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Scienza La forza delle abitudini Teal Burrell, New Scientist, Regno Unito Foto di Wendy van Santen e Hans Bolleurs I comportamenti automatici governano le nostre vite. Ci permettono di lavarci i denti pensando ad altro, ma rendono diicile smettere di mangiarci le unghie. Cosa succede nel cervello quando un’azione cosciente diventa un’abitudine? G uardo le mie dita sulla tastiera con un pizzico di vergogna e di delusione. A questo punto mi aspettavo che fossero diverse. Quando ho cominciato a scrivere questo articolo sulle abitudini, mi ero impegnata ad abbandonarne una delle mie: mangiarmi le unghie. Ma le unghie mordicchiate mi ricordano quello che tutti sanno: le abitudini sono dure a morire, e il motivo è un mistero. Tuttavia, la possibilità di controllarle ha sempre avuto un tale fascino da originare una lunga serie di teorie. È opinione comune, per esempio, che per formare una nuova abitudine o liberarsi di una vecchia ci vogliano ventuno giorni. Purtroppo, nessuna di queste teorie è stata dimostrata davvero. Ma le cose stanno cambiando. Con i progressi delle neuroscienze ora è possibile osservare il funzionamento del nostro cervello. Questo signiica che per la prima volta stiamo costruendo un quadro preciso di quello che succede nei circuiti cerebrali quando si forma una nuova abitudine. Abbiamo perino trovato il modo di accenderle e spegnerle premendo un interruttore. Il primo problema che s’incontra quando si cerca di scoprire come funzionano le abitudini è capire cosa siano esattamente. Nel linguaggio corrente possiamo deinire abitudine qualsiasi cosa: dal lavarsi i denti alle cattive maniere a tavola e al fumare. La scienza ne dà una deinizione piuttosto am- 58 Internazionale 1159 | 24 giugno 2016 pia, chiamando abitudine qualsiasi azione – spesso inconscia – che si ripete in situazioni e contesti speciici. Una volta che si è formata, possiamo vedere l’abitudine come un programma automatico che rende più eiciente il nostro comportamento. Questo processo svolge un ruolo fondamentale nel sempliicare la nostra vita quotidiana: immaginate quanto sarebbe estenuante per una persona se ogni giorno, mentre si lava i denti o mentre va al lavoro, dovesse concentrarsi su quello che sta facendo. “È stupefacente quanta parte della nostra vita sia fatta di comportamenti abituali”, dice Ann Graybiel, una neuroscienziata del Massachusetts institute of technology (Mit). Secondo Wendy Wood, ricercatrice della University of Southern California, che ha studiato i comportamenti degli studenti per vedere quanti rientrassero in questo tipo di automatismi, circa il 40 per cento dei nostri comportamenti quotidiani è dettato dall’abitudine. Wood, infatti, ha Voler smettere non basta, perché sono comportamenti inconsci profondamente radicati nel nostro cervello scoperto che quando gli studenti erano impegnati in attività consuete – come guidare, fare ginnastica o lavarsi i denti – spesso pensavano a qualcos’altro, lasciavano vagare la mente. Dal punto di vista pratico tutto questo è perfettamente sensato ma fa anche pensare che, quando un’azione cosciente diventa un’abitudine, nel cervello cambi qualcosa. Questo è uno dei processi che Graybiel sta studiando nel suo laboratorio. Buona parte del suo lavoro consiste nel monitorare l’attività cerebrale di roditori e primati mentre imparano a svolgere una nuova attività e la ripetono ino a quando non diventa abituale. Una delle prime cose che Graybiel ha scoperto riguarda una zona del cervello che si chiama corpo striato ed è coinvolta nel movimento, nei cambiamenti di umore e nel meccanismo della ricompensa. Quando un ratto impara a uscire da un labirinto e comincia a seguire sempre lo stesso percorso, in quella parte del cervello le onde cerebrali rallentano. Graybiel sospetta che questo rallentamento indichi la formazione di un’abitudine, probabilmente perché ormai l’attività cerebrale di quella zona è diventata più eiciente e coordinata. Da un altro studio è emerso che, quando venivano ricompensate per aver guardato una serie di puntini, le scimmie imparavano subito la strategia migliore per osservarli tutti nel minor tempo possibile e quindi ottenere prima il loro premio (un succo di frutta). Anche in questo caso, l’at- Internazionale 1159 | 24 giugno 2016 59 Scienza tività delle cellule del corpo striato diventava più coordinata nel momento in cui si formava l’abitudine. Questi studi hanno dimostrato che le cellule dello striato si attivano all’inizio e alla ine di un comportamento, come se segnalassero l’accensione e lo spegnimento del pilota automatico. Graybiel lo ha osservato più volte nei suoi esperimenti sui ratti e sulle scimmie. “Quando si forma un’abitudine, buona parte dell’attività neuronale si sposta all’inizio e alla ine dell’azione, come a volerla impacchettare segnando l’avvio e la conclusione”, dice. È come se il cervello mettesse un’azione abituale tra parentesi. Graybiel chiama questo fenomeno chunking, in omaggio alla teoria dello psicologo George Miller secondo la quale è più facile ricordare una lista se la si suddivide in blocchi (chunk). Se venite interrotti mentre state ripetendo un numero di telefono, dice Graybiel, probabilmente dovrete ricominciare da capo perché ricordate quel numero solo come blocco unico. L’interruttore dei neuroni Questa segmentazione ci permette di non sprecare preziosa attività cerebrale per svolgere le azioni più semplici, ma ha anche un lato negativo: rende estremamente diicile abbandonare le cattive abitudini. Il problema nasce dal fatto che diamo per scontato che ogni nostra azione abbia uno scopo di cui siamo consapevoli, mentre in realtà non siamo afatto coscienti delle nostre abitudini, dice David Neal, il fondatore di Catalyst behavioral sciences, una società di consulenza specializzata nella comprensione dei meccanismi decisionali e delle abitudini dei consumatori. Per esempio, io sono convinta di mangiarmi le unghie per allentare la tensione, e penso che se voglio posso smettere in qualsiasi momento. Ma in realtà mi mangio le unghie senza rendermene conto. Voler smettere non è suiciente, perché le abitudini sono impulsi inconsci profondamente radicati nel cervello. Capire meglio come funzionano potrebbe aiutarci. Il corpo striato contribuisce a impacchettare i comportamenti abituali, ma Graybiel sospetta che in questa attività sia coinvolta anche una piccola zona del cervello chiamata corteccia prefrontale infralimbica. Alcuni studi precedenti hanno dimostrato che quando questa zona viene rimossa, gli animali perdono le loro abitudini o agiscono in modo più consapevole. Dato che i neuroni della corteccia infralimbica cambiano il loro schema di attivazione quando si forma o si perde un’abitudi- 60 Internazionale 1159 | 24 giugno 2016 ne, Graybiel ha deciso di studiare quella regione usando l’optogenetica, una tecnica molto precisa che consente di attivare e disattivare i neuroni attraverso impulsi luminosi. Quando ha provato a disattivare la regione, i ratti hanno smesso di seguire il loro percorso abituale. Poi, con il passare del tempo, hanno preso la nuova abitudine di correre nella direzione opposta, fino a quando la scienziata non li ha disturbati di nuovo con un altro lampo di luce, e a quel punto sono tornati al vecchio comportamento. Questo solleva l’afascinante ipotesi che si possano eliminare le cattive abitudini lavorando su quella regione. Ma l’optogenetica non è stata ancora sperimentata sul cervello umano. La stimolazione magnetica transcranica –che consiste in piccole scariche elettriche sulla testa – è un’alternativa, e qualcuno la sta già usando per curare le dipendenze. La stimolazione cerebrale pro- fonda – nella quale un elettrodo viene impiantato in una certa regione del cervello per attivarla – è un’altra possibilità. Attualmente è usata per la depressione e il morbo di Parkinson, gli studi sul disturbo ossessivo-compulsivo, che è associato a comportamenti ripetitivi, hanno invece dato risultati ambigui. Per il momento, comunque, niente di tutto questo mi aiuta a smettere di mangiarmi le unghie, né a chiarire un altro aspetto che m’incuriosisce particolarmente. Mi piacerebbe sapere se il cervello distingue tra le abitudini che vorremmo conservare e quelle che vorremmo abbandonare. E così ho deciso di tenere un diario delle cose positive della mia vita, quello che gli psicologi chiamano un diario della gratitudine. Un altro esperimento di Graybiel, basato sull’acquisizione delle cattive abitudini, ha fornito ulteriori informazioni su come il cervello tratta le buone e le cattive abitudi- Anche gli studi sulla forza di volontà partono dal presupposto che il cervello non discrimina tra buone e cattive abitudini sistema. Ma, aggiunge Neal, questo include “sia le buone abitudini sia quelle cattive. Il potenziamento è su tutti e due i fronti”. “Prevalgono le abitudini più forti”, dice Wood, che di recente ha condotto uno studio in cui i soggetti che avevano imparato a nutrirsi in modo sano mangiavano meno cioccolato anche quando la loro forza di volontà veniva a mancare, mentre quelli che ne erano dipendenti nella stessa situazione ne mangiavano di più. Raggiungere un obiettivo ni. I ratti percorrevano un labirinto semplice per arrivare a un pezzetto di cioccolato al latte, ino a quando non lo avevano imparato a memoria. Se si aggiungeva al premio una sostanza chimica che li faceva stare male, anche se non avevano più voglia di cioccolato seguivano comunque lo stesso percorso. Non potevano farne a meno, era diventata un’abitudine. Anche gli studi sulla forza di volontà partono dal presupposto che il cervello non discrimini tra buone e cattive abitudini. A quanto sembra abbiamo una quantità limitata di forza di volontà e più la usiamo durante la giornata – per resistere alla tentazione di mangiare un dolce o per andare in palestra anche se non ne abbiamo voglia – più si consuma. Questo signiica che a un certo punto cederemo. Per fortuna, di notte la nostra forza di volontà si ricarica e ogni giorno ne abbiamo una nuova riserva, dice lo psicoterapeuta Richard O’Connor, autore del libro Rewire. Change your brain to break bad habits (penguin 2014). Ma quando ci viene a mancare – per esempio, perché siamo stanchi o stressati – torniamo alle nostre abitudini, buone o cattive che siano. Quando si avvicina una scadenza, le mie unghie diventano sempre più corte. E si capisce anche perché nel periodo degli esami aumentino le abitudini malsane come mangiare cibo spazzatura. Ma aumentano anche quelle buone, come leggere e fare ginnastica. Questo succede perché nel cervello ci sono due sistemi in competizione tra di loro, dice Neal, che ha studiato il comportamento degli studenti durante gli esami: uno punta a raggiungere obiettivi e uno mira a formare abitudini. “Il sistema che punta agli obiettivi è costoso da gestire, richiede un grande sforzo e molte risorse mentali”. Quando è sovraccarico, come durante un periodo di esami, entra in gioco il secondo Cosa rende un’abitudine più forte di un’altra? Quasi tutte cominciano come comportamenti volti a raggiungere un obiettivo: vogliamo una stanza ordinata, perciò rifacciamo il letto tutte le mattine; io volevo essere più grata delle cose che avevo, perciò ho cominciato a tenere un diario. Ma se le ripetiamo spesso, queste azioni diventano automatiche, non ne siamo più coscienti. E questo cambiamento può essere osservato anche nel cervello. Christina Gremel, dell’università della California a San Diego, ha insegnato ai topi del suo laboratorio a premere una leva per avere una bevanda dolce in modo mirato (solo quando avevano sete) o abitudinario (ogni volta che entravano in una particolare stanza). Poi ha usato l’optogenetica e la chimica per interrompere l’attività di certe aree del loro cervello. Quando disattivava la corteccia orbitofrontale, gli animali cominciavano a comportarsi in modo più abitudinario, premendo la leva anche quando erano sazi. Mentre quando riattivava l’area, il loro comportamento tornava a essere mirato. Gremel ha individuato nei topi due diverse parti del cervello responsabili dei due sistemi: i comportamenti che mirano a un obiettivo dipendono dalla corteccia orbitofrontale e dalla zona mediale dello striato (analoga alla regione che nel cervello umano si chiama nucleo caudato), mentre le abitudini dipendono da una zona laterale dello striato (che negli esseri umani corrisponde al putamen). Internazionale 1159 | 24 giugno 2016 61 Scienza Gli esperimenti sulle persone hanno dato gli stessi risultati. Sanne de Wit, dell’università di Amsterdam, ha studiato la frequenza con cui gli esseri umani commettono “lapsus d’azione”, cioè ricadono in un’abitudine nonostante abbiano un’intenzione diversa, come quando salgono in macchina e si dirigono verso l’uicio mentre volevano andare al supermercato. Nel corso dello studio i soggetti hanno imparato a usare un gioco al computer che comportava una ricompensa in denaro. Poi, a un certo punto, i ricercatori hanno cambiato le regole, riscontrando che le persone più inclini a commettere lapsus d’azione continuavano a premere gli stessi tasti, anche se così perdevano denaro. Dalla scansione cerebrale è emerso che in quei volontari le connessioni tra putamen e corteccia erano più forti rispetto a quelle dei soggetti che riuscivano a restare concentrati sull’obiettivo (adattandosi alle nuove regole e continuando a guadagnare soldi). In queste persone erano più forti le connessioni tra caudato e corteccia. Quindi il modo in cui le abitudini si radicano nel nostro cervello varia da individuo a individuo. Qualcuno sostiene che il sistema per prendere o abbandonare un’abitudine consista proprio nel capire queste differenze. “Pensate a tutti i consigli che ci danno: ‘fai quella cosa la mattina appena alzato’, ‘concediti uno sgarro’. Per qualcuno funzionano, ma non per tutti”, dice Gretchen Rubin, l’autrice di Cambiare è facile (Sonzogno 2016). O’Connor è d’accordo con lei. Nel suo libro individua alcuni fattori che possono portare a cattive abitudini: per esempio, l’eccessiva tendenza a correre rischi o il perfezionismo. Come Rubin, anche O’Connor sostiene che il primo passo per prendere buone abitudini è imparare a conoscere noi stessi, la nostra personalità, quello che scatena in noi una risposta automatica. Sappiamo anche che i comportamenti abituali sono provocati da certi contesti. Potrebbero essere quelli a innescare i segnali che dicono allo striato di “aprire una parentesi” e mettere il pilota automatico. In certi ambienti siamo portati a fare certe cose. Neal e Wood hanno studiato il fenomeno chiedendo a un gruppo di persone di guardare una serie di ilmati al cinema o in una sala conferenze. In entrambi i casi, ai partecipanti era stato dato un sacchetto di popcorn freschi o vecchi di una settimana. Le persone abituate a mangiare popcorn al cinema in quell’ambiente mangiavano più popcorn stantii, pur ammettendo che non erano molto buoni. Nella sala conferenze, 62 Internazionale 1159 | 24 giugno 2016 Alcuni fattori possono portare a cattivi comportamenti: per esempio, l’eccessiva tendenza a correre rischi o il perfezionismo invece, ne mangiavano di meno. Il contesto era fondamentale. Capito questo, il passo successivo è fare un piano preciso. Io volevo scrivere sul mio diario tutte le sere, quindi l’ho messo vicino al letto. E prima di spegnere la luce scrivevo. “Le persone che formulano piani semplici ma concreti di solito ottengono risultati migliori”, dice de Wit. Aver stabilito regole precise rende più facile fare le scelte giuste, anche quando la forza di volontà viene meno. Il momento migliore Il legame tra abitudini e ambiente è anche il motivo per cui il momento migliore per prendere o abbandonare un’abitudine è mentre si è in viaggio, si comincia un nuovo lavoro o si cambia casa. Wood ha studiato le abitudini degli studenti prima e dopo il trasferimento in una nuova università e ha scoperto che, in meglio o in peggio, cambiavano cose come le ore passate davanti alla tv o in palestra. Il nuovo contesto consentiva la formazione di nuove abitudini. Anche un piccolo cambiamento di routine può aiutare, come mettere il diario vicino al letto. “Queste piccole modiiche ambientali fan- Da sapere Consigli pratici u Usare il ilo interdentale dopo aver lavato i denti, mangiare una mela a pranzo o andare in palestra dopo il lavoro. Alcuni consigli per prendere o eliminare un’abitudine. Essere speciici Se volete mangiare meno caramelle, stabilite regole precise, come non mangiarle mai al lavoro oppure mangiarle solo in certi giorni della settimana. Non essere troppo severi Secondo Gretchen Rubin, autrice di Cambiare è facile, “le persone che riescono meglio sono quelle più comprensive con se stesse”. Cominciare subito L’inizio di una settimana, di un mese o di un anno può essere un buon momento per cambiare. Ma, come osserva Rubin, “la cosa migliore è cominciare subito”. Essere pazienti Per prendere o perdere delle abitudini può essere necessario molto tempo. New Scientist no una diferenza sorprendente”, dice Neal. Per il mio vizio di mangiarmi le unghie, trovare un sistema per spezzare la routine è stato più diicile: le dita mi servivano per scrivere. Neal mi ha suggerito di dipingerle, per modiicare l’esperienza sensoriale. Per un po’ ha funzionato. Ma dopo circa una settimana, lo smalto si è scheggiato e ho dovuto toglierlo. Mi sono ripromessa di rimetterlo al più presto, ma prima ancora che me ne accorgessi, le avevo già consumate. Un altro consiglio è non preoccuparsi delle piccole ricadute. Da uno studio condotto all’University college di Londra, che ha seguito un centinaio di persone mentre cercavano di prendere nuove abitudini, è emerso che una o due ricadute non hanno conseguenze durature. Perciò, se siamo a dieta da un mese e sgarriamo un giorno, non dobbiamo prenderlo come un fallimento. “Abbiamo trenta giorni di abitudini dietetiche radicate nel cervello”, dice O’Connor. “Un unico scivolone non le farà sparire”. Per impedire che gli sgarri si accumulino, Rubin suggerisce di suddividere la giornata in momenti separati. Così, se una mattina mangiamo troppe ciambelle durante una riunione, poi non ci lasciamo andare per tutto il resto della giornata. A mezzogiorno, ricominciamo da capo e proviamo di nuovo a stare attenti. Con il passare del tempo diventa sempre più facile, garantisce O’Connor. “Qualsiasi cosa facciamo, è probabile che la rifaremo perché l’abbiamo già fatta”. La volontà è come un muscolo, si esaurisce ma si rinforza anche con l’esercizio. Di quanto esercizio abbiamo bisogno? Secondo O’Connor ci servono almeno tre mesi, non i 21 giorni di cui spesso si parla. Dallo studio dell’University college di Londra è emerso che il tempo necessario per cementare una nuova abitudine varia enormemente da un individuo all’altro. La media è 66 giorni, ma i singoli casi vanno da 18 a 254 giorni. La mia esperienza lo conferma. Prendere l’abitudine di scrivere un diario è stato facile, dopo una settimana o due mi è sembrato naturale. Per smettere di mangiarmi le unghie temo che mi ci vorranno almeno 254 giorni. Ma sapere che può richiedere mesi mi aiuta a perseverare. E poi ho scoperto che è diicile per tutti. Perino de Wit confessa di non riuscire a smettere di fare le bolle con la gomma da masticare, con grande disappunto del suo compagno. “Purtroppo studiare le abitudini, non signiica che non se ne abbiano di cattive”, dice. E neanche scriverne è una garanzia. u bt