In California quell`anno le fragole erano meraviglio

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In California quell`anno le fragole erano meraviglio
LA CASA MARRONE
In California quell’anno le fragole erano meravigliose. Grandi come tazze da tè, erano talmente succose e
dolci che la signora Hattori, preparando la sua produzione annuale di marmellata, trovò che poteva
risparmiare considerevolmente sullo zucchero. “Immagino che questo dovrebbe compensare” disse al
marito, che chiamava sempre formalmente signor
Hattori.
“Parzialmente!” rispose il signor Hattori.
A quel tempo erano ancora in ottimi rapporti. Fu
solo più tardi, quando la stagione finì come era iniziata, con il prezzo di mercato delle fragole talmente
basso che nessuno si preoccupava di raccogliere le
seconde scelte, che cominciarono a litigare per la
prima volta da quando vivevano insieme. La causa
scatenante di questa prima litigata e di tutto il resto
fu che il signor Hattori, non vedendo alcun futuro
nelle fragole, cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di un modo per fare soldi rapidamente. In qualche
modo gli arrivò la voce che c’era una certa casa in
una città vicina in cui si guadagnava una fortuna in
una notte, e lui vi si affrettò alla prima occasione.
Capitò che la signora Hattori e tutti i piccoli Hattori, cinque figli, tutti maschi nati a circa un anno di
distanza l’uno dall’altro, fossero con lui quando andò
per la prima volta in questa casa. Quando disse loro
di aspettare in macchina, sostenendo di avere una
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piccola transazione di affari da sistemare lì dentro e
che sarebbe tornato in un attimo, credeva davvero a
ciò che diceva. Voleva solo dare una rapida occhiata
per familiarizzarsi con quel posto. Questo fu alle due
del pomeriggio, però, e quando finalmente ritornò
alla macchina il giorno era già così buio che dovette
cercare a tastoni la maniglia dello sportello.
La casa era una struttura grande ma semplice rivestita di assi di legno, verniciata di recente di marrone,
alleggerita dalle cornici bianche delle finestre. Stava
sotto diversi enormi eucalipti nell’area antistante
alcuni acri coltivati ad asparagi. Sul retro della casa
c’era un granaio sgangherato e sullo spazioso tetto
blu delle grandi lettere gialle pubblicizzavano una
onnipresente marca di medicinali. La signora Hattori,
scrutando in direzione della casa sempre più impaziente, non riusciva a capire cosa stesse trattenendo il
marito. Osservava le altre macchine che entravano
nel cortile o si parcheggiavano lungo la strada principale e vedeva ogni tipo di persona entrare nella casa:
bianchi, gialli, scuri e neri. Vedendo pochissime persone uscire, si fece l’idea che il marito stesse partecipando a una riunione o a una festa.
Perciò era più curiosa che furiosa quella prima
volta quando il signor Hattori riuscì a tornare da lei
e dai bambini. Alle sue rapide domande il signor
Hattori rispose lentamente, in maniera pensierosa:
era un covo di scommesse gestito da una famiglia
cinese sotto la copertura degli asparagi, disse, e lui
all’inizio aveva vinto, ma la sua fortuna lo aveva
improvvisamente abbandonato, ed era per questo che
ci aveva messo tanto: aveva provato a rivincere almeno la sua posta iniziale.
“Quanto hai perso?” chiese senza espressione la
signora Hattori.
“Venticinque dollari” disse il signor Hattori.
“Venticinque dollari!” esclamò la signora Hattori.
“Oh, signor Hattori, cosa hai fatto?”.
A questa frase, come a un segnale concordato, il
bambino che aveva in braccio cominciò a piangere, e
i quattro sul sedile posteriore cominciarono a lamentarsi per la fame. Il signor Hattori digrignò i denti e
partì. Disse a se stesso che questa aggressione su tutti
i fronti di grida, piagnistei e occhiate assassine era
esattamente quello che si meritava. Mai più, disse a se
stesso; aveva imparato la lezione.
Ciò nonostante, la macchina, con la moglie e i figli
dentro, era parcheggiata di nuovo accanto alla casa
marrone la settimana seguente. Questo perché aveva
fatto un sogno orribile in cui un grosso serpente bianco si era srotolato strisciando tutt’intorno, e tutti
sanno che sognare un serpente bianco è un sicuro
pronostico di fortuna al gioco d’azzardo. Anche la
signora Hattori lo sapeva. Inoltre, lei si sentiva un po’
in colpa per averlo rimbrottato così duramente per i
venticinque dollari. Così il signor Hattori entrò di
nuovo nella casa marrone a condizione che ritornasse entro mezz’ora, tempo ampiamente sufficiente a
mettere alla prova il serpente bianco. Quando dopo
un’ora non era ancora tornato, la signora Hattori
mandò Joe, il figlio più grande, alla porta d’entrata,
a chiedere di suo padre. Un cinese venne ad aprire la
porta della grata, guardò Joe e disse: “Mi dispiace,
niente bambini qui”, e gli richiuse la porta in faccia.
Quando Joe riferì alla madre, lei lo rimandò indietro e questa volta una cinese guardò fuori e disse:
“Cosa vuoi, ragazzo?”. Quando lui chiese del padre,
lei gli disse di aspettare, poi tornò con lui alla macchina, portando un piatto di biscotti cinesi. Joe, sgranocchiando un compatto biscotto mentre la conduceva
alla macchina, trovò che il sapore e la consistenza
erano molto strani; era diverso dai biscotti sia ameri-
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cani che giapponesi, perciò non era in grado di decidere se gli piaceva oppure no.
Pur avendo la donna approssimativamente l’età
della signora Hattori, la chiamò immediatamente
“mamma”, assicurandole che il signor Hattori sarebbe tornato presto, molto presto. La signora Hattori,
mortificata, ringraziò in maniera eccessiva per i
biscotti, che avrebbe volentieri tirato in faccia alla
donna. La signora Wu, così si presentò, se ne andò
dopo aver scosso la testa per la meraviglia che la
signora Hattori, così giovane, avesse così tanti figli e
dopo averle detto con franchezza. “Non c’è da meravigliarsi che lei sia così secca, mamma”.
“Secca, hah!” disse la signora Hattori ai figli.
“Be’, forse. Ma preferisco essere secca che grassa”.
Joe, guardando la figura opulenta della signora Wu
che saliva gli scalini della casa marrone, concordò.
Era di nuovo buio quando il signor Hattori tornò
alla macchina, ma la signora Hattori non disse una
parola. Il signor Hattori scherzò timidamente sull’inaffidabilità dei serpenti, ma sua moglie non tentò
neanche di sorridere. A circa metà strada verso casa
lei disse all’improvviso: “Per favore, ferma la macchina, signor Hattori. Non voglio fare neanche un altro
centimetro in macchina con te”.
“Andiamo, mamma…” disse il signor Hattori,
“ho imparato la lezione. Giuro che è stata l’ultima
volta”.
“Per favore, ferma la macchina, signor Hattori”
ripeté la moglie.
Naturalmente la macchina continuò ad andare,
perciò la signora Hattori, tenendo stretto il bambino
con un braccio, aprì la portiera con la mano libera e
fece il gesto di saltare fuori dalla macchina in corsa.
La macchina si fermò sbandando e il signor Hattori, atterrito, disse: “Ti vuoi ammazzare?”.
“Questa è proprio una buona idea” rispose la
signora Hattori, con una gamba fuori dalla portiera.
“Andiamo, mamma…” disse il signor Hattori.
“Mi dispiace; ho sbagliato a restarci tanto. Giuro sul
mio onore di non avvicinarmi mai più a quella casa.
Dai, andiamo a casa adesso, andiamo a cena”.
“Cena!” disse la signora Hattori. “Ti sono rimasti
i soldi per comprare da mangiare?”.
“Ne ho abbastanza per comprare da mangiare”
confessò il signor Hattori.
La signora Hattori riportò la gamba dentro e chiuse la portiera sbattendola. “Capisci!” urlò trionfante.
“Capisci!”.
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La volta successiva, la signora Wu portò fuori,
oltre ai biscotti, anche un sacchetto pieno di fuochi
d’artificio cinesi per i bambini. “Questa è l’America”
disse la signora Wu alla signora Hattori. “La Cina e
il Giappone sono in guerra, sì, ma (fece spallucce)
non è colpa nostra. Capisce?”.
La signora Hattori annuì, ma non disse nulla perché sentiva che il suo inglese non era all’altezza della
circostanza.
“Lasci perdere i fuochi d’artificio e la guerra”
avrebbe voluto dire. “Dica solo al signor Hattori che
la sua famiglia lo sta aspettando fuori”.
All’improvviso la signora Wu, che con la coda dell’occhio stava esaminando un’altra macchina parcheggiata lungo la strada, sussurrò: “Poliziotti!” e
tornò verso la casa correndo più veloce che le permise la sua abbondanza. Poi le finestre e le porte della
casa marrone cominciarono a vomitare ogni sorta di
persona – bianchi, gialli, scuri e neri – che o si infilavano in macchina e partivano a tutta birra oppure
correvano attraversando la strada per tuffarsi nel
campo di erba alta e secca. Prima che la signora
Hattori e i figli capissero cosa stava succedendo, un
nero aprì la portiera posteriore ed entrò in macchina
accovacciandosi ai piedi dei bambini.
I bambini, che non avevano mai visto una persona
così scura da vicino, scoppiarono in urla di terrore e
anche la signora Hattori cominciò a strillare, dicendo
all’uomo di uscire, uscire. L’uomo affannato unì le
mani in preghiera e supplicò la signora Hattori.
“Fatemi solo nascondere qui finché la polizia va via!
Vi chiedo di salvarmi dalla prigione!”.
La signora Hattori prese una rapida decisione.
“Va bene” disse nel suo inglese torturato. “Giù, si
nasconda!”. Poi, in giapponese, assicurò i suoi figli
che quest’uomo non voleva far loro del male e ordinò loro di smettere di piangere, di sedersi, di comportarsi bene, altrimenti le sarebbe venuta la tentazione
di dare loro un motivo per cui piangere. I poliziotti
erano entrati nella casa da circa quindici minuti
quando il signor Hattori uscì. Si era spaventato a
morte, ma ora riusciva ad apparire disinvolto mentre
raccontava alla moglie come era stato bravo a
nascondere tutte le prove del reato in un vaso di fiori
lì vicino evitando così l’arresto. “Mi hanno perquisito e mi hanno lasciato andare” disse. “Molti altri non
sono stati così fortunati. Una donna è svenuta”.
Erano a quasi due chilometri dalla casa marrone
quando l’uomo dietro disse: “Grazie mille. Potete
lasciarmi qui”.
Il signor Hattori fu talmente sorpreso che i freni
stridettero quando si fermò. La signora Hattori spiegò frettolosamente, e l’uomo, fermandosi mentre
usciva, cercò delle parole per sottolineare la propria
gratitudine. Era sempre stato, disse, amico dei giapponesi; non conosceva un altro popolo così pulito, di
buone maniere, così assolutamente gentile. Appena
chiusa la portiera, poggiò la mano sul braccio del
signor Hattori, che era ancora sbalordito, e promise
di non dimenticare mai questo atto di cortesia.
“Ciò che dobbiamo ricordare” disse l’uomo, “è
che tutti dobbiamo morire prima o poi. Puoi essere
un re con la camicia di seta o sul cavallo bianco, ma
tutti dobbiamo morire prima o poi”.
Il signor Hattori, facendo ripartire la macchina,
lanciò alla moglie uno sguardo di riprovazione. “Un
kurombo!” disse. E di nuovo: “Un kurombo!”. Fece
come se fosse stato pugnalato e mimò un fremito
d’orrore.
“Non era un problema questo per te, signor Hattori” le ricordò lei, “quando eri dentro quella casa”.
“È diverso” disse il signor Hattori.
“Perché?” chiese la signora Hattori.
La lite proseguì durante la cena a casa, toccando
un’ampia varietà di argomenti. Finì con il signor
Hattori che, davanti ai figli, picchiò la moglie così
duramente che dovette portarla dal dottore per farle
fasciare un paio di costole. Entrambi nel profondo
erano stupiti e scossi che le cose fossero arrivate a
questo punto.
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Poche settimane dopo la retata, la casa marrone
riaprì l’attività come al solito, e il signor Hattori
prese ad andarci da solo. Non aspettava più il fine
settimana, ma trovava durante la settimana ogni
sorta di commissione che lo portasse nella direzione
della fattoria di asparagi. C’erano notti in cui non si
preoccupava di tornare per niente.
Una di quelle notti lei si confidò con Joe, perché
era il più grande: “A volte la notte rimango sveglia
distesa e spero che la morte mi colga durante il
sonno. Sarebbe il modo più facile”. In risposta Joe
pianse, principalmente perché gli sembrava che le
lacrime fossero ciò che ci si aspettava da lui. La signo-
ra Hattori, profondamente commossa da questa evidente compassione, implorò il suo perdono per aver
caricato la sua tenera età delle sofferenze degli adulti. Joe faceva la prima elementare quell’anno, e nei
suoi sonni sognava soprattutto della scuola. In un
sogno ricorrente si ritrovava a camminare nudo, vergognandosi terribilmente, tra i suoi compagni di
scuola più amici.
Alla fine la signora Hattori non poté sopportare
più quella situazione e se ne andò. Portò il bimbo piccolo, Sam, e il bambino nato prima di lui, Ed (per la
cronaca gli altri due si chiamavano Bill e Ogden), da
una delle sorelle che viveva in una città a circa quarantacinque chilometri di distanza. Il signor Hattori
ne rimase sconvolto e la andò subito a cercare, ma la
sorella della moglie si rifiutò di farlo entrare in casa.
“Mostro!” gli disse da dietro la porta.
Sconfitto, il signor Hattori tornò a casa per redimersi. Lavorava con passione nei campi da mattina a
sera, teneva la casa splendente, nutriva i figli rimasti
con il cibo migliore che poteva comprare, e si tenne a
molti chilometri di distanza dalla casa marrone.
Andò avanti così per cinque giorni, e il sesto giorno
uno dei nipoti degli Hattori, il figlio della donna vendicativa dalla quale si era rifugiata la signora Hattori,
venne a portare un messaggio al signor Hattori. Il
nipote, che aveva circa diciassette anni all’epoca,
aveva cominciato a fumare sigarette a tredici anni.
Gli piaceva indossare il suo cappello amorfo tirato
indietro sulla testa, esibendo una pettinatura con la
riga in mezzo precisa, che sembrava più una parrucca finta che una capigliatura vera, tanta era la brillantina che la teneva insieme. Con le mani in tasca, a
gambe divaricate e con la sigaretta che gli pendeva da
un lato della bocca, disse al signor Hattori: “Tua
moglie ha preso la polvere”.
Per un momento il mondo divenne completamente nero per il signor Hattori, mentre cercava vertiginosamente nella sua testa una possibile interpretazione alternativa per questo orrendo annuncio. “Veleno?” domandò, con le ginocchia tremanti.
Il nipote ridacchiò con moderazione. “No, stupido”
disse. “Voglio dire che lascia il tuo letto e la tua casa”.
“Parla giapponese” ordinò il signor Hattori, “e
piantala di fare il furbo”.
Imbarazzato, il nipote tirò le mani fuori dalle tasche
e supportò il suo scarno giapponese con gesticolazioni
nervose. La signora Hattori, riuscì a comunicare, aveva deciso di lasciare il signor Hattori definitivamente e
lo aveva mandato a prendere Joe, Bill e Ogden.
“Dille di andare a buttarsi al fiume” disse il signor
Hattori in inglese, e in giapponese: “Dille, se vuole i
bambini, di tornare qui a fare una casa per loro.
Questo è l’unico modo in cui potrà mai averli”.
La signora Hattori tornò con Sam ed Ed quella
stessa sera, non solo perché aveva scoperto di non
poter vivere senza gli altri figli, ma perché il nipote
aveva intravisto certe cose che le facevano pensare
che il marito avesse visto la luce. La vita per la famiglia divenne quindi molto dolce, essendo stata così
amara di recente, e il signor Hattori non si avvicinò
nemmeno alla casa marrone per un intero mese.
Quando riprese a frequentarla, lasciava passare
molto tempo fra una visita e l’altra e si ricordava
(anche se questo gli costava uno sforzo enorme) di
non rimanere più di un’ora ogni volta.
Una sera il signor Hattori tornò a casa come un
pazzo. Corse nel portico, irruppe con violenza dentro
casa e cominciò a piroettare per il soggiorno come
una trottola umana. La signora Hattori lasciò il rammendo e i bambini ai loro giocattoli per ammirare
questo fenomeno.
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“Yippee” disse il signor Hattori, “banzai, yippee,
banzai”. E con questo, cadde a terra con la testa che
gli girava.
“Che succede, signor Hattori; sei ubriaco?” chiese
la signora Hattori, andando ad aiutarlo.
“Meglio, mamma” rispose il signor Hattori spingendola indietro sulla sua sedia. Fu allora che notarono che lui aveva un sacchetto di carta marrone in
mano. E da questo sacchetto, con la cerimoniosità
esagerata di una mago che estrae i conigli dal cilindro, cominciò a tirare fuori mazzette e mazzette di
banconote verdi. Le depositò con gesto cauto, una
dopo l’altra, sul grembo teso della signora Hattori
finché il sacchetto non fu vuoto e lei sepolta sotto una
montagna di soldi.
“Spiega…” disse senza fiato la signora Hattori.
“Li ho vinti! Alla lotteria! Duemila dollari! Siamo
ricchi!” spiegò il signor Hattori.
C’era un silenzio pesante nella stanza mentre tutti
guardavano il tesoro in grembo alla signora Hattori.
Il signor Hattori sbarrava gli occhi estatico, i bambini sbattevano gli occhi sbalorditi, e gli occhi della
signora Hattori sporgevano un po’ fuori dalle orbite.
D’un tratto, senza preavviso, la signora Hattori balzò
in piedi e si spazzolò vigorosamente il davanti del
vestito, facendo cadere le mazzette sparse. Per un
momento serrò le labbra ferocemente e guardò torva
il marito. Ma non c’erano fili di fumo che uscivano
dalle sue narici per poi scomparire verso il soffitto;
questa fu solo un’impressione momentanea che ebbe
il signor Hattori. Poi: “Non hai giudizio, signor
Hattori!” sibilò. “Non hai proprio giudizio!”.
prietà con una macchina nuova, un tappeto nuovo, e
la loro prima lavatrice. Avendo fatto questi acquisti a
rate ed essendo i duemila dollari svaniti in un modo
o nell’altro prima che se ne rendessero conto, la macchina e la lavatrice furono reclamati da un’agenzia di
recupero crediti dopo pochi mesi. Il tappeto invece
rimase, perché era abbastanza economico e già si era
consumato a macchie che mostravano l’orditura di
sotto. A quel tempo era ormai diventata una vecchia
abitudine per la signora Hattori e i figli aspettare
fuori dalla casa marrone nella loro vecchia macchina
e per Joe essere mandato periodicamente alla porta
d’entrata a chiedere di suo padre. A Joe e ai suoi fratelli non pesava molto la lunga attesa perché avevano
cominciato ad apprezzare i biscotti cinesi. Né pesava
per nulla alla signora Hattori, che era di nuovo incinta. In qualche maniera, si affezionò molto alla signora Wu, la quale, da parte sua, decise che non aveva
mai conosciuto fino ad allora una donna con occhi
così tristi.
(1951)
Il signor Hattori si rifiutò recisamente di bruciare
i soldi, e la signora Hattori si adattò infine al fatto
che lui li tenesse. Così, incrementarono le loro pro74
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