ANNO 2016 Notizie dal 08 ottobre al 15 ottobre

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ANNO 2016 Notizie dal 08 ottobre al 15 ottobre
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HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP
Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
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ANNO 2016
Notizie dal 08 ottobre al 15 ottobre
notizie e informazioni SULL’africa e, in particoLare, SULLa SomaLia,
raccolte da agenzie, gruppi, istituzioni,
confrontate E comMENTATE CON CONTRIBUTI CRITICI E VALUTATIVi
SOMMARIO
Pag. 02 - 08 ott. Attacco terroristico in Kenya: tra gli obiettivi operai stranieri
Pag. 02 - 08 ott. Marina militare, ritorna la fregata Euro da un’azione antipirateria di 7 mesi
Pag. 03 - 08 ott. Yemen: raid coalizione su funerale, 155 morti e 500 feriti
Pag. 03 - 09 ott. La clandestinità dei cristiani in Somalia
Pag. 05 - 10 ott. Etiopia: tensioni tra il governo centrale e l'etnia oromo
Pag. 06 - 10 ott. Kenya: 16 compagnie straniere chiedono risarcimento per danni subiti durante
proteste post-elettorali
Pag. 06 - 11 ott. Kenya: Consiglio norvegese per i rifugiati, governo di Nairobi viola diritto
internazionale su rimpatrio rifugiati somali
Pag. 06 - 12 ott. Attacchi multipli in corso in Somalia
Pag. 07 - 12 ott. Somalia, truppe etiopi abbandonano base di El Ali dopo attacco di al Shabaab
Pag. 07 - 13 ott. L’Etiopia è un partner economico prioritario dell’Italia e dell’Ue in Africa subsahariana
Pag. 08 - 13 ott. Dadaab, "Il ritorno dei rifugiati in Somalia è inumano e irresponsabile"
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Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, fax 178.2708503,
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08 ott. Attacco terroristico in Kenya: tra gli obiettivi operai stranieri
Sono state chiarite le modalità dell’attentato e,
probabilmente lo scopo dell’attentato compiuto dagli al
Shabaab a Mandera in Kenya, cittadina al confine con
la Somalia, di cui abbiamo dato notizia nel precedente
notiziario.
Viene confermato che l’attacco terroristico, attribuito
dalla polizia agli integralisti islamici al Shabaab, ha
causato la morte di sei persone. L’attentato é avvenuto
a Mandera, una cittadina al confine con la Somalia,
come riferito dal capo della polizia, Joseph Boinnet.
Il bilancio dell’attacco poteva essere ben più pesante
rispetto alle sei persone uccise se non fosse stato per il
rapido intervento delle forze di sicurezza: lo ha
sottolineato il governatore della contea di Mandera, Ali
Roba, secondo quanto riporta la Bbc online.
L’attacco, che ha provocato anche un ferito grave, ha
proseguito il governatore, è avvenuto in un cantiere
pubblico, dove al momento dell’attentato c’erano altre
27 persone.
L’obiettivo dei terroristi era quello di colpire persone “non del posto”, forse quindi gli operai stranieri che
lavoravano nel cantiere. Sembra che il commando ha usato una granata per entrare nel cantiere e, una volta
dentro, ha cominciato a sparare.
08 ott. Marina militare, ritorna la fregata Euro da un’azione antipirateria di 7 mesi
Domenica nella stazione navale Mar
Grande di Taranto, la fregata Euro (classe
Maestrale) della Marina militare farà
rientro in Italia dopo quasi sette mesi
operativa nell’operazione antipirateria
Atalanta, in Oceano Indiano e Golfo di
Aden. Salpata lo scorso 19 marzo dal
porto di Taranto, nave Euro ha ricoperto
nell’operazione un ruolo sostanziale nella
Forza navale europea – Task Force 465 –
operando all’interno del bacino somalo,
del golfo di Aden e dell’Oceano Indiano
per un totale di 4.011 ore di moto e 40.479
miglia nautiche percorse.
La nave, al comando del capitano di
fregata Giuseppe Massimiliano Aletta, con un equipaggio di circa 180 persone, di cui sette donne, e
comprensivo dei team specialistici e mezzi della Brigata Marina San Marco, del gruppo operativo Subacquei
e della Componente Aerea della Marina militare, è stata coinvolta in diverse attività operative. Sono state, ad
esempio, condotte al largo della Somalia ‘Focused operation aether’ e ‘Minerva’, attività incentrate sulla
raccolta di informazioni sui gruppi di pirati ancora attivi lungo la costa somala, nei confronti dei quali in
particolare è stato compiuto un monitoraggio continuo, oltre al controllo di 89 imbarcazioni situate
all’interno dell’area di operazione. Nel corso della missione nave Euro, oltre ad aver scortato con successo
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tre mercantili del ‘World food programme’, ha anche condotto attività di supporto e di cooperazione civile e
militare nei porti di Gibuti e Dar Es Salam (Taanzania).
Nave Euro (F 575) è stata varata nel 1983, ha un dislocamento di 3.500 ton p.c., ha la velocità ,max di 30
nodi ed una autonomia di 6.000 nm. a 15 nodi-. Dotata di lanciamissili OTOMAT, 1 lanciamissili
albatros/aspide, 2 lanciasiluri antisom, 1 cannone Breda da 127 e mitragliere Breda Dardo. E’ una
piattaforma per due 2 elicotteri.
08 ott. Yemen: raid coalizione su funerale, 155 morti e 500 feriti
È di almeno 155 morti e circa 500 feriti il bilancio dell’attacco aereo della coalizione a guida saudita
condotto ieri contro una cerimonia funebre a Sanaa, capitale dello Yemen. Tra le vittime ci sarebbero alcuni
alti ufficiali Houthi e il sindaco della città. La coalizione sunnita guidata da Riad, però, ha negato ogni
responsabilità in questo attacco, affermando in un comunicato di non aver compiuto operazioni militari sul
luogo, e ha invitato a cercare “altre cause”.
Immediato lo sdegno della comunità internazionale: dagli Stati Uniti il portavoce del Consiglio di sicurezza
nazionale, Ned Price, ha dichiarato di aver “avviato una revisione immediata della nostra già significativa
riduzione del sostegno alla coalizione araba”. Dura condanna anche dal segretario generale dell’Onu, Ban
Ki-moon, che ha fatto avviare un’indagine: “Qualsiasi attacco deliberato contro i civili è assolutamente
inaccettabile – ha detto – i responsabili devono essere assicurati alla giustizia”.
La guerra civile in atto nello Yemen, dal 2015 contrappone i ribelli Houthi alleati con le truppe del deposto
presidente Saleh (sciita), contro il governo di Mansur Adi, riconosciuto dalla comunità internazionale e
vicino all’Arabia Saudita (sunnita). Finora il conflitto ha causato oltre centomila morti. (R.B.).
09 ott. La clandestinità dei cristiani in Somalia
In attesa delle elezioni presidenziali del 30 novembre, Mons. Giorgio Bertin, vescovo di Djibuti e
amministratore apostolico della Somalia, parla in una intervista al giornale on-line Zenit, della difficile
situazione dei cristiani nel Paese
Un piccolo grande segno di speranza è arrivato da Hargeisa, nel Somaliland, ove monsignor Bertin ha
recentemente riconsacrato la piccola chiesa dedicata a Sant’Antonio da Padova, a poca distanza dalla
capitale, saccheggiata e deturpata negli anni in cui la Somalia sprofondava nel caos della guerra civile. “Ciò
dimostra che questa parte della Somalia, il Somaliland, resta rispettoso del diritto di culto che hanno i non
musulmani” ha spiegato il presule ai microfoni di Radio Vaticana.
Diversa e più difficile è la situazione dei cristiani nel resto del Paese che, dall’inizio della guerra civile ad
oggi, sono ridotti a poche decine. L’erosione della comunità di fedeli è ben descritta dal cumulo di macerie
impolverate, nel cuore della città vecchia di Mogadiscio, che restano della “più vasta chiesa di tutta l’Africa
Orientale”, così come la chiamava l’allora Governatore della Somalia, C.M. de Vecchi di Val Cismon.
La Cattedrale di Mogadiscio, dedicata alla SS. Vergine Consolata, viene inaugurata il 1° marzo 1928, epoca
in cui la città era il capoluogo della Somalia Italiana. “Inspirata alla cattedral di Cefalù, simbolo della
riconquista cristiana della Sicilia”, come scrive de Vecchi nelle memorie recuperate dal foto-reporter torinese
Alberto Alpozzi, resterà sede della diocesi di Mogadiscio fino al 1989. Il 9 luglio di quell’anno, come dirà
L’Osservatore Romano, viene scritta “una nuova pagina di sangue nel martirologio della Chiesa”. A vergare
di rosso quella pagina è Pietro Salvatore Colombo, ex Vescovo di Mogadiscio, assassinato una domenica di
ventisette anni fa nel chiostro della “sua” Cattedrale. All’epoca la locale comunità cristiana contava circa
2mila anime. Quello che rimane dell’eredità di Colombo, circa una trentina di fedeli prevalentemente
concentrati nella capitale somala, è oggi affidato alle cure di monsignor Bertin.
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Mogadiscio: i resti della cattedrale
“Io sono stato in Somalia dal 1969 al ‘71, all’epoca ero un giovane studente di teologia – racconta a
ZENIT il presule originario del padovano – poi sono tornato nel gennaio del ‘78 e fino al gennaio del ‘91, dal
‘91 al 2001 sono diventato ‘displaced’, un rifugiato in Kenya, e dal 2001 sono venuto qua a Djibuti,
portandomi dietro la responsabilità della Somalia con il titolo di Amministratore Apostolico”.
(foto sotto: Gibuti: un militare francese pattuglia il palazzo vescovile) Siamo
a Gjibuti, nella Cattedrale di Nostra Signora
del Buon Pastore, lungo boulevard de la République, il cuore diplomatico della città affollato da “bande” di
piccoli straccioni che rincorrono i passanti alla
ricerca di acqua o monete. Il Monsignore è seduto
dietro la scrivania del suo “quartier generale”, nel
piccolo ufficio che affaccia sulla monolitica
struttura disegnata negli anni Sessanta
dall’architetto Joseph Müller. E’ da qui che
coordina le numerose attività benefiche messe in
campo dalla diocesi e dalla Caritas.
“Durante la prima repubblica, cioè dal ‘60 al ‘69, e
anche all’inizio con Mohammed Siad Barre Barre,
non c’era un ostracismo nei confronti dei cristiani,
anzi, alcuni di loro avevano dei posti preminenti,
ricordo per esempio Anthony Mariano, veniva dal
nord, dal cosiddetto Somaliland ed è stato
ministro”, racconta Bertin che, prima della morte di Colombo, ogni venerdì celebrava la Santa Messa in
lingua somala.
Poi? Poi “tutto è andato in rovina”. Assieme ai due campanili e alle volte della Chiesa simbolo della
cristianità nell’Africa Orientale – oggi orinatoio a cielo aperto – crolla l’impalcatura su cui poggiano l’intera
comunità di fedeli e la loro libertà religiosa. L’ultimo choccante provvedimento arriva a dicembre 2015: la
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Messa di Natale è bandita per “ragioni di sicurezza”. “Tutti gli eventi connessi alle celebrazioni di Natale e
Capodanno – rende noto il Ministero degli Affari Religiosi – sono contrari alla cultura islamica, e potrebbero
danneggiare la fede della comunità musulmana”.
L’ennesimo schiaffo ai cristiani indigeni è, in realtà, solo uno specchietto per allodole. I pochi “rimasti” sono
costretti a pregare sottovoce, nella penombra di qualche riparo di fortuna, ormai da vent’anni. Anche in
seguito all’insediamento del Governo federale della Somalia, il 10 settembre del 2010, la condizione di
clandestinità dei cristiani in Somalia non è certo migliorata. “Questo Governo federale – attacca il Vescovo –
è un nulla, e allora deve dimostrare che difende l’Islam contro ogni propaganda, contro ogni presenza
cristiana”. Soprattutto adesso che Al-Shabaab, costola di fedelissimi di Al-Qaeda in Somalia dove, non a
caso, lo Stato islamico non è riuscito a penetrare, è tornata a colpire con ferocia.
“Ma allora perché cercare il riconoscimento e il sostegno internazionale?”, domanda Bertin al vertice di Villa
Somalia. “Se vogliamo vivere insieme a livello internazionale – osserva il presule – allora rispettiamoci nelle
differenze”. Il rimprovero di Bertin non esclude chi, dall’altro lato, avalla questo sistema lavandosi la
coscienza con l’assistenzialismo. “Smettetela di limitarvi ad inviare viveri e beni materiali – ha spiegato
Bertin ai rappresentanti della Nazioni Unite – c’è bisogno ma non basta, bisogna far rinascere lo Stato”.
Ed è proprio sul destino di questa auspicata rinascita che ci s’interrogherà alla vigilia delle prossime elezioni
presidenziali. Un appuntamento singhiozzante, inizialmente previsto per agosto scorso, fissato ora per il
prossimo 30 novembre. Nelle intenzioni del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) si tratta di “un
passo indispensabile verso una Somalia democratica, unita e stabile sia a livello federale che regionale”.
Nella speranza che la futura leadership sappia incarnare quell’ideale di politica che, come insegna Monsignor
Bertin richiamando a sé le parole di Papa Pio XI, “è la più alta forma di carità”.
10 ott. Etiopia: tensioni tra il governo centrale e l'etnia oromo
L’instabilità politica continua ad affliggere l’Etiopia, importante Paese del Corno d’Africa. A partire dal 2
ottobre si è riaccesa la tensione, mai del tutto sopita, nella regione dell’Oromia tra la popolazione locale e il
governo centrale, che il 9 ottobre ha proclamato lo stato d’emergenza in tutto il Paese. Oggi risultano
bloccati internet e social media sugli smartphone ad Addis Abeba e in gran parte dell'Oromia. Gli oromo
lamentano la decisione di estendere la provincia di Addis Abeba a discapito dei loro terreni agricoli e la
propria sottorappresentanza a livello istituzionale.
Ormai l’esercito controlla le strade, le comunità. Da mesi c’è questa situazione di instabilità, di insurrezione
da parte della popolazione, in particolare oromo, ma non solo. Quindi manifestazioni di protesta più o meno
spontanee; manifestazioni antigovernative che si risolvono poi nel blocco delle strade, nel danneggiamento
dei veicoli o nell’attacco alle forze dell’ordine. C’è questo governo che dura da più di due decenni salito al
potere dopo la rivoluzione contro il regime comunista, ma di fatto la popolazione oromo in particolare che
comunque rappresenta un terzo della popolazione, è rimasta sostanzialmente esclusa dall’accesso alle cariche
politiche, ai posti che contano.
Nel paese ci sono comunque altre criticità. La situazione sanitaria resta estremamente precaria; parliamo di
una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti e di una spesa sanitaria pro capite che resta comunque una
delle più basse al mondo in un sistema in termini infrastrutturali e di personale largamente insufficiente a
garantire l’accesso ai servizi di base per la stragrande maggioranza della popolazione nonostante, bisogna
dirlo e riconoscere, i grandi miglioramenti compiuti negli ultimi 15, 20 anni. Resta però di fatto un sistema
ancora largamente insufficiente, in particolare, nelle aree più rurali ove la popolazione ha scarso accesso a
servizi ospedalieri.
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10 ott. Kenya: 16 compagnie straniere chiedono risarcimento per danni subiti durante
proteste post-elettorali
Sedici compagnie ugandesi e ruandesi hanno chiesto al governo keniota un risarcimento di 46 milioni di
dollari per le perdite subite in seguito alle violenze esplose nel paese dopo le discusse elezioni del 2007. Lo
riferisce il quotidiano “Daily Nation”. Le compagnie accusano il governo di Nairobi di non avere fornito la
necessaria protezione ai loro mezzi, attaccati mentre transitavano lungo l’autostrada che costeggia le città di
Nakuru e Eldoret e le città di Malaba e Busia, nell’ovest del paese, particolarmente colpite dalle violenze. In
precedenza un tribunale di Mombasa ha dato il via libera a un risarcimento di 8 milioni di dollari in favore
della compagnia tanzaniana Modern Holdings East Africa. La compagnia aveva accusato l’autorità portuale
del Kenya di non avere maneggiato correttamente 21 container di succhi di fritta e acqua minerale,
provocando ingenti perdite ai danni della società.
11 ott. Kenya: Consiglio norvegese per i rifugiati, governo di Nairobi viola diritto
internazionale su rimpatrio rifugiati somali
Il governo del Kenya sta violando il diritto internazionale, costringendo i residenti del campo profughi di
Dadaab a tornare in Somalia entro il mese di novembre, quando è prevista la chiusura del sito. È quanto
denunciato dal segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc), Jan Egeland, il quale ha
chiesto che il termine della chiusura venga esteso dal momento che il processo di rimpatrio dei rifugiati sta
procedendo in modo “caotico e disorganizzato". “Da quel che abbiamo potuto constatare, il processo di
rimpatrio sta avvenendo in maniera non più volontaria, dignitosa e sicura”, ha detto Egeland, sostenendo che
al loro rimpatrio i rifugiati “non sono sufficientemente protetti”. In un sondaggio commissionato dall’Nrc nel
mese di agosto, il 74 per cento dei rifugiati somali residenti a Dadaab hanno dichiarato di non essere disposti
a tornare in Somalia, in gran parte a causa dell’insicurezza che persiste nel paese.
12 ott. Attacchi multipli in corso in Somalia
Nel giorno del 62esimo anniversario della bandiera
nazionale, la Somalia è scossa da una serie di
attentati che rischiano di mettere a repentaglio il già
fragile equilibrio alle soglie delle elezioni
presidenziali che potrebbero svolgersi tra dicembre e
l’inizio del prossimo anno.
Tre potenti esplosioni, di cui ancora non si
conoscono natura ed effetti, si sono udite a
Mogadiscio in Somalia in direzione dell’aeroporto
internazionale Adan Ade.
Nel sud del paese gli scontri tra i miliziani jihadisti
di al Shabab e le forze della missione di pace
Amisom dell’Unione Africana sono iniziati la scorsa notte nel villaggio di Qoryoolei a circa 120 km dalla
capitale Mogadiscio. Un attacco che ha permesso ai terroristi di rimpossessarsi del villaggio e di uccidere
una decina di militari. Raid che sono proseguiti anche nelle province meridionali quasi al confine con il
Kenya dove cittadini somali, etiopi e kenioti sono stati giustiziati pubblicamente nelle piazze del villaggio di
Jilib dopo esser stati accusati dai miliziani di essere spie dell’intelligence inglese e somala.
Nel pomeriggio si erano susseguite una serie di voci, poi confermate, che al Shabab fosse riuscito a ottenere
la beyah (appoggio) da parte di alcuni clan del complesso sistema tribale somalo che costituiscono lo zoccolo
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duro dell’elettorato. Sono, infatti, i 4 principali clan del Paese ad eleggere i circa 14mila elettori che
sceglieranno, poi, i 275 parlamentari che voteranno il Presidente. L’infiltrazione anche politica di al Shabab
metterebbe a serio rischio il futuro democratico del Paese già dilaniato da lunghi anni di guerre civili e
soggetto a quotidiani attacchi kamikaze e dinamitardi dei guerriglieri jihadisti. Al momento sembrano
escluse le iniziali ipotesi di golpe.
12 ott. Somalia, truppe etiopi abbandonano base di El Ali dopo attacco di al Shabaab
Le truppe etiopi inquadrate nella Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) si sono ritirate dalla
base di El Ali, nella regione centrale di Hiran, dopo che questa è stata attaccata dalle milizie jihadiste di al
Shabaab. È quanto riporta il sito d’informazione “Warqaad”. Secondo l’emittente “Radio Andalus”, organo
ufficiale di al Shabaab, le truppe etiopi avrebbero distrutto la base prima di abbandonarla nelle prime ore di
questa mattina. La base di El Ali si trova a circa 70 chilometri a ovest di Belet Uen, capoluogo della regione.
Le truppe etiopi inquadrate nella missione Amisom sono presenti nelle regioni di Bai, Bakol, e Ghedo, ma
sono presenti anche nella regione di Hiraan, che confina con l'Etiopia.
13 ott. L’Etiopia è un partner economico prioritario dell’Italia e dell’Ue in Africa sub-
sahariana
Il trend di crescita fatto registrare dall’Etiopia negli ultimi dieci anni (il Pil è aumentato mediamente di oltre
il 10% dal 2004), l’apertura agli investitori internazionali, il basso costo del lavoro, le dimensioni del
mercato (circa 90 milioni di persone), la disponibilità di fonti energetiche nazionali, i collegamenti aerei
diretti con l’Italia e la presenza di una comunità italiana piccola ma ben inserita, rappresentano i punti di
forza su cui costruire rapporti economico-commerciali più dinamici. Le statistiche riflettono quindi un
rapporto bilaterale con buone possibilità di sviluppo, in linea con la crescita del Paese e con l’aumento della
domanda di qualità sia da parte dell’industria che dei consumatori finali.
Per quanto riguarda la presenza economica italiana, sono molte le aziende che operano in Etiopia e tra queste
spicca Salini Impregilo, ormai ben installata nel Paese, che ha vinto recentemente una commessa da 2,5
miliardi di euro per la costruzione di due dighe (‘Gibe III’ sul fiume Omo e ‘Grand Ethiopian Renaissance
Dam’ sul Nilo Azzurro). Tra le altre imprese è rilevante la presenza di Calzedonia, Italferr, Drillmec,
Soilmec e Cesi. Da ultimo l’accordo di sponsorizzazione recentemente concluso da Errea, produttore di
abbigliamento sportivo, che prevede la fornitura del materiale tecnico per la nazionale maggiore e le
nazionali giovanili, sia maschili sia femminili.
L’Etiopia è il secondo Stato più popoloso dell’Africa e gode delle prospettive di sviluppo più interessanti nel
comparto edile, con una crescita prevista di oltre l’11% annuo (dopo il +30% registrato nell’ultimo biennio).
Il Governo ha varato un ambizioso piano di investimenti per potenziare le infrastrutture e tra questi il più
importante - da 1,9 miliardi di euro - riguarda la rete stradale con 1.846 km di tracciato da realizzare e 21.290
km da riparare. Oltre la costruzione delle citate due dighe aggiudicate da Salini Impregilo, sono previste
molte nuove opere quali linee ferroviarie (è stata completata da poco la tratta da Addis Abeba a Gibuti),
parchi industriali, il nuovo aeroporto internazionale di Kebri Dehar a Gabredarre e cinque nuovi stadi da
30.000 spettatori e 15 milioni di euro di valore in costruzione nella capitale. E’ stato, infine, recentemente
presentato il nuovo piano regolatore di Addis Abeba, che prevede la realizzazione di tredici nuovi distretti
con opere per un valore complessivo di 12 miliardi di euro. Nel dettaglio, dovranno essere costruite mezzo
milione di abitazioni a Koye, Fechie, Bole, Arabsa e Yeka, sei centri commerciali nelle zone di Kazanchis,
Africa Union, Merkato e Torhailoc, sessanta parcheggi multilivello, nove corsie riservate agli autobus e due
ospedali di standard internazionale.
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13 ott. Dadaab, "Il ritorno dei rifugiati in Somalia è inumano e irresponsabile"
L'86% delle persone ospiti nel campo
profughi più grande del mondo, che si trova
in Kenia vicino al confine somalo, non
vuole tornare in Somalia. Nel rapporto di
Medici Senza Frontiere: si pone inoltre
l’accento sulle gravi conseguenze sanitarie
che avrebbe un ritorno così massiccio.
In vista della chiusura annunciata del
campo rifugiati (Dadaab, proprio a ottobre,
compie 25 anni: fu aperto nel 1991 per
accogliere migliaia di persone in fuga dai
conflitti in Etiopia, Sudan e Somali) e del
ritorno di migliaia di persone in una
Somalia devastata dalla guerra, Medici
Senza Frontiere (MSF) chiede al Governo
del Kenya e all’Alto Commissariato
dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) di
rivedere la decisione o prendere in considerazione con urgenza altre possibilità. In un rapporto pubblicato
oggi da MSF, intitolato “Dadaab to Somalia: Pushed Back Into Peril” e basato su testimonianze e interviste
raccolte tra luglio e agosto su un totale di 5470 persone, più di otto rifugiati su dieci intervistati dichiarano di
non voler ritornare nel Paese, principalmente per la paura di arruolamenti forzati nei gruppi armati, della
violenza sessuale e della mancanza di servizi sanitari di base.
Nel rapporto, MSF pone inoltre l’accento sulle gravi conseguenze sanitarie che avrebbe un ritorno così
massiccio. “È evidente che i campi rifugiati non sono la soluzione migliore per gestire una crisi che si protrae
da 25 anni, ma la loro chiusura adesso, senza offrire altre soluzioni durevoli, spinge i rifugiati in una zona di
conflitto dove le cure mediche sono gravemente assenti”, dichiara Bruno Jochum, direttore generale di MSF.
“Questa decisione è l’ennesimo insuccesso per la protezione dei rifugiati a livello globale e ancora una volta
assistiamo a un totale fallimento nel fornire accoglienza alle persone in pericolo. Anche le Nazioni Unite
hanno recentemente dichiarato che 5 milioni di persone sono a rischio carestia all’interno del territorio
somalo. Rimandare indietro ancora più persone verso la sofferenza è sia inumano sia irresponsabile.”
Le équipe mediche di MSF hanno visto bambini arrivare dalla Somalia senza che fossero stati vaccinati
contro una serie di malattie prevenibili, chiaro segno di un sistema sanitario piagato da più di 20 anni di
guerra dove anche le cure di base non sono garantite. Le donne incinte riceveranno cure minime, mettendo a
rischio la propria vita e quella dei nascituri. Persone con condizioni mediche croniche sono anch’esse a
rischio – siano diabetici che hanno bisogno di insulina o persone affette da ipertensione che hanno bisogno di
cure continue. Infine sono a rischio anche i pazienti in cura per disturbi psicologici. Nel campo di Dagahaley,
il 70% dei pazienti seguiti dall’équipe di salute mentale di MSF sono sotto trattamento. “Se un paziente con
psicosi è obbligato a interrompere le cure, le sue funzioni cognitive e il suo comportamento regrediranno. In
un paese dove i servizi di salute mentale, di fatto, non esistono metterebbe le loro vite in serio pericolo”.
L’86% dei rifugiati intervistati a Dagahaley non vuole tornare in Somalia. Praticamente tutti, sia uomini che
donne, sono spaventati dalla mancanza di sicurezza legata, soprattutto, all’elevato rischio di violenze
sessuali. MSF mette quindi in discussione la natura “volontaria” dei rimpatri che l’UNHCR sta cercando di
facilitare. Le paure di cui ci parlano i rifugiati sono reali. Una condizione cruciale è che i rimpatri siano
volontari, e che i rifugiati abbiano tutte le informazioni necessarie circa i servizi e le condizioni che
troveranno in Somalia.
Humanitarian Demining Italian Group - HDIG Sede centrale, Largo della Cecchignola 4, 00143 RM; Sede operat., Via degli Avieri, 00143 RM
Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, fax 178.2708503,
website: www.hdig.org ; e-mail: [email protected], [email protected] ; facebook: hdig.ong
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Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario
C.F.97191910583
Dovrebbero essere prese in considerazione
urgentemente più durevoli, come l’allestimento di
campi più piccoli in Kenya, l’aumento dei
reinsediamenti in paesi terzi, o l’integrazione dei
rifugiati nelle comunità keniote,. MSF chiede alla
comunità internazionale di condividere la
responsabilità con il governo del Kenya. È inaccettabile
che senza aver prospettato altre soluzioni alternative,
migliaia di rifugiati siano respinti verso conflitti e crisi
gravi, ovvero le stesse condizioni da cui erano fuggiti.
Il Kenya non dovrebbe farsi carico di questo peso da
solo.
MSF presente a Dadaab dal 1992 è attualmente l'unica
organizzazione a fornire cure mediche nel campo di
Dagahaley, dove gestisce un ospedale da 100 posti letto
e due centri sanitari, che forniscono servizi ospedalieri
e ambulatoriali, tra cui consultazioni di salute mentale,
chirurgia, maternità, trattamenti per l'HIV e la
tubercolosi. Complessivamente nel 2015, l’equipe di MSF ha effettuato 182.351 visite ambulatoriali e
ricoverato 11.560 pazienti.
Tra luglio e agosto 2016 MSF ha condotto una serie di discussioni e interviste, e un’indagine a livello
familiare, con i rifugiati del campo di Dagahaley circa la loro attuale situazione e le prospettive di un ritorno
in Somalia per comprendere le loro preoccupazioni e i loro bisogni. L’indagine ha anche raccolto le
testimonianze di 838 capi famiglia (53% uomini e 47% donne) nel campo di Dagahaley, per un totale di
5470 individui.
Alcuni numeri dal rapporto:
- l’86% delle persone intervistate non ha intenzione di tornare in Somalia
- l’85% crede che non avrà accesso ai servizi sanitari in Somalia
- l’83% pensa che la Somalia sia “molto pericolosa”
- il 97% dichiara che il rischio di violenza sessuale in Somalia è alto
- il 97% considera alto il rischio di essere reclutati da gruppi armati in Somalia
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