoph und Politiker, Leipzig, 1930 (anche se Baeumler
tende a marginalizzare la teoria dell’eterno ritorno). Si veda il recente saggio di D. Losurdo, Nietzsche e la critica della modernità,
Roma, Manifestolibri, 1997.
32
Sugli approfondimenti, tentati da Spengler, di questa intuizione che lo aveva portato, nel Tramonto, a specificare le quattro fasi
della vita di una Kultur cfr. l’opera postuma Frühzeit der Weltgeschichte, München, Beck, 1966 (a cura di A. M. Koktanek con la
collaborazione di M. Schröter) e il saggio premesso da C. Sandrelli alla sua tr. it. in tre volumi (di cui il primo è stato pubblicato nel
1996, il secondo nel 1999) intitolato La bio – logica di Oswald Spengler; l’opera di Spengler è stata tradotta con il titolo Albori della
storia mondiale, Padova, Edizioni di Ar, 1996 – 1999 (voll. I – II). I più recenti contributi sul pensiero di Spengler si devono a D.
Conte, Catene di civiltà. Studi su Spengler, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994 e Introduzione a Spengler, Roma – Bari,
Laterza, 1997 (con vasta bibliografia).
33
Per il quale il movimento, il divenire, è il processo che conduce gradualmente all’ “atto” ciò che, precedentemente, era in potenza e
il compimento di questo processo è detto entelechìa, cfr. Metafisica, IX, 8, 1050a 23; in altri termini, l’essenza, la forma, si realizza
nel divenire, con il passaggio dal poter formare una data materia al formarla effettivamente.
34
Nella Monadologie (1714) la sostanza priva di parti e di estensione, la monade, tende, per sua natura, a svilupparsi verso la piena
coscienza e verso la coscienza di se; l’essenza ne determina il movimenti, il divenire.
55
sue potenzialità insite nella sua specie, nel suo tipo, nella sua ‘idea’, dopo di che essa invecchia e muore,
definitivamente. Lo stadio della vecchiaia di una cultura è denominato da Spengler “civilizzazione”. La decadenza è
insita nel destino di una cultura ed è, dunque, inevitabile. Ciascuna cultura compie la parabola che va dalla nascita,
all’apogeo, alla decadenza, impermeabile all’influsso di altre culture (perché dotata di una propria essenza immutabile
nella sua legge interiore di sviluppo).
Per sua stessa ammissione, Spengler riconduce la propria morfologia della culture (e della loro storia) a Goethe
e a Nietzsche; e se in Nietzsche compare il paragone “cultura – pianta”36, compare, come si è visto, anche l’antitesi
“vita ascendente / vita decadente” con il corrispettivo di una duplice volontà di potenza; in Goethe compare l’idea che le
forme si sviluppino sino a realizzare pienamente le potenzialità insiste nella loro specie o forma ideale, sicché ogni
realtà individuale viene a essere lo sviluppo di una idealità; dopo essersi pienamente sviluppata, essa invecchia e muore.
La metafora “cultura – pianta” è fondata sull’analogia “cultura – pianta”37: l’atto della traslazione è fondato
sull’isomorfismo di cultura e pianta. Infatti “la natura è la forma nella quale l’uomo di civiltà superiori dà unità e
significato alle impressioni immediate dei suoi sensi. La storia è la forma nella quale la sua immaginazione cerca di
comprendere le relazioni esistenti fra ciò che vi è di vivente nel mondo e la sua propria vita, onde conferire a questa
una più profonda realtà”38. L’immaginazione fonda il processo analogico in base al quale la cultura è assimilata a una
pianta il cui sviluppo è interpretato alla luce della metafisica aristotelica e leibniziana e della filosofia naturale di
Goethe ; “ci si ricordi di Goethe. Ciò che egli ha chiamato natura vivente è proprio ciò che qui viene designato come
storia mondiale nell’accezione più vasta, il mondo quale storia”39. Il medesimo principio vale per tutte le culture,
indifferentemente: “Come Goethe partì dalla foglia per seguire lo sviluppo delle forme della pianta, come egli indagò la
genesi del tipo dei vertebrati e il divenire degli strati geologici (il destino, e nonla causalità della natura), del pari qui
sarà studiata la lingua delle forme dell’umana storia, la sua struttura periodica, la sua logica organica partendo
dall’immenso complesso dei dati particolari tangibili”40.
La fase della decadenza, della vecchiaia della cultura è la civilizzazione: “La Zivilisation è l’inevitabile destino
di una Kultur (…) Anima greca e intelletto romano: tali sono i termini. E’ così che una Zivilisation si distingue da una
Kultur41. “Anima” equivale, secondo Spengler a modo di essere originario e spontaneo (“idee senza parole”, come
scriverà, più tardi, in Anni della decisione); “intelletto” equivale, invece a “parole senza idee”, al carattere artificiale,
costruito, del modo di essere nel mondo, paragonabile alla legnosità di un tronco vegetale ormai privo, quasi del tutto,
di linfa vitale.
La civilizzazione, caratterizzata dal prevalere dell’intelletto sulle “idee senza parole”, configura una modalità
assai specifica dell’essere – nel – mondo: “Invece di un mondo, una città, un unico punto, in cui si raccoglie l’intera vita
di vaste regioni, mentre il resto isterilisce; invece di un popolo formato, legato alla terra, un nuovo nomade, un
parassita, l’abitante delle grandi città, il puro uomo pratico, ripreso in una massa informe e fluttuante, l’uomo
irreligioso, intelligente, infecondo, profondamente avverso al contadinato e alla nobiltà terriera, che del contadinato è la
35
Cfr. J. W. Goethe, Aforismi sulla natura, a cura di M. Montinari, con uno scritto di G. Colli, Milano, SE, 1994, af. 407, p. 83: “La
funzione è l’essere pensato nella sua attività.”; af. 397 p. 82: “Nella fioritura la legge vegetale si manifesta nel modo più alto e la rosa
non sarebbe altro che il culmine di questo manifestarsi”. Il divenire è pensato come manifestazione orientata alla finalità del pieno
dispiegamento della forma implicita, dell’essenza.
36
Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1887), tr.it. di F. Masini, aforismi 258 e 262.
37
Cfr. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. it. di Julius Evola, edizione a cura di Rita Calabrese Conte, Margherita
Cottone, Furio Jesi, introduzione di S. Zecchi, Parma, Guanda, 1999, p. 14: “Il mezzo per conoscere le forme morte è la legge
matematica. Il mezzo per conoscere le forme viventi è l’analogia.”
38
Cfr. O. Spengler, op. cit., pp. 20 – 21.
39
Cfr. O. Spengler, op. cit., p. 47.
40
Cfr. O. Spengler, op. cit. p. 48.
41
Cfr. O. Spengler, op. cit. pp. 57 – 58.
56
forma più alta – ciò rappresenta un passo gigantesco verso l’anorganico, verso la fine”42. Ciò che è organico, gerarchico,
differenziato, sul piano dell’organizzazione politica, corrisponde al tessuto vivente della pianta; l’anorganico è, invece,
il tronco disseccato in cui tutte le cellule si assomigliano nella morte. Un corpo sociale irrigidito in questo modo mette
inevitabilmente capo, secondo Spengler, a una direzione politica rigida: quella “cesaristica”. Un aspetto saliente di
questo progressivo “irrigidimento sociale” è, secondo Spengler, la concentrazione monopolistica dei capitali la quale
richiede un’amministrazione centrale “meccanica”, rigida. Non si tratta di un insieme di fenomeni nuovi; anche
l’antichità greca ha conosciuto la sua civilizzazione: Atene corrisponde alle metropoli odierne dal punto di vista della
morfologia spirituale; a esempio, alla retorica dei Sofisti corrisponde l’odierno giornalismo “al servizio di quella cosa
astratta che rappresenta la potenza della civilizzazione, il denaro”43. La fase della civilizzazione rientra nello sviluppo
“normale” della Kultur, così come la vecchiaia e la morte di una pianta rientrano nella logica della vita stessa di quella
pianta. Il percorso verso la Zivilisation deve essere compiuto dalla Kultur per il semplice fatto di esistere. Non a caso,
Spengler suggella il suo capolavoro con una massima di origine stoica: “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt (il
destino guida colui che vuole seguirlo, ma trascina colui che non vuole seguirlo)”.
5. La “decadenza” come “regressione delle caste”.
Julius Evola (1898 – 1974) ha elaborato, a partire dal 1934, una metafisica della storia come decadenza
strettamente collegata al progetto di una “restaurazione dell’Idea di Stato”. Nel delineare la propria concezione
regressiva della storia, Evola si è confrontato criticamente sia con De Gobineau, sia con Nietzsche, sia con Spengler, ma
non direttamente nella sua maggiore opera di filosofia della storia, Rivolta contro il mondo moderno (1934, 1951), bensì
in brevi interventi, in articoli; tuttavia, non si può prescindere dal quadro complessivo costituito dall’opera maggiore,
perché esso rappresenta, sul piano della concezione regressiva della storia un cambiamento di paradigma44.
In Rivolta contro il mondo moderno Evola distingue due tipi di civiltà, le civiltà tradizionali, in cui valori
sacrali, spirituali e sovra - individuali costituiscono il punto di riferimento per l’ “ordinazione” e l’articolazione della
gerarchia e per la formazione e la giustificazione di ogni realtà subordinata e le civiltà moderne, in cui l’assetto di
dipendenza è l’esito di una costruzione contrattuale, individualistica e segnata dal prevalere di interessi laici e
temporali. Le seconde sono la “degenerazione” delle prime45.
Nel saggio Il problema della decadenza46 Evola critica come “scarsamente persuasiva” l’imputazione causale
dello scrittore francese. In molti casi in cui la civiltà tramonta, non si può indicare negli incroci la causa di questo
declino (a esempio l’impero del Perù, abbattuto da un pugno di avventurieri). Parimenti insoddisfacente è, secondo
Evola, la diagnosi nietzscheana: essa non spiega la forza e l’intensità con la quale il Cristianesimo si è diffuso nel
mondo tardo – antico e nell’età medioevale e moderna; né migliore efficacia esplicativa possiede l’analogia
42
Cfr. O. Spengler, op.cit., p. 59. Analoga la descrizione della metropoli delineata da G. Simmel, Die Großstädte und das
Geistesleben (1903), tr. it. La metropoli e la vita dello spirito (1903), a cura di P. Jedlowski e Renate Siebert, Roma, Armando, 1995,
ma orientata non già a giudicare, bensì a cogliere gli aspetti della dinamica di cui, letteralmente, è fatta la vita metropolitana.
43
Cfr. O. Spengler, op. cit., p. 62.
44
Il termine “paradigma” è usato, qui, nel senso stabilito da Th. S. Kuhn a proposito del pensiero scientifico, The Structure of
Scientific Revolution, The University of Chicago, 1962, 1970, tr. it. di A. Carugo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino,
Einaudi, 1999, p. 213: “Un paradigma è ciò che viene condiviso dai membri di una comunità scientifica, e, inversamente, una
comunità scientifica consiste di coloro che condividono un paradigma”. Una comunità politica sarà, parimenti, individuata dalla
condivisione di un paradigma il cui carattere vincolante è chiaro nella capacità che gli è propria di selezionare i dati dell’esperienza
di cui si deve giudicare, in conformità a un certo numero di assunti. Il rapporto fra Evola e la “destra radicale” appartiene a questa
tipologia: quello che di De Gobineau, di Nietzsche e di Spengler è filtrato tra gli intellettuali della “destra radicale” è effettivamente
conforme al “paradigma evoliano”.
45
Cfr. R. Esposito – C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico, Roma – Bari, Laterza, 1999, p. 227 s.v. Evola che riassume le tesi
fondamentali di questo volume evoliano.
46
Cfr. J. Evola – R. Guénon, Gerarchia e democrazia, Padova, Edizioni di Ar, 1977, pp. 9 – 24.
57
spengleriana fra Kultur e pianta. Queste spiegazioni hanno in comune lo “scambiare gli effetti con le cause”47: il
meticciato, la diffusione del Cristianesimo, la civilizzazione sono epifenomeni di una crisi ben più profonda, la crisi
della gerarchia. “L’essenza della gerarchia sta nel fatto che in alcuni esseri superiori vive, in forma di presenza e di
realtà attuata, ciò che negli altri esiste solo come aspirazione confusa, come presentimento, come tendenza, per cui
questi sono fatalmente attratti dai primi, naturalmente a essi subordinandosi, in ciò subordinandosi meno a qualcosa di
esteriore, quanto a un loro più vero ‘io’”.48 Una simile gerarchia può decadere solo “quando il singolo decada , quando
egli usi della sua fondamentale libertà per dir no allo spirito, per privare la sua vita di ogni superiore punto di
riferimento e costituirsi a sé come un moncone. (…) Il rivoluzionario ha cominciato con l’uccidere in sé la gerarchia,
mutilandosi di quelle possibilità, alle quali corrispondeva il fondamento interiore dell’ordine, che egli poi va ad
abbattere anche esteriormente.”49 La “decadenza” inizia, dunque, in interiore homine, e si proietta nei rapporti politici e
sociali perché vi è un vincolo organico tra individuo e comunità, come riteneva anche Platone. E’ una “decisione
metafisica”, “si tratta del terribile potere, insito nell’uomo, di usare la libertà nel senso di una distruzione spirituale,
per respingere tutto ciò che può assicurargli una dignità supernaturale”50. La cifra della “decadenza è, dunque,
metafisica e la storia stessa non è altro che lo scontro tra le forze della “Tradizione”, dell’ordine differenziato, e le forze
dell’”Anti – Tradizione”, del caos e dell’indifferenziato. Il tema della “decisione metafisica” è schellinghiano e
platonico (il mito di Er) e come imputazione causale sposta il problema dal terreno dell’immanenza, ove lo
mantenevano De Gobineau, Nietzsche e Spengler , al terreno della trascendenza, ricorrendo, non a caso, al mito in senso
platonico, a ciò che, per definizione, sta al di là di ogni possibile argomentazione razionale. Del resto, Evola stesso,
nella premessa a Rivolta contro il mondo moderno, ha affermato che non la storia è in grado di chiarire il mito, ma
soltanto il mito è in grado di chiarire la storia. Come in Platone, il fondamento del logos è il mythos. L’ “anti –
modernità” chiama, come propria testimone, la “pre – modernità”, attribuendole un valore paradigmatico, a–temporale.
Sotto questo profilo, per Evola, fascismo e nazionalsocialismo vanno valutati non nella loro realtà storica, bensì nella
misura in cui si sono accostati o discostati dal mondo della Tradizione51.
6.
Osservazioni conclusive.
Il cuore delle filosofie “regressive” della storia è la concezione della civiltà come “organismo”, vale a dire una
metafora e un’analogia: la civiltà come identità etnica (De Gobineau), come identità fisio - psicologica (Nietzsche),
come identità morfologica (Spengler). Identità come pluralità di enti gerarchicamente ordinati, come parti di una
“totalità”, non già pluralità di individui, ma realizzazioni individuali della razza (De Gobineau), della vita ascendente o
decadente (Nietzsche), oppure della Kultur e della Zivilisation (Spengler). Con Evola viene ripristinato il nesso fra
uomo e Stato nel senso del detto platonico secondo il quale “la polis è un uomo in grande”, nesso tipicamente
organicistico52. Ora, il pensiero della decadenza, della degenerazione, presuppone un organismo, un corpo organico che
“esca dal genere”, che decada rispetto alla sua tipologia “normale” (una tipologia che incarna un ‘valore’
47
Cfr. J. Evola – R. Guénon, op.cit., p. 12. Il confronto con Nietzsche si trova nell’articolo Il miglior Nietzsche, “Il Meridiano
d’Italia”, 3 maggio 1953; il confronto con Spengler si trova in due articoli, Il caso “Spengler”, “Il Meridiano d’Italia”, 25 ottobre
1953, e Civiltà contro “civilizzazione”, “Il Meridiano d’Italia”, 29 novembre 1953.
48
Cfr. J. Evola – R. Guénon, op.cit., p. 20.
49
Cfr. J. Evola – R. Guénon, op.cit., pp. 21 – 22.
50
Cfr. J. Evola – R. Guénon, op.cit., p. 23.
51
Cfr. J.Evola, Il Fascismo.Saggio di una analisi critica dal punto di vista della Destra. Con note sul “Terzo Reich”, Roma, Volpe,
1970.
52
E’ vero che di “organicismo” si può parlare soltanto a partire dagli Elemente der Staatskunst di A. Müller (1808) e di rapporti
organicistici in generale non prima della Kritik der Urteilskraft di Kant (1790). Ma per chi pensa – e non può che pensare – da un
punto di vista individualistico, “moderno”, difficilmente il modello platonico della Repubblica e delle Leggi, oppure il modello della
58
paradigmatico). Il che non equivale a dire che l’organicismo è il contrassegno fondamentale delle sole filosofie
“regressive” della storia. Certo, non tutti gli organicisti hanno adottato filosofie della storia di tipo “regressivo” (e
basterebbe pensare a Hegel o a Marx); ma i teorici della storia come “decadenza” sono, di norma, organicismi.
Politica aristotelico potrà non apparire, almeno, molto affine al modello organicistico, soprattutto se ci si pone il problema di quali
siano i termini nei quali il pensiero politico antico ha influenzato certe correnti, anti – moderne, del pensiero politico moderno.
59
Working Papers
The full text of the working papers is downloadable at http://polis.unipmn.it/
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Al.Ex Series
ε
**Political Theory Series
2002
n. 31**
Silvano Belligni, Francesco Ingravalle, Guido Ortona
Pasquale Pasquino, Michel Senellart,Trasformazioni della politicaContributi al seminario di
Teoria politica
2002
n. 30*
Franco Amisano, La corruzione amministrativa in una burocrazia di tipo concorrenziale:
modelli di analisi economica.
2002
n. 29*
Marcello Montefiori, Libertà di scelta e contratti prospettici:
l’asimmetria informativa nel mercato delle cure sanitarie ospedaliere
2002
n. 28*
Daniele Bondonio, Evaluating the Employment Impact of Business Incentive Programs in EU
Disadvantaged Areas.
A case from Northern Italy
2002
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Corrado Malandrino, Oltre il compromesso del Lussemburgo
verso l’Europa federale.Walter Hallstein e la crisi della
“sedia vuota”(1965-66)
Guido Franzinetti, Le Elezioni Galiziane al Reichsrat di Vienna, 1907-1911
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Marie-Edith Bissey and Guido Ortona, A simulative frame to study the integration of defectors in
a cooperative setting
2001
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Ferruccio Ponzano, Efficiency wages and endogenous supervision technology
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Alberto Cassone and Carla Marchese, Should the death tax die? And should it leave an
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Claudia Canegallo, Una valutazione delle carriere dei giovani lavoratori atipici: la fedeltà
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Stefania Ottone, L'altruismo: atteggiamento irrazionale, strategia vincente o amore per il
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Stefania Ravazzi, La lettura contemporanea del cosiddetto dibattito fra Hobbes e Hume
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Marilena Locatelli-Biey and Roberto Zanola, The Market for Sculptures: An Adjacent Year
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Gabriella Silvestrini, Il concetto di «governo della legge» nella tradizione repubblicana.
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Mario Ferrero, A model of the political enterprise
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Guido Ortona, A weighted-voting electoral system that performs quite well.
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Mario Poma, Benefici economici e ambientali dei diritti di inquinamento: il caso della riduzione
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Guido Ortona, Una politica di emergenza contro la disoccupazione semplice, efficace equasi
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Fabio Privileggi, Carla Marchese and Alberto Cassone, Risk Attitudes and the Shift of Liability
from the Principal to the Agent
61
Department of Public Policy and Public Choice “Polis”
The Department develops and encourages research in fields such as:
• theory of individual and collective choice;
• economic approaches to political systems;
• theory of public policy;
• public policy analysis (with reference to environment, health care, work, family, culture, etc.);
• experiments in economics and the social sciences;
• quantitative methods applied to economics and the social sciences;
• game theory;
• studies on social attitudes and preferences;
• political philosophy and political theory;
• history of political thought.
The Department has regular members and off-site collaborators from other private or public organizations.
62
Instructions to Authors
Please ensure that the final version of your manuscript conforms to the requirements listed below:
The manuscript should be typewritten single-faced and double-spaced with wide margins.
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Classify your article according to the Journal of Economic Literature classification system.
Keep footnotes to a minimum and number them consecutively throughout the manuscript with superscript Arabic
numerals. Acknowledgements and information on grants received can be given in a first footnote (indicated by an
asterisk, not included in the consecutive numbering).
Ensure that references to publications appearing in the text are given as follows:
COASE (1992a; 1992b, ch. 4) has also criticized this bias....
and
“...the market has an even more shadowy role than the firm” (COASE 1988, 7).
List the complete references alphabetically as follows:
63
Periodicals:
KLEIN, B. (1980), “Transaction Cost Determinants of ‘Unfair’ Contractual Arrangements,” American Economic
Review, 70(2), 356-362.
KLEIN, B., R. G. CRAWFORD and A. A. ALCHIAN (1978), “Vertical Integration, Appropriable Rents, and the
Competitive Contracting Process,” Journal of Law and Economics, 21(2), 297-326.
Monographs:
NELSON, R. R. and S. G. WINTER (1982), An Evolutionary Theory of Economic Change, 2nd ed., Harvard University
Press: Cambridge, MA.
Contributions to collective works:
STIGLITZ, J. E. (1989), “Imperfect Information in the Product Market,” pp. 769-847, in R. SCHMALENSEE and R.
D. WILLIG (eds.), Handbook of Industrial Organization, Vol. I, North Holland: Amsterdam-London-New YorkTokyo.
Working papers:
WILLIAMSON, O. E. (1993), “Redistribution and Efficiency: The Remediableness Standard,” Working paper, Center
for the Study of Law and Society, University of California, Berkeley.
64